Denuncio al
mondo ed ai posteri con i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste
testuali tematiche
e territoriali.
Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul
1° canale,
sul 2° canale,
sul 3° canale
Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono
indicate.
"Il rispetto si
merita, non si pretende. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte,
sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio -
repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli. Una società
civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e
Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei
giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli
scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano
del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa
sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla."
di Antonio Giangrande
(Inchiesta basata su
atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).
I MEDIA ED I LORO PECCATI:
DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E
CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED
INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE
MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
VADEMECUM DEL CONCORSO
TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER
TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’
E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’
IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA.
QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA
MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE
GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’
TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI
ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA,
INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE
A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO
CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA
CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE
COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI
SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI
DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI
PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO
PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI.
NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE
PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA
MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60
MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI
DI GIUSTIZIA.
LOTTA
ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO
STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO.
LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI
STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI
DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I
TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI
A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE
UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO
PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
LA BANDA
DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.
RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO
GRAZIE!!!
POTENTE UGUALE IMPUNITO.
FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO
GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?
INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO
STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI
CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
FINANZA E GIUSTIZIA.
LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO.
ITALIA, CULLA DEL DIRITTO
NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.
LO STATO
DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.
OBBLIGATORIETA' DELL'AZIONE PENALE: UNA BUFALA. L’ITALIA DELLE DENUNCE
INSABBIATE.
MORIRE DI
BOTTE.
CONFLITTI
INVESTIGATIVI OCCULTI: ORDINI MILITARI ED ORDINI NORMATIVI. LE INDAGINI IN MANO
A CHI?
PARLIAMO
DELLE MANIFESTAZIONI DI PIAZZA. MANIFESTARE PER CHI E PER COSA?
L'ITALIA DELLE RIFORME CHE
NESSUNO VUOLE.
FIGLI DI
PAPA'. LA DEVASTAZIONE DEGLI STUDENTI COSTA 1,5 MILIARDI DI EURO.
VITTIME E
CARNEFICI. CHI SON LE VITTIME E CHI SON I CARNEFICI.
PARLIAMO DEI
MILITARI: LA CASTA ARMATA.
AUTO BLU AL
MARE CON I FINANZIERI COME AUTISTI.
SI MUORE PER
NIENTE, NELL’INDIFFERENZA E SENZA OTTENERE GIUSTIZIA.
PREFETTI, IL
RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE. ANCHE A NAPOLI!!!
A PROPOSITO
DI PREFETTI, PARLIAMO DI CARLO FERRIGNO.
QUALE MAFIA? IL PREFETTO AL MARE, PAGA LIGRESTI.
VIGILI
URBANI. PARLIAMO DI VIOLENZA DELLE ISTITUZIONI, OMERTA' ED IMPUNITA'.
LA NAZIONE CHE VA A SCATAFASCIO.
PARLIAMO
DELLA PUBBLICA SICUREZZA.
VIGILANTES:
TANTI ONERI, POCO ONORE.
TUTORI DELLA LEGGE?
La
second life dei poliziottI. OSSIA AMANTI
DELL'ILLEGALITA'.
PROFESSIONE: IMPUNITI.
Diaz, un processo
italiano.
PER LA SERIE: LA POLIZIA CI RICASCA.
POLIZIA CRIMINALE.
MALAPOLIZIA, QUANDO SI MUORE DI STATO.
ACAB.
MINISTRO DELL'INTERNO. IL RISPETTO SI MERITA, NON
SI PRETENDE.
PARLIAMO DI
BLACK BLOC.
PARLIAMO DI
TANGENTOPOLI INTERNAZIONALE.
DIFENDERCI DA CHI ?!? QUANDO I
BUONI TRADISCONO: LA CONDANNA AI ROS.
ORARI INSUFFICIENTI E
STRAORDINARI DA AUTORIZZARE.
IMPUNITA' DIFFUSA.
ITALIA
TERRA DI INDULTO QUOTIDIANO E INCERTEZZA DELLA PENA.
LA GUARDIA DI FINANZA, SEMPRE NELL'OCCHIO DEL CICLONE.
GENERALE
CONDANNATO E TANGENTI PER ANDARE IN
MISSIONE.
INDAGINI SCIENTIFICHE: INDAGATO GENERALE DEL
RIS.
VIOLENZA E NONNISMO.
ODIO ED IMPUNITA'.
LE
VIOLENZE DI GENOVA.
LE VIOLENZE DI NAPOLI.
BANDE IN
DIVISA.
VIOLENZA DA STADIO.
PARLIAMO DI
MENZOGNE DI STATO.
INSICUREZZA STRADALE.
CLANDESTINITA'.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande,
orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto
(sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli
ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono
l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I
nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Perché leggere Antonio
Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella
sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la
scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il
professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula
per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione
culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro,
salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché
quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti
sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza
filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la
strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il
pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo
l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi
possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita
l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello
rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed
osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il
professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano,
il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito
ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le
campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la
salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio
Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano,
levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera
sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e
nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle
ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la
tua testa;
È un sogno che qui sopra il
ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le
sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il
mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e
ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la
nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e
suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove
giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un
capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si
scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere
la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla
cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come
ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i
giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da
quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo:
quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di
noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la
libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie
più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816
di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’
l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista
femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don
Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il
Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un
venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si
spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti
sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il
nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco
da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di
casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo
il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e
contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho
cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi
tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato
come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non
rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame
forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la
commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano
condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto
ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce
2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano
a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me
che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune,
indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la
verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato?
Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più
deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti
non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con
quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati
abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son
troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i
nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o
disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti
ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E
in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del
potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono
fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli
permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita
di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da
innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi
vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito
che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di
sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si
tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto
questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle
malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n.
147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi
procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è
stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014:
ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato
e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è
che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i
posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece,
è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali:
giudicanti e giudicati. E’ da
decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello
nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una
collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il
mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli
venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il
fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di
ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com.
CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free
vision video su www.controtuttelemafie.it
, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione
professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a
quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi
diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante.
La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la
mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università
Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere,
dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista
presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne
l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da
ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del
patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è
riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla
professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici
ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi
abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi
abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose
giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico,
anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI
COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de
Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa
coscienza
che spesso ho sentito
nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa
significa.
Ho chiesto ad un professore
dell'università
il quale mi ha detto: Figlio
mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è
disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che
a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto,
il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di
tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno
rubare.
Chi li denuncia a questi ?!?
Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo
fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone
di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne,
cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno
ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo,
sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe
famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie
fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di
scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno
la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi
ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro
corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è
contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol
tirà a campà)
I MEDIA ED I LORO PECCATI:
DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima
mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne
accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione
un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per
me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia
e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la
diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone,
delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera
sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e
per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza
il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare.
Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto,
che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv
ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei
media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che
rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco,
cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei
dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa
italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché
colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso
è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una
parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà
delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà.
Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra
allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente
vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i
media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla
loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un
presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media
cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione
sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri
fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle
ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che
fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di
parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo
da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il
nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche
quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che
alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il
primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia
di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la
nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il
pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione
si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in
grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui
scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi
la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente
dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche
quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che
alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta
dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo
punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo
forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del
necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il
concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il
gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto
all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena
ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il
Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e
tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il
Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì.
Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò
poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era
uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva
dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e
allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di
far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile
e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il
risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo
patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di
argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco
che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio.
«Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la
diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo
dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in
Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione
della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22
marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i
membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione
cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci
batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto.
Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e
quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha
continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con
giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione,
perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità».
Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è
peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una
calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è
un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si
è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose,
quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello
che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto,
perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari
dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due
tapini
che fumman come man bagnate ’l
verno,
giacendo stretti a’ tuoi
destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò
Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco
di Troia:
per febbre aguta gittan tanto
leppo».
Così Dante descrive nel Canto
XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone.
Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che
quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro
cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di
Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece,
s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che
Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la
donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa
accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo”
dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei
giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i
russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità:
raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti
delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo
imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente
capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro
porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano
gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli
cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le
stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della
questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle
prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare
l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e
l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto,
ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi
negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un
lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i
giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè
il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha
ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale,
qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine
dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i
cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece,
non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei
dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a
quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il
dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in
provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura
intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la
collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un
semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive
Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che
esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso
trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di
cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero
Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del
Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente
della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni
dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel
vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza”
tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una
correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti –
scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”.
Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i
processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai
magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando
indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha
catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su
Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno
di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci
sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore
Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi
giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio
importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla
del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato,
soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di
un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato
leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un
magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al
Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia»
la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz
delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della
“cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di
neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su
“tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da
Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre
inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio
scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la
testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che
vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle
vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente
suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato
introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex
europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di
Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per
controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura
inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso
preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le
posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi,
sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non
cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del
2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando
per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio
come sfondo
non viene dalla Cina non è
neppure americano
se vedi uno spaccone è
solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue
dalla massa
sporco di farina o di sangue
di carcassa
passa incontrollato lui
conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la
mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva
illegalmente
whisky e sigarette chiaramente
per la mente
oggi è un po' cambiato ma è
sempre lo stesso
non smercia sigarette ma
giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un
popolo emigrato
che guardava avanti con la
mente nel passato
chi non lo capiva lui lo
rispiegava
chi gli andava contro è
saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla
sua gente
è lo stile che fa la
differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato
tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un
alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma
della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no
questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora
di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no
questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora
di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani
settantenni
all'anagrafe italiani ma in
Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze
intraprendenti
se questa compagnia viene
presa con i denti
l'italiano è sempre stato un
popolo emigrato
che guardava avanti con la
mente nel passato
chi non lo capiva lui lo
rispiegava
chi gli andava contro è
saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito
che ha cantato
lui che viene stipendiato il
27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo
nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non
si può più
risponde la famiglia del
pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti
giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti
tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no
questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora
di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no
questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora
di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma
l'italiani mancu li cani mancu li ca
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua
a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella
contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak,
fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende
il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede
della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo
computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base
dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto,
ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in
tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che
versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari,
ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il
prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple
si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi
pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra
le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”.
Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io
non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la
faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non
gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna
che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna
proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano
Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama
Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama
ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer
innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono
nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza
averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un
annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano
alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato:
“portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora,
avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non
intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i
pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano
fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con
quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna,
guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare
ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca.
“Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli
dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci
pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state
facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti?
Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I
vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno
documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci
sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano
fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e
apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza.
E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è
volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi
acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri,
a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli
incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste
pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un
finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che
è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le
spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i
rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva,
registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una
pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente
bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore.
Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E
poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un
amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma
noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi
avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro
motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i
documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente
bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La
sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la
finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o
i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della
porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano
i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno
dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un
giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete
fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è
meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli
fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne
devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e
scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi
per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri
contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno
venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in
questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e
gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è
meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel
cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè
saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame
e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera
la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto
truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una
professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti!
Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi
pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra
le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli
esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno
si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense,
abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che
succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà
niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità
fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia,
perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo
che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di
questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi
darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come
cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di
Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito
dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la
pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali,
a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima
roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del
capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e
dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel
processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità
parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a
insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno
fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la
controriforma costituzionale della devolution. E così commentò:
“Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere
moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione
alla professione forense in Belgio (non come il ministro
Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12
anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere
“occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto
telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in
Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più
facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno
rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e
il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a
Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia
non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un
agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per
ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che
esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi
fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla.
C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato
completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati
da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio
Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti.
Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il
primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della
Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87%
degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di
Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti
Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia
messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro
dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche
noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte
della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento
chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame?
«Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione.
Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il
triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta,
Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole,
scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata
dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per
l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è
il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone
resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria
c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un
luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città.
Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato
Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli
avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in
Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è
abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha
risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di
Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora
fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella
Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di
avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per
affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata
per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un
leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è
divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di
porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per
figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due
storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono
stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di
amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della
International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è
socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà
dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è
visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a
Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour
Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone
uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby
e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e
commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini.
“…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con
questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli
ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai
deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero
dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni
all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un
praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle
tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della
professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL
ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era
inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci,
deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto
l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti
accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta
ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni
scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile
recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma
in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge
nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in
vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà
espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e
l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli
interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o
messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO
TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è
iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal
proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera,
mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non
corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro
tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche,
che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano
remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi.
Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero
“Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi
vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la
veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante
il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico
venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento,
contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori
in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro
manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che
io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999.
Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine
degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune
anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati,
me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto
scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo
facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano
valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000.
Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce.
Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il
Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati
è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio
economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale
Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi,
bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non
sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato
dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E'
indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto
venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò
abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai
professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001.
Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine
degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La
percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001,
36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame,
perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello,
si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei;
Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello
nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli
abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con
ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni
d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai
verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta
che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce,
eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR,
con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la
sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di
glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede
di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che
obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e
le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così
l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di
favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il
legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato,
quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano
apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione,
presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari
e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove
mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per
calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002.
Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine
degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano.
L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di
legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per
diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati
non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla
limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in
Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame.
A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la
Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri
candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono.
Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003.
Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce.
Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie
aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di
Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il
Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica
degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense
che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati
dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data
03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i
rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle
associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i
Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere
rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro
incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in
Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la
decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche,
di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di
Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito
fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il
compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri
dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in
sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli
atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale
marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella
Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri
dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei
Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però,
acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso
d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere
Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è
allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri
dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in
carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura,
il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla
prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai
candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione
edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i
Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo
che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione
riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza
dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in
cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01,
Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono
entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente
dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie.
Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava
per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con
il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla
Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15
(il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati
che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la
trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente
dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando,
l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il
fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con
la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per
vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla
valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza
n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della
motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR.
Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di
sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle
spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004.
Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di
Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati
continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati
dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei
Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati
leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto
ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza
estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale,
ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e
onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se
non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del
Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia
formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori
Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica
presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del
Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione
Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in
data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati
contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera
morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe
del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli
stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta
avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni.
Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni
attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo
che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della
concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di
Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e
presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e
Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti
da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso
colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe
del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli
elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai
palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state
omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno,
Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che
l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti
perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché
mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in
presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore
denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe
del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a
sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione
non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca
collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione
delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45,
11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame.
Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari,
in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione
di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte
contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con
omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di
bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno
15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il
minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese,
in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai
brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso
collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità
del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro
complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti
professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero
della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al
quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al
fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello
reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione;
giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta
esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso
le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia,
Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il
procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei
Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto
l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è
stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del
sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che
rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008.
Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del
Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte:
le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura
in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e
sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal
sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il
Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato
denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia,
chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari,
per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato:
insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009.
Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del
Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri
legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai
genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su
internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il
tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6
pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi
fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del
giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da
commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi
nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da
commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione
con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale
forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e
quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno
informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro
dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio
Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le
denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno,
per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame
forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo
scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho
provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia
meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice
di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria.
Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore
universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica,
risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di
apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione
del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi,
senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la
comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la
nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti
giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe
del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato
risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza
di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane,
viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo
per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di
ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”:
la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2
magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza
preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la
decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010.
Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del
Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della
metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’
la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko.
Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e
comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato
impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza,
Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta.
Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il
provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina
ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni
precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di
Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di
presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta
una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire
l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene
nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva
considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane
d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25
anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente
con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore
salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei
tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la
laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento
dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio
degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria:
non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni
previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto
antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma
nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede
di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi
suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di
Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione
Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko
Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo
giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in
alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di
Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante
l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio
non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra
versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a
cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti.
Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai
lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di
studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul
caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per
sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita
di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro
chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che,
venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista
professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed
oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense
impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa
per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto
proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui
il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato).
Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense
tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel
che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari
noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato
perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del
Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per
fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv.
Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense,
in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del
distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di
riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del
Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina
degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con
le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180:
“Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per
ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti
avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in
sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della
commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale
forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto,
assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno
un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere
designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De
Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto
da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito
della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a
fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel
Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente
di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale.
La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di
avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di
consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se
non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla
nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per
la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente
di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato
dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale
Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello
stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia
nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia
l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si
esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si
sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono
quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare
Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni
comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha
partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo
strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato
designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente
della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica
che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate,
successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame
sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del
Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel
procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei
giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante,
riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre,
pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra
nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso
TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato
che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con
ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito
dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio
2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO
RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di
Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi
di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi
dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione,
sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata
e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte
Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del
principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle
norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012.
Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv.
Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione:
Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le
statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533
Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti
1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla
Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le
procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione
centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa
ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande,
dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è
denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici
punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi
sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto
ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito
degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi
truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il
rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono
i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un
certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio
su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti
sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti
web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie
quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la
tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è
affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno
2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il
voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità.
Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la
Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro
giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite
della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012.
L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico,
mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco
credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si
allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non
trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia
indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è
taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono
letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di
volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino
che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la
verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta
bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per
denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato
per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame
sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma
permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento
accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi
nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca
divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate
(inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del
concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma
permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a
me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio.
Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove,
tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa
disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il
peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia
permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi,
magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i
concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei
10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei
tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro
valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare
dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte,
non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di
Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno
fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio
Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa.
L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho
bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché
l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori
dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori
dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì
a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è
chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un
insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra,
‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie”
come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali
composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle
Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano
conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se
l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè
poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o
patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo
loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono
astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita
il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li
mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando
saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione
dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero
mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità
e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la
nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in
tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei
perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo
essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea.
Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di
un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la
bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci
attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci
rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo
diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni
e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente
non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace
e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti,
Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da
un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto
assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare
da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario,
oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito
di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così
come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è
inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono
presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di
abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del
secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma
c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla
commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce
sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza.
Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un
concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso,
n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione
insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente
innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di
trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle
more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive,
il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza
motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per
l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il
09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata
alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi
presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di
accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto
dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli
commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono
anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero
sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si
affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare,
insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i
compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania,
presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli
elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della
Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una
bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame:
troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che
alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20
minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni
denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua
calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per
magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli
esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel
2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci
fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona,
oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può
farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi
conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però,
tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere
mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover
scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei
giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in
Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la
siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare.
Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche
se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31
dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici
frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati
in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro
roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che
hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 -
Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la
legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo.
Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene
in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da
venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro
malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per
superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per
diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti
intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle
loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso
ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale
Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti
all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON
POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI,
AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E
TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n.
1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico
insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della
sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda
di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun
giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza
cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza
dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui
risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti
puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più
punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di
prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata
e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito
dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno
avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che
non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e
dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad
un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio
2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio
della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben
prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver
tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati
avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine
per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a
supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro
insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me,
ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011,
deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione
non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si
tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile
perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto
di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del
presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione
della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per
dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone.
Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed
affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge
spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami
di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina
Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha
scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami
pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO,
L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia.
Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”,
urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che,
senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame
di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per
saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le
tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di
Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso,
che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione
degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a
penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o
meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini
preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da
Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la
chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise
di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per
questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito
respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona
compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto
Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le
eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte
commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la
meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un
lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di
giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed
anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza.
L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che
nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche
Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele
D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di
avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni
passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono
destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti
ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta
dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di
cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa
di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte,
sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini,
tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non
si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi
per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno
rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle
streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR
Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un
codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di
abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti
sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo
Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n.
465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato
della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare
- TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di
correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte
copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento
della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è
desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha
accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la
mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In
particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la
Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto
penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato
di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna
specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta
“identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la
consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato
di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una
diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato
non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa
Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato.
Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già
decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013,
presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un
giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui
cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande
cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per
sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da
quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto
lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di
1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove
orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato
alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una
media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni
sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è
caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati
furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per
irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di
quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai
commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si
rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle
ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della
Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi
l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno
presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché
vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre
questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei
candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi
ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi
di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare
l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo,
superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute,
compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà
qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte
le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a
giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv.
Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato.
Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il
compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa
sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame
forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali
dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse
nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le
convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e
annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di
Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare
avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di
avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille
praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla
Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati
già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web
da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa
travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano
coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli
da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19
giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è
arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello,
firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale
si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle
quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore
dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota.
"Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le
comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le
prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in
quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma
ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle
operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso".
Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si
sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta
accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di
uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico
in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro
utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono
il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul
sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca
professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è
possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di
lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale.
Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di
Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che
consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla
prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla
comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello
di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli
ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento
all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste
e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il
Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo
grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu
sospeso. Da “La
Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che
ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho
le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette
minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui
racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante
avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in
prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo
sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei
giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una
piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”.
E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata
sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità».
Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante
cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la
solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire –
racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo
esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di
Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di
dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non
c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli
esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la
telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione
20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa
ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora.
Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un
certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non
ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho
detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno
fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a
parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei
detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il
giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe
essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri».
Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più,
fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni
candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti
per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da
tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015.
Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv.
Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e
preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il
commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte
d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il
ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo
ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo
tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare
l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La
mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio
padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare
l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione
era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri
pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri,
nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è
stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto
demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a
Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano
incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese
c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che
nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad
Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il
23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo
quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo,
Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era
forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo
deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine
con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a
quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame?
Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure
in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a
Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro,
Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal
1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a
proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco.
L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il
delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di
avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni.
Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti
quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il
sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non
vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per
essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi
anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi
di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza
motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti.
Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma
17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato,
specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame.
A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti
avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La
Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in
corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi.
In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo
giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta
contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di
Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe
consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo
alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e
un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del
passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo
giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari
hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a
piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di
abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di
reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia
Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque
aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone
eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è
figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono
cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi
rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono
tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha
comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due
candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è
stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre
legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della
Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De
Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con
l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il
tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era
tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da
avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i
carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare
l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre
2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava
andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento
all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward
per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di
strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e
lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri.
Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente
amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno
questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di
redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in
mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un
altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte
d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che
all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla
commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i
carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte
quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti
informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli
investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da
tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità
del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto
procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena
cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una
vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti
o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di
lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per
l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il
rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi,
pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è
punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non
può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto
probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile
prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle
commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare:
perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di
papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta
sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del
bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a
chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza
parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano
Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge
morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle
corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta
conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza
di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori
eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex
rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La
nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo
magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la
storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato)
e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto
un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare”
il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di
migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e
docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due
sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del
cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e
lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una
rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la
laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management,
Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a
“l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la
buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la
mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato,
visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del
figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del
compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se
per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà
i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la
giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa
all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere
dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un
solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di
impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di
Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”:
il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era
intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò
all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane
psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli
di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente
diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto
nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con
chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure
più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e
core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle
università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero
essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare.
Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi
cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola
dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila
euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di
quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo
escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa
ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in
questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da
qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia.
"Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la
loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei
"minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa
forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra
minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche
superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi
cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato
è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi
fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E'
vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna
sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente
ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente
una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai
loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la
cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per
ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni
ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo
versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed
imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è
vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del
proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta
falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a
testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti.
La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale
avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie,
mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La
battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli
avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già
da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33,
contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per
cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il
regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una
vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani
avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura
nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione,
che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche
l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni
cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La
soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e
passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando
possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un
modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
A proposito degli avvocati, si
può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli
avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati
e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti
uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati.
Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra
idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo
diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità
(desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini,
leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa
disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio
irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza
per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio
conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola,
e non solo);
L’Ira (irrefrenabile
desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione
(torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo
l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi,
chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i
precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni
religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore
come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi
sono detti Capitali.
I vizi capitali
sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima
umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco
di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine
deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana,
contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti
"capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura
umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i
vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei
vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al
pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che
formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una
certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini
non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la
distruggono.
In questo mondo vizioso tutto
ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a
dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano,
ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza
giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione,
ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea
nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza
contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia
senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non
era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo...
tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya
Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi
esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano
vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando
guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della
Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono
sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si
indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e
comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio:
"Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che
vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura
semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono
essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i
loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il
Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come
quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono
vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori
da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè
scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere
“C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il
successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti
querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere
saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi.
Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e
del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di
scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri
scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo
saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte,
di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima
non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli
altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi
non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un
delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e
tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei
miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità
oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha
mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente
per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di
sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio
Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento
alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie
contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo
a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro
pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi
libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce
l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti
uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare
sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro
Manzoni.
Rappresentare con verità
storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio
i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché
non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai
nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere
diverso!
Antonio Giangrande, perché è
diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la
legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento
conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione
necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due
facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata
in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli
alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della
Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di
Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di
Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La
Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e
Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male,
ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più
difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la
prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati.
Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che
fotte la Legge.
La giustizia che debba essere
uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo
irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica
quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della
legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita
nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro
Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al
capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare
l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che
quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre
secoli. Il primo ad usarla fu NiccolòMachiavelli che, in un passo delle
"Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose
loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario
italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli
altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto
dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un
conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal
citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi
Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per
tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei
potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma,
allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da
quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è
un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco,
chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica
(nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome).
Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che
il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la
sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone.
Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare
dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da
lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe
condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge
Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli
rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi
dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al
palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta
tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di
legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri,
il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di
materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano
gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti
anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è
dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non
giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura
centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni
pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli
aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale:
ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se
per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere
servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur
limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a
ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci
vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per
lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di
questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni
lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a
volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella
posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don
Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre
il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti
pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni
abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, –
rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e
impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al
dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice.
All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle.
Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore
in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il
mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da
lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che
v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione,
per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per
finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se
poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da
peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci,
m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete
dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e
l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le
protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una
pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è
reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne
starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni
intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico,
serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e
voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate
bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi
vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava
fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica,
come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che,
dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro
e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore
volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca,
dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio.
Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a
tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia.
La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per
ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il
dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti
così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha
dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare
oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine,
alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno
stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor
curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho
fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato
proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don
Rodrigo…
- Eh via! – interruppe
subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo
la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di
questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a
farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel
che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa
sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che
volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -.
E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare:
non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, –
ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani
verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse:
– restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente,
non voglio niente.
Quella donna non aveva mai,
in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era
stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le
quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione
sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo
voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito
e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al
paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli
non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi
magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è
cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi,
né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il
monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche
nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con
il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento
ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di
magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro
interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del
centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi.
Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei
scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri
volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci
educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il
canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci
istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il
pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di
culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che
abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori
l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed
a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che
abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci
imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che
erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i
“coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere
“coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione”
lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita
confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos
organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso
culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il
male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia
del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri
una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai
contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è
l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un
dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo
insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei
Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha
messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti
per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie
disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle
tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a
promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda,
stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione
legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il
partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché
non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le
malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno
sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247,
tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal
Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento
(compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro,
una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato
vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 -
Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la
legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un
baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che
non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i
giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed
il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i
trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di
processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena.
Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta
in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto
che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati...
il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi
formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il
fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo
Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il
magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera".
Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio
Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la
magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo
di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella
magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto
Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a
Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è
come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex
premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura
Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione
catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano
la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile
e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi
non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe
sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto
all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere
nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici,
amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto:
nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato
virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico,
economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del
popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati.
Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di
conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo
essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato
da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è
conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella
rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e
poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali
negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio
alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso
impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei
concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa,
finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di
imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una
balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato
d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i
carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona
(il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le
fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla
difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela.
Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una
nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna
sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade
per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di
revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non
dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato
dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla
società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai
costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani
non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non
consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere
ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica,
ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed
immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite,
cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove
conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio
culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e
nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non
omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da
viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più
di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro
interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca
di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il
niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi
ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da
un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva
personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei
panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un
importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua
competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non
omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici
figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno
valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere
cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo
insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla
fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa
immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di
imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la
verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il
saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e
spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti
non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende
liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un
insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra,
‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento
criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal
basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle
Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al
dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa
il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri
istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o
patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo
loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono
astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita
il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li
mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando
saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son
fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E
CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera
editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate
al porcilaio.
I giornalisti della tv e
stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e
mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano
solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse
ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale
per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La
Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama,
Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati
tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le
loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare
l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia.
L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le
loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto
quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante
pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio.
L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola
al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la
massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande
è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco,
l’Italia che siamo” pubblicata su
www.controtuttelemafie.it
ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti
da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e
scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa
affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le
rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza
con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai
lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei
cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da
chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né
tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di
opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette
gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di
sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli
gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la
partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED
INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed
informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui
sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi
viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate
sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si
atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in
stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà
di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si
indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si
presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni
castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti
virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore
dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del
fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica
della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale
dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte
ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta
penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip
Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo
superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento
riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo
di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella
diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole
D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole
D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio
dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che
sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e
immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo
D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla
giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato
sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati
gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per
D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della
corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima
indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine
«anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza
del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno
traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge
del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%
dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento,
anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la
lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e
tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore
fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò,
riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza
mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la
stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei
magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e
tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione
ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla
redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che
lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola
Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è
un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e
stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e
mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano
solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo
codardi.
E cosa c’è altro da pensare.
In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci.
L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e
dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani
nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti
raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo
Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno
giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito
perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e
nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella
biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte
confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”.
Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento
significativo”.
Cosa pensare se si è
sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si
facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo
avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai
loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è
da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato”
Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a
dire la verità?
Si badi che a ricever querela
basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli
abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare
l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro
che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede
a loro?
E cosa ci si aspetta da questa
informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale
dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati
identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il
rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104
afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da
ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato
vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma
differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine
costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non
potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando
Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire
invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo
Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero
eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che
sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto
di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come
Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette
l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato.
Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti.
Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché
non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto
sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un
fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che
condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000
(più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma
nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si
dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione?
Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia
gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre
appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima
sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare:
l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure
il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio
nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare
praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale
d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò
volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la
condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di
condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo
legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la
detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel
dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco
Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è
stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare
Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un
indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa
dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove
in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu
obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque
lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti,
parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa
dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose
cambieranno?
Per fare politica in Italia le
strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai
problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi
fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi
prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada
della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione
che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli
avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più
prende piede. Fai ilmagistrato.
Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto
politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano.
Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la
toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo
movimento arancione con attacco a tre punte:De
Magistrissulla fascia,Di
Pietroin regia e al centro
il nuovo bomberAntonio
Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei
magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una
formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre
magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si
rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza
parlamentare.E poi, ci mancherebbe,
con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza.
Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve
per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi
disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso
personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo
per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei
Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe
incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia
senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”,
solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro
ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e
Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione
nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la
magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia
in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità
in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle
del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo:
moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso.
Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i
malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca
a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella
trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi
dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge
(Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di
Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati
protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti.
Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e
i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle
indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo
è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni
politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia
capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti
"paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia.
Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non
mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con
Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è
capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato
alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in
Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare
documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di
Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino,
segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore
locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro,
catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei
in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia
alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto
della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone
partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per
regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei
distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione
pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente
della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo
anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi
delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento
che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione,
Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e
delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in
Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono
conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei
diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue.
Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei
“tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo
ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più
propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni
del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a
darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso
alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante
carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più
rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare,
che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle
toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della
Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi
media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm
Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di
troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in
attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure
alternative.
"Non possiamo andare avanti
così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione,
Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione
dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei
giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare
la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori
degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo
svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi
istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma
deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale
compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione
giudiziaria".
Questo per far capire che il
problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti
"sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura
dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre
nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più
forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello:
«Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per
candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di
Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni
suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si
accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo.
Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della
giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene.
Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie,
esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell'
imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise
di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il
magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto
costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva
che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce
dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le
loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati,
quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è
dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio
lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a
scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati
si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come
cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il
quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente
della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del
Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012
nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra
essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue
energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua
azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la
cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della
Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha
dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si
colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi
venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di
rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia
dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai
magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere,
anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio?
"E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul
giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la
stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora:
"Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali,
che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di
trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave
il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in
violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante
volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali
che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera,
sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia
Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della
polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso
dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche,
criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della
magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati,
a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha
concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la
politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si
ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di
magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile
in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di
Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico
Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader
di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore
aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex
collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi
sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa
reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima
anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe
leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano.
Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora
in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione
politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino
a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi
interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa
pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe
di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma
questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel
mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7
dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha
ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il
leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se
fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci
sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi
affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui
interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno
estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante
oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere
imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai
valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e
una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché
"mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha
aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero
Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una
legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia
carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega
che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti
nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con
Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore
di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza
con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse
Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata
incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver
bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine
più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così
i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si
tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi
rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati
onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali
sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le
Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la
regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra
diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una
posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di
Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo
Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla
procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte,
un'indagine
su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori
del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle
garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di
Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il
procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia"
di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al
fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed
analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un
giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i
magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo
uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E
tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il
sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE
MANETTE.
La Repubblica delle manette
(e degli orrori giudiziari).
Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di
avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per
niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere
mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere)
gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio
mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese
furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del
Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi
in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano
la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non
i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È
disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri
errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte
scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il
manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è
anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e
molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato
un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse
su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia
distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica,
che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla
sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse
una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per
un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la
più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper
qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi
quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini,
si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a
favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che
ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato
a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari
internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia
degli errori e orrori.
Un tempo era
giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le
elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui.
Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E
così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i
delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di
Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che
afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico
ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in
meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque
Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat
e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time -
Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è
mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le
istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav.
Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per
criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della
magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24,
ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze.
I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record
del genere".
"La vera mafia è lo
Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il
magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera".
Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio
Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la
magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo
di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella
magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto
Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a
Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è
come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex
premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura
Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o
ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della
casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi
Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro
vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri
Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e
moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate.
Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti
pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno
i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che
ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di
comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro
manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da
dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in
presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia
dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre
qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta.
Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come
ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto
conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle
norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano,
che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei
processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro
operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi
infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si
sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una
corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le
storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando
“Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi
sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il
suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo
se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione
dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero
essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per
legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere
Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa
quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo
Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo
ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro
tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli
ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui
magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte
più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci
dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio
Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di
Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati
del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della
giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli
sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non
funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il
rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia
del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa
inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289
della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di
procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione
meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui
commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non
riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del
settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che
Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne
delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata
all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della
disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia,
niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede
che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la
massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa
9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento.
E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore
del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso
quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno
carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami
che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della
magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state
fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più
severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle
quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo
indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi.
E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le
retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi
dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno
stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti
italiani».
Quasi sempre i magistrati
addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej
dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali,
avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato
2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano
sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto.
Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire
addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi
lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga
rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale
presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare
un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione -
sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura
5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%;
quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state
delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il
2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali
i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il
2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di
quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in
servizio».
Ma c'è anche una legge
sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di
essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117
dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva
abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa
legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state
proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per
responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate
inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di
pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di
decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate
ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise:
lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato
insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto
lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato
ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol
dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso,
perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando
stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal
lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno
di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE
UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI
ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO
MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le
aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di
spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati.
Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire
se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe
degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle
persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più,
divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che
questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e
giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio
dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole
di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua
origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle
ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi,
il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha
come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che
consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo -
ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono
qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie,
prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un
ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come
la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate -
afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo,
dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di
ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è
parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla
requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio
Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto
impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini
un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale
teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica
parola.
Ancora come esempio riferito
ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi
pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di
Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco
edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del
social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato
proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in
disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi
era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico,
arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo
Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero
Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello
aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella
del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con
quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza
della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui
lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare
intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri
durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un
articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano
Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del
maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della
vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto
medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per
oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al
massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare
sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della
requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati
medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo
della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran
parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e
di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin
dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video
registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi
è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore,
davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è
soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore
precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni
alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte
infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la
storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel
2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a
spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni"
commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia
Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava
quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano,
e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di
giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora
voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad
Ivan Zazzaroni.
«Voglio conoscere la vera
ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione
e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. -
Ricorda:
riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le
piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le
telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un
incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi
hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro
della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una
giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in
testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un
ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello
spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se
parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E
poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri
a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio
le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna
delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in
carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin
troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente
del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna.
Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di
giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli
avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le
intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato
di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi
è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata:
solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa
minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori
che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa
sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di
scrivere o dire come stanno realmente le cose.
Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre
stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE
DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO
E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA
MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono
una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema
di legalità, è da rimarcare come la
parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo
Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato
positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28
giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale
antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso
giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno
2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non
ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30
giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della
contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione
pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un
cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma
le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione
dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo
ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti
per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i
giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno,
vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel
decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria
giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già
durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e
forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologicio a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi
valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di
riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere
pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un
carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato
sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé
stessi). In un libro, "Io ti
fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura
in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate
in Rete a quelle più antiche e consolidate.
In Italia, fottere l'altro -
una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto,
"lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E
fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in
Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è
l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze
anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà
non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza
condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in
vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8
settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai
microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più
di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro
Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande
confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia
combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da
lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume
di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è
una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi
ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro
pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra
civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite
di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito
nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche
uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha
dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle
nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli
italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini
professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia
comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri.
Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le
atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se
qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente
comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi
delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa,
"La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà
infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come
nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale”
pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei
fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue
opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando
le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti
in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata
sbugiardata da
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale"
di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso?
Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte
d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci
di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le
carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un
clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare
quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni.
Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri
sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la
diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a
ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai
centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare
problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione
meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro,
tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine
sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che
colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco
(Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è
ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il
suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno
di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello
antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa
rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che
non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una
controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e
dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente
mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette
maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una
semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano
dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e
umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per
narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo
ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve
narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la
realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante
invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo
volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli
degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere
la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico
che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di
iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente
finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se
riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie
direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un
armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle
stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non
può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica.
Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci
chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia
dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai
criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno
sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura
con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti.
Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà
d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di
Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000
sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline
e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la
Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si
chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia
dell’Università Lum "Jean Monnet".
Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato
protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del
secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il
comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece,
anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che
preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto,
di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di
capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata»
di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in
malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il
conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato,
soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato
che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei
principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione
avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un
percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la
Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20
(in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la
capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali.
Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20
giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932,
anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli
studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del
1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e
l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il
debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad
avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è
andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi.
A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione
complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In
quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo
di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce
volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di
poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o
«wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie
di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di
default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia
nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto
dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu
ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla
Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu
estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati
non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito
fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte
annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse
concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali
trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del
'53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla
condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne
nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del
1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di
fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una
intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla
rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro
forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è
avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte
dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile.
Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania
ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di
annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero
pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha
dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle
altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre
che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf
Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default
tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese
che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul
comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la
memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa
che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un
tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del
Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze
tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa
abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di
lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si
comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un
«istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo
comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel
è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti.
L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni
i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è
figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi
preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è
stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di
pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil
tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza
nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per
volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in
Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il
commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania
comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la
Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi
vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa
che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle
manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno,
specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia?
D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli
avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho
mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro
il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza
eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata
pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità
a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino
(354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di
briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il
Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine
contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la
libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente
comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i
detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale
a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe
o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di
Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è
l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico
Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E
come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti
e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il
tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895)
tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse
che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è
l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una
macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in
termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza
verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente
borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta
di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio.
Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo
Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di
briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i
giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il
malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i
magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al
punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le
toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura,
fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente
e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le
Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla
giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa
tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del
sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli
Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è
organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono
poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e
nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una
dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e
tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci,
scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un
sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti
della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse
una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari,
burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto
interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio
sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di
benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi
che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le
inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata
potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al
crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico»
di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia,
non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura
fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto
procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e
arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e
procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che
separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo
stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per
un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive
Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche
autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento
elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un
esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il
«non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra
cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma
andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle
elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi,
consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può
vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una
novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca
alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette
irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il
Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare
l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere
regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a
una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i
penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi
sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per
procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli,
anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di
tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini.
Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di
Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo
d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato
la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice
orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria
Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire
com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa
dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni
fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il
procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato
come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso
dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di
Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura
anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che
ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex
consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò
Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come
Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra
della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in
qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi
coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso
nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di
magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del
Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo
impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di
giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel
rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza
ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una
successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice,
effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione
delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non
volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il
procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza
successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace,
questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva
alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso
fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza,
l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che
mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri
sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il
presidente dellaRepubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al
Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza
nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre
''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato,
ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio,
che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una
seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la
Consulta: serve "leale collaborazione, oltre
che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte
Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello
Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso
rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per
ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio
superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa,
bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente
necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della
Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale
non si è smentita.
Per quanto riguarda il
Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di
Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei
Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al
legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera
contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva
partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di
Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno
concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e
imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di
attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio
con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che
l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione
relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario
concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i
ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano,
GaetanoQuagliariello,Maurizio Lupi,Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin,
commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e
profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio
di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine
giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta
della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno
telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda
indignazionee preoccupazione per la vergognosa decisione della
Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato
e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge,
"i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a
decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro
Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto".
"Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo
impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei
ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi
all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni
davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella
di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto".
Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi
e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere
ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda
e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai.
Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare
l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo
Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire
in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di
Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro
l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in
nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di
centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e
ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di
centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto,
contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi
Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl.
Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare
il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader
di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato
da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede.
Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a
sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano
quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di
servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita
nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era
attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto
tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi
fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI
APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE
SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini,
legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta
sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo
impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa
dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei
Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta
si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave
preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione
di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due
legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica
giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa
stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa
Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come
la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe
invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo
legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea
un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un
Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo
impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo,
questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione
Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche
politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla
notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi
nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli,
presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci
critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può
accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione
alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo
l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della
sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione
che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le
motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha
detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento
(giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora
premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset,
per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di
Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di
Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il
Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito
di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei
ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di
udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio
in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna
indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi
precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità»
dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario.
"La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si
legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non
costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1
marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio
Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per
tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la
sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la
Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali
dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali
per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte
Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta
è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al
Lodo Alfano, si sottolinea che il
mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si
configura anche come violazione del principio di leale
collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza
di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è
un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte
costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un
organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una
maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra.
Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da
che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati
dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra);
5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti
organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di
sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani.
«Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano
campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio
Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che
un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la
Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo
l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo
Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di
costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte
dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da
Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi,
l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”.
Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale
che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a
sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate
questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano
Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per
nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno
2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci»
Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a
Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel
legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex
sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm
l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente
rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri
s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di
Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino
(sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente
ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex
pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel
medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata
al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio
maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a
97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato
criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata,
il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista -
scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica
possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento
da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in
vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un
solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94,
governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia
contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso
proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002
con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle
opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del
Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con
questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato
di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare
le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro
Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi
De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato
nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi
provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei
radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le
parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per
il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo,
quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un
colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo,
già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che
all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni
dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al
tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il
pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di
Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in
commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di
banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva
cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò
dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe
Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice
dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge
contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma
mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a
fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni
Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne
archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal
’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di
comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo
plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco
dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un
esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge
elettorale.
Tanto comandano loro: le
toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per
svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da
961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero
Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non
bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe
preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli
incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio
dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia
busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è
una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in
crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in
quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione
giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di
consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati
sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre
2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia
attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare
alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le
consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di
editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato
lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella
formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini,
racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio
Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni
varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e
delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un
incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla
società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi
2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore
per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento
professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8
ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In
Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano,
consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di
diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato
ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale
dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato
addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per
36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto
d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano
questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i
giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia
degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo,
cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi
che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, èun sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42
alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della
compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo
anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14
gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima
telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria
De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da
Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera
comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome
per favore»
Schettino: «Sono il comandante
Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti
Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua
scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su
quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante
persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante
Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico
una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta.
Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento
la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti:
c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la
percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa
hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di
assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro?
Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente
molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase
di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è
“chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale
professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione
culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di
superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami
scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In
un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare
un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e
di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli
ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei
disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al
dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano
il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con
provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses,
letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto
conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto
generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è
da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum
res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose
ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande
autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella
quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni
economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in
questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi
come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO
CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed
interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di
alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa.
Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una
prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta
nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di
stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche,
biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di
Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti
imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i
metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si
sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la
verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea
dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni
quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente
diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio
garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le
prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con
inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo
della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da
discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un
foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti
eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in
questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è
l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb
sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo
gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di
studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti
lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare
ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito
dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10.
La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti
da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni
altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione
all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi
o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti
tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la
reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere
inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è
intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato
una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato
a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione
VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei
giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur
senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo
della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora
il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione
giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo
contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione
logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante
l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della
prova”.
In particolare per gli
avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER
L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di
Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno
o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema
proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena
della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel
comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del
distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per
i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto
come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale
anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è
sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato
stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia
“legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene
sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il
Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione
delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite”
dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici
concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo
dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i
principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le
conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di
ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità
critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno
stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della
studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012
una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della
Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a
copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar
non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico”
della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel
frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della
ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la
giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli
insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame,
avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che
spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio
di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il
principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene.
Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si
forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene
insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che
una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una
volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano
matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe
essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere
insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si
impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va
bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle
nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto
più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come
sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un
comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla
carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di
molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava
anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai
Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico
nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano,
si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una
scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto
con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga
un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un
accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la
"fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la
Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione
della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da
139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12);
individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la
disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione
italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a
disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle
produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per
modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi
art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al
di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli
atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o
direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate
da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo.
A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea
"dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono
le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge
(decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle
provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal
Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi
essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo
di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato
della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la
pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si
collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di
altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la
consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata
condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e
praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini
sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti
principi.
Tutti in pensione da
"presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra
loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine
carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il
presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga
il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma
dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi
componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in
carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di
scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente
dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo
mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La
poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna
accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un
tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior
numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino
al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere
quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità.
Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa
rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche
un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale
hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo
trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione
ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita
una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la
legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27
dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12,
comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte
costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più
elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della
giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della
metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il
Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria
Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio
2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata".
Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi
dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per
soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22
settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal
10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece
Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno
2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente
Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate?
Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi,
anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un
popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di
navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana
dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli
italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul
Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di
Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello
che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di
Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei
Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le
sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono
pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il
soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi
successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere
l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla
richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un
mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un
soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è
usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un
perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano
tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la
Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi
correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di
Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura
di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla
l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il
14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica.
Il gip, scrive il Giornale
di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di
arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e
non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo
gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai
processi:
«... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione
perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della
pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano,
ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti.
La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è
incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio
Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei
magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia
berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi
nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di
tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado
moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno
votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a
casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo
di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere
del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo
psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità
professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di
carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e
prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per
Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano
finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di
consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti
dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri,
Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno
accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa,
rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in
aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati,
fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento)
e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla
Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra
gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a
Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali
relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano
Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di
Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby,
Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240
del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose
che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono
il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della
sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice”
Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della
condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni
le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si
dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è
doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel
vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non
chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così,
con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo
padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la
giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita.
La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in
scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se
possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste
dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo
teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa
di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici
Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema
costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte
le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma,
se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese,
allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a
dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi
è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone
che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni
favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra
novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di
trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico
dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio
Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria
Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento
per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della
Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in
Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti,
assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale".
"Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non
sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di
seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella
requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che
afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura
finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a
Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia.
Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti",
con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era
presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul
libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello
- io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre
lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai
visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata
dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la
verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato".
Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze
che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea
di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista
Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di
chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario
finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella
resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una
simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso
destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino
Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di
Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di
una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con
Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva
descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E
ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il
capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo"
di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo.
Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa?
Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori
a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per
condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro
Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere
conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di
testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità
assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non
ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi.
Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e
protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di
questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza
precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi.
Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma
soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla
condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai
pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film
Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi.
Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento,
la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità.
Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti
usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in
difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi,
bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi,
traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello
Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi,
tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati
travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte
alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver
testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di
diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale
il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che
se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi,
sequestro di persona, occultamenti di cadavere.
Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di
concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a
Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai
pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di
prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da
quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il
cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non
solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto
a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi
per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo,
uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi
istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da
realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il
tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi
juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è
stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28
mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli
meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una
“sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso
Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi.
Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi
Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della
Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver
ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi
juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era
sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007,
per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato
condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo,
determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati
come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove
anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele
Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano.
Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per
autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il
contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al
nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio
quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni
Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi
il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di
giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della
Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker,
reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è
stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo
poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno
conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un
politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha
chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex
consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo
del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso
il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un
tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato
condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai
giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione
di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era
stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup.
Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in
primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di
recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i
due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa
la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a
controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco
ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere
di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche
i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle
richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di
carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10
anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre
dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e
Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di
Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi
Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate
due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre
imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della
moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex
dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo
Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di
persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una
provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15
per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo
2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18
anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò
giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente.
Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per
tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato
condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un
cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona.
Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato
condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e
8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito
abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion
Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago
di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo.
Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei
confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente
Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi
internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora
senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión,
ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando
aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina
esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e
Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo,
e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è
come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero
il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque
ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso,
mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super
testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato,
perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima
Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima
Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti
coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora
Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno
c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un
colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su
di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono
anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai
contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96
alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati
eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non
c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora
arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi
ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono
soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite,
tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la
Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma
alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo:
beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per
calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i
verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse
qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato
di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o
Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo
associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per
realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più
influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione)
facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano
1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce
penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei
consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante
uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni
ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i
concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei
libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato
sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene,
prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema
e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi
rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi
chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi
impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione
della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi
artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a
condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di
tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è
così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti
coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo
fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia
di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del
torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il
Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare
per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come
marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi
di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi
piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono
certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla
fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande
c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una
spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete
altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si
diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi
vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in
Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi
validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino
Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone
influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia
parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede
Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia,
abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di
Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini
leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande,
presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it)
e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici
truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti
gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di
questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come
rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta
Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente
accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su
1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania,
presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli
elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della
Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una
bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame:
troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che
alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20
minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni
denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua
calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per
magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli
esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel
2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state
sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato
barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito
di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato,
si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato
(ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima
giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito
giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi
difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni
personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le
motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia
mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi
alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di
Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia
per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son
resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza
precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna
scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria
corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e
mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se
plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento
facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono
concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte
d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di
avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così
finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I
ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame
non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel
frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è
sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a
testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei
per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché
tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché
non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e
li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al
dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e
persecutoria?
Inoltre ci sono buone
possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in
base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi
se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero
dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a
correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera
primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per
verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga
persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le
Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero,
altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali
(spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla
convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati
dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi
esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari,
dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e
giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi
se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e
dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo
per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche
per falsario.
Denigrare la credibilità delle
vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
VADEMECUM DEL CONCORSO
TRUCCATO.
INDIZIONE DEL CONCORSO:
spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte
dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di
studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza
(perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso
quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto.
Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le
Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed
i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME:
spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che
hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale
presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato
nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la
commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma
(decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18
luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli
Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal
Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri
nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli
avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità
anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre
sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del
proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od
osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle
componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame.
Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato,
del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le
Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e
clientelari.
I CONCORSI FARSA:
spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come
il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i
lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da
personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce
si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della
stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo
recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare
quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e
non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame
d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del
Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il
Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1,
erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi
rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di
un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in
modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a
sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore.
Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico
sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei
dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da
molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si
prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a
rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era
incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il
comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e
conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura.
Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo)
al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno
scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME:
spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni
prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del
sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per
l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede
all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle
Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del
tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di
ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in
precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte
le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti
all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in
un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la
prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle
relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di
testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE:
c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande
salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso
di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e
materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello
Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di
materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati
dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il
“Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame
di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova
annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è
permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come
succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere
da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e
nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo
scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte
per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla
commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei
elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti
identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile,
diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali
anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente».
Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo
svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa:
“scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di
non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro
a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto
liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente
commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i
nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica
Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi
di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche
Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro
dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma
Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i
veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto
selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli
aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei
mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali
certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno
consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni
e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti
scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne
lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati
dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in
bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli
elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che
qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento
giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande
di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove
nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e
rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine,
chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta
prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime
giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia,
quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente
dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i
commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti
nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti
di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può
capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza
codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari
d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era
rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare
l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per
verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga
persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le
Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero,
altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali
(spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla
convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati
dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi
esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero,
i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per
correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti,
invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio
era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli
involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti
imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i
metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si
sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la
verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea
dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni
quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente
diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio
garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le
prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con
inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo
della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da
discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un
foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti
eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine,
c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb
sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO:
il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente
un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero
essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio.
Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari
firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI
ELABORATI.
Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed
eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di
tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la
commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande
contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte
del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di
ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti,
valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino
un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e
dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più
strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche
giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a
problematiche complesse;
• consultazione collettiva,
interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo,
motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola
contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie
normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un
prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli.
Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito
illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati
tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha
cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in
qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso
altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato
del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od
osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti
necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni
d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione
l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del
cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato
la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel
cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello
stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare
nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome
sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine
vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto
l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta
dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto
da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli
studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per
diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio
alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della
Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla
Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari
ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata
all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui
fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti
anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story
e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di
uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano
intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati
in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di
ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche
la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo
son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un
diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a
cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a
scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia
famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio
padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare
l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione
era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri
pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri,
nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto
demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a
Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano
incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese
c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che
nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad
Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il
23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo
quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo,
Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era
forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo
deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi
agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia.
Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta
uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di
preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di
specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre
2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile,
la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi
promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi
spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati
previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia.
Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento
degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati
scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di
specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione
rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice
l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura
degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i
curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me
visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun
candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre
temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra
obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano
Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il
concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in
base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3
minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta
chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno
dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad
ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della
commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame
divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane
Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione
forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1
agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura,
dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata
fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti
degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei
commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non
corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del
Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga
di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove,
scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine.
"Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno
letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto
che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i
concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto
stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il
magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non
aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato
da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei
ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni
consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità
quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di
presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa
6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a
decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri
del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di
ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza,
ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in
contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli
elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la
infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la
corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta
discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione
degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio
composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali
si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il
Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere
l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il
concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura,
il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia
degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori
da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata
verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed
europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al
Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di
accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di
ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008,
che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per
manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la
magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha
battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992.
Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei
compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della
busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai
esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il
Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria
mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per
gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri,
proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente
del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici
e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti
professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio
radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta
per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul
file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva
preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo
scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A
finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del
concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di
comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che
molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro
genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in
cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati
nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di
nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta»,
«Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele
di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le
tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI.
Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo
al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si
presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio
Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il
Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino
non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex
procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era
il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari
componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo
fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di
Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli
orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un
falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in
una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima
non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti
per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione
diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani
nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale
gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato
(una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale
episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo
stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali
pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari
attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere
particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella
commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non
è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato
2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di
Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla
prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai
candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione
edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i
Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo
che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione
riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza
dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in
cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01,
Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono
entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente
dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie.
Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava
per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con
il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla
Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15
(il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati
che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente
di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico
contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i
trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA.
Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di
giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro
amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di
battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso,
dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza
175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento,
economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una
dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni
sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le
operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per
il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito,
il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”,
secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di
abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion
di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle
commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e
giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del
loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non
promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro
presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento
giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella
massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio.
Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e
umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto
assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione
sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che
supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti.
All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di
Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice
amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di
esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento
amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo
tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica
amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione
esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in
relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio
sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul
terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso
a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da
evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante
principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n.
8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le
commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti,
meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande
denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla
professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima
di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro
i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia,
chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la
giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici
amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce
(ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per
contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato:
COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO,
COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI
UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON
CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011
presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico
insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della
sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda
di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun
giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza
cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza
dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui
risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti
puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più
punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di
prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata
e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito
dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno
avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che
non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e
dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad
un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio
2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio
della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben
prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver
tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati
avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine
per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a
supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro
insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono
spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio
2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013?
Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e
prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da
considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le
sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso
ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio
Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la
città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i
concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli
effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia,
ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire
che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi
amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per
l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare
indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra
i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può
venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma
se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato
al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di
controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove,
scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine.
“Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno
letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto
che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i
concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto
stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il
magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non
aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da
mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle
mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini,
mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si
è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante
l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza –
Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il
principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono
preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i
magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso
sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver
sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe
già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è
stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è
già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei,
fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in
pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del
presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che,
prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era
autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei,
redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta
fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008),
che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della
decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il
concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale
De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove
scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una
altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato
(Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo
Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la
regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza
(Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi
Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da
irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di
autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e
magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non
ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei
nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima
delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di
concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in
aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove.
Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del
concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco
perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le
caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di
abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività
professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina
del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina
arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio
Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte
del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si
scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da
buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una
imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha
scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su
www.controtuttelemafie.it
o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad
informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità
incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si
ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha
paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi
questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media
corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le
speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so
tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca
rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La
quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi
a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior
offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per
esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione.
Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna
farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il
monaco.
Un esempio per tutti di come
si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma
forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi
legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare
danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in
previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i
giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense
(R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e
di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro
riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta
come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi
penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione
giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese
ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che
andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello
che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel
frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di
strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera.
Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare
l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e
marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto
dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la
caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto
inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora
da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato
allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile
la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una
citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da
farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica
esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di
essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun
testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del
fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da
quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta
come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano
stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto
non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la
responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la
vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il
giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed
onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa
afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La
poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata.
La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i
testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che
l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era
competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato
per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la
poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli
amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene
presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro
parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì
chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli:
uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue
cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli
contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per
condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le
accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé
o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante
dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia
contro se stesso.
La procura ed i giudici
accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro
l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per
anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui:
non è suo.
Il paradosso è che si vuol
condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol
condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e
su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come
infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto
con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali
all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di
un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è
qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano
me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i
carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca
non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale
anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello
che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio
c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che
nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose?
La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro.
Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa
la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste
mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era
un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le
confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due
diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di
Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è
avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il
boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione
di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia
penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione
è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della
trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per
tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i
giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della
Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013
risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico
Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le
grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è
altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di
intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a
parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i
campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby
degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni
categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo
loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex
Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo,
un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua
legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla
Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce
grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di
taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella
dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed
anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri.
Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si
sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella
che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa
che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla.
Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che
mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche
in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È
una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano
la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un
nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei
comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti
dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva
Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi
metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia
è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il
primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il
tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di
giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia
penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia
(insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro
impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti,
tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei
casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio
Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure
impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi:
tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in
Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno
condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di
quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e
Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode
fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i
suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la
Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni
di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio
2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del
processo per frode fiscalesui diritti Mediaset. Processo pervenuto in
Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19
giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113
procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua
discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in
appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di
interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe
intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003.
Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse.
I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per
articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco
Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua
considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non
si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e
collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare
in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché?
«Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi
paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne
vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza
andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale,
dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i
tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di
difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le
polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti.
Tutto iniziò nel
1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo
stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia
del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse
rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se
beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare
questo.
E su come ci sia commistione
criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti
che si confessa. In un'intervista al Foglio di
Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi
anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli:
«Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo
governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco.
E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai
tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e
Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati
ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro
manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di
garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli
a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia
stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il
pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che
lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci
portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se
quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver
parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho
ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui
pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto
che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al
seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra
giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre
la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di
oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri
cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo
italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi
c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il
buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato
che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in
un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo
ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per
prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei
governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le
code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il
classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere
tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione.
Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio
2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel
lontano 2 novembre 2005fermò un uomo di 70 anni: la sua
auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il
prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò
andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso,
pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di
Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò.
Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il
viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione
arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise
così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici
della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio
alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si
aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al
tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione
offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di
pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si
legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e
brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare
il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una
manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità
avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata
pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in
atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla
nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o
l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti
dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha
inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel
contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto
un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini”
- il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo
materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente,
tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività
nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla
coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi
cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate
espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore
e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita,
che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi
ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la
fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi
italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani:
TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi
ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la
possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la
storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe
politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro
a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e
voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la
Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi
che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si
rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che
per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di
governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino
all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra
neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio
erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo
contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che
comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico,
un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI
DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo
per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che,
secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti,
agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni
a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di
avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò
Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di
depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa
decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che
secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di
false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di
un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per
mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti
giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono
dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la
sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene
a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante,
ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha
già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi
avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati,
ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la
sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono
rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio,
quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una
riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state
perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel
processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di
favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le
grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando
Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte
nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono
con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli
incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la
nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra
parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio
Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il
faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità
sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di
Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte
pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse
nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per
induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo
quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a
tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso
degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e
novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe
ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la
copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe
mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che
Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e
Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità
giudiziaria.
Comunque torniamo alle
condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo
grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2,
con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora
e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si
parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la
Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e
Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la
trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in
relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio
Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo
e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per
il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della
falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio
Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette
anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche
minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di
reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione
minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore
“orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono
state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è
stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che
erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda
“definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a
discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e
balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare
nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la
conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo:
consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una
o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone
alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto
a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il
14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e
il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in
arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base
all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009
dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le
partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo
le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina
messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in
quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso.
Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani
donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo
scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali
all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip.
Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da
Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione
le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno
paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la
gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di
presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle
cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle
ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e
“ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella
concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina
e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il
pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di
chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che
smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la
sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di
carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare
sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di
intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse
conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non
vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo
processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di
Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri
testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri
testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso
gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della
difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo
stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per
violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse
lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al
Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare
l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di
alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono
trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio
Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se
attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la
testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al
termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i
suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono
numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris
Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la
costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto
la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo
avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per
il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i
legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione
dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla
violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio
mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali
prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie»
proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel
processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che
contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del
giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente
Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il
presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel
processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente
rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata
pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il
Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore
Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel
processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura
la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e
composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne.Giudici
donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici
Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la
Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare
l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi:
una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno,
anzi, "condanno".
È il sistema automatico che
porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni
dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta
Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un
collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che
dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il
segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo
maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78
uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda
Boccassini,
che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di
Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua
origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle
ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi,
il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha
come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che
consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo -
ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono
qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie,
prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un
ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come
la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate -
afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo,
dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di
ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata
un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si
completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha
affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle
fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì
al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la
risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di
queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano
solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche
Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale,
ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla
consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta
brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata
dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per
"violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre
giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti
per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna
Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel
look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una
battuta. La
testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le
confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In
particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste
conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di
olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede
Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula.
Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde:
“No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è
il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex
ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito
di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di
Bpi.
Manuela Cannavale,
invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a
tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino
è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di
Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato
assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre
giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De
Cristofaro:
sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di
Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il
giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche
qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale).
L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello
di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior
esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di
stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come
“represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e
definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice
è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici
uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che
si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”.
Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”,
sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere
della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la
sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione”
e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio
quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente
avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha
puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum
dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la
preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di
grande impatto mediatico.
Giulia Turri
è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per
Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due
degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto
l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e
droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche
Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro
è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a
quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di
chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia
si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti
parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono
state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva
processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un
articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7
anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado
del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso
per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda
Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e
l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione
penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo
Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne,
tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del
collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e
pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è
stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip
qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento.
Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario
Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una
all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto
per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del
2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl
Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e
che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di
cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga
nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood
e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze
ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è
stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è
stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni
e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario
di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa
Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna
sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di
lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un
volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte
del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli
altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne
stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido
Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003
pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare
Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante
e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla
truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia
Todisco del caso Taranto.
Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto
2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini
preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del
Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo
dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a
Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono
"rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi
neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto,
ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non
ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera,
è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non
si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle
ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura
19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si
è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della
direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva
ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle
ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è
cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze
sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione
del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera
con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino
che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu
assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il
peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano
per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla
guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore
dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il
giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della
Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i
sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del
ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario
Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17
agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco
«ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha
deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in
fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di
lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di
quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca.
Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in
vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del
premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di
prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore
capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso
tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi
un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata
né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del
colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa
entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia
di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito
nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come
segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo
lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere
che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona
riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia,
proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra
all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la
procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore
giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o
dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura,
rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe
avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di
quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase.
«Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire
dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e
poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il
tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del
foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori:
i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è
occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno
ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un
suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per
presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non
c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con
il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una
comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da
farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici
del caso Scazzi.
Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda.
«Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita
mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di
Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La
conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle
telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra
l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate.
Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno
addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il
presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici
coinvolte nel caso Vendola.
Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i
due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo
(trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione
del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione)
inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio
segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del
governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice
che ha condannato Raffaele Fitto.
Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e
durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura
irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano
Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul
collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del
Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di
ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al
presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo
svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente
che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la
vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone
l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della
quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce
nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti
della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di
sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi
avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo
proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale
un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata
a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa
sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla
consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato
Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci
sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del
collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze
all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del
caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il
riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito
dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è
la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa,
che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande
di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto
prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale.
Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze:
l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se
tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano,
giudice di Taranto
che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di
libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la
ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva
giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava
estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva,
così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva
denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni.
Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato
chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la
sua testimone.
E poi giudice donna è per il
processo………
E dire che la Nicole Minetti
ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa
che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da
donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a
maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne
riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una
sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare
tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne
normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un
bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e
le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a
fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici
donna? A
questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La
presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne
all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo
di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17
luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli
impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della
giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali
requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di
razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il
dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla
magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore
delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare:
da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul
raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul
sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di
Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare”
(on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare
una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione
intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna
risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita
femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole
Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle
donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna
possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le
derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato.
Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione
del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere
quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste
funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto
in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una
presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme
alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla
specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni
giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e
dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di
eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal
modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i
requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio
dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in
magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne
di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre
giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale
disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56
del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto,
nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli
appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale
dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata
in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente
sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva
dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del
1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che
implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una
normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso
delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la
magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben
sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai
quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3
maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne:
otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel
ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne
nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari
ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente
intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare
un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la
metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una
percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno
maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di
concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è
evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso
pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è
inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle
facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso
ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato.
Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente
il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed
integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un
processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio
necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta
pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che
si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli
uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo
colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti
all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se
continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi
e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una
identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un
linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura
professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di
loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero
giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON
POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli”
(secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al
Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian
Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle
storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire
solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo
che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico
a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da
altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello
che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto
assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su
Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre
domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene
fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più
serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia
dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante
che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no.
Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare
gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non
l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo,
giusto?
«Non so se c'è ancora quello.
So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che
quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che
si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica
vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe
sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi
la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo
di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e
di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la
redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e
se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è
meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta
l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa
Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le
ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se
è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere
vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta
in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal
5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto
rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9
milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della
popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè
che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa.
Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei
poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1
milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose
che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non
corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato.
Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace
ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di
servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata.
E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte
riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di
euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno
studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche)
che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È
uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la
questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una
interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul
federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo
Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema
ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le
tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali
(+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il
ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle
amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di
regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%:
il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per
fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una
esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello
locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a
livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una
riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori
locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle
versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio
così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi
locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che
negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono
cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in
alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di
Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è
clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che
voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si
è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a
iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei
nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di
rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo
vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di
diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte -
va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai
visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».
Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non
sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è
diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che
occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede
per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e
Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf
e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni
dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici
a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due
stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il
Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti
di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra
– Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino
– Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena
– La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da
augurio.
Caimano
– Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni
Moretti.
Cignalum
– Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum
(v.).
Cimice
– Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba
– Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo
– Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto
pre-mortem.
Delfino
– Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il
d. del caimano (v.).
Elefante
– Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come
un e. in una cristalleria”.
Falco
– Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le
picchiate.
Gambero
– Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo
– Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre
attuale.
Giaguaro
– Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo
– Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non
vincano né i falchi né le colombe.
Orango
– L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne
ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione
– Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino
(v.).
Porcellum
– Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa
– Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette
la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino
– Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga
– La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla
ripresa.
Ed a proposito di
ingiustizia e “canili umani”.
La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita
ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle
carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una
risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante
tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare
attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole
del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi
ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in
carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una
situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che
tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è
scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento.
Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni
carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe
possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e
considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha
una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia
cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile».
«Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del
carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura
Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità
e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare
«giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche
agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte
«c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un
dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le
parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I
detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare
che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di
Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri
di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti,
in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano
l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte
a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana".
E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini
da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove
la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le
guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente
questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa.
Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la
vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici
Italia.
Già!! La giustizia e le
nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo
a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco,
quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della
Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta
terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere
della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo
della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini
avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che
aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici
corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del
grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io
Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i
carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era
arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che
facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui
sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di
lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con
noi».
Ma proprio questo è il
punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone
della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano
credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro,
Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in
mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava
frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un
imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii
male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in
ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato.
Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma.
Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di
Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di
qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze
dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite.
Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20
luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di
plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la
Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la
ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero
convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia
della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io
vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e
ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per
la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si
possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due
personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato.
Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava.
Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva
raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma
non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto
piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire
chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro
nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino;
restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato.
Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili
cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non
sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in
Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio
Andreotti.
«Il vero capo la fa girare,
ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a
Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due
Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non
farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto
là».
Torniamo a Gardini. E al 23
luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo
ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore.
Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte
che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla
scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata.
Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza,
si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti
correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick
e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora
stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino
presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le
frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi
arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai
carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo
venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con
discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di
Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per
avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo
arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere
stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in
piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il
poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto.
Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché
l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che
sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei
conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin
dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa
mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa:
nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a
lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò
correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse,
ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un
moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido,
razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di
Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un
colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la
vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere
inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per
l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi
successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono
sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte
decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate.
Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto
pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione
del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della
polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini
disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati
si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto
davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come
si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando
arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo
la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria
hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare
Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di
Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo,
nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo
perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è
senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per
autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle
mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro,
allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe
Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive
Stefano Zurlo su “Il Giornale”.
Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in
parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio
'93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta
Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della
Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di
più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex
leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con
la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro
tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di
quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di
Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il
Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco.
Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe
dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva
portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici
corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del
grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito
di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il
suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del
quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era
salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il
messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i
destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo
dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo
quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i
brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e
dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile
Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la
responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se
la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della
chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini
era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che
lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello
fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe
ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se.
E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro
tentò di farmi incastrare Napolitano.
L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a
denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco",
scrive Paolo
Bracalini su “Il Giornale”.
E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare
nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese:
"È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non
era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo
ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero"
risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro
poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente.
Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva
trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel
che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate,
dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito
uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano
chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato,
potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti
le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già
raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog
paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora
presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse
ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro
democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio,
stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un
corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione
disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per
farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse
finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai
verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta
confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre
volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per
Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far
fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più
filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu
arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio
Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da
ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie»
dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini,
vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera
dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un
sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice
che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo
arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo
opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato.
Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller
Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi,
conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva
promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece
scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le
tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella
cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è
ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono
15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi
sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho
ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno
dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false
ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa
continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza
di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco
è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di
Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese.
L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil
all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per
delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni.
Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni
di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della
sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da
una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove -
attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai-. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno
trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno
comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo
periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come
Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un
messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per
dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno
della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco,
Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo
perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò
troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista
morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di
aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non
si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella
storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce
dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è
accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesaronee a Lamberto Quarta, ex segretario generale
dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5
milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008
insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali.
L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse
altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17
luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera
indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si
autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della
Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio
regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza
prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti
nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette
né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In
dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato.
Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara,
ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex
presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza
di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal
concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali.
Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o
sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di
capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la
vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi
surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa
beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi,
come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi
spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con
mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a
poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori
posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi
familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie
internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno
s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case
che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro)
si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure
prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di
pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento
schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire
che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i
rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in
passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare
Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi»
criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco
perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i
giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima
della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex
procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi,
Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che
tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono
(invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e
deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a
Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre
180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese
compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni,
queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il
sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi
Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso
Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni
dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante
di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava
contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo
ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti).
Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo,
uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i
telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto
della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi.
Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel
giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici
istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova
della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona
ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto
risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento.
Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava
quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della
giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato
prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove
portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono
tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per
fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla
convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti)
qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la
parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il
reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio
vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due
sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di
darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e
riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in
una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei
mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato
senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia
molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura
accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle
parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà
sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di
difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA
E’!?!?
Funziona alla grande, la
giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi
abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di
fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due
esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di
carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato”
Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e
6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette
non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il
suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere
attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per
cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti,
più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine
internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di
patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e
lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che
variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8
mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto
giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio
confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede,
subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene
inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito
di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non
trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano,
né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a
identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da
segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate
è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica
opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando
a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho
ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col
suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro
dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale
non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue
colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle
emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che
meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza
diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità
o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure.
Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col
(buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti
ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio
2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha
dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex
governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli
era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data"
Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del
Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel
corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita
"l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere
indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere
soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente
attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a
delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie
di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e
apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre.
E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più
costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le
valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui
"in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe
doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria.
Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente
denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in
presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes",
sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i
magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico
elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una
approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il
Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla
Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato
ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia
già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora.
Un punto di
vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso
Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero
Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della
persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il
problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si
adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia
cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci
rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di
persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di
potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di
civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del
Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo
è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura
inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e
collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita
la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro
è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di
innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per
questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le
prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili
giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver
“favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto
assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono
rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli
indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna
anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo
nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico
dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una
prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni
indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula:
insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei
quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni
ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un
solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è
assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio.
Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno
(per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla
sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina
d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di
indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo
intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina
di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per
oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della
storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base
esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva
ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e
fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai
quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire.
Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe
impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le
condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema
giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del
Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è
generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati
(ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di
ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito
per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese
civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e
un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri
italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in
cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la
libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba
al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il
carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo
delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori
si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in
carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto
consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte
Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo
275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di
colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in
carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati,
tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e
in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con
la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio
Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il
delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia
cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso
concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre
misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma
la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma
la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un
fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale
previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento
una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di
Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza
come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del
“minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve
essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le
esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte,
a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità
graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da
differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a
prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare,
parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete».
Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012,
accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a
Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma
la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile
con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è
quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse
dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per
il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato
della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la
Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le
toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la
custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare
misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici
costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore?
Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare
la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e
riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore
non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione
del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla
Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al
regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del
pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla
sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti
decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari
debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel
2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti
in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia
cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di
un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una
misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici.
Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei
carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte
Costituzionale,
scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino,
comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che
non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e
primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita
fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe
illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che
potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la
vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal
buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone
non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la
donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la
stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva,
lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci
provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla
bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella
ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a
scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano
male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina
oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e
ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di
depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il
petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che
non può più volare.Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno
più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due
stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero
(in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei
abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è
sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge
approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere
chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi
figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza
davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della
pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative
al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in
casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni
passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione
apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende
una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la
Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca,
pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma
3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di
colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi
commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro
di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice
la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo
lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in
faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato
che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo
grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che
possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra
ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo
alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando
ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai
domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e
chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le
gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei:
un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un
pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE
COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un
cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la
consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi.
Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della
giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi
che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera.
Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì,
in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le
entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio
in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della
Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le
voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle
dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci
vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in
piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani:
TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER
TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse
uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è
tradita.
Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato
sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le
toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il
Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici.
Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni
telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo
Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro
attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche
se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima
dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui,
mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede
condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette
anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici
al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che
invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md,
trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione
disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni
unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei
film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio
le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il
principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti
disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la
mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale.
Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi,
l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti
giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto
di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso
orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di
Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri
provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili
confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O
meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa
notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal
processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di
secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del
25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal
raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si
può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure
convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché
Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono
protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va
ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il
ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere
rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione
mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura
giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante
sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato
dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro,
apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio
giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle
loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il
principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di
giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta
di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche,
sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di
sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più
strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o
di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo
meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14
vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e
obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici
italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa
Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in
equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il
cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il
secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e
fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito
disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro
non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al
datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il
comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento,
mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro
dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere
discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona
per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro
apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono
uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico.
Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di
famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è
tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro
PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che
è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente
dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista
La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è
cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino
di Enrico.
Bene, allora cari italiani:
TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’
E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la
Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene”
no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha
aperto una procedura di infrazione contro l'Italia
perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei
giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta
che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti
"cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una
legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le
toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave
nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede
“Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri
errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li
avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e
professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi
europei. La legge italiana 117/88 restringe la
responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa
grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della
prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al
querelante che chiede risarcimento per il
danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia
di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della
dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del
giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione
delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche
senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per
colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è
intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione
della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla
violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la
Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio
Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello
di Milano.
La Convenzione e la Corte
europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e
ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No
alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle
sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione,
anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è
quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del
30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo.
Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della
collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte
segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte
europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al
sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei
giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della
libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti
coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza
depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai
quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto
professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della
Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro
giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di
documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di
fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito
contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla
presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti
secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale
con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i
giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che
invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del
diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la
Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della
libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro
di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che
viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti
compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere
dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non
incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la
presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco
contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le
notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo
svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato
le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un
rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le
informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea
dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia
la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione
europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla
sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la
prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art.
617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato
nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra
edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi
che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e
c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la
divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni
procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci,
Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che
entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale,
sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto
la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà
d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il
rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a
priori un uguale rispetto”
– diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato
Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha
ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo
diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della
Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata
rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la
lesione».
«Sono felice per la sentenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci,
creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile,
tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto
la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano,
per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il
patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una
vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore -
ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla
libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia
per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone
ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i
conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso
Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda -
si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare
fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia,
Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta
l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua
vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di
avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione
dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da
Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato
Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio
abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma,
dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe
avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che
prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al
Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia
un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato"
che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni
industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta
"inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La
Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per
violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul
mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in
materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte
inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde
acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città
di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è
riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della
direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane
non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto
adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure
per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la
stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono
i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci
pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano.
Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare
l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La
pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene”
su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve
parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio
Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa
ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di
iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena
rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma
se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con
Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel
caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio
shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del
web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le
Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano
state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”,
“dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di
potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti
che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene,
noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai
provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta,
scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei
ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi
fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò
un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali:
l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti
nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I
carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali,
dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere
li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti
parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale.
Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità
dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene
di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i
carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una
perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono
intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma,
ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda
la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva.
Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che
così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio.
Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta
al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in
questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia
Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano
sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza
un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di
Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo
documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di
persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono
in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte
per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori
bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case
improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche
insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di
amianto.”
In effetti il filmato
documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla
situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del
pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie
bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel
servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso
nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle
baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci
sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today
- Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente
lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale.
Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo.
Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte
volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di
raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi
minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il
canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è
ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei
lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la
terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso
clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a
Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla
“Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da
Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel
cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne
del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi,
impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore
di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia.
Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà
passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono
causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi
all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha
ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si
prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica
assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai
cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica
assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con
forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi
sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore
di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro
atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio
coatto.
Colui il quale dalla lingua
biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non
avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE.
L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla
collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili
su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può
dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare
sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe
paghino per i loro errori: adesso lo pretende la
Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha
aperto una procedura di infrazione contro l'Italia
perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei
giudicial diritto comunitario. Bruxelles si
aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti
"cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una
legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le
toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave
nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento
di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la
condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per
l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei
giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva
chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma
non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e
Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e
ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della
violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso
giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue?
Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo
ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad
altri lavoratori e professionisti italiani, ma
anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge
italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli
casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza,
il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e
della colpa del giudice) al querelante che chiede
risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo
poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario.
Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi
estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di
sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione
delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga
verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles
nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera
rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è
mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione,
cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici,
paghiamo noi.
La proposta di aprire una
nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della
Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel
Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare
che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto
necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011.
La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana
sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle
conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi
nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali
deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato
Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile
con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge
nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro
errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato
scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto,
quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in
maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere
“manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea
contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla
magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi
nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista
responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per
errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si
considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti
comunitari.
Pronta la replica delle toghe:
guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia
di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice":
l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo
Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia
dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di
responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra
invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un
problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha
puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo
Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento
dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i
principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla
legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di
sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano
sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà
tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare:
l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su
“Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura
d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle
norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di
palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che
per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente
errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente
della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia
per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che
fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto
europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora
l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la
legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi,
come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario
politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla
responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli
dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche
responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte
già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella
sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la
minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri
magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le
inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più
quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del
bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento
dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta
non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al
governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i
singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE,
comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non
avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in
linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo
caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una
parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e
alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti,
non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero
gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato
appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è
peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti
appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza
morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non
trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di
presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei
quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a
quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del
CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega
“Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20
settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette
sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la
magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici
sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso,
vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più
convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di
"concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano
che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale"
propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -
senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del
conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità
emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero
momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la
soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto"
ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della
magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché
proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i
giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più
propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio
bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della
Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza
Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re
Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il
senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e
dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire
l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del
protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o
giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti
sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei
dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è
delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la
vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è
intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione
della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla
violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la
Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio
Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello
di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono
limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in
galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che
inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali
reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei
medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può
essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La
Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la
Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato
italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più
5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha
condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per
danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni
di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul
suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino
Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione
giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi
europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto
dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi
della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche
Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale
intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti
. “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è
addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui
misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La
redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette
toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il
tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte,
assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo
diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché
pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i
soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il
direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione
economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in
Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la
sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la
certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora,
zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile
rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione.
Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che,
comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida
(governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i
codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle
dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è
dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a
quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia
una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di
questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena
pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di
Libero.
La questione è che per aver
dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse
nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce
a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un
contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità.
Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni
non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe
succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà
una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma
nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non
commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi
infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente
che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di
scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la
galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a
quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive
più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno
scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti
dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a
risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in
un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il
carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita
contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti
neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti
terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci.
La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio
Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della
libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento
altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti
parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla
diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti
quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta
essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il
giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che
passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una
riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però,
è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella
mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno
chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari
che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà
di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della
Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del
ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo
coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando
i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile)
scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il
fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la
Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo
sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano
e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del
quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”.
Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione»
nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali
«Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e
Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati
condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila
euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai
giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da
almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani
campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi
articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra
(corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni
su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il
servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le
ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”,
“dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di
potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti
che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene,
noto programma diItalia Uno la cui fama è legata ai
provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta,
scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca
e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan.
Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea
Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava
contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre
militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo
poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri
dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di
verbaleche il pasticcere li aveva chiamati e
loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la
volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un
semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia
finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una
ritorsione da parte dell’arma: icarabinieri
sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione
dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene:
Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un
servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla
ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito
calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato
sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi
irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce
su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel
filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così
impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social
network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla,
blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube
un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle
strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz
Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di
30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza,
comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel
filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua
che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria
accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri:
ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un
semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico
“è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i
carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo
con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i
militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi
Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i
documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come
immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole
possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i
carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il
loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le
disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato
richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti.
In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non
l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti,
per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno
regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai
colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze,
hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di
screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi,
perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per
aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e
controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato
vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho
visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo
me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai
carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una
perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa miae la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc,
sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le
Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavillaè protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che
documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle
strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla,
già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in
questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe
stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia
non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono
essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito
al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri
avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato
incriminato.
Uno dei servizi più
interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de
Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani
che ha documentato un presunto caso di abuso di potere
perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla.
L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione
ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è
accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo
Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata
appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo
comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio
cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e
davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce
per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in
pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere
filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di
mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei
Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di
consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto
del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire
la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani,
nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i
carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di
Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi,
Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo
Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato
pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario
il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato
tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene
abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un
pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle
intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un
imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati
della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il
lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla
drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella
con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi
due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate
nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o
per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti
dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per
ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i
giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro
colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà
dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi
oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai
due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza,
invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti
sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o
addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati"
con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto
disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei
diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad
un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di
risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da
cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il
massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano
anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora
in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di
Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna,
non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non
confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa
grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro
i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e
portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in
cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere
all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse
coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò
di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle
intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta
denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu
confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente
indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un
suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza
di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e
tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso
abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila
euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che
a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a
Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista
del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale:
"C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la
magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un
pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma
soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto
anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso
della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che
vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai.
Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza
dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in
movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza.
Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante.Minoli lo interpella
sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo
Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione
che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in
cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli.
Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a
tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli
continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare
contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa
sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non
solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per
farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro
errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e
basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita
cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione
per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il
popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri,
invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa
rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il
momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare
forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere
liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che
permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida
affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano
condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire
dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento
della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte
della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti
retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è
necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma
per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi,
presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare
sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza
le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne
svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a
"lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia
a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici?
Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S
punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre
un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto
di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si
godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è
farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di
comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di
esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per
lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo
blog. «Spesso
dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi
arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther
King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso
conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai
smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano
azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del
1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in
cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una
in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni
nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi
riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da
sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è
fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il
ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più
uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha
reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di
"discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande
trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo
stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e
l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma
costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e
dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un
invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani.
Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La
gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo
diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone
però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non
far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di
alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo
bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a
una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e
personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda
guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a
negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo
uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche
la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in
quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E'
riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo
del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col
fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne
tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?»
potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita
accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso
integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari
amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone
alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che
riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi,
ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente
consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in
una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che
angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il
peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre
imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha
sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è
questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al
potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta
patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i
servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte
per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a
fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre
famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non
ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti
con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi
particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili
per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per
la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più
la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di
una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature
dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità.
Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura
Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati
pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in
grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data
come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via
giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 -
’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni,
credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla
sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo
Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della
sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi
immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli
di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso
di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula
piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi
mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella
realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo,
tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e
morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun
riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno
aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha
riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro
volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me,
la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed
ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna
condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica,
con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere
definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti,
nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in
Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi
che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati
un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza
nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di
ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben
costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni
ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza,
due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in
capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società
Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi
a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici,
per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre
10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie
lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono
dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che
lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante
l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per
quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con
forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io
sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda
parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del
proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene
all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio
impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver
impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che
non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare
socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del
risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso,
di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di
mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio
giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della
democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi,
di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa
sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo
male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra
Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa
nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni
sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo
civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”,
ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile
uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon
senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di
forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So
bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la
politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una
inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un
mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla
vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi
tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta
sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica
stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del
tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci,
di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È
arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che
amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi
personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di
riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un
partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.
Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà
e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore
sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra
tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà,
della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia
sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i
cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima
della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il
nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e
rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia
sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà
diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la
maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma
maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare
ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per
liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.
Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in
campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà,
diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e
alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e
magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti
troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in
questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona
consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere
di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al
vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in
Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il
vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro,
non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno
a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti
politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati,
quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza
del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono
convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio
allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima
di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza
Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è
l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio
Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio
Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la
gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io
critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come
altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione
a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i
forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come
lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in
fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il
potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non
è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati.
Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le
lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si
lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi
giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro
padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente
comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia
contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della
democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in
carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se
funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è
sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non
sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che
alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della
povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è
uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma
di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che
la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle,
svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi
economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica,
anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al
passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la
massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici.
Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo
apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi.
Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai
pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per
farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di
sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio
Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei
vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la
mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che
nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi
libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce
l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti
uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo
che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più
gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse
contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra
e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze
dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine
Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un
giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi.
L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti
magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai
o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla
magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono
infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un
trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un
trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area,
più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti
universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per
addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici
truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei,
avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per
tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini
vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la
collettività)?
Quello che i politici oggi
hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li
difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in
tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio
perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete
tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai
si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E
questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv,
certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se
l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello
Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E
se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione
centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a
navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come
la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e
da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande,
orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità
è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che
è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che
hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato
di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È
uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il
dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo
su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex
PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato
di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa
pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime
vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato
un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla
direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo
giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le
storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis,
nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste
giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a
ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso
totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in
carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso
di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro.
Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla
pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha
trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni.
Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una
vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è
calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche
loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno
che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari,
nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a
sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto,
mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro
dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici
non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola
dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena
Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio
Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo
ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206
carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne
ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione
Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il
cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire
“Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In
questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti
Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le
motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha
condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa
dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La
sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale»
arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli»
della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della
sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare,
può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita:
il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per
l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il
pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità
del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le
sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana
sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo
sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato
oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione
fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale
per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è.
Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non
lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non
può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un
«danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza
appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti
«cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla
tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a
Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come
hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente
a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la
gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da
quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni
morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e
tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei
miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità
oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità
storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio
i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché
non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai
nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere
diverso!
Ha mai pensato, per un
momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere
quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto
dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un
book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o
in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie
contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo
a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro
pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi
libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce
l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti
uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza:
la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a
manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive
“Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la
politica rende intellettualmente disonesti. Lo
dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale
University: la passione politica compromette il funzionamento della
mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il
cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo
a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte
- Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated
numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio
di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato
chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla
capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche.
Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono
stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte -
In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole
che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e
variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo
l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in
tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in
contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano
in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una
soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che
imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha
dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona
il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del
mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato:
fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per
tutti”.
O li si ama o li si odia: non
esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più
contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse:
Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli
avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico
statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una
delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si
parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non
tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani
modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza
animale.
Difensori dei diritti o
azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della
logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario
collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una
cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva
dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo
pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti
offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di
aiuto.
L’odio da sempre legato al
legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa
categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede –
bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In
realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere
di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire.
Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi
greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli
inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai
più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle
chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più
riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche
filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi.
Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima
teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è
che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la
quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo
sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni
professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena
pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva
sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei
migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da
parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda
pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono
occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la
mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con
la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso.
Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha
fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea.
Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A
sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona
abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che
gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta
(calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di
problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal
problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato,
nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se
ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo
gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto
sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale
nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è
costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori,
perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna
di letto.
Così come la caratteristica di
ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile,
dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino.
Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e
interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del
legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E
questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si
rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è
un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non
esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il
resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile.
Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema
dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000
avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati
ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi,
a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di
offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi,
all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di
area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più
soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno
mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa
quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la
chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le
parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in
giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il
problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non
è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo
più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E,
come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto,
dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci,
i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo
all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose
funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i
più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli
inadatti.
Perché? Ma perché proprio i
mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per
raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno
meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati
continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore
dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore
immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è
uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma
di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi.
La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e
forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi
politici". Se lo dice anche la Boccassini...
Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate,
contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per
spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre
fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non
vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che,
negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona.
"Non è una patologia della magistratura - ha
spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il
loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua
parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio
di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione.
Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad
altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».
Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro
indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia
per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo
fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate,
contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per
spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre
fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non
vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che,
negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona.
"Non è una patologia della magistratura - ha
spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il
loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che
dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda -
durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati",
con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per
salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani
pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la
folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere
l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare
avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male
gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e
delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello
Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda
Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono
sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale
dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di
non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe
Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino:
ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un
collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha
sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono
muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le
prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una
carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il
contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi,
per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e
andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a
lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della
'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono -
in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma
conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha
a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha
una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare",
dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al
cielo.
L’idolatria è il male endemico
di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione
civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a
percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una
tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di
te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la
trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o
pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a
stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e
condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un
riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità
di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far
osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I
MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno
politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra
indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La
persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca
Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un
po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli.
«Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su
un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia».
Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano.
Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare
risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in
Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta
Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper -
anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società
italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili
da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La
magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono
condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra
preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio
quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma
scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme.
Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the
political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013».
Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la
casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le
attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono
eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano
condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa
succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e
dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le
mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati
empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un
partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici
sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali
aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una
chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di
autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento
nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il
partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con
l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli
organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione
sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di
sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro
(Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po'
bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato
inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati
forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle
indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra
appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di
destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di
voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di
destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di
autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due
ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e
finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto,
l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo
per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non
è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due
considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi,
che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale,
di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente
schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di
dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i
comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra:
quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra
preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni
caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta.
Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo:
fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il
suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi.
La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e
forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI:
ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il
«trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale
dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli
aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E
LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno
strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra
chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud,
regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali,
le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo
Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita
Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali.
Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni
mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi
e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta
del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma
chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del
finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da
Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista”
prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo
la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema
sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una
classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si
dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di
sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove
il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e
municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si
moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano
le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le
anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri
su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e
fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie,
interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati,
intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da
certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio
Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi
scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto
rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante
le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento
(inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo
particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno
di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini
che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre
troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe
politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in
mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe,
stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si
proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate
a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato
in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la
Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati,
accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della
Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi
elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose
nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti
bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata
Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di
euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco
si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani
un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina
alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno
riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli
attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento
per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e
Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del
gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle
scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema
dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori
approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei
confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo
nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare
all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del
reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con
la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni
colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato
dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere
minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare
le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario
regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi
fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA.
QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo
stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il
patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso
Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le
motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato
definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre
mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese
avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in
cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la
sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi
familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore».
Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della
Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello
Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per
concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso
Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di
intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i
rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che
Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo
stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che
Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso
siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano
presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di
Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano
presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de
relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con
Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha,
con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi
a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze
dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio
mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale
dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è
«ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della
condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua
personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente
in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi
allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative
gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile
considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima
dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima
che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della
sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato
è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una
storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo
Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può
descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non
riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie
drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i
pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla
criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle
mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta
continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di
giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di
"collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono
necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono
un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno
visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché
è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco
apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse
problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima
utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è
inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da
debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio
Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE
MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che
racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra
ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio
da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie:
un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione
o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è
meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non
pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è
regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la
legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada
in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale
per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media
per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta
in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto
che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati...
il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi
formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il
fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato,
alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato
che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”.
Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio
Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la
magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo
di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella
magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto
Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a
Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è
come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex
premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura
Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi
di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione
catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano
la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile
e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi
non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe
sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto
all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere
nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici,
amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto:
nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato
virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico,
economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del
popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati.
Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di
conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo
essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da
una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta
solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai
media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di
frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei
pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La
verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata
culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici
truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le
più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il
diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati
capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso
si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è
sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede
cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire
eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono).
Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche
pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti
l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di
trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore
dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi
ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la
possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la
storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe
politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro
a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e
voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la
Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei
Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le
sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono
pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il
soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi
successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere
l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla
richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un
mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un
soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è
usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un
perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano
tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la
Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi
correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di
Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura
di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla
l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il
14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica.
Il gip, scrive il Giornale
di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di
arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e
non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo
gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai
processi:
«... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione
perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della
pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano,
ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti.
La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è
incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio
Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei
magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse
uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è
tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili
sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della
discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è
qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano
me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i
carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca
non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale
anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello
che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio
c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che
nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose?
La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro.
Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa
la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste
mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era
un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le
confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due
diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di
Milano.
Così come in fatto di mafia
c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la
mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine
mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI:
ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi
nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione
dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente,
la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è
ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato
conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei
compiti.
a) chiarezza, logicità e
rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della
concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della
conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della
capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto
giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la
comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica
e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari.
Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di
cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente
leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi
su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta,
irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento
svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un
periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei
singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le
ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della
logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione
esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti
universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi
relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre —
con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica
del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la
prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi
supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è
capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI
CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il
Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto,
punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per
la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica
dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che
Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi
materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali
consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione
della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per
prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad
indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità.
quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine
ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante
subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di
Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al
delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto
proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui
scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O
straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del
destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un
risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento
delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208
pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli
«allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la
frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che
si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...».
Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono
scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino
in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti
di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla
una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al
centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione
che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della
condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E
che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non
proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote
Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di
Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza
emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata
da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di
Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su
Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre
prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il
problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze,
ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano
Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di
mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua
insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito,
Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm
(che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?)
in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla
prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito,
una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la
magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in
un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo
ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per
prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei
governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse,
le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il
classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere
tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo
ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio
2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia
Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini,
secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma
Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per
gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato
del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe,
giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro
Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla
madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere
napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via
Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto
ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua
segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha
scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità.
Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un
ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie
comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La
Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico
dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la
politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di
Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60.
A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo
Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare
il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi,
infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero
corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta,
verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I
giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è
stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione
da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati.
Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica
l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di
diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura
della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive
l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la
semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i
temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo
sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso
Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama
Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de
Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio
Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998
capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani
pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello
milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio
(maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di
Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore,
Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di
magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che
i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi.
Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma
che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa
disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare
l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo
entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono,
il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un
trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni
a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico
Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi
Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio
Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di
Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal
1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta
all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al
Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto
industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in
corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno
dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile
del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio
Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario,
l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere,
resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a
guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una
vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe
Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova
sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea
annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è
incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la
nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a
luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella
Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi,
è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione
Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli
istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del
Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in
odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli
esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo
della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale.
Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi
offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio
Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA
BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie
di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il
paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della
Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli
affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene,
secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia
d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per
associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di
ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie
lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo
padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo
marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna,
Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli
affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a
Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta
autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice
Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato
a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso.
L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha
funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai
magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie
lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò
che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a
carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano)
relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta
nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della
Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano
soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano
l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco
(700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i
traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando
con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla
mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero
pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI
americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo
ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato
simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio
contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si
opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da
Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le
Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci
miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro
perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più
volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo
discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di
magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se
il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma
qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che
Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a
essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia
messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA
MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi.
La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e
forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI:
ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha
«prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori".
O la
statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso
di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi
agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che
rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della
popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza:
erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della
commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli
esaminatori.
E quindi in tema di giustizia
ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto
Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande,
scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere
gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it:
“Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”.
Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione
la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si
osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho
scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni
città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore
giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente
solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di
infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello
scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è
una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata
detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati.
Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori,
sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello
che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici
giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più
importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il
resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno
scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come
megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il
territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di
coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco
gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che
magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a
Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in
tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma
sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di
vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli
appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da
punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi
salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i
telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda
quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi
approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente
rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si
vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la
qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si
pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura
giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar:
tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti
del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale,
giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di
Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche
come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di
Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre
2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di
rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di
Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi
delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di
vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico
esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si
conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la
certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era
già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri
di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del
processo?
E quello del dubbio
scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti
invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non
sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre
famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE
GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre
un termine al governo Letta».
Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non
mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che
amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere
incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E,
nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico
fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle
famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a
Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un
ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei
cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria,
dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi
onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi
politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è
avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il
coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere:
«Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di
una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario
che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un
calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm
del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né
pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta –
prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è
rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una
persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli
interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come
“sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate
nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono
responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli
italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso
fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione
finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno
fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e
piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per
questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere
invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come
quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe
ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del
centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando
il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi:
«Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a
sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro
schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse
a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una
nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le
condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti
fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più
chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento
delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della
modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati
della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata,
condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici
procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive
l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo
la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra
nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e
minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi
non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale
partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via
giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento
irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica.
Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che
senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che
ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e
fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho
scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto
la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma
perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile
al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole
una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea
ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi
dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per
esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per
primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato
se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di
giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto
sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei
confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di
trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove
la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di
aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi
imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione
di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e
prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci
come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano
educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma,
quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e
non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi
cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il
popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a
destra,
scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo
può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin
con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima
serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su
Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in
queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto
populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio.
Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice?
Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire.
In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa?
Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre
la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di
Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma
ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e
Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita
partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i
dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande
sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta
lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri
faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di
Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono
più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale
spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i
popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata,
e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze,
Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo
nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA
STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In
apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura:
“La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura:
“Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura:
“Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura:
“Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura:
“Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel
caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In
apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times
titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato
e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U"
di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News
campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di
Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il
quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la
partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo
l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando
alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una
photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente
adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex
premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non
perdere".
Il conservatore El Mundo,
invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla
figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha
detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato
l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani
tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il
colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel
in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il
Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per
Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto
critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince
il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in
Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times
dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla
minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo
ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di
fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che
"L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito
in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua
edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la
vittoria".
Telegrafico Le Monde,
che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25
senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca"
è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra
Liberation.
Infine Le Figaro,
quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi
risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA
DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi
scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende
e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso
di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per
la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere
sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come
un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa
è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato
Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a
Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo
Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre
intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a
sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima,
il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad
alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei
parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta
all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata
comincia, infatti, molto presto.
2,30
del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo
faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una
sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia
a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30,
“L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o
un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci
urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e
poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda
giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né
possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare,
può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto
focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del
Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni
e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una
lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato
finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto
Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo
Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un
gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra,
collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari:
Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi,
Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso,
Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello.
Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano
Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato.
Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso
quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si
aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In
questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria
a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta
ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che
''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una
decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non
hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una
prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla
sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al
Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono
comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta
fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi
ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del
partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala
antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se
uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''.
In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste
parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente
a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato
ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al
PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene
che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio
Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi
nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la
Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso:
voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10
Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica
ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va
rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per
l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi
ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il
rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di
Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene
zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il
governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli
obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il
presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza
come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante
dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il
coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica
del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il
quanto alle 12,30.
13.32.
Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la
dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e
senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha
rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato
è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un
governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando
tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere
solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il
clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione.
Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier
sugli impegni del suo Governoe sulla giustizia. Abbiamo deciso di
esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio
intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è
passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il
Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera.
Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato.
Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo
politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto;
sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26
Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la
Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che
interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà
l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30,
la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435
favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla
quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova
maggioranza.
Vittorio Feltri fa
trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi
spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no,
perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo
continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia,
scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto
sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di
Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo
presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per
alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata
negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria.
Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima
reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere
lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini
che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei
confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà.
Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna
è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa
veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio
che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate?
Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle
imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista
che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci
regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non
svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio
alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di
vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione
pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento
moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare
con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le
deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio
della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia
è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle
tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto
è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la
troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla
corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce
dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno
potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente
controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le
procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità
che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di
sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda
costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è
commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come
tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere
sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti
e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero
legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è
ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume,
sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un
Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di
scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud,
coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle
d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta
dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi
pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari
coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che
tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il
Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa
professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è
l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una
corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in
gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso.
Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo
tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità,
per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla
stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i
devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo
questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno
ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che
sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi
pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro
lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta
questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare?
L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e
pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è
che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per
fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È
quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una
costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta,
Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la
notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari
al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De
Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno
davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di
professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la
terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la
Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese
sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori,
con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri.
Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si
sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di
metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato
a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese
feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo
l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra
visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le
burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È
feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si
improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della
magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di
Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il
sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta
scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo
spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non
cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non
allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia
allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento
non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore
il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si
chiama Dc.
È una storia antica quanto i
baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in
cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno
sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le
indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica
“Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne
una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla
“Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre
discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato —
accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque
commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà
legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di
vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare.
Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La
prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che
citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta
del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore,
rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da
una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano,
scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione
dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che
potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico,
costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia
tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla
«Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti
pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le
posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35
saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è
che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti
nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci
sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di
Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di
Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini
(Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul
terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella
dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco
Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che
dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli
accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma
riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da
professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella
tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di
Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su
tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda
significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso
accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale
nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed
ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta
Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario
titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e
truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si
incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto,
pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il
quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni
eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni
universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della
Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari
espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle
Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di
regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il
destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline
afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi
nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni
giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto
della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io
faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e
patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali
pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio.
Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre
due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli
investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti
sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una
sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si
dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si
salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che
garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono
stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni
hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive
Gianluca Di
Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle
cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a
professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato:
la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del
mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave
dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato
dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati
risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme
berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono
l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma
a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei.
L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato
profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni
finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto
di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari
erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro
effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a
pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori,
al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a
Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo
pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia
all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una
commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede
non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da
raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per
trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti
boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando
un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un
ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo
avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per
farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di
millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono
stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di
loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di
recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la
vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva
parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il
2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di
cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i
capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni
per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il
controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico
il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni
giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la
sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre
docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito
invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono
tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è
persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei
loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada
con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare.
I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali,
ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari
delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza
definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore
Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario
sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al
primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una
lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a
stranieri?
Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi
conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record
delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per
avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande
vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il
Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette
solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle
1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle
case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza
straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra
gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le
graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a
fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi
entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è
lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito
(basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli
immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet)
su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a
favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale
possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente
versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una
casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone,
consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una
potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di
costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a
sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono
nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho
molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla
casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a
trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi
stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e
assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano
essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso
godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli
enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i
5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi,
si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non
viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.
Quando si parla di case
occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare
tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per
sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi,
altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva
dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma
significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva
delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente
sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano,
essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e
se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente
orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli
del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli
del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case
popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di
prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra
poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un
anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni,
settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente
in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa
e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara
sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso
dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere
l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano
essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie
indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica
insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle
case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi
periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali
sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma
del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri
bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì
le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel
sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più
sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno
di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se
difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di
vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008.
E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale,
che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000
persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve
una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto
Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia
legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare
quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte.
Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti
impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti
personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di
contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai
minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone
sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un
certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei
conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto
volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il
solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La
denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince.
Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei
fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le
lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che
certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione
che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è
stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e
consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati
da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie
compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz
leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la
legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al
camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare
domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla
luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà
pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato
pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti
pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato
all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e
stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31
dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge
simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009.
L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria
per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con
graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio?
Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle
norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una
battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati
e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da
ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli
enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è
pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci
sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e
nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna
circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica.
Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la
continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la
guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro
esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora
fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le
famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una
tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato
in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di
alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le
palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle
conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra,
lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità,
polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano
il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti
dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana
idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi
cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori»
ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo
elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto
che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente
all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel
capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le
domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia
che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto
all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo
migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare
altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai
bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo
iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da
inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per
i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un
pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano,
Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi
assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia
camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando
le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri
«fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco,
praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti,
armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a
Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima
persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio
comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico:
«Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in
effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha,
avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case
occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action
organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora
sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo
e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case
abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però,
ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia
di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata
da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile
svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto
per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una
signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare
un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata
anche lei.
L’occupazione abusiva degli
immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio
Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente
adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da
coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre
l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti
dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo
proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il
risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti,
sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia,
in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del
procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile
si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che
in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici,
quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono
ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od
edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio
funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art.
635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa
abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio
(art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue
alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il
reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un
reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di
misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto
quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere
l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna,
non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che
l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che
offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche
laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini
nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità
di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei
vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello
penalistico.
La mancanza di tutela per la
vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più
oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade
spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga
che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può
osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a
convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti,
occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche
ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle
ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59),
non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale
in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente,
solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il
coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza
scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe
rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza
che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in
essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di
questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la
occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando
una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione
abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente
funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava
all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua
mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli
abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno
ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna
credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui
sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria
deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze
ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai
locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè
minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga
nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle
appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di
escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da
uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il
fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è
palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare
tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando
la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare
l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le
responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o
ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo
giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre
secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo
giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze
dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o
dell'omissione.
Cosa ha veramente la
Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata
lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema
Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato
abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di
necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha
affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza
d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la
dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di
rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice
ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il
fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal
pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova
rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente
fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto
il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva
ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per
avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La
seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di
necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa
esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel
momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave
alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e
circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi
tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta
di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi
dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato
soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla
necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi
Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti,
attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e
ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54
Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo
surrettizio, un’esigenza abitativa.
La sussistenza di eventuali
cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare
reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile
comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che
il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II
Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati
del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto
Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del
Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo
dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli
indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità
penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui
versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di
evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano
lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo
giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del
provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La
Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della
legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per
le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura
(personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una
causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità.
L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato
un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente
rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B.
sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato
spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna
violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non
consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure
cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza
della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure
cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna
misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza
di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con
riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di
legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel
senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare
reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata
decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona
sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve
limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella
legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente,
pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del
procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa
affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del
periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto,
afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in
questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del
reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al
pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce
che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o
privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela
della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si
procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una
almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si
procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni,
fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato,
occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e
ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile
durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge
autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di
invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la
coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti
profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se
essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è
possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori
dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al
reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è
ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza)
nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al
pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di
servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è
limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono
ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare
contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può
assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a
permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per
apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno -
30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità
d'ufficio.
Il reato d'invasione di
terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del
soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al
patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria
dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del
comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita
del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione
dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella
distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato
che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp),
conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la
consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo
trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale
invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai
sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538).
In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto
dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare
del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio
del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis
(edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di
per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è
sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si
devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha
mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi
titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma
anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti
predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare
"destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a
privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto
(Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in
Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa
violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi
indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con
minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la
reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si
considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci
persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione
possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633
è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di
conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non
qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti
profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso
di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di
cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice
introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di
turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del
possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare
l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art.
634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un
numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si
tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene
trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè
la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo,
sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di
domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381,
lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art.
633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo
dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche
di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore
conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno
notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono
delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di
attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice
valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva
di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a
tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto
vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle
esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal
possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto
offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione,
rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del
diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte
dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto
risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa
al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui
sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al
proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva,
dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di
confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti
i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova
del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di
termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione,
tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a
far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti
l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso
incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si
distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a
chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da
proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al
fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al
contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira
alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una
funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di
una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono
la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il
possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le
azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo
proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di
danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie,
cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’
TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di
sinistra) i professionisti dell'accoglienza.
L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete
senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la
pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che
non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una
parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la
pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative,
professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i
poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si
rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti,
volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della
Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro
vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi
provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un
miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno
scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui
carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa
corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima
accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i
trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese
legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti,
mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati
chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna
che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i
disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero
dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per
integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti
asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre
soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le
frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di
porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7
milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal
Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i
rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per
misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come
co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il
fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome
perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel
2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus,
Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si
muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito
che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per
l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa».
Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le
organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero
dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi
pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto
e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli
albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro
diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi
retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire
come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati,
che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza
legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e
Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i
soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli
uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali
martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano
l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e
solidarietà.
Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo
Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto
significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si
presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini
su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato
in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università
italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e
del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la
presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di
rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza –
temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di
deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica
italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano
con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente.
Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono
profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o
i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse
sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per
questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni
regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un
“conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in
questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella
cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici
che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni
del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani.
Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei
“cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente
coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo
del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente
strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante
di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile
comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva
antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio.
Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si
parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità
profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle
forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi
lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e
ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che
dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia
promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il
parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio
condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI
ANTIRACKET.
“L’efficienza delle
associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle
denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data
dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio
Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente
dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce
nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del
presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana
associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il
Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le
Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le
associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che
serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia
di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed
antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali
politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di
passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di
finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in
base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in
giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte
contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non
toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura
neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una
parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà
alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo
zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata
alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno
offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere
nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e
l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo
Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio
Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza
non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede
fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si
informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle
forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello
Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e
quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle
spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa
un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che
lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere
nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a
tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e
come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le
locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è
legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio
Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più
improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né,
tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il
monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche
nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se
scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato
non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri
sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli
avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono
critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno,
la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per
non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è
sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come
autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che
siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in
E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti
questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore
di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e
carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo
orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e
promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a
farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL
e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti
dell’Associazione Caponnetto.
Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di
indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente
assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e
commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia
“Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché
più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo
in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai
più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la
vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe
dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono
oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra
all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler
privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo
mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato
la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi
ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché
il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose,
culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e
denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo
sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo
preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi
accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria
referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e
per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non
osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo
di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che
si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della
lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo
partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella
effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni,
del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione
Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio
quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli –
volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra
Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed
esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa
che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la
gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella
reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci
siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che
si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza
alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare
i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre
dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la
partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura
dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la
nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e
di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera
dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il
convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato
Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha
visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare
altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della
classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di
raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il
quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della
quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa
dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un
consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un
malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto.
Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del
PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri
confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e
lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto
probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente
ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché”
di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol
dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di
carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi
o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di
fatto. E’
solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità
e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non
funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di
“santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi,
anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che
qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e
dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per
elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando
in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che
troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed
all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella
democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è
Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che
universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione
antimafia?
«Innanzitutto
bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per
risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più
indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti
che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione
e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome
di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e
contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro
questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in
via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei
politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è
un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei
propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle
società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il
giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche
bene.»
Ma questo può essere solo un modo
diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non
è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la
questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera
che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa,
da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come
“antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera,
con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati.
Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano,
che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri
fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di
'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose
offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie
espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i
GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per
la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese.
Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle
grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e
connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al
fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che
impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al
mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri
fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto
importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può
confondere il tutto con un caso.
«Prima
di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma
una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il
caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti
delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale
tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha
una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle
propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome
della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi
immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a
Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un
bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno
eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale
chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche
in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore
con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale
era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il
sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi...
Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a
Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco:
Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”.
Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina
Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si
presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete
mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non
era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto,
che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione
antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come
macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni,
sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono
un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente
non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone
qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul
palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia
Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per
truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri...
quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del
personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano
decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI...
cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà,
sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi
Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del
Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito,
omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni
provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario
dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella
con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal
telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in
tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo
scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei
PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia
e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in
Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul
palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A
Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e
dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti
sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e
quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della
sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo
cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania.
A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente
spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali
supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e
salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di
quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don
Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li
ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le
amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e
continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova
ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci
la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora
la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a
Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e
dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della
politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei
palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura
indipendente?
«No!
Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi
che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi
politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di
smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non
vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si
faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe
intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza
dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte
vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera
ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il
referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di
centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino.
Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra,
quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra
gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può
quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza
marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in
cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi
vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da
stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera!
Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una
delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il
“locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i
propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di
Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia
SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio
nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti
di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene
confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto
di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie!
Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo
per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi
crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna
dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è
proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono
brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere
demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un
fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni
amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal
anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il
CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione
Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto
del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le
mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa
pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi,
con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito
Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di
smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente
sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai
una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la
Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le
società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la
PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento
lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli
incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche
parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra.
Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna,
presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la
“colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali
hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per
avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor
prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse
di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo
Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione
nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio
alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E
mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un
perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera
contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di
tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio
devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che
dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla
devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da
quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato.
Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della
non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere
“di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono:
indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta
ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione
della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere
provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore,
Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il
marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente
apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non
era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni
amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata,
apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta
legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può
nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha
risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo
direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un
candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni,
ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti?
Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va
bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo
sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non
c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti,
abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la
delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del
Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello
maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e
'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha
cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che
negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti
che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria
vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso
locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una
cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di
Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla
realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini
sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse
pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa
Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende
del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia
della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei
MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono
stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per
cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro
omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è
stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare”
l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A
Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco
politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli
amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che
svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con
ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria
fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte
anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie
nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e
contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è
stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi
ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che
bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo
con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che
dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo
sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante.
Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una
fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno
tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con
pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl
degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi,
Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL
dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa
Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata,
c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di
Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come
testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di
BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un
dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno
l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto
mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del
suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente
Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi,
le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la
vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra...
della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della
Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei
convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei
volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune,
degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o
addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai
MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle
varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi
abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo
imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi
annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando
non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da
un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è
consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente,
senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle
iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con
6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la
questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della
Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione
elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui
sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative
pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella
inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante
dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è
dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e
ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di
Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed
agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che
hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un
bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi
vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una
bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e
bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente
utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui
poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero
scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e
rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla
comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle
terre confiscate non è importante?
«Premettiamo
una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti
di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la
realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera,
che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed
alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato
“utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto
perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole.
Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà.
Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni
meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi
spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni
confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi
piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono
coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel
Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle
primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come
contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece
silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura
siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è
stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi:
perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove
sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a
ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è
evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni
confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro
di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati?
L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera.
Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni
usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e
conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di
accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è
davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel
secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come
“paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto
l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo
rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o
complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o
comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli
che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e,
purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora)
macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha
lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai
stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di
ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia
mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul
fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo
che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i
giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di
assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero
mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo
spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al
clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia!
Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in
questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati.
Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica
“Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale
quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di
vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano
usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni
confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime
percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli
occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei
casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da
terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei
primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare
Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella
pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo
stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di
Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari
per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su
un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma
fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo,
è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate
avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni
possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito
della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di
quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella
norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione
questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio,
in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati
dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per
questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché
“monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio
non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a
costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie
clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera?
Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non
c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che
testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo
che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona
fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano
di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che
non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare
questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e
risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di
ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale
perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci
sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e
perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una
terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è
acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto
meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per
farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e
comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e
denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci
mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula
dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che
conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo
consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che
rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui
volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e
si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose
che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente
ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione
corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e
perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi
abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili,
riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due
comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla
Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma
si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine,
odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra
fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di
accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare
l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata
effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa
queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì,
le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i
fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo
contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno
da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a
mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando
sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli
abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI...
poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro
esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa.
Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici”
del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di
Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti
tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla
Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la
variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe
provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in
Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando
in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del
Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano
promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho
letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non
funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora
questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era
salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che
in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente
l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi,
con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a
Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per
anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la
Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i
rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di
Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da
risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da
una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della
Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di
un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa
la strada imboccata da Libera?
«La
questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o
concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti
quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se
stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da
millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a
conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad
esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà,
né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e
cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha
un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la
lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un
problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura
nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui
i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una
quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione.
Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui
si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che
frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale,
che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini
legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio
Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di
tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le
elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella
spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del
boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio
Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni
del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto
dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e
poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con
questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso,
incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don
Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla
mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino
Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la
logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione
dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la
lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione
giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna
mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici
frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che
occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità
di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la
mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le
attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione,
prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali
illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è
lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché
Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con
la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci
fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la
politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie
indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso
obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative
“mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni
di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia
ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità,
connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non
è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come
il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve
il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna
ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il
dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive
delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte
ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don
Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto
della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi
nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che
se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne
avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere
l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso
rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare?
Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte
persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di
contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni
mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo
è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera
è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo
le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo:
visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per
promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E
quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un
ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come
unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi
alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le
mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni
giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine
per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna
mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto
è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre
maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni
Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla
vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni
esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha
investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera
regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha
speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala.
Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi
mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le
teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di
mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la
latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che
l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente
manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli
'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e
Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno
l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori
dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto
con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o
comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea
“ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E'
pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano
seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro
screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un
territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che
tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se
tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con
il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni
nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo
sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera...
magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si
rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare
da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante
si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera
dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E
questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera
torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il
presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che
abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è
fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E',
come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni
soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo
stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese
della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la
politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto
risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così
come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e
spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese
mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati
aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a
volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia
di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti
investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato
nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo
perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le
cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se
non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei
probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed
invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche
quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla
politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la
spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che
queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è
meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio
concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando
sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti
legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i
dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di
Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di
Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò
quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla
Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di
Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli
anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di
“educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo
asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con
il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro
che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi
crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione
della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No,
come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter
“abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per
quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da
“paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una
cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci
siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo
una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano
tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e
decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano
riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è
più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete,
non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi
convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della
Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono,
si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato
di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se
indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona
fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte
quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo
di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede,
per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto,
oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della
Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il
“nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno
fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel
briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi
in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come
stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per
quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente
no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di
omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti
ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo
mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta
società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione
spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti
“indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti
perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti.
Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad
una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete
poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe
Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno
domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e
parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far
vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare
impossibile...
«Sarebbe
ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni
anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi
non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno
cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che
vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella
sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta
di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla
concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene
e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori
dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una
diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi
cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei
ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli
permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è
sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore
Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche
qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo
problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con
chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora
totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli
esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di
Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via
Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il
Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci
può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A
Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come
pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione
della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei
Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di
Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il
Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente
regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato”
per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni
che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura
di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le
misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non
esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato
per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta,
che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è
presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed
uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle
risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione…
fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un
“atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza,
atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla
presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza
contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si
potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e
non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo
eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi
potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che,
essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto
che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e
proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di
Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica
ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere
presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà
consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza
viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo
intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data
conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di
Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante,
significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario
ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso
resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto
anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse
ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà
perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco
politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di
Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva
nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe
sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno
devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento
alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei
Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del
“faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro
grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad
Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata,
una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come,
Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa
consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro
lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta
all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono,
coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la
Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi
quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo
parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma
come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di
confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non
saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra
presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa
pubblicazione?
«Vorremmo
dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo
da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel
silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco
feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di
speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo
significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché
ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo
tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un
contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si
possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua
rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per
un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza
sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo
stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da
Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora
inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo
stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella
lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu
Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude
con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un
Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure
da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in
questo libro?
«Le
cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa
una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La
storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da
che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di
Versailles...
«Sì,
perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi.
Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi
dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha
vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia,
società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle
rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri
forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto
era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del
1922.»
Partiti dilanianti e
latitanti?
«Non
hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la
destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a
un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O
qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si
affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una
colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La
moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e
Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei
tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne
accorgono?
«Abbiamo
un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della
libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è
l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare
di ancora più grave?
«L’Italia
ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla
gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa
malattia?
«Mancanza
di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non
crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il
miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica:
che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono
cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto.
Mario Monti?
«Un
economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e
fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve
cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno
l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un
Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si
instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la
riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un
giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa
di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai
preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un
pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte
che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si
muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più
teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter
Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un
perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di
conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un
paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un
uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un
grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma
non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo
presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che
invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai
compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a
destra Una «strana» Italia divisa in due.
Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre
democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su
“Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio
dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la
cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i
mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a
partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica
hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata.
L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva
del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da
una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in
tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica
democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante
delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese.
Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale
antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento
anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società
politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di
obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza
silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno
progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema
tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio
senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È
rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel
ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno
strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della
sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro,
un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non
dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una
forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta
dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e
l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione
dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di
questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte
prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A
pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche
le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che
ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte
delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è
stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività
delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per
reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente
coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio
sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume
carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da
rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia
presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto).
Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei
partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da
maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della
società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo
dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è
progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli
stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un
sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto
molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato
svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal
Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena
politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa
dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è
stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica
all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla
polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di
maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs
Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato
la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso
dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti,
poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio
di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato
solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica
- e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse
sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di
attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente
qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non
meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della
«degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e
della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione
politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S,
rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo
all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme
dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo
protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il
tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14
anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici
uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su
“Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva
contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un
Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza
quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava
anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il
fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di
prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i
traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che,
nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il
sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di
seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò
l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più
notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se
ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno
spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite –
ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la
procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer
fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano
altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli
occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare
dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone
raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che
gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per
proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga.
Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo
l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 –
erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni
malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano,
Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia
di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri
del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il
carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di
Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne
brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al
padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una
brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un
maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul
ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua
pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro
della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile –
dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che
vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un
carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2
lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla
‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose
che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso
una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma
“nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata
ambizione».
Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale
di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo
Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila
euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò
questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante
del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri,
tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con
pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia
decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer
ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di
rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno
del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in
combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al
traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera».
La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma
il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta
da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a
delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto
ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime
responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un
distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli
stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer
non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo
assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di
immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i
condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou
Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu
(ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato,
10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a
Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi
ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e
Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra
il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la
solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa
dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta
vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della
carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del
decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che
dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di
sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97”
che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento
disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle
amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In
caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati
all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i
delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a
carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica
nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi
appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più
parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa
allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte
un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco.
Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata
di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza
contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex
sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio
in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di
condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di
ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di
militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di
malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie
condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo
provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del
Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante
condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al
generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata
ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle
istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati
arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di
violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro
custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di
polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in
carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della
Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel
corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con
l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla
concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse,
omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in
cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che
ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni
3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco
Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si
sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate,
sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando
sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una
denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’
altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è
partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due
carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano
coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e
della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo
anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per
sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A
Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto".
La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno
2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare
sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale,
"la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si
perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di
completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di
diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella
caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no
global arrestati e percossi durante il G8 di Genovanel
luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di
“assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque
non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi
dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese
definitive sette condanne e accordate quattro
assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i
manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi
processisui fatti del luglio 2001. Nel precedente
verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i
reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti,
carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili
sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza
definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al
comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei
sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto
all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle
consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla
motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi
felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione
vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al
minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità
di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le
modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni
ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il
“compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso
evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore,
olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco
perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea
difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di
quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli
spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto
esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre
i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha
mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che
la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al
personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò
non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto
dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia
da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro
comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non
necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni
e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei
no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le
violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto,
un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso
invalido dalla polizia:
"Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del
2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella
sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze
dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna
possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati
sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai
cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona
cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine
estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa
che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve,
raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi,
me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega
a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di
vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per
tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la
battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura
scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello
contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la
sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia
furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che
siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo
Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri
appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per
non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in
divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al
”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla
sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per
ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un
risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio
gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di
un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo
Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove
sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia
non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha
avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti
questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che
ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che
ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la
lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la
sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro
dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di
quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma
cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso
ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico
legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido
nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato,
certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa
impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa
attacca l'Italia:
“Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier
governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze
dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive
“FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi
risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate,
la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di
alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da
parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e
molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli
omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla
base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di
sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di
Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi
a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del
reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono
autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i
rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei
centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un
centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che
hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le
proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del
Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e
minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato
accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti
discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei
confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il
2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di
autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”.
Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il
femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la
garanzia dell'anonimato.
In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In
Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro
Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla
divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un
semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del
Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli
spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante
il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei
manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto
mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la
magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto
questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso
febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti
parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere
proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la
trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una
proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza
su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo
nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di
pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio
decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla
polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità
d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici
alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro
dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così
invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle
forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania,
Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma
qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato
l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del
parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora
adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana
non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti
solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici.
Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A
causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la
cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore
della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non
sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International
Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia
introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe
a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici
servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche
modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo
insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi,
segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante
violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto
mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare,
tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe
avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni.
Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da
parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma
anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la
poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura
militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico»,
un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non
ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema
di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le
forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della
polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a
Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i
suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa.
All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty
International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra
cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per
Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la
“macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe
succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso
di essere diverso.
“Chi non conosce la verità
è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.
Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son
tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri
compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva
censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità
storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio
i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché
non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai
nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere
diverso!
Ha mai pensato, per un
momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere
quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto
dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un
book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o
in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie
contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo
a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro
pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi
libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce
l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti
uguali.
“Pensino ora i miei
venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto,
quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA,
INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani,
giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a
ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati
istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero
di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della
Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it
con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né
l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il
Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di
clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente,
l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la
maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove,
nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi,
qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice
no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su
4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro
interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato
giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla
disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre
fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti
e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie.
Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice
Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una
corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come
direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere
per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione
e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà
giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli
estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una
legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto
soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la
notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del
Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a
dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene.
I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa
succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle
carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane
dentro?
2. Parliamo dei politici e
della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza
di dignità.
«È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri
italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel
quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i
detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo
Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le
condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere.
«Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di
un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha
sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la
rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E
invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea
tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone.
Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un
Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità»
per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere.
Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il
sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei
detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni
irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene
detentive».
3. Parliamo della
sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua
infallibilità.
Il giustizialismo. Nel
linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che
vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante
e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la
politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che
invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie
processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su
qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche
nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla
Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è
considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore
giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano
portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è
propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza
di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il
risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo
all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i
magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato
di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva
quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia
dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella
134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che,
malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un
malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era
comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il
plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987,
la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento
del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa
stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità
personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità
dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a
causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa
fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso
il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino,
allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a
quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un
terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da
una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge
ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i
magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto
che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di
condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante
le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha
acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n.
117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla
novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di
dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della
Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento
alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della
responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande
regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli
altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità
di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati
è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la
garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata
sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e
delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può
dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la
denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del
giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la
violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia
cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo
vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti
separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché
la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio
per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la
massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità,
anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore
giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo
gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze
sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i
giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa
tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo
sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale
Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse
infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe
andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia
avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno,
però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato
il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato.
Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il
calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita».
Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci,
pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché,
secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma
nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va
sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria
Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È
un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se
Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi
una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e
avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è
difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi
tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il
bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato
quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio.
Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che
Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile:
lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro.
Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei
trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome
se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo
un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci,
perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale
non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure,
«poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport
e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare
al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti
della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a
pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani
della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono
l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi
sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di
una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno
vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli
italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e
l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere
anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti
su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12
mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per
non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa
Chirico su “Panorama”.Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto
sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente
fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia
Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro.
Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono
stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli
ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti
innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non
costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del
tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad
aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro
era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo
nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15
anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose
di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non
sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le
sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura
del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga
ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono
persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da
ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della
nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di
primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è
stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta
il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una
inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale
che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure
cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per
Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille
atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto
sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di
Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo
piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti
con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio
di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori,
secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere
finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di
fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma
dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti
domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione
da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari
nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in
Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e
consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici
hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì,
all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel
dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non
sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che
giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti
infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito,
tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003
aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti
dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New
Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di
Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore
delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore
dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il
suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una
conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun
reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e
mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo
lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un
avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera.
“Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti
tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di
Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi
prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende
come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state
letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini
e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si
tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui
filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su
una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda
avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei
anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin
dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e
informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci
fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti
infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di
Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno
certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società
e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per
quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa
sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati
condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione:
"Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con
formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La
Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi
nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non
voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio
Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta
secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma
sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente
potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il
periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora
fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei
manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è
diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie
all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia,
tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val
d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però
non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo
affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi
che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere
finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in
Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A
cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla
telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era
stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per
noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità
delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in
Italia, subito.
«Sapevo
esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma
immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di
quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da
anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli
artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in
volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi
una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era
notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso
che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione
su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima
una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi
Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso
in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti
comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è
meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più
dura?
«Più
ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di
impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di
isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una
farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi
sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di
non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile
inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in
un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm,
evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti
domiciliari, un po' di respiro.
«Al
contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod,
l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a
Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo
solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana.
Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di
quell'anno?
«Certo
non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le
persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste
cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia,
oggi?
«Il
mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia.
Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di
garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con
tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà
della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio
di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei
giorni più duri?
«Mai,
neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la
mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a
rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia
famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei
suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia
"mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci
uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono
sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa
ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito
danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il
modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra,
per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco
dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che
ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto
per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne
polemiche italiane sulla giustizia?
«Con
fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio
politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che
vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a
proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse,
ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare
seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il
Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima
dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la
tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano
gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque
conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di
verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo
legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso
(sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare
misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al
carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono
passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di
vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una
persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma
continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è
finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza
una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si
potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE
A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del
giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di
Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla
Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario
di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982:
l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale.Ha vinto
Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle
cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren -
nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito),
e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo
una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero
del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato
ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del
1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul
70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece,
accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma
come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia
Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982.
Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la
Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario
durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della
Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti
accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione
tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la
causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta
al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del
cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in
carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso
suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia
all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la
famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo
commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il
1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si
escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film
ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni
successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata
congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione -
«l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai
quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni
successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una
retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film».
Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non
dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa
all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte,
rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della
Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un
reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922
milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che
avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren,
dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva
presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di
552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco
aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo
che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione
sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva
degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile».
Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre
la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la
liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini
abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di
sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974
(ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come
sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al
60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco -
in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di
differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla
certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono
fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate
all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila
euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente
si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il
miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti
speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente
ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia
Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni
quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente
pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma
l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe
potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela
presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati
andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul
gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina
e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera
- sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di
chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di
ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne
distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa
che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune
per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando
Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri
problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho
mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare
tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino,
tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto
no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità
venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il
gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha
fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié».
Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è
piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da
miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di
Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso
di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di
euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del
Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradonae il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha
reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio
Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino.
Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in
Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un
funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili
come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli
fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma
spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia
Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare
Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta.
Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il
fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di
reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso
l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che
già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti
annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario.
La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a
Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna
Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da
poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi
tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha
sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in
realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione -
notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un
eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire,
pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di
euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma
di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco.
Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero
Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode
perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia
a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39
milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il
fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore
argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento
al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro.
Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro
in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora
e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi
contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il
fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa
esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di
Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi
a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto
sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è
innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha
fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito
di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre
sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le
richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la
prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo
è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva
lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori
dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e
la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già
tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza
naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli
calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né
il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la
coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi
quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo
dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle
cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle
cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al
codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo
di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come
oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona,
Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e
fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi
e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre
al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con
cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per
eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva
all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i
calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle
società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi
avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il
fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona
e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a
quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero
dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca
fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto.
In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una
sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli
calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo.
Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il
passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni
non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso
Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal
sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e
Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende
a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia.
La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo
penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto
l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i
calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori
retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco
italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme
che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989:
quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo
essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione
non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si
fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque
sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha
provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché
tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua
ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai
poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in
Italia.
Maradona, l'avvocato su "La
Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi
cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di
pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2
miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò
faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello
accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè
trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a
"Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di
Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue
parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è
palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo
Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici
che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6
milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la
somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le
multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno
accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a
tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il
Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo
sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È
responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo
alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione
anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello,
definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte:
"Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non
essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato.
Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che
è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se
guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO
CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa.
Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi
nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha
incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un
carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha
voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane,
ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi
circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII
e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice
ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli,
mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti -
ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così
isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri
egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più
deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il
Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di
riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di
orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre
debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il
Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni
carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui
è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che
abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai
cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa,
potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata
da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il
fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e
mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero
e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato,
carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non
condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due
ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice:
"Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a
non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA
CASTA.
E poi ancora, neanche gli
studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle
elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro
che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni:
magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si
laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia,
scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo:
a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè
bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora
sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che
sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno
rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha
sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro,
quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio
post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una
casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano.
Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse
universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila:
soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi
magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può,
perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza
a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a
spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per
definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno
azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare
e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti,
quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di
sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale,
economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro,
i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex
ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi
all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che
Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure
lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando
disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un
laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il
lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si
chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della
vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto
che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da
sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non
si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani
italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo
ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto
chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da
quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato
italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una
percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa,
in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle
situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi
da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli
studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di
proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo
(l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà
viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci,
dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello
sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio»
ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un
lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non
hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono
diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE
COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un
evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di
avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di
migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea:
c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio
effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e
sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI.
L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana
editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle
prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità.
“Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa
alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla
commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste
predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad
avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla
corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il
sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai
candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine,
cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero
deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta
al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome
del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani,
in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro
Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non
riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di
Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a
suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si
racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista
professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono
gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di
eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri
allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha
superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una
professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri
intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le
qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del
resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che
Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di
esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le
sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose
nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su
1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania,
presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli
elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della
Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una
bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame:
troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che
alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20
minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto
l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia
mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste
commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito?
Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento
dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti
estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice
commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione
Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che
bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di
avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n.
1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si
accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da
qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e
rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n.
1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso
principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova
orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso
appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare
apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva
“ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta
recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta
di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione
sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR
siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal
n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del
19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa
Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato.
Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già
decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013,
presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un
giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui
cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande
cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per
sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da
quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto
lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di
1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove
orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato
alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una
media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni
sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è
caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati
furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per
irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di
quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai
commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si
rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle
ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della
Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi
l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro
che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno
più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il
sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema
di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di
istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche
caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di
merito.
Sicuramente nell’affrontare
l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo,
superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute,
compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà
qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte
le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a
giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI
TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia
di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco
Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze
dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido
ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad
ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino
indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia.
Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima
salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i
suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto
salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia
carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è
stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà
perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle
undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti”
da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra
itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice,
è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste
famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di
arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche
semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con
loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di
chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che
provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza
forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le
immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega
l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato
io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze
sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia
Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte
tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei
carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di
primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero
individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o
etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha
assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote
le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato
redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una
semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in
caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti
all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è
vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva,
che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà
ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il
trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico
Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre
2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono
arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora
stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a
Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non
escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale».
Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo
obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato
arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia
di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e
asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto
come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate
della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per
individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il
5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico
ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona.
Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il
maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo
della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua.
Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani ,
il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001
durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il
51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano
Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte
e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano
e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe
Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella
caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che
interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI
SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre
anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni
mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti
in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive
Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto
dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le
intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti,
interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso
insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà
36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà
nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia
storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno,
di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare
dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e
mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan
non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano
accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto
d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco
abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la
richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno,
poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè
piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle.
Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle
famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia
garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato
omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con
l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a
leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non
solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a
spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa
piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e
controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in
genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico
in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se
di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà
perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda
si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i
fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era:
un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti
si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San
Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente
attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il
pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati
alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà
a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un
cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno
del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La
seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice
ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo,
però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere
dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si
accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi
Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze
dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno
circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è
passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro
cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre,
per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”.
Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in
provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord
Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono
circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i
locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza
di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche
conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli
bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono
gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando
nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il
loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene
redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione
illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che
si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello
che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un
processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza:
«Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma
sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in
concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la
pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che
non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in
realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il
fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare.
«Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si
vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle
strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri
era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due
fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può
immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli
spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono
del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?».
«Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in
caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i
giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice
di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre
ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il
rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito.
Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né
il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente
la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto
si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi
approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni".
Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio
dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta
di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di
Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli
anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico
caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza,
al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta
è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli
avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante
l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti -
che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce
l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in
quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che
lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha
smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi
è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va
all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la
riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di
dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha
fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri
Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu
Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di
San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio).
Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel
carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai
militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di
Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di
persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976
presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina:
il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli
interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il
killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere
diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio
di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera,
scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato
trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta.
Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla
grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di
droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore,
riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio,
invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola,
popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città
d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un
libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di
rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono
scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a
fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano
indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene,
altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una
storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato
comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico
quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare
il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche
per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan
nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori
50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in
Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale
Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà.
Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della
Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora
aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema
giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985,
riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano,
Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex
presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo-
giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul
pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel
2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione
penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli
gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la
Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i
tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i
termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere
scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio
Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il
pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto
però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è
altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il
tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli
stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha
rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo.
La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo
del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e
ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti
quello che il Pd non ha detto per venti anni“,
è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama
(i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da
parte di Forza Italia).
«Signor
Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia
italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale,
etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che
si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono
ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi.
La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un
percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente
chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari,
corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito,
falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla
prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile.
Insomma un delinquente abituale, recidivo e
dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali.
Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi.
Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in
Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto
soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione
della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di
debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro
l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il
deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata
fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica
per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le
sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una
carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge
vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è
palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse
chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e
violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di
risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni
giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per
onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un
Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni.
Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei
deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV
legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante,
al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega
dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per
certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci
fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa
lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante
non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile
Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il
fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è
la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio
delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato
che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare
alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La
vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…)
L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal
finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel
momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica».
Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci
legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora
adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le
dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo
nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva
ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli
italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire
la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e
degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro
giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a
spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000
euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare
perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una
sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per
applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di
indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non
sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il
senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità
della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità
sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità
morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà
un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito
oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati
dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la
passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese:
disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno
zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi
dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo
Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento!
Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di
un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di
un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben
16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non
godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è
stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del
Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze,
una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri,
Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che
ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più
ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e
addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e
incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto
fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi
interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E,
invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per
cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto
all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città
sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando
Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti
tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali
informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si
conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali…
e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per
debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo
Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra
preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli
minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena
ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh,
sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene
svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece
un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto
del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del
sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di
rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo,
Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice
concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai
cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o
persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono
riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un
futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi,
retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola
Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del
"Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei
corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa:
"La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i
miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo
aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito,
anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è
decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è
ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso
errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida
d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle
che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il
senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio
Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente
Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che
voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al
Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi
in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio
Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata
di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre
riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del
Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E
il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per
la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di
collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e
ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di
craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in
questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono
routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida
dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo
punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E
continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male".
Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta
sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza
Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi
(Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire
Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori
azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al
voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola
persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al
socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon
senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di
interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da
fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i
garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una
decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro
responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che
governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E
con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato.
Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della
maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina
di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del
Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non
c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno,
figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo
Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi
Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della
stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per
Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei
media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui,
scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la
sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso
internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o
corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo
i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione
tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la
decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica
politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il
suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I
sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine
della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza
davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno
di lutto per la democrazia". Die Weltmette prima
Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex
premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e
annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla
sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari
davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo
momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere
sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo
come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di
Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda
Repubblica italiana. Lo Spiegelnon regala a Berlusconi la
sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel
sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il
giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi
assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti
giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non
Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S
pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico
"Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da
oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento
in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già
aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha
ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo
dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla
di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di
un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La
divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di
governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua
edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier
sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo
Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di
Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex
presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori
dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in
un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il
governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima
pagina del Financial Timesche pubblica una foto scattata
a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere
sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico".
Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph
scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un
nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di
rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato
ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una
condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al
Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di
apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal
Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera
- "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora
dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle
principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journalla
sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana
titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode
fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha
segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio
in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita
politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di
Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a
Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è
firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto
potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo
aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi
politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare
l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante,
mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il
Washington Postpreferisce invece aprire sulla politica interna
americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del
Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è
possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento -
scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente
nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo
El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo
dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla
sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery
di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista
spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti
giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia
spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la
sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola.
E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per
le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area
conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la
notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si
definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle
spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come
un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per
politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al
pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno
dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra".
Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha
dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro
Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Mondetitola in
apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include
"I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno
abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la
notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di
Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria.
Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto
di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio
Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal
presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista
Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano
brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori
Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento
che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di
manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della
votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia
"cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal
Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri".
Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi.
Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno
spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per
due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo
mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il
77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per
attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i
misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne
rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro
Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo
scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il
presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello
nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli
Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere
della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra"
(ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo
ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I
segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì
Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con
Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista
del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti
e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa,
dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence
americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per
tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al
«misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del
sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro
festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio
destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio
comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista
preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel
libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la
massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le
dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle
diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse
fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di
altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche
istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli
Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino
al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un
importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea»
(proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli
archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del
padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile
all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra
nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni
Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo
l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per
quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da
tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico
dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia
stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso
prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani,
direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il
passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un
assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte,
l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario
Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul
dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro
(fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla
autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su
Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di
Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su
Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a
dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro,
scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla
luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi
fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in
assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue
aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo
di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce,
innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread
(il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di
terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri
finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in
Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro
giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e
lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu
costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno
Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del
Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40
del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le
dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo
il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi
siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata
ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro».
Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico
Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano
Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che
nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia
dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della
Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è
l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in
dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha
sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»;
«La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire
lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera
preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà
precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il
bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si
illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra,
interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per
salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia
e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra.
Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa
e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni,
limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua
missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al
riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale
dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai
banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la
democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo
che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare
a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con
imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete
di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far
rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav
obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo
svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per
accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti",
scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo
dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte
scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti
pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la
volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier
spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a
Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare
l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del
vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su
Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la
tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca
Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre
all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due
premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe
significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a
Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania
con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati,
considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi
costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre,
con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di
fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti»,
rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà
nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al
posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a
soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero
se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di
euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati
all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier
spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano
perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro.
«C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda
Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del
nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento.
Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il
contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il
toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri
rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo
la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo
attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa,
un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio
Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più
tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che
sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una
frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si
raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma
non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto -
sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo
italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria
con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo
incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da
leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli
italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di
rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna)
la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto
ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili
dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato
possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a
regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel
suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto
emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da
un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare
l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due
sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le
stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi
giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma
innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula
dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica
prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non
poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai
suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato
sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e
forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il
tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della
Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che
tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di
disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato
avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura
grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura
distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico.
Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a
finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare
questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano,
in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe
dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre
alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di
riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che
scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson
e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle
riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet
show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle
procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele
espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto
chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo
per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai
pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13
agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver
accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una
balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della
Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in
relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene
accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con
sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta
irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver
acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore
avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore
generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per
la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle
successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al
processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del
gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno
di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del
superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo
appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il
parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o
dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della
Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di
Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il
coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una
fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non
ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel
nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale,
statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello
Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha
fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli
avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza
partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i
caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo
politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico
Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese
una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il
Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai
improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di
imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima
anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una
linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti
dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio.
Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche
quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di
varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il
potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha
mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al
momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo.
Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a
guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto
che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di
verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e
manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla
decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di
buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano
voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per
un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del
Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe
dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E
invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente
affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni
linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader.
Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si
autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di
tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della
storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza
tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i
tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate
dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso
perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del
perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe
dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi,
ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte
d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà
già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci
scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non
secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga
potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto
(decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il
cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd
di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si
presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26
novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha
dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come
per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si
sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale
sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È
una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende.
Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che
lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i
loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non
corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle
belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno
rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai
tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re,
si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente.
Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno
accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano
dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati
uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente
di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e
impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una
giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace
sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal
popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro
di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico
comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e
Md che fece scattare Mani pulite.
Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per
ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore
contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su
“Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova
Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani
magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino.
Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere
accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura.
Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La
giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e
più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di
potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti
in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della
società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la
prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale
discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta
italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo
giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema
fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti
privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso
l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine
giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante
cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la
sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e
delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a
«fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva
assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine
sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per
l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a
combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida
violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo
elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala
filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante
prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono
indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la
magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente
accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e
questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire
- «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che
fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche
prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri).
Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi
«suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma,
colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal
suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md,
vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito,
in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno
due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica
passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta
armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi
(economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in
discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro
assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale)
sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno
politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della
magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e
proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero.
Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente
interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci
sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito
il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di
look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo,
che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro
l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali,
che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita
dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali
e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il
proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di
un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds
uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono)
della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani
Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino:
Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad
opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal
perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti.
Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il
principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di
clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i
giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito
per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese,
rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua
Sergio d'Angelo su “Il
Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo
tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e
provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice
di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di
qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini
preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un
significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla
sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12
marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano
Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm
statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il
nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del
pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai
colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva
mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era
noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò
fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di
Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un
esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco
Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne
narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una
posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad
acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza
pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e
l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si
avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio
1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime
avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con
il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito,
che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge
Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore
Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei
poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si
rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio
sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e
metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori
di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5
ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo
- a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello
Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà
stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare
millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano
malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi
il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira
dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali
indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la
magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la
Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava
fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un
pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna
forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché
l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla
magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri
privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia.
Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o
promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine
giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento
letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini
fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri:
l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a
giocarselo.
Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario.
I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla
nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato
il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica
negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare
una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico
della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa
scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire
né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi
pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze
politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse
evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le
Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in
pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella
filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della
sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento
di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds
aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col
sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza,
ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era
comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono
resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed
anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine,
intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse
e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito.
Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del
potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era
interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte
si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso
Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut
amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare
eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di
mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata
abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli
occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il
nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto.
Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo
(ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne
ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni
personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti
cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi -
caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i
membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica»,
e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme
per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire
il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo
sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della
magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo
nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data
dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo,
aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler
dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 -
indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto
di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In
realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha
difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi
ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva
pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a
propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro
colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona
- il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora
rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può
senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi
(processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero
(condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in
favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md,
come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del
Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente
Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di
sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi
potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con
risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa
(I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il
pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione
Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando
del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo
è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e
territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale
del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della
competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette
«indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi
alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente).
Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo
dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che
peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a
vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali
democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani,
ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e
autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica
significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno
correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd -
dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai
resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una
democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi,
cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo
Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed
incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.»
Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il
cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35
anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in
pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano:
"Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio
Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta
Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista
giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare
in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo
dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee
precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che
rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di
Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un
fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare
carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma
nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di
sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché
sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex
Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog,
giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e
dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla
sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli
editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra
attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do
ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani
pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in
modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in
politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento
di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma
lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura».
Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il
problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che
vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm
contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto
politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono
le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono
all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e
quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle
toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così
capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il
progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero
Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura
che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui
pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i
suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno
come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono
che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese,
capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici
anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e
soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule:
«Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e
continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini
preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per
rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo
a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla
magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la
corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di
responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex
presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il
giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della
politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a
non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di
spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha
aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese,
l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra
caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora
più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha
scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità
antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era
antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge
Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto
che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle
assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il
cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe
aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa.
Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a
livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia
costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio
avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li
rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli,
singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare
appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha
finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come
leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare
solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di
«convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia
- anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare
quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri
leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della
politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e
ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con
Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha
colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia.
Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è
complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata
«jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale -
all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale:
vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo,
schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per
colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in
vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare
tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle
azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica
difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e
prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato
di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994
per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650
giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un
proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino
a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per
salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è
cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura
- unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a
discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per
frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il
contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato
prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la
determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia
paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai
tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del
processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare
i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza
furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere
che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo
successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record:
tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci
condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo
la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata
descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese:
semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il
paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche -
quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da
trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di
discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo
dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia
effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e
mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si
accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine
della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei
vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E,
senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva
non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una
gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere»
purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più
ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza».
Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di
Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi
possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti
fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere
ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso
sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava
la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per
inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna
prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle
modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta
inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva
provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di
provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile
ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le
sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un
videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì
«sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla
magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far
decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente
di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato
«interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la
decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il
centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del
dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si
entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il
mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della
Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di
infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi
elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il
Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30
ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che
per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà
ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza,
dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le
mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto.
Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -
che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al
Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la
prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però,
dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito
degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura.
Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche
dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di
assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle
intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i
vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi
inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un
po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI:
ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è
uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma
di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non
finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE.
MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata
di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici,
Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto»
un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è
birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso
alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali
vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo
un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana.
Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa
area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei
docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra
idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli
infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti,
carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i
nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i
Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle
istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del
Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un
problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013
dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in
assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica
rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è
arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per
concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello
Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il
riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di
Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile
l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che
non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità",
ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto
rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non
escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di
partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che
operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro
rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI
DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di
qualcuno e dei figli di nessuno,
scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per
poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore
un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna
Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia
Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende
simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i
giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni,
ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina
fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione,
questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante
preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e
dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i
cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due
principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi
del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica
Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di
giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un
Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido
ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di
migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non
sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso
passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi
alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi
europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la
prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno,
rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima
volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca
pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico,
usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta
sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers –
sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre
più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo
piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe
comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le
quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato
da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di
dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le
ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con
il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre
trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione
Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano
scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in
famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri
genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che
alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi
precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima,
risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe
dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi
governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li
spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando
si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti
già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario
Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a
20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca
d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25
anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001.
Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in
particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio
Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La
figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime,
Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco
spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la
terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli
24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30
quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino,
l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di
Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del
posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una
carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di
Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale
guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi
giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma
probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque
non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di
altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non
avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i
figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se
messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da
reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il
destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque,
spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per
sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a
di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico,
protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo
Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso
la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco
Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il
motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della
carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura
concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare
interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia
italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del
capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non
nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso
l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato
persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni
pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi
di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia,
tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della
Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di
Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si
auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed
alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o
delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno
Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di
laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei
Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il
romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna
la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo,
attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto
diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi
riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi
Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata
a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a
studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino”
(così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al
termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta
decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle
lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie”
alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione
2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori
sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo
seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di
nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono
spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare
l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver
svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo
38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon,
autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha
scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò
a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu
distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito
estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra
che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e
che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti
figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora.
Non ci sono
anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La
Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una
coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse
"perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi
(l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla
Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei
minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più".
Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela
l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi
"perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed
evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri
reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero
essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona
dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E
se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico
ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la
perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che
sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"?
Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è
un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi
soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste
alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le
persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno
presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è
normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale
differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi
ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile
intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la
felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé,
non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e
cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che
questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a
crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a
torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che
l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e
che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei
"fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando
autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere
"perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore
dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità
fatta normalità
con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo
Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti
poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono
«scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un
eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da
un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo
affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili
con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che
l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a
infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci
chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona
percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente
vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un
mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con
severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci
interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi
5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come
conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di
amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e
donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società,
hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione.
Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il
trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone.
Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le
nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia
nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle
generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun
peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società,
dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici
immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si
rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro
Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di
conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da
tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice
azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il
disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le
torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È
su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata
dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato
la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un
lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure
il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui
una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia
sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre
strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è
invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini,
preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente
scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e
si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente
variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da
letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di
biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare
delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti
sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra
dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di
dirlo apertamente:il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa -
è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta
di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare
un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di
senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è
stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a
nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole
ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose,
perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei
rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in
montagna,mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato
lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che
arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho
cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come
fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo
fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che
devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che
pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo:
come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di
noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i
rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche
bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e
dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze
principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi
diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla
loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la
passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti
noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda,
la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe
istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero
fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo,
ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI
PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di
Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie
Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella
classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche
temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte
polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei
carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più
votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da
scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e
piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come
la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi
abusivi,
Villette abusive, abusi
sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare
abusiva.
Appalti truccati, trapianti
truccati,
Motorini truccati che scippano
donne truccate;
Il visagista delle dive è
truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna
cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia
sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia
bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di
no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non
rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta
per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no,
commando omicida.
Commando pam, commando
prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo
stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non
più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no?
Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai,
primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo
plasma dico no;
Se dimentichi le pinze
fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti
devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce
l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze,
viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma
un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia
gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la
terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una
pizza da solo;
Un totale di due pizze e
l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia
evviva.
Squerellerellesh,
cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè
nainananai.
Una pizza in compagnia, una
pizza da solo;
In totale molto pizzo ma
l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no,
scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere
fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la
terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice
in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale
italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e
dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre
ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel
rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha
impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la
reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese
e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura
collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro
contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base
mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i
propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la
propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in
quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis
«senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata,
disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale,
disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della
impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché
viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A
giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della
cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale.
Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno
scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle
precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato
una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani
che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato,
passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto
nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente
rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio
sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9%
dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine,
occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di
italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il
Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non
riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi
raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani
che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un
impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per
la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha
attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure
quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei
cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica,
non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie
difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di
ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis
vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più
attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel
turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in
carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle
centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più
di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale
condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella
grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in
due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e
di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di
radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale:
dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla
elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli
strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita
massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo,
secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la
connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti
«restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo
particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per
la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e
nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non
potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica».
Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni
«perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi
delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente
politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire
la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può
sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della
mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario
per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la
personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione
delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide».
Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di
valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari
sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se
lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si
pensi».
Quella che emerge è una
nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle
leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle
campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza
dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di
euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato
con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio
da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli
attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia
il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato,
perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di
Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la
funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra,
questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà.
Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non
esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti
parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire
lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto
quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato
- di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La
pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che
rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di
polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della
Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che
abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un
segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione
clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di
reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media
nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della
polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono
relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per
cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per
cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non
attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei
clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il
capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si
intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini
commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto
turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare
la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto
all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini».
Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura
deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a
una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi
nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto
procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria
del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione
nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a
corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata
promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per
protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo
ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la
Diaz deve valere anche per i cittadini"
"La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e
non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della
Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non
solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è
personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti
mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la
tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i
ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla
pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici
decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi
come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo
differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per
i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate
su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori
pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo
un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore
generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno
giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare
l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità
connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di
procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti
d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la
irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione
degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e'
conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato
o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle
istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza
obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese",
diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua
lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata
ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia
dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la
politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i
burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro
stessi abusi.
È una fotografia impietosa
quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del
Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da
Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale
sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale,
«comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle
influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come
«condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di
fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda
spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del
«balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente
segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale
che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la
realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità,
lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa
"senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno
"poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese -
indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è
fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale,
dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia
altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia,
investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e
il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica
evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale
va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non
filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in
un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza
non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni
low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri
lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella
violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità
organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli
immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi
tv.
La minoranza industriale,
dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla
conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non
possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa
notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel
futuro.
La classe politica, scossa
dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono
trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per
uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e
innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi
mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita;
minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in
un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di
appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno
gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni
individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis -
per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia
intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De
Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso
autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione
pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un
atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non
stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una
rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi
dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così:
sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però
non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai
quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può
essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e
l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da
tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi
intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande
delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la
metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più
piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del
peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha
più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo
Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di
meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro
da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati
tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le
formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era
possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni
“alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in
interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo
pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non
è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di
autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica.
De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente
democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe
dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del
partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani.
Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la
sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della
mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico.
Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili.
Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il
militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto
questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere
padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il
boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se
stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il
marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio.
L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei
figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del
capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm
uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure
collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche,
a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio
2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti
che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di
"squallide consorterie"».
Per il Colle è importante
«alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire
fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e
dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione
adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto
dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da
parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche
misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in
"pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche
trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della
‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese
senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese
senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale,
di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi
condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese
«sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È
dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto
aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da
marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la
politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del
‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti
problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia
Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il
rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si
riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono
solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più
automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi
principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità
e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di
presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata
da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge
del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei
politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere
sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e
visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi
qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva
molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo
indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il
divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di
ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di
offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per
fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la
par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta.
Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti
presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono
ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori
dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel
silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta
per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali,
cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più
di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a
deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa
è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il
sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le
prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la
processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un
deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è
presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un
deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi
uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando
serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia
tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i
difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso
rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i
politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva
dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di
“Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca
demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal
quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine
pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime
istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia
quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli
italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei
vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i
sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli
immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la
maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche
l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto
riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci
abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle
indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore
di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella
disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra
preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e
delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli
altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in
fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei
18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica
come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza
freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un
mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste
classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli
italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la
crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte
politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare
e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende
democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta
dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il
più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche
da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese
dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra
inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e
uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa
del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del
2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli
elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il
titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può
far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive
l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la
gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non
essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema
giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa
ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua"
e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio,
con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del
"trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini
stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio
governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina
dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono
chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della
maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio
portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana
urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera
italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una
sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The
Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si
sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad
inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora
simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che
sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana
all'estero: sempre più opaca.
È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio
Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso
noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere
(dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più
importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli
altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa
estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce
vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo
cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici
burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo
fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi
riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di
arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze,
concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The
Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa
d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre
impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il
proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue
spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi
non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza
posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che
però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove
strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda
l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il
fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la
“paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno
fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con
i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in
una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono
anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione
all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi,
invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche
dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca
anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel
modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo
elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare
dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di
minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della
professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora
sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche
negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi
anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”,
non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione…
nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in
situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè
convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di
prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra
coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che
queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli,
ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in
preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere
prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi
cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta
che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del
Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che
partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve
essere:
chiara, facilmente
comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da
elementi superflui;
precisa, priva di
indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon
senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini
davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e
comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in
quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è.
L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la
presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive
Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore
al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del
testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte.
Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del
governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56
decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di
500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che
quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi
sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i
tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della
commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da
Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000
anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne
adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni
bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare
lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe
opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o
anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo
perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario
necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera
a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo
comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati,
determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio
dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il
ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una
legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I
moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa
ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo
catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale
berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più
facilela lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il
18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi
normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire,
modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi
espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni
rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in
regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione,
contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara
comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli.
Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del
governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il
termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del
decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla
legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009
dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con
modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il
punto: che senso c’è a incendiareun po' di scatoloni di detriti
burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di
«acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle
regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti,
incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della
facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le
istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in
italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa
seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero
comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli
armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in
disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un
elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare
restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere
incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock
dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street.
Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari
cercando di non fare gli errorisui quali, nello sforzo di fare in
fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno
segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via
per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma,
l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di
non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti
arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con
chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a
dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la
legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due
mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e
codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del
governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2
milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle
ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per
tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30
dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11,
comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni,
dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi
legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della
Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La
Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme
della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza
– sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista
o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che
non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei
seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato
l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di
liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di
esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione
della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la
decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può
sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche,
nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo,
dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le
liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme
sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla
coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto
almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni
regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste
«bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza.Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta
Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto
unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di
maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più
vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e
Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto
dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte
affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio
sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo
stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici
Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio
di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI
INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A
LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE
INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA
QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma
giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione
di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le
leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della
durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi
delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi.
"Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione
espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le
precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla
legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte,
mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si
parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva
dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente
si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge
disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova
sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In
quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per
incostituzionalità.
Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza
di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 –
Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di
una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma
cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della
decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai
Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario,
provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum.
Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro
ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 –
Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per
deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente
valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila
elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi
tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art.
79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80].
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad
eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata
se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è
raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le
modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per
desuetudine.
Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione
per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di
efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari
grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali
l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è
l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc
(non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla
deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma
"derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata
cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva
retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano
necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo
scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo
implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle
citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi
disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone
che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale
regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a
rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore.
Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è
ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo
costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare
un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può
essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del
fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di
irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le
problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle
problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con
l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno
può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu
commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che,
secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna,
ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu
commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui
disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente
vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate
perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una
delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è
richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel
codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali
o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti
amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente,
elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La
conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di
nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge,
nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma
occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la
nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla
legge.
- Inottemperanza alle
sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi
previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non
si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi
essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi
degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo
la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti
amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il
cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto
avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo
(espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di
libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa
forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali
casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto
con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare
ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia
elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse
pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione
comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di
attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in
quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta
quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra
amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza
assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le
cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che
sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le
conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica
in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di
giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono
invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono
essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza.
È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità
dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del
soggetto;
quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché
emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta
per territorio;
quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica
amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta
per materia;
è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una
materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza
dell'oggetto;
è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato,
indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello
stesso sesso;
e) inesistenza per
mancanza di forma essenziale;
si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo
(solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità.
L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi
essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto
stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo;
l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non
esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto
amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di
illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso
di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza
relativa.
Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse
amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica
tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre
vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei
seguenti casi:
- quando un organo
gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la
potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un
atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di
amministrazione.
b) Eccesso di potere.
Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di
cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o
quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di
consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile
soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge.
Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti:
si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le
regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla
legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto
illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere
eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto
ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un
provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice
amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli
effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere
suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima
parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una
volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del
provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal
diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel
grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto,
l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle
altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come
dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina
delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento
del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus
civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto
processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto
inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che
l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella
pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie
prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza”
dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi
pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa,
la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza,
creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche
funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi
di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il
difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la
giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza,
quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies
e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il
rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione
o inapplicazione, che considera l’atto tamquam nonesset e non lo
applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne
prescinde, ma non lo espunge definitivamente dalsistema - mentre la
nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia
amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo
ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro
giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte
Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est
administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra
in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un
segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie,
la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto
amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti
consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di
nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la
osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi,
vel supplendi, velcorrigendi) l’opera del legislatore del 2005.
Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il
legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo).
Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della
categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per
contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale
annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere
agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il
giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del
sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La
storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in
realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando
una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA
allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato !
Non
sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della
Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino
che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi
interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare
risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di
questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o
meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di
difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica,
essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti
gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto
anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in
maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi
con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi
anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di
conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento
sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo
questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari
governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi
illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere
alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi,
modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello
Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e
quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per
effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento
illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli
effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe
affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico
nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto
che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab
origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e
costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata
di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero
prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri
economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate.
In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo
concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto
darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice
ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno
in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio
di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la
problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata
successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto
alcune:
“Mentre
l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è
giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare
alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche
ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma
anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è
sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche
quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è
quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il
fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in
giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia
retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di
norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che,
sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato
luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del
passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di
provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli
effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza,
ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o
processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce
di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando
fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla
Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per
effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale
effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più
impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997
n. 7057).”
“La
retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte
costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle
situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla
decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione
dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in
quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato,
con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia
24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la
legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività,
specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica,
incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali
principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del
giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto
precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà
giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia
intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art.
13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore,
adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere
dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato
a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio
secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte
Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il
limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata
nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette
additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il
ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli
effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una
parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non
altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più
complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la
Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata
giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che
siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri,
quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere
il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte.
Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la
consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto
riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà
dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo
avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla
Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora
il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi
dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge
elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi
costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti
sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze.
In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge
elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le
motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno
rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime
settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da
ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di
deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni
materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di
legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto,
bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è
(dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la
giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il
fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista
sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla
Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano,
anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia
perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che
compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di
efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma
della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché,
sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di
questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la
popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili
e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in
animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo
rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti
a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio
Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale che ha portato
quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che,
più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo
un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo
ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e,
più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di
Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per
tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in
tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte
costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista
a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica,
la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un
Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi
sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete
presente le nane bianche?
La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella
viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è
quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive
Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione
d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del
Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle
politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla
Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo.
Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le
fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che
consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama.
Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito
l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i
tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può
modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo
massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le
decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema
non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il
procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato
questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei
partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel
1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i
privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come
il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici
donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante
dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla
Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a
intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire
delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che
si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche
rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla
responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati
dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al
novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il
cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e
degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza
difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola
aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze
intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato
che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello
del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in
vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai
nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della
lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci
risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete
solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e
siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici
arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se
stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori,
decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire
sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il
padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno
Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano
il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in
vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono
in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto
d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato
fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o
l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo
culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di
cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo
odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per
cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo
sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo
abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa
che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete
voi.
Parlamento dichiarato
illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata
dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli
effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa
illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale
solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello
Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte
le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte
Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è
illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima:
paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo
senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di
chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo
di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!"
("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa
sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici?
Si chiede
Domenico Ferrara su “Il Giornale”.Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina
alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del
Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento
delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo
tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a
impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la
magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi
del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine
rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica
italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto,
incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge
propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza,
la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso
dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto
decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima
decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata
peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta
dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno
pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le
dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento
di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa
situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a
intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del
codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte
Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè
che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i
magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento
discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i
lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal
Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro,
cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta
all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse
possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione
amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la
decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi
sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri
del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura
ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni
date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene
di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione?
Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di
minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi
etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o
il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con
buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi».
Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino
intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”,
i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del
Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora
della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato
ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di
particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico
leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale
di fiducia del
Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il
padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del
centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla
legge elettorale,
sui quesiti
referendari,
perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per
esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione
Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la
tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia
Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul
cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito
Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti
dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce
dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che
venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al
polmone poi.
Adesso il giurista incalza:
«La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso
una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio
attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti
fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una
sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha
previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità
di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della
sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo
classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque
dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato
dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha
sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta
delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere
compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a
Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la
sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed
eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della
Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate
le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera
stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine
di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo
di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato
l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è
ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non
con un atto eversivo».
Come deve avvenire
l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato
per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della
Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe
subentrare?
«Quei seggi andrebbero
ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi,
a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al
Pd».
Un terremoto che avrebbe
effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si
tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede
all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione
sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle
motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza
dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio
che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il
Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un
imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche
chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive
indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse
dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO
PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista,
Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto
(sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli
ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono
l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I
nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si
può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli
avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati
e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti
uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati.
Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra
idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si
risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali
esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di
Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per
gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di
vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici
spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non
sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto
e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non
ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo
se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un
periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché
farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI.
NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei
Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta
ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato
molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate
al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di
giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma
anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati)
dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che
possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte
perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così
un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre
meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a
difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello
stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di
percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre
meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il
basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa
ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo
ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti)
rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite
dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di
una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta
posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della
professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del
ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least,
viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti,
il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto
impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in
materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale
unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in
queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia
amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici
riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale
operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano
nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo
cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di
detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto
autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di
ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa
significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si
muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo
quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche
che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la
cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e
proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE
PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5
Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle
lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto
per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si
faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili
lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore
c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel
corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che
diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha
aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano
ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti
di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con
la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati».
Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale,
a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è
spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto
l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione
Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle
pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la
faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari
del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il
dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi
mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono
dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione»,
giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro.
«Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e
iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio.
Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad
alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di
alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto
l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso
dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19
maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle
che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali
per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola
profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni
senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un
emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per
i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che
prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda -
spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi
e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe
elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a
seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a
5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono
impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le
stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale
Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del
centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex
ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di
lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi
scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro
Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in
una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se
provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella
fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della
verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di
fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla
Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il
servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione
mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in
nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono
Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per
entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo
malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova
nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in
nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di
destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il
questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo
Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i
regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i
regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi.
Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente
del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge
che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al
momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA
MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi,
da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti,
naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una
dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli
italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo
l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli
italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta
per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta
l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica
distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e
finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di
distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta,
prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto
casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla
fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci
impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei
denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli
svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può
essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico,
correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che
impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa
sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e
soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture
odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica
alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di
ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso;
ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di
popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili
determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di
vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali
l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione
sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio
– basso.
Perché il Servizio Sanitario
Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico
accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al
pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica
pubblica?
Andare dal dentista gratis
è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a
pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite
odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito,
insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per
averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la
parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere
e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi,
può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale
carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono
avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di
altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche
convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi
dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono
però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti
regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o
quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche,
con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da
un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la
morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così
forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi
legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di
sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una
ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che,
presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa
Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre
degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama
mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio
antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e
fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema
dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho
affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per
esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26
imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi
nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per
l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di
Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo
asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato
pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non
si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è
stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi
bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per
una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio
2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata
pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione
Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia
odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le
difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se
tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente
da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento.
ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta
valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera
e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto.
La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo
della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con
gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale
Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta
allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati
ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere
vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente
dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio.
“E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le
prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del
Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza
denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”
La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte
da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si
chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo
dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io
aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha
portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande
lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante
sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì
culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere
sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende
alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre”
che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una
buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura
pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare
le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso,
non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o
vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico
nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi
soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato
un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali
ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti
impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno.
Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl
che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi.
Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza
odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai
non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature
(mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è
molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi
quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo
dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con
i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola
parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari
Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare
quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce
sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di
abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale,
diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli
protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si
cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando
degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN
non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande,
siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito
attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti
privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione
del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per
aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato
basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è
possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che
non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50%
di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede,
caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come
molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per
occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con
serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni.
In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e
non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti
lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture
come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri
professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il
Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua
consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza
fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014,
perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista.
Da un ospedale
all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile
ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì
11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la
differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver
Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente
anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora
morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa
drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un
dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana,
18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare
immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore
era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più
nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La
Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma
purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto
specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata
portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno
tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva
invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite
polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo.
Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è
stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste
la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale
con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di
malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella
periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà.
Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista
scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di
Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un
infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato.
All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di
vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare,
condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della
pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al
Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di
rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I
medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne
hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel
quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal
di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare
senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi
degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi
economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo.
La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata;
qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che
le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico
polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate
ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il
padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino
Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una
bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre
lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna
con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del
Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa
dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà.
L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è
insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in
prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto
soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla
terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del
nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso
l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata.
Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono
apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una
fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai
polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le
condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la
settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna
inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo
non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura
dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia
alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite
odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale
Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore.
Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica,
settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da
spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega
una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive
“Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un
fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari
e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un
ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi
economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto
d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le
possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la
percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco
Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può
permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le
liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente
di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e
situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che
nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il
settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le
prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari
nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un
allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli
avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il
“Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico
(spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che
significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere
un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la
retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella
professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato -
rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze
professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il
costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60
MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile
Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo
rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive
Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia
si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in
60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa
ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è
in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in
particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario
2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione
annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet
"... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto
calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al
rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e
Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha
scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla
corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano
opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei
commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio
di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione
negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e
cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban
Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60
miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra
sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra
che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo,
magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un
rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille
miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione
corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa
percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi.
Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la
cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che
non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI
DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non
capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio
Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta
letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma
ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri
ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la
gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa
informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun
pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed
ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non
rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi,
invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra
vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un
indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può
essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono
scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò,
addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie
di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle
conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime
d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto
dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e
miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media
omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul
delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in
modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di
quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto
di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014.
Ore 22.00 circa.
Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori
che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur
sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano
non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi
dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non
creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle
sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga
lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno
all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur
invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici
coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha
detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani
potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui
l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto -
ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi
vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente
immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto
infondate».
Se lo dice lui che è stato
Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi:
«Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io
sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto.
E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io
non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi:
«Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle
migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata.
Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere
addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e
rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a
dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo
istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio
del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina
capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il
concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento
malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia).
In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una
distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la
"schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del
2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha
definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio
Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto
(sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli
ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono
l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I
nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo
diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni
soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati,
avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio
fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di
parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico
Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi,
facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di
conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che
noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che
capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio
noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA
ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO
STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori,
o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr
Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal
Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti
foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione
fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013.In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del
2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo
Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia
sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture,
insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle
sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati:
colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i
tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi
delle società nei cosiddetti paradisi fiscali-
Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti,
hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non
contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi -
dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano
a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli
italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera
che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli
effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno
scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati
fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202
arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno
avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti
per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori
completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da
5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette
scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come
tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di
lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore
fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente.
Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime
attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone
avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco
enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di
fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi
previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il
buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà
sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da
pensionati e contribuenti. Inps,
Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il
Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e
Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex
Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un
rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo
sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e
Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato
italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle
pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a
carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo.
Forse
che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle
pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di
raccontare la questione delpresunto buco dell’Inpscome se fossimo dei privati e non
mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è
semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande
Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8
milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che
andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il
costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso
mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e
pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un
modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei
privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta.E vi
spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva
semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici,
ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future
pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo
il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se
volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi
(dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994
si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo?
Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno
per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese
con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa
così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale
pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di
cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un
problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel
passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al
ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci
capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non
versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca
avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non
ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha
anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla
fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine
quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è
il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si
accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore
privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur
assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe
trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il
medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi
all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere
molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il
dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente
è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello
Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la
fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per
mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si
è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il
suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre
quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare
tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva
il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto
una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di
quanto riceve in termini di assegni pensionistici,
scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione
Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti
previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei
liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il
bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va
detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari
italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora
in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il
rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i
contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una
situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in
Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in
piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di
soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro
incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici
silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero
professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata
dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali,
poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la
pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli
altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari,
che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel
mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente.
Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non
supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di
popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento
della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal
governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non
tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo,
ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno
vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO.
LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967
- Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo
(che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni,
telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai",
quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino
Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle
classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della
sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da
elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi
d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè
snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali,
scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù
da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria
collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga
misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista
inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti
quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le
bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e`
scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto
che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti
quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a
parlare d'amore
e scoprire che va sempre a
finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto
che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti
in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a
tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma
senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto
che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti
quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi
piange davvero
e scoprire che è per tutti una
cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto
che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La
sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre
il significato originario.
Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa
infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012
(fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of
office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione
dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e
scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono
indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e
comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”.
Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano
il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e
burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le
grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento.
Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le
stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di
capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al
nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi
tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO?
A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione
pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di
risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente
casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una
parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali,
rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le
battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né
in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda
l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in
Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da
compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’
plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta
velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi,
che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo,
dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di
sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione
politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente
protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a
prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare
le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le
regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in
discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la
strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto,
si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio
cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme
possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti
locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il
primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai
cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli
stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di
consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome.
Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in
definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha
verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori
sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15
punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di
ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito
dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che
in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e
quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio,
conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti
perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli
occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono
“la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre
insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti
politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a
far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente:
gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di
quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e
Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex
magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello
mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”,
“diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai
termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44
Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di
immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro
per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove
saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio
delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza
andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di
Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli
Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una
certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza
offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che
non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera,
scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante
esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della
fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di
dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia,
sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi
italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco,
rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una
visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale
e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il
cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se
le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non
possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo,
consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono
il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI
STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi
"non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra
ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino
Labia su “Panorama”. E sono
tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal
popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con
l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi
(il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato
a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd,
sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo
convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche
alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica,
quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella
segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità
visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di
stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei
nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi
è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a
via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è
stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo
alcuni:
- Governo Letta
(2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo
lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti
(2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo
D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini
(1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi
(1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De
Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi
Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di
crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo
Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della
Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in
questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare
Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento
attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle
segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da
Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più,
Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere.
“Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero
prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto
varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un
ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi
vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si
sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una
durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di
Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive
Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno
noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del
presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e
mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo
facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi)
a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro
ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto
dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta
di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il
ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È
un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del
dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro
intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era
prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del
Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose,
la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia,
pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce
probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda
legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella,
Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla
legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto
censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel
1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle
forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda
legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico,
come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri
degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la
Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri
altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che
avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza.
Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo:
anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del
proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel
giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e
democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque,
non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto
presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne
dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma
fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica
Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici.
La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo
Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le
staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le
elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a
testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di
spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia
vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a
legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per
premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in
più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De
Gasperi e
Berlusconi.
Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi
è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato
costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto
per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da
dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il
presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere
la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide
se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche
togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo
dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il
diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della
Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto
ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi,
pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore
di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga
l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la
sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura.
Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne
fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento
satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia
esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa.
La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia
legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una
Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e
non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta
incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente)
Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere
(ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un
adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di
quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno
da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola.
Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è
necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e
menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli
ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente
del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando,
ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia
recente, Berlusconi
è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva
più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu
approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti,
che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta,
che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono
state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di
governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli
altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal
Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione
dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non
piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e
che soprattutto
si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla
Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a
dimenticare
(così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del
Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere
l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da
chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti.
L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e
nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza
elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non
dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la
democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si
uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti
e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per
gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci
che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le
mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la
Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione
ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene
eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le
elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente
della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del
Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari
cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e
il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in
grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad
elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo.
O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso
votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il
nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A
partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei
sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale
maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito
questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e
centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un
leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non
essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del
Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della
Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare
il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si
formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di
un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza
completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi
piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione
non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI
DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014
gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti
da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio
Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro
Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno.
Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti
pubblici.
«Al fine di rendere effettivo
l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri
per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di
questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI
DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei
non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di
pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro
attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un
reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base
all’inflazione.
L'onere ricade sulla
collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono
publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal
reddito complessivo.
Le attività professionali
svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o
contributo.
Sono abrogate le disposizioni
di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e
diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un
brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali.
Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la
magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia
massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel
brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il
genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come
già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante
rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae
più)
Abbasso e Alè (nun te reggae
più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae
più)
La sposa in bianco, il maschio
forte,
i ministri puliti, i buffoni
di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae
più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei
commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te
reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae
più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae
più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti
Pirelli,
dribbla Causio che passa a
Tardelli
Musiello, Antognoni,
Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera,
D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio
Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te
reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te
reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in
panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun
te reggae più!)
Il nostro è un partito serio..
(certo!)
disponibile al confronto
(..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al
mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun
te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto
cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la
matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me
sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE
REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber
(1972)
Vorrei essere libero, libero
come un uomo.
Vorrei essere libero come un
uomo.
Come un uomo appena nato che
ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con
la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa
l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo
compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un
albero,
non è neanche il volo di un
moscone,
la libertà non è uno spazio
libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero
come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di
spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e
che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha
trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un
albero,
non è neanche avere
un’opinione,
la libertà non è uno spazio
libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un
albero,
non è neanche il volo di un
moscone,
la libertà non è uno spazio
libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero
come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si
innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la
forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di
spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del
pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un
albero,
non è neanche un gesto o
un’invenzione,
la libertà non è uno spazio
libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un
albero,
non è neanche il volo di un
moscone,
la libertà non è uno spazio
libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” –
Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda.
Così
cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star
sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno
spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda
“chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti
diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie
opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece
non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la
rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora,
prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione:
partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi
essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non
esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e,
naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se
analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole
sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto
comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro,
per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo
vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di
libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto
di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e ,
purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi
gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche
quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non
dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad
oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli
altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione
della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il
diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase
continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere
liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno
nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti
ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi
fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza
strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità,
rispetto dell’altro, partecipazione,
lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per
un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla
criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”,
giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà
necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come
una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo
Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un
sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini
raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio
Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei
fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a
spiare
O meglio ancora a criticare,
appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo
comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati
grossi
Non è mai intensamente
peccaminoso.
Del resto poverino è troppo
misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il
computer più perfetto
Lui pensa che l'errore
piccolino
Non lo veda o non lo conti
affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il
furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel
regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei
vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a
risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare
il giusto
che io ogni tanto mando giù
qualcuno
ma poi alla gente piace
interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di
mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po'
meglio.
Infatti voi uomini mortali per
le cose banali
Per le cazzate tipo
compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po'
rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il
mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la
vostra carità.
Per le foreste, per i delfini
e i cani
Per le piantine e per i
canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di
riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa
ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più
bestiale
Che mi fa malee che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la
faccia
Per darsi un tono da cittadini
giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi
servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e
nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella
merda
Fa molto effetto un pezzettino
d'erba
E tanto spazio per tutti i
figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri
subdoli altruisti
Che usate gli infelici con
gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro
cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel
regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei
vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per
primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave
persone
E dove cogli, cogli sempre
bene.
Signori giornalisti, avete
troppa sete
E non sapete approfittare
della libertà che avete
Avete ancora la libertà di
pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e
interessanti
Di presidenti solidali e di
mamme piangenti
E in questo mondo pieno di
sgomento
Come siete coraggiosi, voi che
vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili,
deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio
compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro
umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della
stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a
tanta deficienza
Non avrei certo la
superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel
regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei
vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la
bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei
ministri
Né gente di partito tra le
palle
Perché la politica è schifosa
e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno
questo gioco
Che poi è un gioco di forze
ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno
questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del
mio trono
Direi che la politica è un
mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a
Platone
Che il politico è sempre meno
filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro
scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui
vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di
parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose
da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne
può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi
incazzare.
Sarebbe come fare inutili
duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai
vostri livelli
Un gioco così basso, così
atroce
Per cui il silenzio sarebbe la
risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un
Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son
proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e
schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei
essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi
sodomizzato
Preferirei la più tragica
disgrazia
Piuttosto che cadere nelle
mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e
riservati
Ed ora con la smania di essere
popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete
anche capaci
Di metter persino la mamma in
galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza
normale
Che la giustizia si amministri
male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non
si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un
po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche
come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una
macchina infernale
È la follia, la perversione
più totale
A meno che non si tratti di
poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è
proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non
essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la
gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui
costumi dei sanniti
In modo tale che in questa
messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si
confonda
In modo tale che se io fossi
Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata
immonda.
Ma io non sono ancora nel
regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei
vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una
macchia nera
Una specie di paura che forse
è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni
i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili
avvoltoi
Dei pescecani che non si
sazian mai
Sempre presenti, sempre più
potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo
momento
Son proprio loro il nostro
sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo
stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro
imperi
Una carezza ai figli, una
carezza al cane
Che se non guardi bene ti
sembrano persone
Persone buone che
quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal
freddezza
Che Hitler al confronto mi fa
tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili
bubboni
Ormai son dentro le nostre
istituzioni
E anzi, il marciume che ho
citato
È maturato tra i consiglieri,
i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici
oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste
ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro
vergogne
E sono tutti i giorni sui
nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le
maschere di cera
E sembrano tutti contro la
sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non
ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le
premesse
Per anticipare il giorno
dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta
la sua gente
Sprofondare lentamente nel
niente.
Forse io come Dio, come
Creatore
Queste cose non le dovrei
nemmeno dire
Io come Padreterno non mi
dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né
di guerra
Né di tutta l'idiozia di
questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTAdi Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo
che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato
sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo
ambientalista
qualche anno fa nell'euforia
mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso
letterale
sono progressista al tempo
stesso liberista
antirazzista e sono molto
buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po'
controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di
solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le
risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni
che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare
pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si
adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a
tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a
scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che
vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori
i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa
che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le
donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo
un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito
bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato
evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie
che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un
dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e
devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a
prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica
quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il
conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa
sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci
voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica
una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un
determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo
sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti
pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la
nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo
vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo
assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è
un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno
riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa
il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc.
è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani
pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e
comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e
comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber
prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili
caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere
tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in
cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“,
per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un
“sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“!
Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine
continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista.
Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di
cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a
dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre
dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle
chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto
il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per
sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza
farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un
uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle
circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza
lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti
noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti
siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il
conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio
Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle
molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la
democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura,
la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista
sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo,
da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per
nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico
pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come
si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola
"democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è
poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo
sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso
ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È
nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che
sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu
deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non
sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono
delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura
una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale
tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve
decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà.
Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un
“No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla.
Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo
aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come
prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al
popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il
fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si
chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser
pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto.
Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo.
Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che
abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o
diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri,
statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia,
che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto:
Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è
innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza
abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere
antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere
antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o
niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita.
Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti,
eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore!
Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa
esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma
più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per
lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa.
Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole,
e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più
gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la
qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico
sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti.
Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci
vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla
portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina
domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra
abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui...
“tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando
saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio
Gaber – 2001
Destra-Sinistra
è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia
generazione ha perso.
La canzone vuol mettere
ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche,
delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi
comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a
specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime,
e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera
«ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento
dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di
una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto
riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con
la storia
ma io dico che la colpa è
nostra
è evidente che la gente è poco
seria
quando parla di sinistra o
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di
destra
far la doccia invece è di
sinistra
un pacchetto di Marlboro è di
destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Una bella minestrina è di
destra
il minestrone è sempre di
sinistra
tutti i films che fanno oggi
son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Le scarpette da ginnastica o
da tennis
hanno ancora un gusto un po'
di destra
ma portarle tutte sporche e un
po' slacciate
è da scemi più che di
sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
I blue-jeans che sono un segno
di sinistra
con la giacca vanno verso
destra
il concerto nello stadio è di
sinistra
i prezzi sono un po' di
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
I collant son quasi sempre di
sinistra
il reggicalze è più che mai di
destra
la pisciata in compagnia è di
sinistra
il cesso è sempre in fondo a
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
La piscina bella azzurra e
trasparente
è evidente che sia un po' di
destra
mentre i fiumi, tutti i laghi
e anche il mare
sono di merda più che
sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora
che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata
non si sa
dove non si sa, dove non si
sa.
Io direi che il culatello è di
destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di
destra
la Nutella è ancora di
sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Il pensiero liberale è di
destra
ora è buono anche per la
sinistra
non si sa se la fortuna sia di
destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno
chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20,
un po' romano
è da stronzi oltre che di
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora
che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto
che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é
chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è
di sinistra
la mancanza di morale è a
destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato
a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
La risposta delle masse è di
sinistra
con un lieve cedimento a
destra
son sicuro che il bastardo è
di sinistra
il figlio di puttana è di
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Una donna emancipata è di
sinistra
riservata è già un po' più di
destra
ma un figone resta sempre
un'attrazione
che va bene per sinistra e
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con
la storia
ma io dico che la colpa è
nostra
è evidente che la gente è poco
seria
quando parla di sinistra o
destra.
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la
sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di
Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento
italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel
gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di
delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione,
basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o
purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza,
a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il
sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di
anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora
Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo
storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro
Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue
produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome
d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio
1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine
istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da
bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un
ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi
universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è
celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di
cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà,
si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il
genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia
da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor
G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di
contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento
italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a
Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo
occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri
luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo
sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del
torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano
un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono
quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che
lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt
Brecht.
Povera Italia. Povera
Calabria,
scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”.
Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o
alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente
da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi
modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i
nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico
si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa
staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a
destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella
vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece
si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto
questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per
le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata
per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel
certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i
protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le
cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più
democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il
proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo
tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte
riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è
dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al
proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia
sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare
anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando
in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti
(di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è
disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si
riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un
esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra
(difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e
croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la
'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la
disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera
Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di
tutti i mali.
Magistratura, la casta e le
degenerazioni,
scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE
CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 –
Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e
lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal
giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali
sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi
disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi
leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima
intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della
magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della
Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14
novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una
riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui
rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli
incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum
e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive
per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si
opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del
Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero
inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il
vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare
una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera
toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver
condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti
nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per
imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato,
la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza
di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione
fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente
che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del
Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di
magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi
dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli
perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci
irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul
come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo)
fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa
di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura,
ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei
magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno
era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna;
Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che
saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano
di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve
preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più
da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad
oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per
rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia
della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento –
1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla
volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo
all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li
siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso,
Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene
rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la
corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il
potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo
(facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva
sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere
giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di
dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche
dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere
“mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre
poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non
siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a
pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste
“scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in
bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI
STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che
ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”)
clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura
(vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in
un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E,
di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà,
nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare
di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve
stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo
ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre
impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo
Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso
commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono
letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta
facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile
sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si
fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico
Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento
milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente
con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea”
quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i
suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato
della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la
magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio
del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista
ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera”
inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante.
Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere
legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere
giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La
corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il
compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara
Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il
Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette
ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e
peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare.
“SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente
normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato
vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si
perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da
una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà
costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene
prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una
elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa
l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie
affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi
stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in
cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla
vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato.
La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura
umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli
esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da
eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e
che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si
entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”.
Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il
veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del
potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa
prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo
truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col
curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di
farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei
mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te
danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di
Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra
intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più
volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il
“povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la
macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta:
parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di
un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento
della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.]
ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica
di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo
ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia
delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo
il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che
dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro,
prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a
Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo
è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi
hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi
dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo
tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita
posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto
il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è
andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita,
che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170
metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi
di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della
polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della
Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico
del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico
alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante.
Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina
e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi
proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale
ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le
sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e
di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe.
Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa
dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno
“Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro
gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione
funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno:
‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca
all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere
la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio
da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni
di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a
Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della
carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della
medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le
manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello
che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne,
evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a
dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi
complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una
delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità
hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto
all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi
anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la
procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male
saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante
un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è
lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il
punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del
genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una
cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta
che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della
cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo
(mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come
di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in
magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da
un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la
magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità
parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me
avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di
quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale
Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di
magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con
prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un
magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con
il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal
servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e
posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio
Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27
settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere
milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era
stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva
ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni
immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato
per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di
una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in
particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di
Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della
'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli
avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di
Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria
“ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso
milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e
incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in
cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe
intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta
che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta
o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea
numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e
ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano,
all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del
calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di
quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana,
quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al
Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34
anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «...
Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in
ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che
entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di
Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del
tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come
conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui
Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al
magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il
Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che
dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che
facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo
qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!!
guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che
ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai
capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso,
non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male,
sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè
prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per
codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro
canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali
razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo
occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani
della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti
continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna.
Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i
leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti
colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con
disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e
polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone
come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di
comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la
pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero
quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza
dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera”
sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate
sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale
senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE
FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO
SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA
RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE
UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE,
SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA
L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN
PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE
O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO
LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA
VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E'
REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO
COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE
PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN
UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA'
CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI
CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO
CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E
LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI
CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I
COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL
POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I
MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO.
ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA',
LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI
SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA
CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO
COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI,
E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE
CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO
GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI
CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI
OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI
INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI
DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON
LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I
MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI,
TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE
E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA
UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I
REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA
LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL
VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E
DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E
PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali:
föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano,
da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania
proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo
padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni
novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord,
che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania.
L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega
Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da
figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore
Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La
Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al
territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di
fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia
settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni:
Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega
Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente
definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo
sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe
abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni
della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e
che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e,
conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di
queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica
federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A
fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno
d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania
era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma
anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera
e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il
termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato
politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come,
a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo
utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito
politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti
autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra
i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene
guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai
mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata
da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega
propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di
autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di
riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni
della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale
considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia,
proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata,
successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore
della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle
competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del
federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore
autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre
in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum
costituzionale del 2006.
« Noi,
popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica
federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole
pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.»
(Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una
manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della
politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per
l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con
il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il
"Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum,
si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica
Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da
presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi
elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale
della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano,
né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto
dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione
d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona,
Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate,
e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a
Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non
abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha
da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della
Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di
strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché
attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere
indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano
con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va,
pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in
campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato
le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio
ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di
stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi,
l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva
TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti,
delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una
Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a
livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive
il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la
selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della
Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza
Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della
Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni.
Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di
non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che
promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto
Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto
dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo,
non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima
edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord
organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4
milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il
Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il
Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord,
ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale
sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della
Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da
Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago
(1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo
presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito
dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia,
Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte,
dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti,
è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan.
L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come
vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia,
Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione,
Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco
Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo
Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile,
Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli,
presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto
2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni
delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania
comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni
dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si
è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord
come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del
territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione
(vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono
quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico
del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura
Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò,
tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico
italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore,
i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati
rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati
da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del
1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata
dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e
produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997
altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano
affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione
sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il
risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior
parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al
ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di
Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla
provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un
risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani
nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4%
contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero
diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore
doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini,
fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla
Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti,
portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione
di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani
(evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi
alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe
Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata
locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il
ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche,
senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione
nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega
Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera
sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle
Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto
indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta
firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il
Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di
secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa
da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o
contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario
Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in
questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare
con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La
voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini,
intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la
raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà
sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha
aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il
lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente
l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del
segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in
cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti,
dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il
pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania,
nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti
da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione -
ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì
a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre
regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo
la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama
gli italiani alla secessione. Sul suo blog il
comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli,
scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo,
leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla
secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di
carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più
alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma».
«Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul
suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si
dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla
partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla
Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando
ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso
l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può
essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui
memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da
atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai
servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla
quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile
raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti.
E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle
partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque
maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel
Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di
popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme?
La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile
non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i
Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere
all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di
novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si
atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti
spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria,
territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani,
invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a
centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia,
qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord?
Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e
istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può
essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni
attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici
che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza
significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e
funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari,
come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse
troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla
Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta
e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per
andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo
Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali
d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere
definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al
Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una
voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di
riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che
cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il
pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce
narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il
punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene
da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche
se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i
profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la
salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi
acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza".
Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto
l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva
scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia
e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di
Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità,
all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i
territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad
abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola
con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza
dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della
decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone
passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora
di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi
di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che
partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de
Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive
Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi,
con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un
esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele
che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’
chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una
terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud.
Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il
Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona
poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i
Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione
italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a
galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli
che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per
emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a
rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud,
definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp.
80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop
congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo
è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di
ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi
con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per
«piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di
Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano»
- sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud
lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della
decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile
«alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla
velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di
antichi caratteri comunitari.Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo
poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è
anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che
dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che
hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una
lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando
che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto
decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà
finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i
fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di
Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una
guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del
territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello
predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze
meridionali.Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è
anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la
modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che
alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di
lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della
malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato
e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto,
della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le
tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più
"privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La
narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al
matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla
camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e
scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e
alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio
su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore
simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il
piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti
e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne
ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie
all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del
Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie
all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista,
scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata
nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del
dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati
anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida
dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è
improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione
premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La
notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini
pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata
agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per
una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E
per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e
messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia
dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare
è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di
terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare
i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto
rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto
dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la
propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500
caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading
teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il
sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del
ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di
Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del
disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua
terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico.
«AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche
requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e
per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi
economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e
ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un
cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il
respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a
Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene.
Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua
trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più
«doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un
minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione
di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando
così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio
(tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro
"canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti
dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia,
laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta
nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio
raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese
d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico
impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata
ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo
passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria
restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti
pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il
piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla,
solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal
finestrino del treno. "Meridione a rotaia".
Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo
anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma
al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra.
Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia.
Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il
treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di
treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili,
l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza
e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie
dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro
nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo
stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del
ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia
a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui
tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene
sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E
questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel,
vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di
montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente,
surreale, commuovente. Un tempo si tornava in
rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta
alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive
Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che
vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di
professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal
Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent
che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello
dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta
per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al
treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più
di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei
ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con
un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo
sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo
due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è
ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che
tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che
torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia
anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla
categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è
stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il
corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti
che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale,
espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo
Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui
stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e
tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle
radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele
comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così.
Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci
costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario
Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di
straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è
tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma
distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco
viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In
questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo
modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile,
spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici,
nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie
di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto,
dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che
nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che
quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che
torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie
la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi,
paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel
viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare,
anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è
come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un
modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che
avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a
polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a
complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/
in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i
brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come
dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso
pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud
non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come
i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove
generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma
perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per
rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno
dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con
l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini
diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati,
emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La
sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non
riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza
solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si
perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come
consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone
a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in
qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi
appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È
un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai
luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per
la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al
contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed
economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome
rancorosa del beneficiato”.
Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del
beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza
dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati
"beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il
coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La
"sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato
rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece,
cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio,
poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei
confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente
riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al
punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o,
addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il
benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da
penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla
dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha
incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie
esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo
del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo,
l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i
danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine.
Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la
proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si
amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è
che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo
verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non
la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per
l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una
contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore
finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non
abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo
amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai
aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche
riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più».
Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma
che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per
salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura
quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i
nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui,
quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso
tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci
ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà
tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha
fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una
ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine
cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente
beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i
loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro
maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha
promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di
eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito
della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così
negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State
attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di
invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico
dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo
santo.
Bene per male è carità, male
per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al
fisco.
Chi rende male per bene, non
vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine
rende.
Dispicca l’impiccato,
impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà
che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel
che mi morde.
Il cuor cattivo rende
ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il
caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in
ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano
sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara
radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a
chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi
al beneficio.
Maledetto il ventre che del
pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla
terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai
mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli
occhi.
Nutri la serpe in seno, ti
renderà veleno.
Quando è finito il raccolto
dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici
all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e
l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi
che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è
seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una
forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe,
Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del
tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus,Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di
quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond,
Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato
somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro,
rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata,
Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti
gli infelici.
Publilio Siro,
Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto
che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa
dell'ingratitudine.La rabbia dell'ignorare il beneficio
ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo
vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste
tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza,
caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio
ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia
verso il "benefattore".
Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle
relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel
corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico
madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la
possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi
significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di
autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza
di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso",
pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente
perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto.Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli
altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale
difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che
instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle
prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le
proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò
comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del
relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve
predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente
modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una
posizione subordinata di "potere";
fidarsi e
considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a
ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il
disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in
cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione
della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri
schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a
una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la
persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé
(in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali,
ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela
insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa
difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non
elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio,
di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta
un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa.
Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza
che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si
instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi
possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia
costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile)
attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto
giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona
beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica
menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione
meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il
meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla
pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di
comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere
l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più
"meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci
apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops...
stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a
chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è
sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e
provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai
centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare
problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione
meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro,
tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine
sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che
colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco
(Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è
ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il
suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno
di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello
antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa
rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che
non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una
controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e
dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente
mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette
maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una
semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano
dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e
umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per
narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo
ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve
narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la
realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante
invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo
volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli
degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere
la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico
che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di
iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente
finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se
riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie
direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un
armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo
abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per
ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene
la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli
italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi
apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è
dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di
polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di
sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto
il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la
legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è
stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a
quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da
10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa
sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio
debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della
Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è
noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più
grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non
passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni
Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e
potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni
(mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e
terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed
alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e
nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse
loro popolazioni.
Ma si sa parlar
male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi?
Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la
diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a
ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai
centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare
problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione
meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro,
tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine
sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che
colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco
(Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è
ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il
suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno
di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello
antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa
rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che
non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una
controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e
dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente
mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette
maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una
semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano
dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e
umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per
narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo
ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve
narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la
realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante
invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo
volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli
degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere
la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la
pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di
iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente
finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se
riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie
direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un
armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una
palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale”
è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere
un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi
di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali,
attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati
spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno.
I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi
anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu
infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani
dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di
patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale.
Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe
finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte
sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono
incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra
Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che
modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla
quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico
lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno
rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario.
Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo
delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali
parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata.
Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto
del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una
delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si
era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del
meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea
di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e
mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza
nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite
opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a
legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una
società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello
di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia
largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha
condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il
dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche
«oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un
altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi,
pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A
separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste
opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli
contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione.
Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser
lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno
del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di
essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi
stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo
storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le
dolenti note su "La palla al piede. Una storia
del pregiudizio antimeridionale".
La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei
Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più
incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul
carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno
continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi
portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso
artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del
Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a
intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana.
Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito
alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che
sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco
con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e
plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva
la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri
autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi
dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava
gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina.
Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che
in
Napoli milionaria
mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio,
irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con
film come Rocco e i suoi fratelli
di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e
sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge,
e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città,
vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i
meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel
distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente.
A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà
tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud
antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si
fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista
Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud.
Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo
di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento
alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti,
volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si
confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non
c’è dubbio.
Benvenuti al Sud,
che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è
posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di
tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un
poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori
dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia,
mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di
Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del
pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce
anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque
inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a
Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto
inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi
dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette
alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non
solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre
sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui
la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi,
le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra
meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a
Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e
Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui
siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio
ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso
rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della
pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che
addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più —
scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di
folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti
all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a
ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del
meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il
profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario
sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi
interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte
di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che
davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica.
L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre
secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può
accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere
messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud
serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a
testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei
briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere.
Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia.
Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di
passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta
dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con
il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno
risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la
considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la
stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla,
ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di
regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione
del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del
Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica,
l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi,
ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le
rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa
incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di
peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a
cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la
peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in
polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che
è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale
che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che
il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo
finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad
esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale.
Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il
dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con
Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita
addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni
Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i
loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre
schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato
che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire
adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare
insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla
fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga,
nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica
e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria
e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico
degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006.
Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza
criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa
sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era
all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito
di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è
Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una
menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più
immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero
che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato
innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della
qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in
bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li
indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una
rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti
abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se
qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se
Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione
toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la
sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto
“Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei
difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità
d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e
più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha
segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri,
arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di
camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex
capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali
risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il
sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria
rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura
Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un
tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la
malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia.
Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla
tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile
enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela
nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu
vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che
invece non amò.
“Il libro
napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su
“L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano.
In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima
nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per
l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il
finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio,
come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore
italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori,
nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed
italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la
città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra
esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore
uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina
momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a
toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli
negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si
chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa
il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri
d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare
il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di
Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più
nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era
amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace
che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e
nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero
Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il
Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa,
non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo,
cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre
spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e
immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione
della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di
Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee”
alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato
solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si
sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto
da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa.
Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino,
un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide
gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa
persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di
“tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che
un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno,
sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il
fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia
per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano
che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire
l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del
1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello
del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i
fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della
professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che
cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non
ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e
freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono
anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta,
svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato
alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace
sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti
tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo
allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle
tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare
qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza
evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria
croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che
ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più
terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i
pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione
costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli
strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o
fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per
non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica,
Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e
dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento
all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale,
questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da
un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile
velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come
quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una
connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora
definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa
che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per
ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte
la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile,
tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove
tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro
che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma
i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una
strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se
riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei
giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice
Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro diPino
Aprilescatena un boom di
vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto
con“Terroni” e con “Giù al
Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo
e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla
storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per
accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità
della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista
Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello
stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare
l’Italia”. Nelle librerie“Mai
più terroni”, un pamphlet edito daPiemmeche
già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia
dibattiti accesi.
Molti si
chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non
ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud
per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere
che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di
pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria
piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la
distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica
dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande
maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano
costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto
di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione
che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei
territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche,
e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle
sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono
dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia
telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la
realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di
ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto
sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad
esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un
luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo
sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto
della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera
geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta,
nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile.
E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è
aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La
Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro(«Tutto
quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali»)
al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario
di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che
fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più
figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E
come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto
contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla
conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella
nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La
risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno
stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i
massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi:
scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di
autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E
può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150
anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che
annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare
per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti
al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza
il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le
differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in
Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti.
Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua
perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di
ridurla.
Come? Creando un
divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E
non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma
anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali,
assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare
di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E
dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord
che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il
lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle
infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi
sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro
sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro
possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e
mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto
che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche
parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza
dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora
il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter
sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione
comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per
magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga
che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la
visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più
controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa
nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su
ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere
che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe
potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda,
sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che
non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un
ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i
terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia
ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i
ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è
anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno
ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la
Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare
aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano
realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per
capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante
l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali,
colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità
meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso
di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e
sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse
per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di
sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo
omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a
casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i
problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia.
Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla
toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte
l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza
fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di
antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio
si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne,
regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla
sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la
Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un
lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra
tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed
extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di
ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e
tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie
di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro
terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le
distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che
si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione
della memoria”.
La minorità del
Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le
privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed
alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna
reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord,
perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di
Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che
160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa,
col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al
recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta,
che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie
personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo,
ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle
descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste
e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano,
in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa,
tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal
sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente
bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel
sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di
elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea,
conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le
vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della
lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le
sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e
mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una
risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché
i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un
motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono
stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi
interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia
cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a
suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono
accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia
culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati
dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca
della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita
come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra
storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il
1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri
briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la
loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il
proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna
ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono
e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna
riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere.
Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in
piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare
l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le
infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale
dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con
scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare
vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata
d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda,
agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord
si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi
mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi
cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di
tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la
narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi
viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora:
«Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che
il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente
nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione
nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali,
perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande
industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media
industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione
subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud
avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe
distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si
chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico
momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci
si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e
personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati
Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime
indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è
ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le
motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo
pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non
vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel
progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue
leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere
di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non
è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa
per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in
potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo
un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto
smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria
storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare
l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e
conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto
sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a
Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo
amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per
finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria
calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui
lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta,
solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno
d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che
consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike
Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di
250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e
Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro
anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande,
noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla
rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania.
Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a
nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia,
perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo
che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella
raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga
dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in
Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un
amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia,
qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea.
Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo.
Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a
venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi.
Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa
vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è
interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo
ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su
carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a
comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li
buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il
motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una
sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma
per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in
banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”,
gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre
ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui
state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che
documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei
computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I
ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico
salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è
salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno
il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono
apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il
gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto
l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla
grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci
sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che
sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima.
Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”.
I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione,
dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le
attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo
aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni
previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare,
un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un
vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il
mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla
regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo
scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la
pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai
genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme
qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili,
conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista
da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i
vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico
del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna
fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano
duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a
credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter
andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state
guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come
sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono.
Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li
denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li
denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno
più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non
arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su
quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti,
assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano
Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo
i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il
loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe
nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato
rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I
TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere
giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non
previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In
contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno
all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare,
da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura
penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna
conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma
l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello
scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che
l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento
che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è
importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la
vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima
incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più
individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un
interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua
querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per
ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie.
Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio,
quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette
di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la
querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che
si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi
l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che
non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in
linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige
l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente
di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al
procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per
giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene
inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri
depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il
contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un
magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero
competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una
informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più
denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni
dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare
insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al
Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se
invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la
comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la
loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a
giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul
tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del
Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a
prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire
calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi
quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno
anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il
tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di
responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è
già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un
intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non
interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o
priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il
giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo
sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata
sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con
la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o
fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione
per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono
rinegate.
In terzo grado vi è la Corte
di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue
sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite.
Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la
certezza del diritto….
Durante il processo se hai
notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei
magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti
hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM
ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del
Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede
che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la
Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario.
Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla
è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso
rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei
una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un
dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del
“Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza
spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della
magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici
della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che
puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non
prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo
i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia
(articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal
Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di
archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per
le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono
cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel
tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070
richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su
1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di
archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di
indagine, considerando le denunce manifestazioni di
conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto,
avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico,
che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla
sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti
subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale
importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della
“leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto
ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza
anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico
ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola
come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica
come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in
considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo
612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata
richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking
quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono
aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era
migliore: 360 richieste di archiviazione e 324
archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235
richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783
denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella
giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi,
presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono
violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in
attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma
sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le
maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli:
su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159)
ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se
la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la
denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba
essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male
amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche
ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è
una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i
magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le
tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI
A PRESCINDERE.
Giustizia da matti.
L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo
Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8
luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset)
dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore
dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul
morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta
tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche
un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per
gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali
invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare,
appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del
procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione
dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo
Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete
respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno
portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no?
Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia
un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e
togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta
la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo
stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di
normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa
dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero
volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la
somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di
Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come
commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente -
ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di
una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli
uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle
cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché
durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della
magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo
pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi
universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere
automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una
battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso
truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha
denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha
chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione
parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e
timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non
male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la
traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino
alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di
scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in
verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è
subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e
tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano
come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun
mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o
depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”.
In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio,
legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via
D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de
“Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto
vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni
attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il
giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due
lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia
che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba
Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”,
edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre
processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo
e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in
discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte
di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di
Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito,
Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco
degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia”
Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un
processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i
nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi
di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo
(oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro
racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di
bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di
Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese
provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione
speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di
Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano,
Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente
di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare
indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e,
atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse
sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di
Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo
durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati
di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni
di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è
crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex
procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i
processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle
rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni
fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in
libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da
riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto
per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008
hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione
giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di
Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti,
sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo
Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo
Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato
in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni
di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante
o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare,
quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come
emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa
da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li
riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del
Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha
goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere.
Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate.
La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono
Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi
italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese,
scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7
persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per
le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo
Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a
ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare
Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento,
con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di
Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta
nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come
alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di
Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle
vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e
duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190
pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si
occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo,
procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha
funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari
sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato
le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori
giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per
le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di
una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro"
del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino,
agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del
mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e
dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire
perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni
colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via,
perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno,
pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e
sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce
perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita
dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora
non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il
personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si
parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci
accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da
una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non
ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è
vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro:
dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è
"sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo
"spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso
per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata
col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora
sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che
significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti
metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha
indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a
lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho
sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti
sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che
l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori
dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la
sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più
sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da
quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a
riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per
prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna
è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì,
perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul
bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la
sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono
nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo
mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti
a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di
approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli
altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala
colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per
tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato
dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle
nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di
Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il
silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola.
Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I
"boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni
di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa,
entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il
"blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde.
Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che
succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso
l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del
blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato
aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li
terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi
minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho
parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa
e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la
mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a
Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di
guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha
detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che,
come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un
vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a
Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri,
asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua
influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo
Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino
bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino
Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella
strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave
accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in
primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi
riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del
"pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati.
Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e
Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo
"schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole.
(...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo
l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il
nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla
per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che
è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi,
quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era
peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a
Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a
tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure
bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si
stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere
prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo,
iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato
e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non
lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di
peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca,
scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda
parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati,
botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi
entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni,
calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la
facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due
tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa
sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta,
galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un
preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando
Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha
raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e
noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a
Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una
sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a
seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in
quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il
racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate,
strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare
all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in
cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo
altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10
o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al
comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi,
a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo
shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca
denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano
sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice
la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla
subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso"
pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni
fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti
accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le
percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi
distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei
Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte
sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un
boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in
via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue
anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le
successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il
fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si
cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di
depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti
dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono
sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con
una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una
domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali
errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le
tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata
– La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della
giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che
racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni
del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso
state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé
stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta
chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice
Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro
dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” –
come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia
di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino
Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro
e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua
presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho
conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per
strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore
di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai
familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli
antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi
artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come
porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a
difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del
diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto
alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho
avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno
mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette
“persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno
mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo
rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del
rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a
mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che
realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si
professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in
molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità,
perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o
voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito
le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o
totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la
ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella
che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima
manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il
12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i
parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi
parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno
tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di
Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte
sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi:
“Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto
di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le
autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di
avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una
riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in
primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista
indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa.
Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del
Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre
detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre
detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me,
conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo,
appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola
«avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si
voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di
mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia».
E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della
corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i
mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa
all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i
nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza
discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa
stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in
parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi
della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso
pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola,
quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse
andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in
via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a
possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur
con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca
credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è
arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa
non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in
questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a
dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non
hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato
il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha
funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero
cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue
urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa
Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati
per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto
questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con
trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è
avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i
principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di
difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per
l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il
solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può
dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come
tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci
costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo;
mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo.
Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa
autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a
priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad
essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti
della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani,
actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre
persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in
debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità
processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche
breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento
antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però
essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non
condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva
qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché
dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo
tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità
scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in
quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea
in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di
praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più
impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo,
dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali
Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con
i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega
di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana
«doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali.
Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per
Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia,
nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del
super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con
ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in
Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro
procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe
in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre
che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e
Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La
Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere
ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di
avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia
bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato
pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo.
Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa
Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato
di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha
fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio
o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi".
Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente
addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno
cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di
Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni
fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo,
Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno
imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone
all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni
che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto
Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai
suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della
destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se,
ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli
atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i
fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la
ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato
oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a
Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia
il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma
Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex
giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito
dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno
sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente
pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti
che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in
Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è
scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile
il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora:
qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni,
per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un
certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe
nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a
quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in
riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via
D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state
archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta
nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in
Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni
militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di
Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto
incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad
alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che
cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del
clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto
avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di
Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli,
che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando
per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava
intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un
uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni
tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un
sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto
1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto
Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo,
alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara.
Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento
dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama
Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il
sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la
cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a
Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la
cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per
concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito
contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca
di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì
per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola...
Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa
eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano
parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente
pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata,
anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi
soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano
commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un
poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore,
Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da
mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano
Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava
con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva
coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ".
Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela
Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È
lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo
hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che
vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di
collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra
tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio
porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo
colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al
colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza
con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi
uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia
ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano
"faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più
potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi
segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia.
"Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro
blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di
Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato
all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato
avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente
virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su
Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine
della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave
"faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata -
quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le
investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come
sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i
miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di
Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno
dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del
territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il
consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio
La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà.
"È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della
Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da
una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a
tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si
incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr)
con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha
raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla
trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo
chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano...
". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la
giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato
Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una
stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di
Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno
che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di
inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni.
Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai
magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di
Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di
ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate
siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni
Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione
dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la
depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la
serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di
sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua
casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito
attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989
dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua
villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche
Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino
Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato
dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino
ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo
figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua
presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti
addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine
(quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi
legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando
anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è
congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo
falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove
Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno
trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a
Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire,
articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano
e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella
perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il
confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il
riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un
mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava
Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva
cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era
il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era
a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso.
Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno
aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato
e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie
storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere
costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più
a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è
cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno
del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in
mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è
solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha
portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da
mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È
sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È
un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da
eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende
il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese
torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più
infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul
luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi
segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe
ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti
siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui,
libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di
nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e
l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro.
Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia
dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono
ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato
nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto
di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua
vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui,
anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a
raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli
lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice
subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i
miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con
qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola
volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la
lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di
fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è
diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono
arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi
hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a
Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra
mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa
c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava
Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei
servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello
che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del
1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo
piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora:
"Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo
neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo
che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia
sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine.
Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla
Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché
me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio
cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai
fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta
giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi
Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso
deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia".
Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della
presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro
il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino,
assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che
dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato"
che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa
state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra
cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto
a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo
di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita
per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi
portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83
di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che
tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati
come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De
Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di
centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello.
Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso
della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo
e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e
Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da
mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si
appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una
colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è
pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito
infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi
dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di
decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora
basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella,
vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e
redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei
documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e
giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro
“Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto
profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di
Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la
stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana.
Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama
e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi
processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con
Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla
procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini
erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e
il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm
diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a
dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni,
perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero.
Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente
all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato
difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile.
Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui
condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo,
né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non
è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la
procedura penale?
«Si intendeva migliorare le
nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben
lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore
della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona
anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È
il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un
interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha
rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto
l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica
colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore
politico?
«Il garantismo non è un’idea
molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a
essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera,
pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono
invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il
centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di
documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più
voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo
mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura
arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e
incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il
pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione
tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola
Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che
Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci
sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello
stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva
e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi,
procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette
che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul
piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che
impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi
– come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali.
Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima
pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De
Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo,
lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i
mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici
di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero
ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” –
allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca
dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di
sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre
meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio,
erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente
come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola
comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’
inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali,
contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi
parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni
inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa,
lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di
Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo
sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta
natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al
contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi
drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione
mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili
crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio
della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo
stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si
trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno
la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara
del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin
dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità
di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio
extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse
sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria
comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso,
con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di
Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa
propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato
e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile,
triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la
vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente
insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che
delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente,
però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui
esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva
un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della
nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi,
di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il
tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla
faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da
sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo
comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già
il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo
iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle
indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta
anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio.
A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in
persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno
individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese
dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore
della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata
l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le
tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21
febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli
Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore.
Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non
hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto
processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa
sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il
Garantista”.Un presunto colpevole– al solito
– che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito –
in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio
sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è
colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di
Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro
dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”.
Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è
sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo.
Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla
Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex
ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene.
Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il
diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di
Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati
dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione
cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia
al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua
foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra
nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer.
Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine
e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di
ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli
peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’
lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere
la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma
salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di
Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti
(“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole”
e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non
mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il
Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page
dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e
l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che
qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna
mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a
processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di
innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi
soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né
secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa.
E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa
volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che
dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del
clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda.
Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la
cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come
mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si
seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente
ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio
un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come
il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo
Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere
cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza
interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire
una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo
possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama
sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del
presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso
lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la
sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di
ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della
direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della
giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del
presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori.
Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo,
inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la
vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una
storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e
giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma
anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura
piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara,
la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi.
Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir,
una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi
ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza
alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha
improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano,
quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida
del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare
per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per
chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda
ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile:
l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul
test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della
vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare
alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo
sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel
tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e
minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri,
madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il
carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e
riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non
c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore
“di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica”
scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di
Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre
del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e
viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della
sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei
assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta
di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti
dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza
quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E
soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il
cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché
tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo
di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio,
fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere
alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre
quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli,
hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto
così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo
interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al
linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la
madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una
finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca
un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”,
osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010
quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante
la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di
persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata.
“Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa
ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia
tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri
familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la
distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e
mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure
l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i
giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come
“complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che
invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e
ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora
fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze
e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea?
Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere
dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il
fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con
l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i
genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di
questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più.
Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il
Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui
giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non
da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a
condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile.
Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno
Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna
definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato
Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di
superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si
è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di
Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito
di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le
attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto
quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del
massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse.
Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna
mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina
che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso
l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento.
Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto
oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al
peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare
dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta
davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica
opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche
elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino
partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du
temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza
quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella
memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un
sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di
verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla
strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono
interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene
conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si
allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente
mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle
fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per
prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di
fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa
inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si
suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel
romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di
bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa
certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente
femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi
(Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il
1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri
di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I
miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con
il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura
di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e
soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo
d’appendicetelevisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per
diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni
psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da
libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e
perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un
sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli,
anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli
Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di
Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma
nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi
spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le
tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage
dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al
risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo
un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del
puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del
tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di
certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e
quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei
sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di
fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi
irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità
dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di
affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze…
i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che
minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina
e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire,
rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano
i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di
tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a
dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due
donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto
a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro
rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del
loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni
internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con
la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse
finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a
tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti
colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone
entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo
qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni
televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste
basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri,
magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le
incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su
delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience
indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si
aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche
senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di
considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive.
Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato
a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della
complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche
e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine
applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono
individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in
una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza
cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul
campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla
superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta
di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla
base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa
psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene
soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle
famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del
futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e
difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per
interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con
giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con
un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un
armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente
neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto
dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo
del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente
teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase
preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta
presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al
mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte)
abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo
dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito.
Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per
verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una
strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a
doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si
possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e
consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in
quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo
di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il
lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche
caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata
come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la
vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che
spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una
autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si
dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta
di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave
stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni)
diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove,
che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di
via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua
auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia
infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia
raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza
psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più
della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di
qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro
utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da
determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla
spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di
pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul
disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma
l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte
pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e
problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un
target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più
influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le
modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e
inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di
vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere
influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari
e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi
dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina
morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla
malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti
di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress
porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli
fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora
nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte
esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone
soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non
tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle
tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i
periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova
lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non
sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a
diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà
radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un
padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di
stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più
caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo,
pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare
andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far
riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind
Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul
Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato
dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress
da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di
montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari,
e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della
Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation"
nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi
in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione
fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a
una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e
sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la
possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la
conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già
conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli
esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma
agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se
il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai -
non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il
sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio".
Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal
grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da
una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a
causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti
sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o
una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione
di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni
di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante
della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a
dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale
di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e
partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai
magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui
assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come
capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo
Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva
bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli
perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per
il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui
a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva
"diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera
lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano
davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano
abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una
psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella
brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le
portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi
che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione
definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta
perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli
dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo
(solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress
incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi
del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo
Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie
allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu
condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni
si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato
ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro
per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è
riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto
dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è
morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con
quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di
via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di
aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza
approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali.
Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano,
provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina
Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa
per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo
buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi
arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva
la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio
di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco,
disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per
paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad
uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era
stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri
dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne
fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino
alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le
parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i
giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In
effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni
caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel
crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come
sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito
ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è
colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la
figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo
in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva
suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna
all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza
e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio
della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non
mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in
cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni
giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di
entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi
giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un
poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei
mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito
con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo
dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva
detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in
appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del
'92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un
processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle
mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la
giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che
Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice,
grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele
Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo
abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice
che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato
procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in
maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che
nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di
un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io
Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente
cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non
fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una
giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle
procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si
chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le
ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si
credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di
spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200
anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede
allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e
diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del
pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di
una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si
amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a
causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo
stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma
con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia
personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per
aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi
subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per
aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa
è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che
il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un
po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a
un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica
in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da
rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere
giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed
arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione
di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile
incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta
volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una
frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per
condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi),
nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie
a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare
chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato
in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale,
per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la
formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché
quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica
opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede
non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i
numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una
accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel
sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non
solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo
solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia
per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da
allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle
istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e
nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno
entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica
saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno
muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che
non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più
giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda
preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno
risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si
proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati
che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress
infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di
venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro
all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno
rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero
Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della
giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le
persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi
più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma
sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante
in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora
numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha
stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di
un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo
scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per
competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in
attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero
darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da
troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque
ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i
presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li
commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro
di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere
questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono
una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con
accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni
giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni
irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era
di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in
precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza
Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come
è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una
delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di
imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione?
C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le
difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per
competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa
d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne
la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in
cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della
Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di
tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto
emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse
dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e
se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della
Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara
erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che
in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità
di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei
capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo
svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno
contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera
anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore
alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara.
Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che
nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali
delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella
immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio
collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti
progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi
costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a
suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a
inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse
economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede,
lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di
reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei
dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre
tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e
perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte
prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene
da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia
ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di
accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti
e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è
suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio
del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due
comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato
da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo”
spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano
dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria
Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi
motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione
va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di
crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua
sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto
manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso,
falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così
sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della
Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui
giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore
in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà
travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate
nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a
differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia
degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la
sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia
dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa
aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di
Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia
stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano
riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha
fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro
Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne
sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il
rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo
indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa
vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose,
non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire
Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”,
Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa,
ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si
può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto
provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere
Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le
dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati,
scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto
seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di
vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso
il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo
nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa
mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al
ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le
dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa
essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora
riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito
dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si
faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti
per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal
procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto
Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro
la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di
pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati
compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto
per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo
si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da
vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha
scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe
essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo -
per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non
delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo,
si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate
e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità
forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo:
"Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative
adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le
stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della
Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi,
a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza
alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura
anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un
quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla
Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per
le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali
insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e
attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe
conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro
dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della
magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti
all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude-
perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un
interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di
vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati
sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che
le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive
“Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che
io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la
dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si
aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene
raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare
la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A
me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia
indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere
Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai
tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che
riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010
nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col
prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della
fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e
per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta
dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui
l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per
i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella
Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per
prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo
chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante
sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a
traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8
tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La
Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997
dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo
alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone,
alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi
particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci,
all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali
baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed
altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo
l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo
fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe
battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato,
poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss),
Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo
scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele
Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131
persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono
ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti
alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base
degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora
condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati
ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e
alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era
una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa
e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre
sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e
l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa
ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le
discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29
settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e
prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma
alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il
Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di
condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però,
non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini
avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta
del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici
richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico,
uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano
i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda
barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di
Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il
troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro
maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli
appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano
delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti
con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi,
traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti,
all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico.
«Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80
ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni
coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine.
Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a
settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado
sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura
dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha
conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei
riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o
processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno
per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel
2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza
della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati
omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca
che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo
Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di
tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari:
pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo
l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti
mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA.
PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel
nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati,
ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di
Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno
redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in
possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera
inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una
rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo”
organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio
d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito
in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e
penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare
alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a
riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte
Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni
pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del
Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il
ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal
Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25
pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far
precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa
non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli
atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben
potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella
lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare
per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse
possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione
potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto
in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile
che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che
guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le
memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma,
limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino
eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce
precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile
discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe
superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è
l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei
motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non
rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la
sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del
dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa
del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il
clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo
però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza
dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi
mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o
nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova
asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del
contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei
passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non
hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e
questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e
documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando
una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla
funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti
complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere
considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento
essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito
in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello
dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La
Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli
avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello
di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine,
scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di
Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia
sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per
spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma
«non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza
di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della
terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino,
i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti:
bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi
di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero,
letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo
capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto
superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere
tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto
rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a
quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi
mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono
zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va
«salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di
smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è
nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum
del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire
che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta
in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un
ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come
una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza
sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del
contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda
relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e
rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno
specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in
questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione
affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli
avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi
entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con
un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al
massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre
all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine
di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità,
finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile,
prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno
giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni
interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a
riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio
di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite,
con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli
atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo
amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema
prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto
del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi
– e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed
efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia
di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas,
al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei
Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo
affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente,
il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa
Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto
processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove
testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo
richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono
particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza
Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici
con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei
pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio
del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il
giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati
insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del
processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e
precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su
cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e
una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del
ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a
Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo.
Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non
violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e,
nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto
processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da
Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna
questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte,
"richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve
essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e
degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema
Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i
principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener
presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e
precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero
di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di
liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi
degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai
Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita
iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività
professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli
atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa
non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno
che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i
migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo
prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il
dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze.
Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso,
protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel
processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi
sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i
giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si
sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in
punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria
una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata
sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un
bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera
legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo
di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una
indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti
scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è
troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che
sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un
caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste
indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli
avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di
venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio
che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che
evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto
dovrebbero».
Lei crede che la categoria
dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano
in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe
opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore
valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai
fine....
Il giudice: "Troppi testimoni
inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si
asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati
stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del
contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono
andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un
giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si
insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto
quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano,
prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso
processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una
giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si
legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20
giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una
sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a
proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo
me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili,
ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene
sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla
pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le
scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe
Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo
la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle
scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno
di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme
che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori
ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per
alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del
contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque,
preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non
hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto
di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato
denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito
penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata
per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della
violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale
milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso
specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha
detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che
pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e
il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della
Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della
Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti,
scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi
un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti
trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si
spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19
centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il
principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto
pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e
polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe
antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra
delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei
medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per
dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di
più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle
strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste
cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma
quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto
la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse
per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo
l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”.
Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli
del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci
sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi
restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un
piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una
grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero
che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che
avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati
via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la
spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si
ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a
girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della
raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza
scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il
senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato.
La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di
prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta
privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo
tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o
come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi
può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa
lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della
vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche
possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra
di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo
l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità
storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato,
voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo.
Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo
secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le
palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati
vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto
ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di
risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre
degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo
Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale
contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il
secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo
sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e
sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le
“risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento,
la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere.
Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già
deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale
“democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista.
Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora
che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i
loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma
sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO
PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del
mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio
scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel
monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un
salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura
essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta
bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto
davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika,
di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha
parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere
la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra
un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset
è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un
cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio
Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La
Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno
come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche
Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore
psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ...
chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una
papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre
invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una
casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo.
Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede,
l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene
perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva
Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai
il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada.
E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi
ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure:
"ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo
mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se
volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici,
le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in
mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del
male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento...
non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ...
Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti
dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei
tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era
né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo
so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma
sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni.
E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta
politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho
nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri
venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della
situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non
riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non
mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di
avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA!
Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento,
specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia)
Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare
dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto
che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto
incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non
parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche
centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero
tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare
tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli
elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti,
la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E
se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero
impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani!
Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le
maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al
modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano.
C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a
magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da
n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca
con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago
pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone,
convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che
sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica
idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli
altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha
detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è
quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni
raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a
partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family
day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di
gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi
così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te
l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei
cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico,
Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato
nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche,
confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene,
digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci.
Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita.
Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza
non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia!
Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai
passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a
parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima
di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino
a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare
solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia,
tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la
felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né
magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina
a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima,
noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo
parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e
non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non
fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che
accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi
vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano
dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai
neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un
meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione
gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo
stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete
che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano
elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta
euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende
a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi
la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio
dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva
cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi
impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è
vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar
cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un
altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere.
"E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un
pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono?
"Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..."
Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e
puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato…
alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono!
Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire
l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di
votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a
noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel
signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore
norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la
moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd
Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è
svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente
ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un
armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a
votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi
vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non
parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A
pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va
beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman,
trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei
risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora
dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al
massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de
“L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord
onesto e diligente evade più del Sud, scrive
Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non
dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci
hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con
il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria
e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le
due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì
quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche
anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta
aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e
funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia.
Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società
hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così
noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista
e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che
spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad
esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione
fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo
aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva
riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante
sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio
l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività
illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli
evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine
sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4%
mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo
sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel
lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia
sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach
con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a
livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud,
sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura
criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree
territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono
un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad
attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare
contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale
responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di
conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si
concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la
mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord
che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione
redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma
totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91
miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24
miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il
dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono
i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese
che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al
96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in
regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad
ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013,
ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è
così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un
numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di
30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che
ha la palma dell’evasione,
scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord.
Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della
Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra,
dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa
(Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati
dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di
reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò
nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in
proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di
contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di
accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480
controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un
reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale,
le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E
ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in
Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle
regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune
considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più
alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e
imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel
meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non
lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là
dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati
della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda
considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord
virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito
dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di
più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia.
Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente
può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove
è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca
Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al
Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più
organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e
stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le
norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico
caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la
realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi
quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere
evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più
parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si
cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a
pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia
fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia
davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
LA BANDA
DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.
Ma la gente sa cosa succede
nei tribunali?
Giornata di ordinaria follia
al tribunale di Roma tra prostitute, burini e magistrati oberati dall’obbligo
penale.
Luglio 14, 2014, scrive Luigi Amicone su “Tempi”.
Basta passare un giorno in aula giudiziaria per capire quanti oneri assurdi e
pretese inverosimili gravano sulle spalle di pm e giudici. Come mai nel
repertorio dei suoi elettrizzanti tweet Matteo Renzi sfiora appena quel filo che
porta dritto al circuito mediatico-giudiziario? “Riforma della giustizia in 12
punti”. Così ha promesso il nostro ganzo leader. Se ne riparlerà in autunno. Ma
intanto che ciofeca di hashtag è per un guascone che prende l’Europa con un «se
si facesse un selfie sarebbe il ritratto della noia»? Paura di rimanere
attaccato al filo, folgorato dal circuito? Sia come sia, può capitare anche al
nostro simpatico incantatore di serpenti di ritrovarsi per caso, come è capitato
alla canaglia che scrive, dentro l’iCloud del sistema giudiziario disegnato
dalla più bella costituzione del mondo. Grazie a Dio, se sei solo un testimone
(ma stai alla larga dai processi a Berlusconi), una volta di difesa, l’altra di
accusa, puoi stare tranquillo: non corri alcun rischio di finire metamorfizzato
in un insetto da espellere dalla società. Certo. Ricoprire ruoli opposti nel
giro di qualche giorno, fa un bell’effetto. Specie se ti ritrovi rimbalzato tra
Roma e Milano. In tribunali di due pianeti diversi. Come testi della difesa
siamo stati convocati a Milano. Dove a dispetto dell’architettura fascista,
l’amministrazione della giustizia sembra ispirarsi a una efficienza da
tecnicalità ospedaliera. Entri al palazzaccio e, al di là dell’odore e sudore di
carte, la sensazione è quella che puoi aver provato in un reparto di terapia
intensiva. Convocazione alle 9 del mattino. Minuti di attesa in compagnia di
persone stranamente in angoscia per essere testimoni della difesa. C’è un
direttore di carcere («perché mi hanno convocato? Cosa ho fatto?») e c’è il
pannelliano insolente («questi non sanno neanche chi è Beccaria, desolante che
se ne siano impipati dell’amnistia»). Poi, come una botola, si apre la porticina
dell’aula dell’udienza. L’impiegata fa l’appello, stila l’ordine di comparizione
testi, prende nota di eventuali richieste. Arriva il tuo turno. Reciti
l’orazione secondo verità, declini le generalità, rispondi ad avvocati e pm. Il
giudice tace, non tradisce emozioni, ascolta. Incombe un silenzio da sala
operatoria. Sbrigata la deposizione, vieni gentilmente accomiatato. «Si può
accomodare». E sei messo alla porta con neanche una mosca che vola. Seicento
chilometri più a sud è tutta un’altra musica. A Roma ci arrivi la sera prima.
Pernotti. Non puoi fare altrimenti. L’udienza è fissata alla stessa ora, sullo
stesso fuso orario della giustizia ambrosiana. Insomma, sono le 9 del mattino e
nell’aula della cittadella giudiziaria capitolina non c’è anima viva. Passa un
quarto d’ora e arriva un tizio che ha l’aria del mio pony fornitore di giornali.
Ha una sua grazia nella strampalata t-shirt che indossa e nel trasportare una
pila di fascicoli che finirà sulla scrivania della corte in un bel tonfo
rimbombante per tutta l’aula. Verso le 9.30 si appalesano avvocati e altri tizi,
seguiti da cai e semproni. In piedi, salutiamo la messa in moto della macchina
giudiziaria: entra il giudice monocratico. Breve conciliabolo con il
cancelliere. Partono le udienze. E il giudice sale in cattedra. Dirige il
traffico delle domande dell’avvocatura. Azzittisce chi chiacchiera. Interroga i
testi con puntiglio e vivacità oratoria. Giganteggia per autorità e competenza.
Si avverte in lui addirittura un tocco di umanità e l’acume di non dare per
scontato alcun elemento istruttorio. Insomma, ha un impianto da persona non
supponente, cerca di capire, entra nei dettagli. Il problema è quella pila lì.
Fascicoli che si affastellano sul suo tavolo senza una apparente logica. Delitti
gravi e reati bagatellari sono sullo stesso piano e finiscono nello stesso
ingorgo. È sufficiente lo spettacolo di una mattina di udienze romane per avere
la fotografia della giustizia italiana. Che in virtù dell’obbligo dell’azione
penale è come un gigante a cui è stato assegnato l’impossibile compito di
risolvere tutti i conflitti e lenire tutte le disgrazie in seno alla vita di un
popolo. E in più con un assurdo peso sulle spalle, gravando sul
gigante-magistrato pure la faticaccia di traversare le sabbie mobili del
giudizio alla luce abbacinante dei media. Che, inevitabilmente,
heideggerianamente, invariabilmente, invece della trasparenza realizzano il
rumore e l’oscuramento di tutto. Colpisce vedere un pubblico ministero caricato
dell’intera casistica che passerà al vaglio della corte nel corso di questa
giornata di prima estate. Come farà a studiarsi i contenuti della quotidiana
pila di fascicoli e presentarsi a dibattimento in aula sapendo quello che fa,
quello che dice, quello che chiede come sentenza? Quanto alla spicciolata di
cause che scorrono sotto i nostri sensi, si comincia da una denuncia per
violenza privata, rissa, danni per traumi fisici, psicologici, morali eccetera.
La montagna si rivelerà il topolino di una baruffa chiozzotta tra donne. Con
tre-quattro equipaggi di volanti intervenuti su segnalazione della titolare di
una macelleria che testimoniano cose al limite dell’ilarità. A un certo punto
spunta il mancato pagamento di una “prestazione”. «Scusi – fa il giudice al
poliziotto – che genere di prestazioni?». «Beh, pare che una signora non avesse
pagato la parrucchiera». «Ah, la parrucchiera. Ma che c’entra la macelleria?».
«C’entra perché l’altra signora è l’esercente di carni e la rissa è avvenuta
proprio davanti al suo negozio». «Ma ci sono stati feriti?», chiede il giudice a
un altro poliziotto di una seconda volante presente sulla scena del delitto.
«No». «Ah – riprende il giudice – non ci sono stati feriti… Dunque si è trattato
di un alterco. È così?». «No – interviene il pm – è stato infranto un vetro e
distrutto un telefono…». «Quale vetro e quale telefono?», incalza il giudice. In
breve, dopo la sfilata delle volanti, l’assenza di feriti e nessun bollettino
medico, si viene a sapere che il vetro infranto è in realtà un vetro scheggiato
e il telefono di cui nessuno dei testi ricorda la tipologia è un cordless della
macellaia che nella concitazione – non si è capito per colpa di chi e perché – è
stato raccolto in pezzi a terra. L’udienza viene aggiornata a novembre. Sempre
con lo stesso pm, ma con un diverso avvocato d’ufficio, segue il caso di una
donna di colore che ha rubato due camicette in un grande magazzino. Di nuovo,
sporta denuncia da parte del direttore del negozio, «anche se la signora si è
mostrata collaborativa quando è stata scoperta e fermata dalla guardia privata»,
il pm non può far altro che rappresentare l’obbligo dello Stato a perseguire il
reato. Risultato? Sentenza costituzionalmente ineccepibile e umanamente
abominevole. La povera incensurata si becca sei mesi di carcere e 800 euro di
multa. Segue vicenda notte magica italiana. Una bella, giovanissima e molto ben
equipaggiata brasiliana è testimone d’accusa e parte lesa in una movimentata
avventura notturna avuta con un giovanotto, iniziata in discoteca e finita prima
a letto e poi a botte. Due sono le versioni. La bella sostiene che dopo essere
stata convinta dal giovanotto a passare la notte con lui in cambio di un
“regalo” (mille euro), già ubriaca di beveroni e dopo essersi fatta convincere a
strafarsi anche di cocaina, al settimo rapporto sessuale ha detto basta, sono
stanca, non ce la faccio più. Il giovanotto a quel punto, per non sapere né
leggere né scrivere, avrebbe preteso la restituzione del “regalo” e pure le
chiavi dell’automobile di lei». La bella descrive tutto nei minimi particolari.
In estrema sintesi: «Intorno all’una di notte il tale mi ha avvicinato in
discoteca e mi ha offerto il “regalo” in cambio della notte insieme. Saremo
arrivati a casa mia alle tre, alle sei mi ha menata, è scesa la mia amica, gli
ha spruzzato lo spray al peperoncino, lui è scappato, poi però mi ha chiesto
scusa e mi ha restituito il regalo e le chiavi. Mi chiedeva di perdonarlo perché
stava fuori di testa (“ho moglie e figlio”, diceva), poi la polizia se l’è
portato via e io sono andata con la mia amica al pronto soccorso. Perdevo sangue
dal naso. Avevo paura». Domanda il giudice: «E al pronto soccorso cosa le hanno
detto? Dico, le hanno riscontrato ferite? Ha detto di essere stata presa a calci
in faccia, è così?». «Sì, è così, ma il naso non era rotto e il medico mi ha
dato una settimana di riposo». Versione della bestia (presunta). Ammette la
nottata folle. Ma smentisce che abbia preso a calci la bella («che sennò cor
peso che c’ho ’a sdrumavo»), la circostanza dei sette rapporti sessuali («ecche
so’ Tarzan?!»), l’ora del fattaccio («ma quali tre de mattina, sarò arivato a’e
cinque»). Poi si rivolge al pubblico forse cercando gli occhi della bella: «Aò,
ma se stavo nudo sur letto, strafatto, t’ho visto che me rubbavi nei
pantaloni…». Ma non fa in tempo a finire la frase che il giudice lo richiama:
«Scusi, forse non ha capito, deve rivolgersi alla corte, non all’uditorio». Il
ragazzotto cerca di biascicare una replica e il giudice stavolta si incazza: «E
non mi dia sulla voce! Si limiti a rispondere alle domande! Ha capito?».
L’imputato si stremisce e tace. «Le ho chiesto se ha capito. Ha capito?» «Sì,
sì, signor giudice, me scusi…». Ed è come un pallone sgonfio che per un po’
risponde solo a monosillabi. «Sì, no, no, sì, sì, sì…». Ma toccato sul soldo
arriva la scarica di adrenalina: «Eh no, giudice, ma quali mill’euri! So’
arivato da lei a’e cinque: e che je davo, mill’euri pe’ du ore? J’avrò dato
trescento… mannò, che dico, saranno stati duscento ar massimo. Poi quann’ho
visto ’a mano ’nfilata nella tasca dei pantaloni nun c’ho visto più: aò, j’ho
detto, ma che stai affà?! E j’ho dato ’no schiaffo. E l’ammetto: pure ’no
spintone, ma carci no». «Prosegua», fa il giudice un po’ scettico. «E che je
devo dì? So passato prima da un amico a prenne i sordi». «Ma scusi, non aveva
già con sé i mille euro del “regalo”?». «Vabbè, mica potevo annà ’ngiro senza
sordi». «Ah, “in giro senza soldi”, dice lei», ironizza il giudice. «Sì vabbè,
c’avevo questi mille, che poi duscento l’ho dati a lei, ma poi dar mio amico ne
ho presi artri cinque-seicento e…». «Dunque, dopo che alla signorina ha
restituito il “regalo”, aveva con sé altri cinque-seicento euro. Soldi che le
servivano per cosa?». «Ma quali sordi? Quella nun m’ha ridato niente, so’ scese
queste cor peperoncino, nun c’ho capito più niente, è arrivata ’a polizia e m’ha
portato ar gabbio». «Ci sta dicendo che i soldi li ha lasciati nell’appartamento
della signorina?». «Embè, io quelli nun l’ho più rivisti, là li ho lasciati, che
tra peperoncino e strafatto di alcol e cocaina com’ero nun c’ho capito più
niente». L’udienza viene aggiornata al 2015. Causa quarta e testimone d’accusa
un’istruttrice di polizia. Il caso riguarda un automobilista fermato senza Rc
auto. Seguiva verbale di sequestro dell’auto, apposizione dei sigilli,
intervento del carro attrezzi, trasferimento del veicolo medesimo presso un box
indicato dal proprietario dell’auto. Fatto avvenuto nel 2010. «L’anno seguente –
prosegue il teste della polizia – nel corso di un sopralluogo constatiamo che
all’indirizzo indicato non c’è alcun box e neanche il veicolo». Ennesimo obbligo
di legge, scattano denuncia e processo a carico del proprietario. Processo che
si attorciglia su carte, verbali, carri attrezzi e su chi ha firmato cosa e per
conto di chi. La sostanza è che l’auto è sparita. Il pm conclude la sua breve
requisitoria con una richiesta di assoluzione perché «non sappiamo dove è stato
portato il veicolo, il box non è mai esistito, il bene è scomparso». Camera di
consiglio: l’imputato è assolto. Siamo solo a metà mattina. Sotto i nostri occhi
scorre la povera Italia. E potrebbe essere chiunque incappi in un colpo di
testa, una disgrazia, nell’irruzione del male o del burocratese. C’è il marito
che picchia la moglie un giorno sì e l’altro pure. C’è la vertenza per danni
patrimoniali tra soci di una srl. Una per diffamazione a mezzo stampa e un’altra
che non inizia nemmeno causa vizio di notifica. La giornata del giudice, del
cancelliere, degli avvocati, dei testi e degli imputati, non è ancora finita
quando lasciamo l’aula. Roma ci ha riconciliati con la legge. Roma non è il
porto delle nebbie. Roma è la luce abbagliante sulla guida a fari spenti nella
notte della giustizia italiana.
E poi ci meravigliamo della
realtà che ci circonda, aliena ai controlli.
Mafia Capitale: “tra
fascisti e ladroni”, scrivono quelli di sinistra. Sì, proprio quelli che
indicano la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei propri occhi. In un
mondo di sopra, di sotto, di mezzo, nessuno si salva: cittadini ed istituzioni.
Dopo gli arresti di ex
terroristi neri e affaristi che tenevano in pugno la Roma di Alemanno, è caccia
al tesoro della banda. Ecco la storia dell’inchiesta , al loro dire profetica,
condotta da "l'Espresso",
scrive Lirio Abbate.
Quella scattata martedì 2
dicembre 2014 è solo la prima ondata di uno tsunami giudiziario che ribalterà il
ventre di Roma. Una metropoli finita nelle mani della “
Mafia Capitale ”, l’organizzazione
guidata da Massimo Carminati, “er Cecato”: una leggenda nera costruita in
quarant’anni di crimini dal terrorismo di destra all’epopea della Magliana,
rimasti quasi sempre senza conseguenze giudiziarie. «Un bandito ricco», talmente
ricco da faticare per nascondere i soldi che ha accumulato con i suoi traffici.
Un manager che ha costruito il suo potere dominando quello che chiamava «il
mondo di mezzo»: la sterminata zona grigia che unisce il Palazzo alla strada,
quella dove - si vantava - comandava lui. L'azione in cui è stato fermato sulla
sua Smart in via Monte Cappelletto, una stradina di campagna a Sacrofano, poco
lontano dalla sua abitazione, l'ex terrorista dei Nar al centro dell'inchiesta
Mafia Capitale. Il boss era pronto a darsi alla fuga e per la cattura i
carabinieri del Ros hanno chiesto la collaborazione del nucleo "cacciatori"
dell'Arma di Roma. Carminati si compiaceva del suo ruolo. Anche quando
l’inchiesta de “l’Espresso” nel dicembre
2012 svela per la prima volta la sua rete criminale, si mostra
spavaldo, convinto di sapere sfruttare la fama criminale per moltiplicare gli
affari senza bisogno di minacce. Ma sono proprio quelle parole registrate dalle
microspie a fornire l’ossatura giuridica per l’inchiesta che adesso lo ha
travolto. Nonostante contromisure ad alta tecnologia, come i jammer per
disturbare gli apparati d’ascolto, i carabinieri del Ros del generale Mario
Parente sono riusciti a intercettarlo mentre istruiva i suoi “soldati” e
illustrava la sua strategia mafiosa, indicando i politici collusi, e i pubblici
ufficiali corrotti, e il canale migliore per investire all’estero. Quelle lunghe
conversazioni, spesso captate nella stazione di servizio di Corso Francia che
aveva trasformato in ufficio a cielo aperto, offrono l’affresco cupissimo della
devastazione morale di una capitale: un sacco proseguito per anni che ricorda
quello storico dei Lanzichenecchi. Come tutte le mafie anche questa ha la sua
trasversalità politica. Il nucleo sono i vecchi camerati, che adesso hanno messo
giacca e cravatta come l’ex sindaco Gianni
Alemanno, indagato. Ma la rete poi si è estesa a tutti i partiti,
mettendo letteralmente a libro paga esponenti di destra, sinistra e centro. «Se
Carminati, il capo dell’organizzazione viene dall’eversione dell’estrema destra
romana, il suo braccio destro Salvatore Buzzi, ha un passato nell’estrema
sinistra già condannato in maniera definitiva per un omicidio del 1980. Buzzi è
oggi al comando di una serie di cooperative composte da ex detenuti che operano
nel sociale e gestiva per l’organizzazione criminale appalti nelle aziende
municipalizzate e del Comune di Roma», spiega il procuratore Giuseppe Pignatone.
Ma come dice Buzzi in una intercettazione «la politica è una cosa, gli affari sò
affari». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di
droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro
imprenditoriale di Massimo Carminati. E che affari. Gli investigatori hanno
sequestrato beni e depositi per un valore di duecentodieci milioni di euro. Ma
sanno che c’è molto di più e puntano sul cuore del tesoro. Vogliono trovare le
cassaforti e gli investimenti in cui i fascioladroni facevano fruttare i
proventi del loro impero. Tutte le tracce portano a Londra, dove sono
“rifugiati” molti ex dell’eversione nera e dove Carminati ha molti amici, che
nell’ultimo anno si sono presi cura anche del figlio de “er Cecato” spedito lì
in fretta e furia. Dopo aver trafficato in pietre preziose e in oro dall’Africa,
il boss del “mondo di mezzo” potrebbe aver nascosto in Inghilterra il suo
forziere. Nella City ha fatto tanti investimenti immobiliari, a partire da
Notthing Hill dove ha acquistato di recente appartamenti. Operazioni confessate,
sempre a sua insaputa, davanti alle microspie. Lui che ammette di essere ricco
sfondato, di avere tanti milioni ma deve nascondere bene il patrimonio:
ufficialmente è nullatenente, non può giustificare un tesoro così grande. Per
questo ha scelto la strada di Londra, dove vorrebbe far trasferire
definitivamente il figlio. «Ho pensato, apro una o due attività. Andrea sta lì.
Anche se fa un altro lavoro però controlla. A questo punto ha un reddito», dice
“er Cecato” che accenna a tante conoscenze nella City. «Avrebbe il mondo lì...»,
facendo comprendere che pure in Gran Bretagna ci sono molte persone a sua
disposizione. "Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non
capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò
t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle
intercettazioni telefoniche dei Ros. Per gli investigatori i contatti londinesi
gli sono stati garantiti dal latitante Vittorio Spadavecchia, un veterano della
comunità neofascista di Londra. Spadavecchia ha un passato nei Nuclei armati
rivoluzionari, è arrivato in Inghilterra nel 1982, costretto alla latitanza
dalle condanne per gli omicidi del commissario della Digos romana, Franco
Straullu, e di altri poliziotti. È stato condannato pure per numerose rapine
messe a segno per finanziare il terrorismo nero. Secondo le indagini, è con lui
che uno dei complici di Carminati, Fabrizio Testa, pianifica assieme al rampollo
del capo investimenti economici «di varia natura», come l’acquisto a Londra di
un immobile e l’apertura di un ristorante: il primo passo per creare una catena
di locali. Una holding che potrebbe venire decifrata mettendo le mani sul “libro
nero”, il registro occulto custodito dalla “cassiera” del clan, Nadia Cerrito
«che contiene una vera partita doppia del dare e avere illecito, dei destinatari
delle tangenti - uno dei costi illegali sostenuti dall’organizzazione per il
raggiungimento del suo scopo nel settore economico-istituzionale; che contiene
l’indicazione dei soggetti cui vengono veicolati i profitti, come Carminati,
shareolder ed esponente apicale dell’organizzazione illecita o come Testa, testa
di ponte di mafia capitale verso la politica e la pubblica amministrazione; che
contiene una rappresentazione del conto economico illecito dell’organizzazione,
con una specifica rappresentazione delle relative disponibilità extracontabili».
Non bastano i soldi però per impadronirsi di una metropoli. Perché un uomo al di
sotto di ogni sospetto come Carminati riesca ad assemblare una simile macchina
di potere e farla marciare indisturbata per anni servono coperture che vanno più
in alto. Nell’atto d’accusa dei magistrati si fa riferimento a questo “terzo
livello”, citando rapporti con istituzioni statali, forze dell’ordine e servizi
segreti. L’altro fronte dell’inchiesta, che deve decifrare quanto il sistema
criminale fosse affondato nel cuore dello Stato. Ma c’è pure una dimensione
orizzontale della collusione, un magma di complicità minute, dai medici ai
commercialisti, dai palazzinari ai burocrati, che hanno garantito la prosperità
della rete. Il rapporto che Carminati aveva creato con gli imprenditori viene
spiegato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino: «Le indagini hanno
consegnato una fotografia preoccupante, perché sovrapponibile al modus operandi
delle mafie tradizionali nel rapporto con gli imprenditori, che si rivolgono
all’organizzazione per avere protezione dall’aggressione della malavita
predatoria. Di fronte a questa richiesta scatta la tutela dell’organizzazione
mafiosa e, a fronte della protezione accordata, l’organizzazione non chiede
soldi, ma di entrare in affari con l’impresa. E ci riesce ottenendo un punto di
riferimento imprenditoriale, facce pulite attraverso cui realizzare i propri
interessi criminali». E poi aggiunge: «Carminati spiega così il suo approccio
con gli imprenditori: “l’obiettivo è entrare in affari, instaurare un rapporto
di tipo paritario che garantisce vantaggi reciproci. Mi puoi anche dire che mi
dai un milione per guardarti le spalle, ma dall’amicizia nasce un discorso che
facciamo affari insieme. Io ho fatto questo discorso a tutti, devono essere
nostri esecutori, devono lavorare per noi. Gli faccio guadagnare un sacco di
soldi”. L’obiettivo è dunque acquisire attività economiche che significa avere
appalti e servizi, soprattutto verso le pubbliche amministrazioni». Quelle
romane erano cosa loro. Al Comune negli anni di Alemanno avevano trovato sempre
le porte aperte, inserendo uomini di provata fedeltà in strutture chiave come
l’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, o l’Ente Eur, di cui era amministratore
delegato Riccardo Mancini (arrestato). Ma anche il cambio di giunta e l’arrivo
della sinistra del sindaco Ignazio Marino non intacca i loro business. Buzzi si
vanta di potere contare su sei dei nove assessori designati. Ora l’assessore
Daniele Ozzimo e il presidente
dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, entrambi del Pd, sono finiti sotto
inchiesta e si sono dimessi. Il partner di Carminati sostiene di non avere
problemi neppure con la Regione Lazio, dove ha chi gli tiene i rapporti con il
governo di Nicola Zingaretti. E poi c’è Luca Odevaine, un tempo braccio destro
di Walter Veltroni al Campidoglio e ora fondamentale per fare affluire nelle
cooperative dei fascio-ladroni quei profughi che «valgono più della droga». Ma
oltre ai politici stipendiati con un mensile fisso ci sono quelli pagati a
prestazione: una percentuale per ogni appalto. Nomi e cifre censite proprio nel
«libro nero» che adesso tutti vogliono recuperare.
Mafia
Capitale: Da "Er Cecato" a "o Pazzo" L'alleanza che detta legge nella Capitale.
Il clan fascio mafioso di Carminati e la camorra napoletana di Michele Senese
detto "O Pazzo" che a Roma Nord ha investito in ristoranti e locali. E al suo
servizio ha "La batteria di picchiatori di Ponte Milvio" con a capo Diabolik. Il
leader degli Irriducibili della Lazio, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”.
Roma Nord. Ponte Milvio. La zona diventata famosa dopo il film “Tre metri sopra
il cielo” diventata il luogo simbolo della Capitale per gli innamorati di tutto
il mondo, che qui facevano la fila per attaccare il loro lucchetto in segno di
amore eterno. Poi il XX municipio ha deciso, all'unanimità, la rimozione dei
lucchetti «per motivi di sicurezza e decoro». Però a Ponte Milvio negli stessi
anni, e ancora oggi, scorrazza una banda ben più pericolosa dei gruppi
organizzati di innamorati che si spingevano fin qui per legare alle ringhiere la
loro promessa di fedeltà. Questa zona chic di Roma, infatti, è sotto l'influenza
della Mafia Capitale di Massimo Carminati detto “Er cecato”, finita sotto
inchiesta dalla procura antimafia di Roma che ha iscritto cento persone nel
registro degli indagati, tra cui l'ex sindaco Gianni Alemanno, e ha arrestato 37
persone. Una cosca fatta da manager, vecchi terroristi neri, imprenditori rossi,
politici e reduci della Magliana. Un ibrido criminale la cui scoperta sta
rivoltando dall'interno il potere romano. Ma Carminati non è solo su quel
territorio. Da lui dipendono altri boss. In particolare gli uomini di Michele
Senese detto "o Pazzo". Nei rapporti degli investigatori vengono descritti
questi equilibri criminali di Roma Nord. I detective la chiamano la “Batteria di
Ponte Milvio”. Particolarmente agguerrita e pericolosa con a capo, scrivono gli
inquirenti, Fabrizio Piscitelli, conosciuto con il soprannome di Diabolik e noto
per essere il capo ultras degli Irriducibili della Lazio. Da settembre scorso è
in carcere per traffico di droga. Non solo, la guardia di finanza gli ha
sequestrato pure oltre 2 milioni di euro di beni. E scoperto che aveva in mano
la commercializzazione dei gadget della sua squadra del cuore. Ai suoi ordini
uno stuolo di picchiatori stranieri, albanesi e rumeni. Ma non finisce qui.
L'analisi dei carabinieri del Ros va in profondità e scopre che la Batteria
Diabolik è al servizio dei «napoletani insediati a Roma nord tra cui i fratelli
Genny e Salvatore Esposito che fanno capo a Michele Senese». “O Pazzo” è
considerato dagli inquirenti uno dei quattro Re della Roma criminale così come
aveva anticipato “l'Espresso” nell'inchiesta del 2012 sui sovrani della mala
capitolina. Il gruppo legato a Senese, scrivono gli inquirenti, controlla
diversi locali commerciali nella zona: «tra cui il pub Coco Loco, loro abituale
luogo di ritrovo». Il boss Senese è considerato un camorrista a tutti gli
effetti. La sua carriere inizia nella formazione del padrino Carmine Alfieri.
Contrapposti alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. E proprio negli
anni della guerra tra i due clan che Senese sceglie Roma come base logistica per
i traffici e gli investimenti. “Er Cecato” Carminati e “O Pazzo” Senese hanno
rapporti cordiali. E soprattutto interessi in comune. Si sono incontrati spesso
e anche dopo l'arresto di Senese sono stati registrati ulteriori contatti tra i
due clan. Ora pure Carminati è in carcere. Ma il loro regno non è ancora al
tramonto.
Eppure la
storia racconta un’altra cosa.
Scandalo di Capodanno 2015:
Vigili assenteisti dagli a Marino, scrive Aurelio Mancuso su “Il
Garantista”. Il diluvio di certificati medici giunti il 31 dicembre,
insieme a permessi per donazione di sangue, assistenza parenti o per gravi
motivi, per cui l’83,5% dei vigili urbani dell’urbe ha marcato visita, è un
altro grave segnale che si abbatte su una città colpita già dalle inchieste su
mafia capitale. Non sfugge a molti osservatori, che sia in atto un tentativo,
perlomeno varie azioni anche indipendenti tra loro, di disarcionare un sindaco
ritenuto scomodo, non compatibile rispetto a comportamenti, abitudini che si
sono sedimentate. Si percepisce che la “casta” compiacente, o peggio che si
faceva corrompere o si associava ai progetti criminali sugli appalti, sulla
povera gente, sia la parte più esposta di un andazzo generale coerente con la
volontà di aggirare le regole, di utilizzarle per condizionare la politica, per
mantenere sempre un clima di emergenza. Di tutto questo si avvantaggia
sicuramente Matteo Renzi, che ha buon gioco a scrivere su twitter: «Leggo di 83
vigili su 100 a Roma che non lavorano ”per malattia il 31dic. Ecco perché nel
2015 cambiamo regole del pubblico impiego. #Buon2015». Così un episodio
gravissimo, collegato anche all’atteggiamento degli autisti della metro A che
solo in sette su ventiquattro si son presentati la sera di Capodanno, diventa
immediatamente questione nazionale, rende “inevitabile” l’intervento del
governo, per correggere le storture come quelle emerse a Roma. I vigili non
vogliono che parta la rotazione prevista dalla riforma varata dal comandante e
appoggiata convintamente da Marino e, avevano minacciato un’assemblea sindacale
proprio nella notte di San Silvestro, gesto poi rientrato, che però in molti
sospettano sia stato trasformato in quello che è avvenuto: uno pseudo sciopero.
La prima reazione del Campidoglio non lascia dubbi su come la pensa Marino:
«Stigmatizza l’atteggiamento di quanti hanno cercato di sabotare i
festeggiamenti del Capodanno con una diserzione numerica assolutamente
ingiustificata». Lo staff del sindaco accusa che le divergenze sorte nelle
ultime settimane sul fronte della rotazione degli agenti o sulla definizione del
salario accessorio: «Sono state prese a pretesto per venir meno alla propria
professionalità e ai propri doveri. Perciò sarà rigorosamente ricostruita
l’intera vicenda a favore dell’autorità giudiziaria e di garanzia. Ogni condotta
illecita sarà sanzionata amministrativamente». Le opposizioni se la prendono
però con il sindaco. Giovanni Toti consigliere politico di Fi denuncia: «Roma
città fuori controllo: 83,5% dei vigili assenti a Capodanno. Macchina
amministrativa bloccata e il Pd non vuole votare». Gli fa eco Matteo Salvini,
segretario della Lega: «A Roma vigili e autisti di autobus protestano. Invece di
prendersela con loro, Renzi licenzi il primo problema della città: il sindaco
Marino». Ogni occasione è buona per contestare il sindaco chirurgo, però nessun
esponente della passata maggioranza di centro destra che ha amministrato la
capitale, riconosce ciò che ai cittadini romani appare lampante: negli scorsi
anni la macchina comunale è stata abbandonata e questo ha determinato un
generale abbassamento del rispetto delle regole, ma soprattutto degli utenti che
ogni giorno subiscono un generalizzato disservizio. Marino non ci sta e anche
lui su facebook lapidario scrive: «Non sono riusciti a guastare la festa. In 600
mila abbiamo passato il capodanno in piazza. Ma chi ha provato con assenze
ingiustificate e ingiustificabili a far saltare tutto ne deve rendere conto.
Stiamo facendo tutte le verifiche per accertare le responsabilità». E’ probabile
che molti impiegati pubblici non abbiano compreso che dall’emersione dello
scandalo “mondo di mezzo”, Roma è diventata il luogo su cui si giocherà la
credibilità non tanto del primo cittadino ma del presidente del Consiglio,
intenzionato, come segretario del Pd, attraverso il commissariamento di
rivoltare come un calzino il partito locale e, con azioni dell’esecutivo, tra
cui la riforma Madia in discussione al Senato, di rimuovere tutte le posizioni
di rendita, privilegi, comportamenti lassisti. Per chi ancora avesse dubbi è lo
stesso sindaco a chiarire: «Ringrazio il premier Renzi e il ministro Madia per
il sostegno che stanno dando alla nostra iniziativa. Chi ha finto di essere
malato, chi ha inventato scuse ne dovrà rendere atto nei modi previsti dalla
legge e assumersi le propria responsabilità. A chi ha lavorato e lavora per la
città vogliamo ribadire la nostra gratitudine e quella dei romani». I sindacati
confederali dopo un giorno di silenzio, ieri hanno emanato un comunicato stampa:
«Stigmatizziamo con forza i disagi che si sono verificati nella notte di
capodanno, è nostra opinione che le responsabilità di quanto successo vadano
ricercate comunque a 360 gradi, e gli abusi se accertati, puniti. Anche questa
volta non abbiamo in nessun modo dato indicazioni ai lavoratori difformi da
quanto previsto dalle norme, contratti e regolamenti». La premessa, che serve a
chiamarsi fuori da ogni responsabilità, però è più chiara quando lascia il posto
alla risposta politica: «Pretendiamo che sulla vicenda si faccia totale
chiarezza. Anche perché le dichiarazioni di queste ore da parte di
amministrazione e governo che sparano nel mucchio finiscono per alimentare
polemiche dannose e strumentali che non risolvono i problemi. Quanto sta
accadendo non fermerà le nostre rivendicazioni, invece dimostra come sia
indispensabile per cambiare le cose ricercare soluzioni condivise con il
coinvolgimento dei lavoratori». Il Garante per gli scioperi e persino la
magistratura valuteranno l’accaduto, rimane che, i sindacati scrivono: “Bisogna
interrogarsi sul clima di esasperazione”, rischiando di fornire un lasciapassare
culturale a chi ha utilizzato giuste tutele per scopi non nobili. Alcuni però,
vigili interpellati dalle agenzie si sono difesi: «Non possono obbligarci a
farlo. Alle 19 del 31 hanno fatto scattare la reperibilità. Non c’era nessun
motivo. La reperibilità si fa per motivi di emergenza, come la neve, alluvioni,
terremoti o altre calamità. Solitamente la notte di Capodanno lavoravamo in 700
in straordinario. L’anno scorso ce ne sono stati 450. Quest’anno era in strada
solo chi aveva il turno. Niente straordinari. Quindi tutto è in regola».
Capodanno 2015 a Roma,
l'83,5% dei vigili in turno si dà malato. Il comandante: "Diserzione che infanga
l'intero corpo". Polemiche per l'incredibile numero di certificati per
malattia, donazione sangue e disabilità giunti. Sullo sfondo lo scontro sul
contratto decentrato. Il Campidoglio: "Tutto è andato bene grazie ai sostituti
reperibili". Ma il vicesindaco accusa: "Un dato inaccettabile, a rischio la
sicurezza dei cittadini". Ritardi anche nella metro e Atac ammette: "A San
Silvestro, presenti solo 7 autisti su 24", scrive “la
Repubblica”. Per la notte di Capodanno, l'83,5
per cento dei vigili che dovevano lavorare era assente per malattia, donazione
sangue, disabilità. A renderlo noto è il Campidoglio. "La serata e la nottata si
sono svolte senza intoppi per la mobilità e la sicurezza delle 600 mila persone
che hanno festeggiato l'arrivo del 2015 nelle strade della Capitale, a via dei
Fori Imperiali e al Circo Massimo. Il servizio degli agenti della Polizia locale
di Roma Capitale è stato garantito grazie al previdente ricorso all'istituto
della pronta reperibilità, affinché si potesse disporre di un numero sufficiente
di personale da impiegare nei servizi di viabilità finalizzati alla sicurezza
stradale. Sono state impiegate circa 470 unità, 240 dalle ore 18.00/19.00 (75 di
reperibilità) e circa 230 dalle ore 24.00 (45 di reperibilità). Inizialmente, i
servizi di Capodanno prevedevano di impiegare circa 700 unità, come nei
precedenti anni, in turno straordinario. Ma la mancata adesione allo
straordinario aveva indotto il comando del corpo a disporre una ridistribuzione
di tutto il personale". Il comunicato del Campidoglio fa riferimento alla dura
battaglia dei giorni scorsi, con i vigili che avevano deciso di riunirsi in
assemblea e il Prefetto che li aveva richiamati perchè lavorassero. "Dopo il
differimento dell'assemblea sindacale dei giorni scorsi, prevista proprio per il
31 dicembre a ridosso della mezzanotte, già ieri pomeriggio era apparso chiaro
che, a fronte della iniziale disponibilità di 1000 agenti (in servizio ordinario
per il turno di seminotte) si sarebbe giunti progressivamente a 165 unità, per
un totale di 835 assenze dell'ultima ora (-83,5%), motivate da malattia,
donazione sangue, legge 104, legge 53 art. 19 ecc.. Inoltre, per il turno di
notte dal numero iniziale di 300 unità previste si sarebbe arrivati a 185 unità,
con 115 assenze riconducibili alle medesime motivazioni (percentuale di assenza
del 38%). Ciononostante, proprio grazie alla reperibilità, è stato possibile
garantire tutte le chiusure stradali, nonché governare l'afflusso e il deflusso
dei tantissimi cittadini e turisti in strada a festeggiare". "Il dato delle
assenze per malattia e altre motivazioni, pari all'83,5% è talmente rilevante
numericamente da essere inequivocabile e inaccettabile. E poteva essere molto
grave per la città di Roma. Tanto più perché arriva nel momento in cui, per
altri versi, stiamo cercando un terreno comune di confronto, per concludere
positivamente la questione sul contratto decentrato", commenta in una nota il
vicesindaco Luigi Nieri. "Nessuno mai, e io per primo, mette in dubbio il
legittimo diritto di sciopero per i lavoratori, o il duro ma leale dialogo con
l'amministrazione sulle questioni sindacali. Altro - prosegue Nieri - è la
mancata assunzione di responsabilità di fronte alla città e ai romani, in
occasione di un appuntamento fisso, popolare e seguitissimo, che ieri ha portato
in strada a festeggiare il nuovo anno oltre 600mila persone. Il mio più sincero
ringraziamento va invece a tutti gli agenti che ieri sera sono scesi in strada
per lavorare, con senso di responsabilità e del dovere, per permettere al resto
dei cittadini di divertirsi". Parla anche il comandante generale della polizia
locale Raffaele Clemente: "Gli agenti che hanno lavorato ieri sera e ieri notte
hanno compiuto un eccellente lavoro e per questo li ringrazio, a nome
dell'amministrazione, della città e mio personale. Diversamente, non posso che
stigmatizzare l'atteggiamento di quanti, tra i miei colleghi, hanno cercato di
sabotare, con una diserzione numerica assolutamente ingiustificata, la festa
popolare del Capodanno, cercando di mettere a repentaglio la sicurezza dei
cittadini ma anche il buon nome dell'intero Corpo degli agenti della Polizia
locale e della città di Roma. Le divergenze sorte nelle ultime settimane o mesi,
sul fronte della rotazione degli agenti o sulla definizione del salario
accessorio - conclude Clemente- non dovrebbero essere prese a pretesto per
venir meno alla propria professionalità e ai propri doveri . Per questa ragione,
per un evidente bisogno di equità nei confronti di quanti ieri hanno prestato il
proprio dovere con professionalità e spirito di abnegazione sarà rigorosamente
ricostruita l'intera vicenda a favore delle autorità giudiziaria o di garanzia.
Ogni eventuale condotta illecita sarà sanzionata amministrativamente".
L'ATAC. E nella notte
di San Silvestro, rallentamenti fino a 20-25 minuti d'attesa sulla metropolitana
A, secondo quanto sostiene la stessa azienda che parla di corse più lente a
causa dell'assenza di conducenti nel turno straordinario 23.30-2.30, cioè quello
oltre l'ordinario orario di chiusura del servizio metropolitano, organizzato in
occasione della notte di San Silvestro. Nello specifico, sui convogli della
linea A della metro - dove sono in totale 150 i macchinisti in servizio - erano
disponibili solo 7 conducenti sui 24 che sarebbero stati necessari a garantire
la regolarità del servizio. Per questo, fanno sapere dall'azienda, le corse sono
state più lente dalle 23.30 fino a fine servizio, "circa 10-15 minuti di attesa
a fronte di 5". "E' stato invece regolare il servizio sulla linea B",
garantiscono dall'Atac.
Vigili malati, «azioni
disciplinari». E il comandante va in procura. Madia: «Attivato
l’ispettorato». Indagine interna in Campidoglio, all’esito della quale gli atti
potrebbero essere inviati alla magistratura. Anche l’Autorità di garanzia sugli
scioperi apre un procedimento, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il
Corriere della Sera”. Più di otto vigili su dieci in malattia e solo
sette macchinisti su 24 alla guida dei treni della metro A: smaltiti i brindisi
e i fuochi d’artificio, è bufera sull’astensione di massa della notte di
Capodanno. Il primo a intervenire è il premier Matteo Renzi, che su Twitter
scrive: «Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano “per malattia” il 31
dicembre. Ecco perché nel 2015 cambiamo le regole del pubblico impiego
#Buon2015». Poco dopo il commento del presidente del Consiglio, ecco l’affondo
del ministro Marianna Madia: «Ispettorato ministero Funzione pubblica subito
attivato per accertamenti violazioni e sollecito azioni disciplinari» assicura
in un tweet la titolare della Pubblica amministrazione. E nel pomeriggio il
comandante dei vigili, Raffaele Clemente affida l’indagine interna alla sua vice
Raffaella Modafferi: dovrà portare alla luce la verità e metterla a conoscenza
delle autorità interessate: quella giudiziaria (nel caso si ravvisassero reati
penali), quella amministrativa (per uso e valutazioni interne) e, infine, quella
di garanzia (Garante degli scioperi). Poi nella serata del 2 gennaio il premier
Renzi è tornato sulla vicenda con un post su Facebook: «Il 2015 sarà l’anno
della riforma costituzionale e della nuova legge elettorale. Ci occuperemo di
cultura, scuola, Rai, green-act, lavoro. Di pubblico impiego, di modo che non
accadano più vicende come quella di Roma dove la notte del 31 dicembre l’83% dei
vigili urbani è rimasto a casa per malattia o donazione sangue». La linea dura
di Palazzo Chigi è condivisa dal Campidoglio, il vice sindaco Luigi Nieri aveva
annunciato in mattina dell’avvio dell’indagine interna aggiungendo: «In tempi
rapidi si avranno dei risultati, in base a questi si deciderà se interessare la
magistratura». Su Facebook il sindaco Ignazio Marino da un lato esulta per la
notte di festa filata liscia anche senza municipale, dall’altro avverte che la
«fuga» dalle strade avrà conseguenze:«Non sono riusciti a guastare la festa. In
600 mila abbiamo passato il Capodanno in piazza. Ma chi ha provato con assenze
ingiustificate e ingiustificabili a far saltare tutto ne deve rendere conto.
Stiamo facendo tutte le verifiche per accertare le responsabilità. Ringrazio il
premier Matteo Renzi e il ministro Marianna Madia per il sostegno che stanno
dando alla nostra iniziativa». «A Roma vigili e autisti di autobus protestano.
Invece di prendersela con loro, Renzi licenzi il primo problema di Roma: il
sindaco Marino!». ha commentato su Facebook il segretario della Lega, Matteo
Salvini. E contro il sindaco, su questa vicenda, si sono schierati numerosi
esponenti di centrodestra: da Alfio Marchini («città paralizzata dall’incapacità
amministrativa del sindaco») a Giorgia Meloni, Fratelli di Italia («Roma non
merita un sindaco che non ha neanche il controllo del suo personale»). In realtà
per «interessare la magistratura» (sono le parole di Nieri) non si attende la
fine dell’indagine interna. Già a fine mattinata il comandante dei vigili,
Raffaele Clemente, viene notato nei corridoi di piazzale Clodio. Al primo piano
del palazzo di giustizia infatti incontra il procuratore aggiunto Maria
Monteleone: l’accordo è che per ora la magistratura resta in stand by, in attesa
dell’esito dell’ispezione avviata dal Comando generale della polizia municipale.
Questa durerà alcuni giorni e al termine, se emergeranno indizi di reati, gli
atti verranno inviati alla procura. E non solo il governo. Anche l’Autorità di
garanzia per gli scioperi avverte che aprirà un procedimento di valutazione
sull’«epidemia» della notte di San Silvestro. Al termine delle verifiche,
potrebbero essere adottate le sanzioni previste dalla legge, perché lo sciopero
nei servizi pubblici essenziali è possibile - ricorda il garante - solo
all’interno delle regole della 146 del ‘90. Sul fronte politico, mentre il Pd
prende le distanze dall’astensione di massa della municipale, Forza Italia ne
approfitta per attaccare Palazzo Chigi sul Jobs act. «Pur potendo accampare
altrettante rivendicazioni - osserva il capogruppo democratico in Campidoglio
Fabrizio Panecaldo - non per questo poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco,
medici, infermieri, fornai, trasportatori, operai, volontari, assistenti sociali
si sono dati malati in massa abbandonando la comunità a se stessa. Su questa
vicenda si deve andare fino in fondo». Alessandro Cattaneo, di FI, sottolinea
che se da una parte «non si possono legittimare certi comportamenti», dall’altra
i vigili «possono dormire sonni tranquilli, grazie a un Jobs act che non ha
toccato minimamente la pubblica amministrazione». Anche l’Udc, attraverso il
vicesegretario vicario Antonio De Poli, vuole punire la municipale: «Contro i
fannulloni serve una linea dura. Vanno individuati i responsabili che hanno
permesso una situazione così grave e anomala». Nè la polizia municipale trova un
qualche sostegno nelle associazioni dei consumatori. È drastica l’Aduc, che
propone di ricominciare da zero: «Se per il Capodanno di Roma Caput Mundi si
presentano 165 vigili sui 900 previsti, vuol dire che occorre sciogliere il
Corpo e definire nuovi assetti. Stessa sorte dovrebbe toccare all’Atac, che con
sette autisti presenti su 24 sulla linea A della metro ha creato non pochi
disservizi». A difendere la municipale, insomma, restano solo (alcuni)
sindacati, che giustificano i vigili assenti con motivazioni diverse. Per Franco
Cirulli, della Uil, «la maggior parte ha donato il sangue e, come previsto dal
contratto collettivo nazionale di lavoro degli enti locali, era esentata dal
servizio». Il segretario del Sulpl Stefano Giannini sostiene invece: «La maggior
parte delle assenze non è stata per malattia, ma per ferie. La verità è che è
stato tenuto in servizio un numero di agenti non in grado di coprire
l’ordinario. C’è stato un errore di valutazione». E Stefano Lulli, dell’Ospol,
precisa: «Il dato delle malattie, a quanto ci risulta, è stato di meno del 50%.
Considerati gli agenti malati da giorni, il numero relativo al solo 31 dicembre
si abbassa ulteriormente. I medici, poi, le hanno certificate». Anche secondo
Lulli c’è stato «un problema di disorganizzazione del comando. In tanti stavolta
non hanno aderito volontariamente allo straordinario e questo non è stato
calcolato. Il tutto in un Corpo che ha 2.500 agenti in meno rispetto a quelli
che dovrebbe avere».
Vigili assenti a Roma la
notte di Capodanno, ennesima figuraccia "capitale". La ripicca sindacale dei
caschi bianchi che non vogliono accettare le nuove regole, scrive
Claudia Daconto
su “Panorama”.
L'unica vera malattia che può aver tenuto a casa l'83% dei vigili urbani di Roma
la sera di Capodanno si chiama “ricatto”. Da mesi infatti i caschi bianchi sono
sulle barricate contro l'introduzione del contratto decentrato (che interviene
anche sul salario accessorio) e il piano anti-corruzione che, tra le altre cose,
prevede la rotazione degli agenti sui territori. Così, quando il Prefetto ha
vietato che si riunissero in assemblea a ridosso della mezzanotte del 31
dicembre, improvvisamente loro si sono ammalati, hanno dovuto prestare
assistenza a parenti disabili o sono stati colti da un irrefrenabile slancio di
generosità e sono andati a donare il proprio sangue. L'ultima notte dell'anno,
mentre per le strade del centro di Roma, tra via dei Fori Imperiali e il Circo
Massimo, c'erano 600mila persone che festeggiavano l'anno nuovo. Con i rischi
per la sicurezza che si corrono ogni volta che tanta gente si concentra in uno
spazio limitato. Tutto è andato bene solo perché era stato disposto l'istituto
della pronta reperibilità proprio per far fronte al forfait rifilato non tanto
ai propri superiori, ma alla città stessa, dalla stragrande maggioranza dei 700
caschi bianchi cui era stata chiesta la disponibilità a fare un turno
straordinario. Ma è stata, lo stesso, l'ennesima figuraccia “capitale. Il
comandante Raffaele Clemente ha parlato senza mezzi termini di tentativo di
sabotaggio, di una “diserzione che infanga l'intero corpo. Il sindaco Ignazio
Marino ha accusato i vigili assenti di essere “ingiustificabili”. Il vicesindaco
Luigi Nieri ha definito le assenze “inequivocabili e inaccettabili” e fatto
sapere che è stata aperta un'indagine. A livello nazionale il ministro della
Pubblica amministrazione Marianna Madia ha annunciato l'invio di ispettori e
sollecitato azioni disciplinari. Il premier Matteo Renzi ha twittato: “Leggo di
83 vigili su 100 a Roma che non lavorano “per malattia” il 31 dic. Ecco perché
nel 2015 cambiamo regole pubblico impiego”. Il sindacato Sulpl ha giustificato
gli agenti con la scusa del “piano ferie sbagliate” mentre il Garante sugli
scioperi ha fatto sapere che sarà aperto un procedimento di valutazione. I
romani, nel frattempo, hanno già fatto le loro. Quella dei vigili urbani è
sempre stata tra le categorie meno amate. E non solo per la raffica di multe che
in una città caotica e indisciplinata come Roma è facilissimo prendere. Ma
soprattutto per i tanti casi di corruzione, minacce, estorsioni a loro carico
svelati da inchieste giudiziarie più o meno recenti che hanno travolto non solo
i semplici dipendenti ma addirittura i massimi vertici. Adesso sarà anche
peggio. Perché venendo meno - è il giudizio dei più - a senso del dovere e
responsabilità, hanno dimostrato di guardare solo al proprio giardino. Il loro
egoismo li sta già esponendo – basta dare un'occhiata ai social network - a
critiche ancora più dure da parte di chi li considera dei super garantiti che
piantano grane se vengono spostati da una parte all'altra della città per
evitare insani radicamenti. La loro autorevolezza è sotto zero. Nessuno ci sta a
subire ripicche. Soprattutto non ci sta una città che ambisce oggi a ospitare un
evento internazionale come i Giochi olimpici. E che invece si ritrova
puntualmente ostaggio una volta dei tassisti, l'altra dei bancarellari abusivi,
un'altra ancora dai ristoratori e baristi del centro. O rallentata da quei 17
macchinisti della metro che, sui 24 necessari, non erano in servizio la notte di
Capodanno. O addirittura messa sotto scacco proprio da chi, per la divisa che
veste, dovrebbe invece garantirne la sicurezza, l'ordine, il decoro.
"I vigili assenteisti non
sono una sorpresa. Da anni raccontiamo lo sfascio di Roma". Parla il
fondatore di "Roma fa schifo", uno dei blog più letti della capitale, in prima
linea nel contrasto al degrado. "La loro è un'opera di sabotaggio. Speravano ci
scappasse il morto?" Scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso”.
«I vigili urbani volevano che ci scappasse il morto», dice il fondatore del blog
“Roma fa schifo”: «Bastava leggere le pagine Facebook loro e dei loro sindacati
per capire che si preparavano a un sabotaggio, per protesta contro la rotazione
del personale e la riforma dello stipendio accessorio. I vigili urbani si
occupano della sicurezza, e sabotarla significa sperare che ci scappi il morto.
È gravissimo, come se avessero scioperato i medici del pronto soccorso». A Roma,
la notte di Capodanno, l'83,5 per cento dei vigili era assente per malattia,
donazione sangue o disabilità. E sulla linea A della metro erano disponibili
solo 7 conducenti su 24, con i passeggeri che hanno atteso i treni anche per
20-25 minuti. Una figuraccia di cui parla tutta Italia, ma che sicuramente non
ha sorpreso gli autori del blog più letto dai romani, “Roma fa schifo”, che da
anni attacca il malcostume degli impiegati pubblici come una delle tante
varianti del degrado della Capitale. Ma chi c'è dietro questo discusso sito? C'è
Massimiliano Tonelli. Romano, 36 anni, cresciuto tra Montesacro e San Giovanni,
si è laureato in scienze delle comunicazioni a Siena. In questa intervista si
racconta per la prima volta, e sul caso dei vigili dice come al solito parole
forti e chiare: «È un problema locale, perché a Torino ci si vergognerebbe di
“buttarsi malati”, mentre a Roma ce ne si vanta al bar. Ma è anche un problema
nazionale, di leggi sul pubblico impiego, e quindi è un autogol pazzesco, che
consentirà al governo, speriamo, di mettere finalmente mano a una riforma».
Tonelli è cofondatore e anima di un network di blog che fustiga Roma e i costumi
dei romani: Degrado Esquilino, Cartellopoli, Pro Pup Roma (a favore dei
parcheggi sotterranei), Bike-Sharing Roma. Ma il più famoso di tutti è appunto
Romafaschifo.com (sottotestata: chi ha ridotto così la città più bella del
mondo?), un blog in cui i cittadini raccontano e fotografano la decadenza della
città, dalle piccole illegalità alle varie mafie, e che Marino stesso un anno fa
ammise di leggere con grande attenzione. Ci lavorano, racconta Tonelli, «4-5
persone, più centinaia, anzi migliaia di potenziali reporter, cittadini comuni
che ogni giorno ci mandano circa 150 tra foto e segnalazioni su tutto ciò che
non va, sono loro i veri padroni del sito, su cui infatti non trovi il mio nome
da nessuna parte». È un blog anche discusso, per i toni usati dagli utenti e
dagli stessi gestori. Ma è un simbolo di una città stanca, un vero fenomeno per
chi vive nella capitale e non solo, visto che Tonelli ultimamente ha attirato
l'attenzione della grande stampa internazionale, da “Der Spiegel” a “Business
Week”, dalla “Bbc” alla tv pubblica tedesca, che gli sta dedicando un
documentario. E il tutto è tanto più sorprendente se si pensa che Tonelli di
lavoro fa altro, ovvero gestisce il sito del Gambero Rosso e, dopo aver lasciato
Exibart.com, nel 2011 ha fondato la rivista online Artribune.com.
Come è iniziato il progetto
di Roma fa schifo?
«L'idea
ci è venuta a fine 2007, in piena epoca Veltroni. All'inizio era uno dei siti
del nostro network, ma con il tempo ha acquisito un'importanza particolare.
Merito della giunta Alemanno, che diciamo ci ha dato molto materiale. Siamo
partiti dalla “teoria delle finestre rotte”, che ha ispirato quello che forse è
il nostro unico mito, ovvero il sindaco di New York Rudolph Giuliani, capace di
risollevare una New York che stava messa persino peggio della Roma di oggi. Se
c'è una finestra rotta, va subito riparata, altrimenti presto verranno rotte
altre finestre, e in quell'area arriveranno graffitari, gang, prostitute e
scippatori. Insomma, bisogna partire dalle piccole cose, da piccoli
comportamenti asociali come chi urina per strada o chi non paga il biglietto sui
mezzi di trasporto».
Quando è
arrivato il salto di qualità?
«Prima
con l'apertura del profilo Facebook, che oggi ha 70mila fan, e con l'account
Twitter, che hanno avuto un effetto moltiplicatore sul nostro successo. Ma il
vero boom lo abbiamo registrato nell'ultimo mese. Siamo passati da 35-40 mila a
440 mila utenti unici al giorno prima con la pubblicazione delle foto della
“fellatio di Castel Sant'Angelo”, un rapporto orale fotografato in pieno giorno
sul Lungotevere, ennesima dimostrazione del degrado della città. E poi con un
articolo sul sindaco Marino. Picchi che hanno fatto interessare al nostro
progetto anche grandi gruppi editoriali, anche se, lo dico subito, non siamo in
vendita, continueremo a finanziarci con i banner di Google AdSense. Tuttavia è
chiaro che, se avessi altro personale, farei riprendere con più continuità le
nostre continue campagne, da quella per lo scuolabus all'aumento delle strisce
blu fino allo spazzamento meccanico delle strade».
Se dovesse
scegliere tra le tante, quali direbbe che sono le vostre battaglie?
«I
cartelloni abusivi, la lotta contro i camion-bar, la sosta selvaggia. Tutti temi
su cui i grandi nemici sono il benaltrismo e chi dice «poracci, lasciateli
lavora'». Ecco, quello è il segnale. Quando qualcuno dice «ben altri sono i
problemi» significa che stiamo toccando un nervo scoperto e dobbiamo picchiare
duro. Oggi comunque la situazione più esplosiva sono gli scippi sotto la metro
da parte delle gang di minorenni».
Vi siete
fatti un bel po' di nemici. In generale più di destra o di sinistra?
«I
più accesi sono gli estremi, di entrambi i campi. Da un lato gli antagonisti, i
centri sociali, che difendono le occupazioni e ci danno dei palazzinari perché
siamo a favore di una trasformazione edilizia intelligente. Pensano che siamo
fascisti, ma i veri fascisti sono loro, con i loro slogan vecchi di 40 anni
sulle “colate di cemento”. Il loro “poraccismo” è nemico dello sviluppo di Roma,
perché le grandi aree urbane, come Parigi, sono le uniche a veder crescere il
Pil, e invece a Roma nessuno investe. Dall'altra parte c'è Casa Pound, che ci ha
denunciato per diffamazione».
Mai ricevuto
minacce serie?
«Solo
dai writer, che mi telefonano di notte o scrivono sotto casa. Una cosa non molto
simpatica, soprattutto per mia moglie e mia figlia. Veniamo alle note dolenti,
come il linguaggio spesso violento che usate verso chi vi critica. O il fatto
che sembrate giustificare certe reazioni dei cittadini, come chi, tanto per fare
un esempio recente, riga le auto parcheggiate sulle strisce pedonali. Il nostro
tono volutamente sprezzante fa parte di un'operazione di comunicazione. È un
lavoro giornalistico aggressivo, sì. Vogliamo svegliare la gente di questa città
prepotente e ignorante, far capire loro che le buche, i manifesti abusivi, i
parcheggi in doppia fila sono l'illegalità, non devono più essere la normalità».
Il vostro
linguaggio è sprezzante anche verso gli immigrati. Parlate di “vu cumprà”...
«Un'espressione
che continueremo a usare».
...e date
voce a cittadini che, soprattutto quando si parla di rom, non usano mezze
misure.
«Ascolti,
la nostra posizione sugli immigrati è questa. Sono una grande opportunità,
specialmente economica, come dimostra il Pil che riescono a generare. Poi, è
vero, ci sono stranieri che creano problemi, ma mai quanti ne creano i romani.
Diro di più, e l'abbiamo scritto pochi giorni fa a proposito dei rom: noi non
siamo capaci di accoglierli. Tanti rom sanno benissimo che qui non c'è certezza
della pena, e ci sono leggi per cui se sei una minorenne incinta nessuno ti può
toccare. I rom ci sono in tutta Europa, ma solo in Italia ripuliscono i turisti
in metropolitana. È lo stesso motivo per cui gli immigrati del Bangladesh, se
sono ingegneri, vanno a Londra, e se non hanno qualifiche finiscono per vendere
i fiori a Roma. Non sappiamo attrarre immigrazione qualificata».
Prima che
scoppiasse il caso di Mafia Capitale, il sindaco Marino era nell'occhio del
ciclone per la vicenda delle multe non pagate per la sua Panda. Voi,
controcorrente e anche un po' a sorpresa, scriveste un post in sua difesa, che
ricevette 34mila condivisioni su Facebook. Lo definiste “sindaco marziano”
lodando le sue 10 discontinuità, che i poteri romani, Pd incluso, non gli
avevano perdonato: la chiusura della discarica di Malagrotta, i camion-bar via
dal centro, l'aumento delle strisce blu, le pedonalizzazioni, la battaglia
contro i cartelloni abusivi, la pulizia nelle municipalizzate, i soldi tolti ai
consiglieri comunali per la "manovra d'aula", le unioni civili, i risparmi per
le forniture, la rotazione dei vigili urbani sul territorio.
«Non
era una difesa, perché all'inizio di quell'articolo scrivevamo che forse neanche
si era reso conto quali poteri avesse sfidato... Abbiamo voluto solo dire:
attenzione, chi vuole la testa di Marino vuole la conservazione. A cominciare
dal Pd locale, che è un grandissimo problema per questa città, dalla questione
dei cartelloni ai lavori pubblici».
E le altre
forze politiche?
«Forza
Italia è uguale al Pd, ma meno elegante nelle sue “zozzate”. I grillini,
poverini, sono completamente inutili. Per questo dico che, se vogliono
dimostrare di servire a qualcosa, dovrebbero entrare in maggioranza, chiedere un
assessorato, magari sulla scorta dei 10 punti che abbiamo segnalato sul nostro
sito».
Pensa che il
vostro sito abbia aiutato a cambiare i romani?
«Sì,
a quel 10 per cento che ci scrive: «Prima di conoscervi non vedevo certe cose».
È solo una minoranza, ma non fa più finta di niente e si ribella a una grande
brutalità, quella dell'abitudine al degrado. D'altronde la “Ryan Air generation”
è stato un dramma per i politici italiani. Chiunque con pochi euro può andare a
Londra, Parigi o Madrid e vedere che, nonostante la crisi, le altre città
europee funzionano».
Ha votato
più a destra o a sinistra?
«Sono
tanti anni che non voto. Direi mai a destra. Forse l'ultima volta avrò votato
qualcosa tipo la Lista Dini».
Il sindaco
migliore chi è stato?
«C'è
poco da scegliere. Sono anche contro il mito di Petroselli e Argan, che non ci
hanno certo lasciato in eredità una città europea. Potrei salvare un po' il
primo Rutelli».
Alfio
Marchini le piace?
«Mi
sembra un populista, che cerca gli applausi. A Roma serve un sindaco che cerchi
i fischi, se vuole davvero cambiare la situazione».
A luglio un
deputato del Pd, Michele Anzaldi, l'ha proposta come assessore alla cultura.
«Non
mi interessa scendere in politica, anche se un po' tutti i partiti, in privato,
mi chiedono consigli, perché ho il polso del territorio».
Però Roma
non fa solo schifo, su. Ci dica una cosa bella di questa città.
«Non
è una città provinciale, né razzista, né chiusa. Può essere una piattaforma
interessante anche a livello culturale, se venisse dotata di una informazione
adeguata. E poi questo è un momento eccezionale per il cibo a Roma, c'è una
bella scena enogastronomica. Lo dice uno che lavora per il Gambero Rosso».
Quanto sei sporca Roma: il
malaffare dell'Ama e l'emergenza immondizia. L'azienda rifiuti, l'Ama,
spreca fiumi di milioni senza pulire. E senza multare chi insudicia la città. Un
disservizio che lede ulteriormente l'immagine della Città eterna. E Che viene
denunciato da tempo. Senza risultati, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”.
Un cassonetto ingombro di rifiuti nel centro di Roma Là dentro, in una stanza ad
alto isolamento dell’istituto Spallanzani, il medico di Emergency contagiato dal
virus sta lottando contro Ebola. Qua fuori, vicino all’ingresso dell’ospedale al
numero 292 di via Portuense a Roma, i netturbini dell’Ama hanno abbandonato due
camioncini pieni di rifiuti. Le portiere sono aperte, non le hanno nemmeno
chiuse a chiave. La Grande Tristezza ti colpisce ovunque. Non c’è bisogno di
dritte e soffiate. Se cerchi, trovi. Piazza di Santa Maria Maggiore è una
rassegna di cassonetti, rifiuti abbandonati, un cartello divelto, bottiglie
lasciate sui gradini. Non appena se ne vanno i turisti, davanti alla basilica e
intorno alla fontana comincia il balletto dei ratti. Grandi e piccini. Corrono,
raccolgono tra i rifiuti scarti di cibo, si arrampicano a beretti. Chissà quale
malsano protocollo prevede che carichi di immondizia maleodorante siano
parcheggiati per tutto il weekend proprio davanti a uno dei centri europei più
importanti per la cura delle malattie infettive. O forse sì, la risposta è
chiara. Basta scorrere l’elenco degli arrestati nell’operazione antimafia che in
queste ore ha coinvolto Gianni Alemanno, l’ex sindaco della capitale ed ex
ministro Pdl. Franco Panzironi da esperto in incremento delle razze equine è
stato amministratore delegato dell’Ama, l’azienda municipale dei rifiuti.
Giovanni Fiscon con 220 mila euro di stipendio record è l’attuale direttore
generale dell’azienda e in Ama può contare sulla moglie. Tutti amici degli amici
di Alemanno, dicono le ultime inchieste: da quella sugli sprechi di parentopoli
all’ultima sul boss neofascista Massimo Carminati. Panzironi e Fiscon ovviamente
sono innocenti fino al terzo grado di giudizio. Ma in questo clima di allegra
famiglia in camicia nera, qualche furgone, qualche cassonetto, qualche sacco può
sfuggire al controllo. E continua a sfuggire. Magari vi sarà capitato di vedere
sacchetti o rifiuti ingombranti abbandonati per strada, perfino in pieno centro:
non è difficile a Roma. Sapete quante multe sono state date per questa
sciagurata abitudine? Venticinque in tutto il 2014, da gennaio a ottobre. E se
avete pestato una cacca sul marciapiede, in attesa che vi porti fortuna, forse
vi incuriosisce conoscere quanti siano i proprietari di cani multati nell’ultimo
anno: zero. Perché stupirsi? Se proprio volete chiamare i vigili, provate a
cercarli al bar in piazza di Santa Maria Maggiore all’Esquilino: la notte tra il
23 e il 24 novembre ce n’erano addirittura sei in piacevole servizio in divisa
per un’ora. Ma il diario di viaggio dell’ultima settimana nel cuore della Grande
Tristezza va ben oltre il malcostume. Le pagine romane da martedì raccolgono
anche ritagli di cronaca nera: criminalità, politica, appalti e i neofascisti
della banda della Magliana ancora lì, in cima alla piramide a muovere soldi e
burattini. Turno di notte: sei vigili, due auto, un'ora al bar. Dalle 00.20
all'1.19 sei agenti della Municipale in divisa, tra cui due graduati, con due
macchine di istituto hanno chiacchierato al bar-gelateria davanti alla Basilica
di Santa Maria Maggiore. Dopo un'ora sono stati avvicinati da un passante
infuriato perché era stato appena aggredito dietro l'angolo da due persone. A
quel punto i vigili sono saliti in auto e se ne sono andati, però nella
direzione opposta rispetto a quella indicata Il premier Matteo Renzi ha detto e
ripetuto di aspettare il 15 dicembre, giorno della consegna dei collari d’oro
agli italiani che si sono distinti nello sport, per annunciare la candidatura di
Roma alle Olimpiadi 2024. Sull’immagine della capitale nel mondo, però, prima
dei collari sono arrivate le manette. Spese fuori controllo per centinaia di
milioni. Manager incompetenti. Roma e i romani spremuti. E le casse portate al
default. La mafia non è mai stata dalla parte della gente. Né della buona
amministrazione. Qualcuno lo segnalava da anni, confrontando la spesa corrente
con la totale mancanza di piani per il futuro. Sono i ricercatori dell’Agenzia
per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma Capitale,
istituita dodici anni fa dal consiglio comunale. Anche quest’anno, cinque
analisti e un direttore tecnico hanno lavorato per oltre tre mesi. Dal loro
rapporto sul 2014, pubblicato il 24 novembre, non si salva nessuno. Sentite qua:
«Nonostante una specifica previsione del regolamento del consiglio comunale, sin
dal 2002 non si è mai svolta un’apposita seduta per l’esame e la discussione
della relazione annuale». Fantastico: dal 2002 cinque analisti e un direttore
tecnico vengono pagati dal Comune e il loro prezioso lavoro da dodici anni viene
puntualmente infilato in un cassetto o buttato nel cestino. Non bisogna però
essere pessimisti: «La sensibilità e l’attenzione dimostrata dal presidente
Coratti nei confronti dell’attività dell’agenzia sicuramente farà sì che tale
mancanza venga sanata, dando l’opportunità all’Assemblea capitolina di
confrontarsi sull’intero assetto dei servizi pubblici locali». Complimenti
all’onorevole Mirko Coratti, presidente Pd dell’Assemblea capitolina, il
consiglio comunale romano. Cioè no, un momento: Coratti è tra gli indagati in
Comune, corruzione aggravata e finanziamento illecito. Martedì i carabinieri gli
hanno perquisito l’ufficio e si è subito dimesso. Anche lui ovviamente è
innocente fino a prova contraria. Ma con l’aria che tira, la qualità dei servizi
pubblici rischia di non essere più in cima all’agenda. E quando mai lo è stata?
È duro il lavoro dell’analista a Roma se oggetto dell’indagine è la pubblica
amministrazione: «L’aspetto relativo ai poteri di accesso e di acquisizione
della documentazione e delle notizie utili nei confronti dei soggetti gestori e
degli uffici di Roma Capitale», denuncia l’agenzia, «dovrà a nostro avviso
essere oggetto di uno specifico atto di indirizzo da parte dell’assessore e del
segretario-direttore generale, viste le difficoltà, i ritardi e talvolta forse
una certa ritrosia a voler mettere tempestivamente a nostra disposizione i dati
e le informazioni richieste». Se non ci riescono loro, che sono stati incaricati
dal Comune, figuriamoci cosa può succedere a un cittadino qualunque quando va a
protestare agli sportelli. Eppure, calcolando le spese e il personale
apparentemente sulle strade, la Grande Tristezza dovrebbe essere lucida come il
marmo della Pietà di Michelangelo. Sulla pulizia non sorveglia soltanto la
polizia municipale. Ai vigili si aggiungono agenti del “Nucleo decoro urbano di
Roma Capitale” e gli ispettori dell’Ama, appositamente formati tra gli ottomila
dipendenti dell’azienda pubblica. Negli ultimi mesi sono addirittura aumentati.
Meno male. Nel 2014 la violazione contestata con maggiore frequenza dagli agenti
accertatori dell’Ama, così vengono chiamati, è quella dell’uso scorretto dei
bidoncini condominiali, nelle zone dove la raccolta dell’immondizia viene fatta
porta a porta: 6 multe al giorno. E quante volte succede che i camion dell’Ama
non riescano a svuotare i cassonetti, perché sono circondati da auto in sosta
selvaggia? Vigili, agenti del decoro, accertatori dell’Ama sono rigorosissimi:
due multe al giorno in una metropoli di due milioni e 889 mila abitanti. È una
media: a volte sono quattro, a volte zero. E nascondere rifiuti nel cassonetto
non corrispondente? Una multa al giorno. Lavoro durissimo. Forse è per questo
che nell’ultimo anno si è rinunciato a punire chi non raccoglie le cacche dei
cani da parchi e marciapiedi e chi getta rifiuti per strada: zero
contravvenzioni. «Dato che le strade di Roma sono tutt’altro che pulite né sono
prive di escrementi di cani sui marciapiedi, il fatto che non siano state fatte
multe... assume una connotazione sociale assolutamente negativa», scrivono gli
analisti nella relazione che il consiglio comunale non ha mai esaminato, «in
quanto avalla comportamenti collettivi incivili e individualisti che danneggiano
direttamente e indirettamente l’immagine della città e della popolazione romana,
creando inoltre un danno economico: quantificabile nelle maggiori spese di
pulizia a carico di tutti i cittadini». Dal 2009 al 2013 l’attività di vigili,
agenti e accertatori per difendere il pubblico decoro è comunque aumentata
toccando la ragguardevole produzione di 39 verbali al giorno: suddivisi per
municipio sono due verbali al giorno, un record per i quartieri di Roma.
Soddisfatti del risultato ottenuto, nel primo semestre del 2014 i controlli sono
crollati a otto sanzioni al giorno, una ogni due municipi. Poche? Tante? Nei
primi dieci mesi del 2013 l’Amsa di Milano ha emesso 49.769 multe per violazione
del regolamento dei rifiuti, 170 al giorno, di cui 2.000 solo per il decoro
urbano: «Mentre a Roma veniva elevata una sanzione ogni 263 abitanti, a Milano
ne veniva emessa una ogni 25: anche se la città lombarda non si può certo
definire dieci volte più sporca della capitale», è scritto nella relazione
dell’agenzia inutilmente consegnata al consiglio comunale. Mantenere la città
pulita costa meno che pulirla spesso. Sanzionare i cittadini incivili è più
corretto che far pagare tutti. Intanto pagano tutti. Soltanto per il lavaggio e
la pulizia delle strade il piano finanziario 2014 prevede l’impiego di 171
milioni: cioè 60 euro per ciascuno dei residenti romani, neonati inclusi, con un
aumento del 60 per cento in dieci anni per le pulizie e del 138 per cento per la
rimozione dei rifiuti abbandonati. E i risultati non si vedono. Ma pagano anche
gli italiani. A Roma la raccolta differenziata nel 2013 si è fermata al 31 per
cento e l’immondizia continua a finire in discarica, violazione che non riguarda
soltanto la capitale: per questo, la Corte europea di Giustizia pochi giorni fa
ha condannato l’Italia a 40 milioni di multa una tantum e 42,8 milioni per ogni
semestre di ritardo nell’attuazione delle misure obbligatorie. Altri soldi che
saranno sottratti agli investimenti, alla città. Che però si trasformavano in
ricchezza per i nuovi boss, intercettati mentre mettevano le mani sui contratti
milionari per la differenziata e per la raccolta delle foglie. Perfino gli
appalti per la manutenzione del verde sono un enigma a carico dei romani. Da
Monte Sacro alla periferia Nord-Est costano 0,38 euro al metro quadro, a
Nord-Ovest appena al di là del Tevere li pagano 250 euro al metro: il 6.578 per
cento in più. E i cartelloni? La selva pubblicitaria che accompagna i turisti da
Fiumicino e Ciampino e nel resto della capitale ha reso al Comune appena 265
mila euro in tutto il 2013. A Genova, la città del sindaco Ignazio Marino, su
una superficie molto più piccola sempre nel 2013 hanno incassato un milione e 60
mila euro. Certo, sono genovesi. Ma a Roma non resta nulla: si spendono 900 mila
euro all’anno per la rimozione dei cartelli abusivi. Allora, chi è il regista
della Grande Tristezza? Gianni Alemanno? Il salotto dei suoi uomini manager?
Massimo Carminati? Una capitale cresciuta a immagine e somiglianza di un boss
non ha futuro se perfino il consiglio comunale da dodici anni se ne frega della
qualità dei servizi. Nel frattempo chissà se l’ex sindaco indagato, la sua
alleata Giorgia Meloni e quelli di Casa Pound avranno l’onestà di tornare in
piazza: «Porteremo il tema della sicurezza in Assemblea capitolina», ha scritto
Alemanno sul suo blog il 17 novembre. Ora che è evidente quanto la mafia sia
salita in alto, ha ragione: Roma non è mai stata così insicura.
Vigili: gag, disavventure e
scandali. I retroscena dello scontro con Marino. I vigili romani sono il
doppio dei milanesi e fanno un terzo delle multe. L’intervento di Cantone,
scrive Sergio Rizzo su “Il
Corriere della Sera”. Scherzi del destino. Per aver osato scrivere
che dei vigili urbani a Roma si nota soprattutto l’assenza, il giornalista del
Corriere Maurizio Fortuna è stato querelato da ventotto di loro. Pochi giorni
dopo il recapito della citazione, ecco la notizia che la sera di San Silvestro
l’83,5% degli agenti in servizio era scomparso. Chi si dava malato, chi donava
il sangue, chi stava con la mamma inferma... Questa «diserzione di massa», per
dirla con il comandante Raffaele Clemente, è l’ennesimo episodio della guerra
dichiarata a Ignazio Marino. Certo non per la bacchettata a un agente troppo
galante con una bella automobilista senza patente, come quella appioppata nel
film «Il vigile» al pizzardone motociclista Otello Celletti, alias Alberto
Sordi, dal sindaco Vittorio De Sica: prontamente ricambiato con una multa per
eccesso di velocità. Qui il conflitto è di ben altre proporzioni. E c’è da
augurarsi che non vada a finire allo stesso modo, con la macchina del sindaco
nella scarpata e il vigile che lo scorta all’ospedale. Il culmine dello scontro,
a novembre: quando Marino e Clemente hanno deciso la rotazione degli incarichi.
L’iniziativa, senza precedenti, ha scatenato una rivolta. Capitolo chiuso con
l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone che ha definito la rotazione non
solo «legittima», ma «un meccanismo a tutela delle persone per bene». Però gli
animi non si sono placati affatto. Il rapporto fra i vigili e Marino è sempre
stato turbolento. Un mese dopo il suo insediamento il loro capo Carlo Buttarelli,
messo lì da Gianni Alemanno, se n’è andato sbattendo la porta. Al suo posto è
stato chiamato un colonnello dei carabinieri selezionato con procedura pubblica.
Nonostante tre lauree, però, Oreste Liporace non aveva tutti i requisiti
previsti e ha dovuto gettare la spugna. Allora è arrivato un poliziotto della
squadra anticrimine della Questura di Roma: Clemente, appunto. Senza provocare,
anche in questo caso, manifestazioni di giubilo da parte di quanti hanno
interpretato tale nomina, al pari di quella tentata in precedenza, come un gesto
di aperta sfiducia verso la polizia municipale. Il cui capo proveniva di regola
dai ranghi interni. Anche se poi non sempre tutto filava liscio. Dicono tutto le
disavventure del predecessore di Buttarelli, il comandante dei vigili urbani
Angelo Giuliani incaricato di sostituire quel Giovanni Catanzaro pizzicato dal
Messaggero a parcheggiare la sua Alfa Romeo in una zona off-limits vicino a
piazza di Spagna: sul cruscotto un permesso per disabili. Rimosso da Walter
Veltroni, Catanzaro sfiora nel 2008 la candidatura al consiglio comunale con
l’Udc. Dieci mesi fa Giuliani viene arrestato con l’accusa di corruzione. Dicono
i giudici che prendeva tangenti dalla società incaricata di ripulire l’asfalto
dopo gli incidenti stradali. Lui si proclama estraneo: «Sono sempre stato ligio
ai miei doveri». Mesi prima, un’altra disavventura. Lo scenario, questa volta,
un concorso per 300 aspiranti vigili. Giuliani presiede la commissione d’esame
quando parte un’inchiesta della Procura di Roma nella quale si ipotizza il reato
di falso ideologico. Alemanno revoca tutti e comincia un autentico Calvario. Da
allora si sono alternate ben tre commissioni ma i risultati del concorso,
bandito ormai cinque anni fa, non ci sono ancora. Le indagini che riguardano
Giuliani, invece, si stanno per chiudere. Nemmeno il rapporto degli ispettori
inviati dal Tesoro a verificare i conti della capitale è tenero nei giudizi.
Sostiene per esempio che dal 2010 al 2013 siano state erogate ai vigili
indennità di responsabilità per quasi 23 milioni in eccesso rispetto ai livelli
considerati legittimi. Segnalando anche una serie di anomalie come la
maggiorazione notturna concessa per le fasce orarie 16-23 e 17-24, nonostante i
contratti nazionali la prevedano solo dalle 22 alle 6 del mattino. A Roma i
vigili sono potentissimi: addirittura più del sindaco, si è sempre detto. Se ne
contano 6.077. Tuttavia ce ne sono costantemente in giro per la città che ha il
più alto numero al mondo di auto (oltre 70 ogni cento abitanti) da un minimo di
105, la sera, a un massimo di 993, la mattina. Ovvero, dall’1,7 al 16,3% della
forza complessiva. Il tutto fra strade disseminate di vetture in seconda fila e
mai una contravvenzione sotto il tergicristallo, neppure davanti a un comando
della polizia municipale. E la produttività? Spiega molte cose il confronto con
Milano contenuto nello studio Sose-Ifel sui costi standard. Mentre Roma spendeva
per gli stipendi dei vigili il 14,5% più del «fabbisogno standard», Milano
risparmiava il 38,3%. Con 154 multe mediamente a testa fatte a Roma contro le
370 di Milano. E le 27.990 sanzioni di altro genere elevate dai seimila vigili
romani contro le 79.870 dei poco più di tremila loro colleghi milanesi.
Talvolta, dobbiamo riconoscerlo, le condizioni non sono facili. Come capita a
chi deve misurarsi con un infernale caos di lamiere: ricorrendo a gesti e
movenze tanto eleganti da affascinare perfino Woody Allen. Che nel suo film «To
Rome with love» ha immortalato la scena del bravissimo vigile Pierluigi
Marchionne sulla pedana di piazza Venezia mentre dirige il traffico, nemmeno
fosse un direttore d’orchestra. Proprio lì, dove una volta il giorno della
Befana si portavano regali ai pizzardoni in segno di riconoscenza. Altri
tempi...
In un giorno 393 assunzioni.
Quel rapporto del Tesoro su Roma. Dal 2000 al 2012, quasi 95 mila aumenti. Solo
tra il 2008 e il 2012 sono stati impegnati per il salario accessorio dei
dipendenti comunali 340 milioni di euro, scrive Sergio Rizzo su “Il
Corriere della Sera”. Davvero un mercoledì da leoni, quel 25 novembre del
2009, per 393 vigili urbani con contratto a termine. Nel giro di una mattinata
presentavano domanda di assunzione a tempo indeterminato, l’ufficio del
personale verificava simultaneamente il possesso dei requisiti e il Comune di
Roma sfornava istantaneamente il provvedimento di stabilizzazione. Firmato:
Mauro Cutrufo, senatore del Pdl e vicesindaco. Peccato che la rapidità da salto
nell’iperspazio di questa apparentemente complessa procedura faccia a pugni con
quanto affermato nell’ormai arcinoto rapporto degli ispettori del Tesoro sui
conti della Capitale. Cioè che in base alle norme allora vigenti quelle
stabilizzazioni erano illegittime. Giudizio estendibile a tutte le 2.781
pratiche del genere, di cui ben 500 relative ai vigili urbani, concluse fra il
2007 e il 2010. Che nella gestione del personale il Comune di Roma non
rappresentasse il top del rigore, era risaputo. Ma lo scenario delineato in quel
rapporto, soprattutto per gli anni che hanno preceduto l’attuale
amministrazione, va oltre ogni immaginazione. E ben si comprende il sindaco
Ignazio Marino, che descrive l’inqualificabile diserzione dei vigili la sera di
San Silvestro come «una ritorsione» per aver lui voluto cambiare certe regole
inconcepibili, quali per esempio quelle che garantiscono una valanga di
indennità: le più assurde. Perché a toccarle, tutti i 26 mila dipendenti del
Comune, tanti quanti i lavoratori della Fiat in Italia, ci rimetterebbero
qualcosa. A cominciare da quel salario accessorio che dovrebbe essere collegato
a mansioni specifiche ed è sempre stato invece distribuito a chiunque senza
particolari motivi. Una pioggerellina fitta e incessante che ha innaffiato tutti
dal 2008 al 2012 con oltre 340 milioni di euro. Del resto, che il merito sia
sempre stato una variabile ininfluente nel folle panorama retributivo del Comune
di Roma lo dimostra una nota del Dipartimento risorse umane del dicembre 2011,
nella quale si precisa che per non intascare il compenso di produttività bisogna
«aver riportato una valutazione inferiore a 66 punti» e «aver lavorato un numero
di giornate inferiore a 110». Cioè, essersi presentati sul posto di lavoro meno
della metà del tempo stabilito per contratto. Regole, dunque, che giustificano
l’assenteismo e il lassismo. Tanto più, notano gli ispettori, che non è prevista
alcuna differenza nella somma corrisposta a chi viene valutato 66 e chi invece
prende 100. Ma chi bada mai a una simile inezia, quando la pioggerellina è
studiata apposta per bagnare indistintamente ognuno? Prendete le «progressioni
orizzontali», termine che definisce i semplici aumenti di stipendio. Dal 2000 al
2012 sono state distribuite ben 5 volte, per un totale di 94.994 gratifiche:
effetto di 94.994 valutazioni positive sul rendimento individuale. Quelle
negative, 15. E sarebbe interessante sapere che cosa avevano combinato per
meritarsele. Sputato in faccia al direttore? Mai andati a lavorare? Rubato?
Spesa complessiva, 245,8 milioni fra il 2008 e il 2012. Alla quale si deve
sommare quella per un’altra pioggerellina altrettanto stupefacente e copiosa per
il capitolo delle indennità. Spesso e prelibato come un millefoglie. Indennità
legata all’effettiva presenza in servizio, ovvero una somma erogata in più oltre
allo stipendio per il semplice fatto di andare a lavorare. Indennità
manutenzione uniforme. Indennità per l’attività di sportello al pubblico.
Indennità oraria pomeridiana. Indennità annonaria. Indennità decoro urbano.
Indennità di disagio: anche se non si capisce, sottolinea il rapporto, di quale
disagio si tratti. E le promozioni, usate esclusivamente «per aumentare la
retribuzione ordinariamente corrisposta ai dipendenti». Una slavina, a dire
degli ispettori, non proprio legittima: 2.721, nei soli anni 2010 e 2011. E le
assunzioni a tempo determinato fatte «intuitu personae» anche quando non
riguardavano solo lo staff di fiducia dei politici. E le retribuzioni accessorie
dei dirigenti, andate in orbita fra il 2001 e il 2012 passando in media da
45.640 a 88.707 euro l’anno procapite con una impennata del 94,3%. Premiando,
per giunta, pure chi avrebbe dovuto essere sanzionato: «Non risulta», sostiene
il rapporto, «che a nessun dirigente sia stata negata l’erogazione della
retribuzione di risultato». Qualche papavero comunale, poi, prendeva pure
compensi dalle società municipalizzate che si andavano ad aggiungere a uno
stipendio già non particolarmente modesto. Il che prefigura, dicono gli
ispettori, la violazione del principio «di onnicomprensività della
retribuzione». Un caso? Il rapporto cita la partecipazione alla Commissione di
accordo bonario di Roma metropolitane, la società incaricata di tenere i
rapporti con il general contractor della Metro C, del capo dell’Avvocatura
comunale Andrea Manganelli. Il quale «nel solo 2013 avrebbe percepito la somma
di 53.614 euro e 14 centesimi», anche se «la natura di società in house di Roma
metropolitane», stigmatizza il documento del Tesoro, «non sembrerebbe consentire
la corresponsione di simili compensi». Fatti singolari. Come «singolare» viene
giudicato l’aumento di 1,7 milioni del fondo per gli incentivi economici dei
dirigenti, per di più «proprio nell’anno, il 2008, in cui lo Stato si è
accollato il debito del Comune di Roma». Una goccia nel mare, in grado però di
spiegare molte cose. Per esempio, come sia stato possibile che nel 2012 la spesa
corrente di Roma capitale fosse superiore «di circa 900 milioni», per gli
ispettori, a quella del 2007. Mentre sull’efficienza delle strutture comunali e
la qualità dei servizi offerti ai cittadini, per carità di Patria, forse è
meglio sorvolare.
I «pizzardoni» romani:
assenteisti, scansafatiche e pure saccenti. La Capitale è tornata al vigile
approfittatore in stile Alberto Sordi, scrive Aldo Grasso su “Il
Corriere della Sera”. «Ahò, signori onorevoli assessori della giunta
comunale! Ahò, signori industriali! Ahò, signor sindaco! Io qui faccio crollare
il governo!». In un batter d’occhio, il pizzardone Otello Celletti (l’Alberto
Sordi de Il vigile di Luigi Zampa, 1960) è diventato il simbolo della notte
degli assenteisti, dei vigili romani che a Capodanno hanno marcato visita.
Celletti, impettito nella sua divisa da vigile motociclista, è uno e trino.
Scansafatiche mammone, un approfittatore che dispensa giudizi a destra e a
manca: «Er pennello deve passà prima orizzontale e poi verticale, sennò ce lasci
‘a striscia...». Non appena indossa la divisa, da raccomandato, diventa un
fustigatore di costumi, persino nei confronti delle autorità. Ha un solo
cedimento verso Sylva Koscina. Alla fine (terza identità), impara con chi essere
severo e con chi no. La vicenda degli assenteisti finirà forse nel nulla,
all’indignazione seguirà la rassegnazione. È la Roma statale e parastatale, con
i suoi privilegi quasi intoccabili, difesi dalla compiacenza dei sindaci e dalla
complicità dei sindacati. È la «Roma di mezzo», la Roma della mezza-porzione, la
Roma dove persino la criminalità organizzata pare cialtrona e millantatrice. È
Roma-Italia mezza «ladrona». Otello non farà crollare nessuno. Dovrà solo
decidersi, «tra una guera e n’antra, de fà quarcosa ». Anche solo assentarsi dal
lavoro.
La bandiera del
certificato, scrive Francesco Merlo su “La
Repubblica”. Al Sindaco De Blasio, che è il loro capo, i poliziotti di New
York hanno mostrato le terga. Al sindaco Marino, che è il loro capo, i vigili di
Roma hanno mostrato il certificato. Esporre mille terga, per quanto possa
apparire paradossale, significa metterci la faccia. Procurarsi mille certificati
falsi significa al contrario nascondere la faccia, imbrogliare e degradarsi. Da
un lato c'è il coraggio sfrontato della ribellione, fosse pure per ragioni non
condivisibili, dall'altro lato c'è la viltà stracciona, fosse pure per ragioni
condivisibili. Qui poi non c'è neppure l'assenteismo dei fannulloni, non c'è
l'accidia del travet che Brunetta perseguitava come il pelandrone assistito.
Questi sono i ceffi di Stato che usano la truffa del certificato-patacca come
lotta sindacale, sino all'odioso ricorso, per disertare, alla donazione del
sangue e, peggio, all'assistenza retribuita dei familiari disabili (legge 104),
atti generosi ridotti a trucchi pelosi, norme di civiltà usate come forconi, la
libbra di carne di Shylock il mercante di Shakespeare. E la regia sindacale, che
a New York rimanda alla ribellione ostentata dei simboli e mai
all'insubordinazione agli ordini, a Roma rimanda al reato associativo che è
molto alla moda nella capitale come ha denunziato anche il Capo dello Stato nel
messaggio di fine anno. Ed è drammatico che a questo reato di falso, commesso
insieme ai medici di famiglia, concorrano tutti i sindacati, per una volta uniti
nella difesa della malattia simulata e spacciata per diritto alla protesta.
Siamo ben al di là delle già ridicole indennità, da quella per tenere pulita e
in ordine la divisa a quella per il servizio in strada (e dove, se no?), sino
alla bizzarria poetica della "seminotte", l'invenzione più creativa del
contratto integrativo dei vigili, con inizio (non è uno scherzo) alla 15,48 che
è, come dire, due minuti prima delle quattro meno dieci, un orario che evoca il
binario 9¾ della stazione di Harry Potter dove si respirava corno di bicorno in
polvere e tritato di unghie di cavallo. È un pentagramma di comicità corporativa
che sicuramente sta facendo schiattare di invidia gli orchestrali e i coristi
dell'Opera di Roma che l'umidità retribuita la subiscono soltanto al calar del
sole e non al suo semicalar. A New York, secondo il sindacato dei poliziotti, de
Blasio ha offeso la dignità degli agenti perché ha consigliato al proprio figlio
(Dante, di origine afro-italiana) di "stare attento alla polizia". A Roma,
secondo il sindacato della polizia municipale, Ignazio Marino e il comandante
Raffaele Clemente, da lui nominato, hanno offeso la dignità dei vigili perché li
hanno obbligati alla rotazione nei quartieri trasformandoli così in presunti
corrotti, senza più distinzione tra onesti e disonesti. Ma cosa c'è di più
disonesto di 835 certificati falsi? E come può un vigile restare legittimato
come controllore delle regole se è il primo che le viola, e per di più in questo
modo così meschino e cacasotto? Chi sceglie la ribellione deve pagarne il prezzo
e non rifugiarsi nella miseria del certificatuzzo del dottorino di famiglia
connivente e correo. E non sto parlando della ribellione del pugno chiuso alla
Tommie Smith alle Olimpiadi del 1968, ma soltanto di chi fa sciopero sapendo che
perderà il salario. Chi si ammala invece lo conserva. E addirittura lo ruba chi
fa finta di ammalarsi. E va bene che la medicina è una scienza incerta, duttile
e spaziosa, ma la flogosi che subisce l'influsso sindacale, l'agente patogeno
che si scatena in un intero Corpo, imprevedibile, imprendibile e inqualificabile
come un pirata della strada, è una deriva triste dell'Italia del certificato,
quella della visita fiscale che non sgama più nessuno, e non solo perché avviene
in fasce orarie governabili dal finto malato ma anche perché costa troppo alle
strematissime amministrazioni. Punito con pene irrisorie, quasi sempre con la
multa, e in attesa di depenalizzazione, il falso certificato medico chiama,
suscita e raduna tutti i fantasmi dell'Italia rancida dell'inguacchio, del
disertore vile, del pavido che si rintana in un letto. Ma attenti a riderne e a
evocare il solito Alberto Sordi e la commedia all'italiana, il paese degli
assenteisti, dei sempre stanchi, degli sfaticati, del "dottore è fuori stanza",
della pubblica amministrazione che tutti vorrebbero giustamente riformare e
qualcuno sogna di punire. La verità è che, morta ormai la faccia bonaria di Roma
e persino della piccola corruzione tollerata, anche il poliziotto municipale si
rivela più fellone dell'ultimo degli automobilisti che supera la fila invadendo
la corsia d'emergenza. E il trucco della malattia non è più la risorsa dello
studente pelandrone che, per marinare la scuola, alza il mercurio al caldo di un
termosifone, o della recluta che si infilava il mezzo toscano sotto l'ascella, o
ancora del coscritto che si infliggeva ferite di ogni genere sino al taglio di
un dito e alla simulazione della pazzia. Qui è persino più deludente del
Badoglio di Tutti a casa il sindacato che mette il falso certificato al posto
del riscatto sociale di Di Vittorio e della concertazione di Luciano Lama. C'è
anche, nell'epidemia di finti malati, l'ennesima prova dell'inutilità
dell'Ordine dei medici che non è intervenuto, non ha represso, non ha
intimidito, non ha sospeso, e non ha neppure aperto un'indagine. Tutti ci
aspettiamo che Marino licenzi, che il comandate Clemente punisca, che la
magistratura metta sotto accusa e nessuno si domanda cosa pensano dei
certificati bugiardi i presidenti dell'Ordine di Roma, Roberto Lala, e
dell'Ordine nazionale, Amedeo Bianco, anche loro assenti ingiustificati in uno
scandalo che dissolve nella nostalgia pure i versi di Gianni Rodari: "Chi è più
forte del vigile urbano? / Ferma i tram con una mano. / Con un dito, calmo e
sereno, /tiene indietro un autotreno: / cento motori scalpitanti / li mette a
cuccia alzando i guanti. / Sempre in croce in mezzo al baccano: / chi è più
paziente del vigile urbano?".
Vigliacchi di Stato. I
complici sono i sindacati che li proteggono e il governo che ha salvato i
dipendenti pubblici dal jobs act, scrive Alessandro Sallusti su “Il
Giornale”. Penso a un amico imprenditore che un anno fa ha dovuto chiudere
l'azienda e oggi lotta contro una depressione che non gli dà tregua. Penso ai
cassintegrati che dopo aver perso il lavoro stanno perdendo anche la speranza di
ritrovarlo. E, senza andare lontano, penso ai tanti colleghi rimasti a casa per
i tagli nell'editoria che vagano per le redazioni superstiti a caccia di una
collaborazione, anche sottopagata. E poi penso ai vigili urbani di Roma che la
notte del 31 si sono dati in massa malati per festeggiare in famiglia o perché
arrabbiati con il sindaco Marino in quanto «pagati male». Penso queste cose e
provo rabbia e vergogna. Comodo non lavorare avendo garantito a vita il posto di
lavoro. Facile protestare per avere più soldi sapendo che comunque vada non
perderai un centesimo. Da vigliacchi è poi farlo mettendo a rischio la sicurezza
dei cittadini in una notte cruciale per la sicurezza. Manifestato tutto il
disprezzo possibile per questi incoscienti, è ora di smascherare i protettori
degli statali fannulloni e furbetti. I sindacati, ovviamente, complici dello
sfascio strutturale e morale del pubblico impiego. Ma anche una certa politica
che non ha mai avuto il coraggio di mettere in riga gli oltre tre milioni di
italiani con il posto di lavoro garantito a vita. Parliamo di un esercito di
elettori che fa paura anche a Matteo Renzi. Il quale ieri si è detto indignato
per i fatti di Roma e ha annunciato misure severe. E pensare che solo pochi
giorni fa ha graziato gli statali stralciando di suo pugno la loro posizione
dalla nuova legge sul lavoro che prevede il licenziamento in tronco per
fannulloni, imbroglioni e incapaci. Senza quell'intervento salvifico, oggi si
potrebbero cacciare i vigili di Roma che si sono inventati malattie inesistenti.
Questi signori a Renzi devono fargli un monumento, ma se fossi nei panni del
premier non ne andrei fiero. A fare il duro con i lavoratori dipendenti, le
partite Iva e gli artigiani per poi calare le brache con una massa di
privilegiati non si va lontano. E se poi quei privilegiati vestono pure una
divisa, l'indignazione per noi comuni mortali è ancora più forte. Nei loro
confronti e verso il malato vero, che è chi ci sta governando in questo modo
assurdo.
Vittorio Feltri
parla dei vigili assenteisti, scrive “Libero
Quotidiano”. Nel suo editoriale Il Giornale, prende spunto dalla
vicenda di Roma per spiegare come la colpa di tale lassismo sia dei vigili solo
a metà e spiega come a partire dagli anni Settanta "il sindacalismo sfrenato
prese il sopravvento sul senso del dovere". Parla, anzi scrive, con cognizione
di causa perché racconta di quando lui stesso, poco più che ventenne, fu assunto
in un'amministrazione provinciale. Era stato assunto come impiegato. Guadagnava
100mila lire al mese "in un'epoca in cui con 500mila compravi un'utilitaria".
Ricorda come tutti si dessero da fare, forse perchè controllati ma lui invece
non riusciva a stare seduto alla scrivania per più di dieci minuti. "Benché
fossi pigro e svogliato non fui cacciato. Ero intoccabile come tutti i colleghi.
I quali tuttavia non mi somigliavano, alcuni erano fulmini di guerra e coprivano
le mie manchevolezze con santa rassegnazione giudicandomi probabilmente
inabile". Feltri ricorda l'attivismo, la voglia di fare che regnava negli
uffici, il rispetto che avevano verso il cittadino. E ammette: "Li guardavo
mentre smantettavano sulla macchina meccanografica e pensavo: questi sono scemi,
chi glielo fa fare di ammazzarsi di lavoro? In realtà lo scemo ero io. Tant'è
che nel giro di due o tre anni mi trasferirono di qua e di là nel tentativo di
trovarmi una collocazione giusta affinché rendessi quanto gli altri. Alla fine
andai in cerca di fortuna e mi è andato di lusso".
Tutti uniti, anche Cantone:
«Linciamo i vigili, sono fannulloni!», scrive Piero Sansonetti su “Il
Garantista”. Ogni tanto l’Italia, che è un paese diviso – su tutti i piani –
trova dei punti in comune e si unisce. Si riscopre, come dire?, Nazione. Da un
po’ di tempo il nemico comune era il ceto politico, ribattezzato ”La Casta” dai
giornalisti. I giornalisti hanno la specialità di trovarsi sempre alla testa di
questi rari fenomeni di riunificazione nazionale. Ora però sembra che l’odio
contro i politici non sia più sufficiente. Perché è diventato troppo universale,
troppo scontato. Ormai persino i politici hanno accettato l’idea che il male
dell’Italia siano i politici, e dunque diventa persino inutile bastonarli. E’
sufficiente che essi riconoscano la superiorità morale e il dritto al comando
della magistratura ( e degli stessi giornalisti), cosa che fanno, di buon grado,
quasi tutti. Allora occorre trovare un nemico nuovo, che sia davvero il simbolo
dei mali dell’Italia, della sua stoltezza, dell’infigardaggine, dei privilegi.
In queste feste natalizie si è trovato il nemico nella figura del ”vigile urbano
di Roma”. Bersaglio perfetto. Ha due caratteristiche che difficilmente si
trovano nella stessa persona: è ”antipatico” al popolo, perché fa le multe. E al
tempo stesso é popolo. Il vigile è un lavoratore, che sgobba e ha uno stipendio
piccolino. E dunque può perfettamente diventare il simbolo del male, con una
specie di ”transfert”, che serve a linciare un personaggio ”antipatico” e
indicare contemporaneamente nel ”lavoratore” il colpevole dei mali della nostra
economia. E dunque sul vigile urbano, sull’odio per lui e per il suo essere
fannullone, può benissimo unificarsi la rabbia popolare, sollevata dai
giornalisti, e l’intransigenza del potere, dell’establishment, che ha bisogno
assoluto di ”criminalizzare” una figura tipica di lavoratore per affermare, nel
senso comune, che il problema dell’Italia sta nella scarsa produttività e nei
costi eccessivi del lavoro. Cosa è successo a Roma nella notte di Capodano?
Niente di grave, sembrerebbe, perché non pare che ci siano stati seri
inconvenienti nella gestione del traffico. Però si è scoperto che una gran
quantità di vigili urbani che avrebbe dovuto essere in servizio, o reperibile,
aveva presentato certificato medico per starsene a casa. Intendiamoci bene:
questi vigili non si sono sottratti al normale orario di lavoro, ma
semplicemente allo straordinario. Per svariate ragioni, tra le quali la loro
contestazione a una serie di norme varate recentemente dal comando dei vigili,
che riguardano proprio la regolamentazione dello straordinario. La massiccia
astensione dal lavoro è un atto che sta a metà tra la scelta personale e la
protesta. Naturalmente si può dire: ma l’assenteismo non è una forma di
protesta, le proteste devono svolgersi dentro le regole stabilite dalla legge e
organizzate dai sindacati. Forse però, se si dice così, non si capisce che la
crisi, la recessione, e in parallelo la morte dei partiti politici e l’epocale
indebolimento dei sindacati, rendono inevitabile il nascere di forme di
ribellione nuove, e anche fantasiose. E’ assurdo considerare l’assenteismo
contro gli straordinari un semplice atto di vigliaccheria e di irresponsabilità:
è in modo limpido un atto di lotta. Poi ciascuno è autorizzato a dire che è una
lotta sbagliata, che i metodi sono illegittimi, che questi fenomeni vanno
fronteggiati e vinti – così come tante volte si dicono queste cose anche delle
più legalitarie battaglie dei sindacati – però bisognerà capire che i ”ribelli”
non resteranno fermi ad aspettare gli schiaffoni e rimbrotti del potere, si
muoveranno, cercheranno di resistere, di spuntarla. Il conflitto, lo scontro
sociale, non è solo una affermazione teorica: è esattamente questa roba qui,
questi atti di indisciplina di massa. Il problema vero è la debolezza oggettiva
dei ”ribelli”. Sono isolati in modo totale. Persino la Cgil ha paura di
difenderli, intimidita, impaurita dalla furia della ”politica per bene” – di
destra o di sinistra, leghista o grillista – e dei grandi giornali. Non c’è una
sola voce che si leva in loro difesa. Nessuno che avanza un dubbio sulla
necessità di linciarli, di preparare subito delle leggi speciali contro di loro,
magari – chessò – di dare anche a loro il 416 bis (associazione mafiosa…)!. Non
lo dico solo per scherzo: mi ha colpito il fatto che contro i vigili, in questa
crociata anti-lavoratori, si è gettato a capofitto anche Cantone, il mitico
commissario anticorruzione voluto da Renzi e applaudito dai magistrati. Che
cavolo c’entra Cantone con l’astensione dal lavoro dei vigili urbani? C’entra,
c’entra, perché il cerchio deve chiudersi: lotta alla corruzione, lotta ai
lavoratori, lotta all’articolo 18, potere ai ”giusti”, ai giudici, ai
giornalisti, ai saggi, a i tecnocrati, agli imprenditori, agli eletti…Sapete
come dicevano i greci? Agli ”aristos”.
E su di questo passo. E poi il
paradosso. «Quella bambina di 14 anni è un capomafia», scrive Francesco
Altomonte su “Il
Garantista”. Mancano sei mesi al compimento dei suoi
17 anni, ma leggendo i capi di
imputazione riportati nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari
sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito
che ha dedicato la sua vita a “mamma ‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo
parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della
potente cosca Gallico di Palmi, nel
Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio
Calabria l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere
un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori.
Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe
passare) è: ma un ragazzina che all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni,
è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce
al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i
dubbi: «Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al
12.05.2011». Nel giugno di quell’anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe
compiuto 14 anni, quindi poteva essere
perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono
contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la
possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di
associazione mafiosa. La ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una
famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso
di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una
presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e
sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della
squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno
conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà
del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di
soldi e di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i
partecipanti alla discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo
alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del
2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove
e cosa trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori
la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia,
fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti
che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la
macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra
autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il
trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe
o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente,
si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto
nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto
all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono
essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14
anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche
perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto
all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando
la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale
finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio
di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti
quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal
clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per
inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze
dell’ordine. All’interno di un’altra informativa, la ragazzina viene
intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe
impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne
in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è
perseguibile e può essere incriminata. L’equazione sembrerebbe questa: siccome
tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai
mammasantissima fino ai fiancheggiatori,
l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca,
anello di congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul
territorio. La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti,
compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia
del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso,
fugge con regolarità per ritornare a casa.
Con altrettanta regolarità viene ripresa e
riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare
che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la
possibilità di visitare suo padre in carcere.
De Cataldo: "Giustizia,
un'utopia da difendere". E' un’aspirazione che spesso non si realizza, ma
bisogna continuare a lottare per vederla trionfare. Anche se la crisi economica
ha inciso profondamente sui diritti e rimesso in discussione molte conquiste
sociali. Il commento dello scrittore, scrive Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”.
“Processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno
uno scopo”. La citazione non appartiene a un nichilista dell’Ottocento, ma al
grande giurista Salvatore Satta. Intende, Satta, che il processo è un mistero.
Come la vita, aggiunge: il mistero del processo, il mistero della vita. Sublime
astrattezza di un Maestro: ma realmente la giustizia è, o può essere
considerata, un mistero? Nella percezione di grandi artisti e narratori sembrano
prevalere altri sentimenti. Prendiamo il giudice Briglialoca, immortalato cinque
secoli fa da François Rabelais. Per decidere le cause che gli sono affidate,
questo onesto e stimato magistrato si affida al lancio dei dadi. Vince colui
«che per primo arriva al numero di punti richiesto dalla sorte giudiziaria,
tribuniana, pretoriale». Però, almeno una volta, Briglialoca sbaglia, e scrive
una sentenza “ingiusta”. E finisce sotto processo. Assolvetemi, invoca l’anziano
e stimato giudice, se ho sbagliato è stato per colpa della vecchiaia: la vista è
debole, leggendo i dadi ho preso un “4” per un “5”. Nell’episodio del processo a
Briglialoca, il genio ribaldo di François Rabelais coglieva il senso di
sbigottito sgomento che, al suo tempo, segnava il rapporto fra l’esercizio della
giustizia e la sua percezione diffusa. La giustizia. Una partita che si gioca
fra misticismo e gnosi. Una tenebrosa palude avvolta dalle nebbie di un
linguaggio iniziatico, un viaggio interminabile nelle lungaggini di un
formalismo astruso. E, alla fine, l’inganno di un lanciatore di dadi, per giunta
dalla vista debole. Come se la dea della bilancia e della spada del mito fosse
destinata a trasformarsi, ironicamente, nell’altra sua sorella, la Fortuna dagli
occhi bendati che premia o punisce a caso. Sentimento di ingiustizia,
indignazione venata di umorismo per le alchimie dei chierici e sarcasmo per
l’uso “casuale” della legge. Questo troviamo in Rabelais: razionalità, più che
mistero. E l’elogio della durata del processo che fa Briglialoca non si
comprende se non si ricorda che, per antica prassi, ai giudici si donavano
“sportule”, cioè bustarelle, tanto più ricche quanto più sottili erano le
questioni da affrontare: come dire, più la tiri per le lunghe, e più guadagni.
Nei secoli a venire, molti altri grandi spiriti ci hanno fornito
rappresentazioni ironiche, amare, disperate, ilari della giustizia. Si pensi
all’Azzeccagarbugli che tramortisce il povero Renzo a colpi di latinorum; al
giudice di Collodi che condanna Pinocchio proprio perché innocente; al corrotto
ubriacone Azdak che nel “Cerchio di gesso del Caucaso” di Bertolt Brecht fa la
scelta giusta perché risponde alla morale della strada infischiandosene del
diritto; al cupo guardiano delle leggi del “Processo” kafkiano; agli eroi dei
romanzi di John Grisham alle prese con le storture, spesso atroci, del sistema
giudiziario dell’Impero Americano. La giustizia, in tutte queste narrazioni, o
non è definita affatto, o lo è in negativo. Ciò che affiora, accanto allo
sbigottimento e alla critica, è qualcosa di molto diverso dal mistero. È la
tensione verso un oggetto indefinibile: sappiamo confusamente ciò che è
giustizia, ma non vediamo mai attuato questo nostro ideale. Tutto ciò si può
definire aspirazione. Un’aspirazione che, a guardare alla Storia, fende
realmente i secoli e i millenni come la spada fiammeggiante delle antiche icone.
Se per Satta il giudizio finale, l’unico che abbia veramente un senso, è rimesso
all’Uno che non ha bisogno di punire, perché gli basta giudicare, l’uomo pratico
coglie, nella rappresentazione degli artisti, la dialettica continua fra la
tensione verso il giusto e i limiti della Storia. E solo trascinata nell’aula
della Storia la giustizia accantona l’alone metafisico del mistero per farsi
esperienza concreta, vicenda dialettica, dialogo continuo fra luce e oscurità.
Nel nome di ciò che è giusto donne e uomini, in tutte le terre conosciute, hanno
conosciuto l’ostracismo, la repressione, il martirio. E giusto, peraltro, non
necessariamente coincide con legale. Il codice di Hammurabi legittimava il
padrone a uccidere il proprio schiavo e l’altrui: in questo caso, l’omicida se
la cavava con una modesta multa. Le leggi razziali di Mussolini, inique e
ingiuste, erano leggi, pertanto legali. Oggi la schiavitù è un crimine represso
dalle convenzioni internazionali. E la nostra Costituzione vieta il razzismo.
Ciò che all’antico re babilonese e al dittatore di Predappio appariva giusto e
legale oggi è universalmente ritenuto ingiusto e illegale. Quando parliamo oggi
di giustizia, dunque, parliamo, in termini storici, dell’ultimo segmento (in
ordine di tempo) di un lunghissimo percorso costellato di lotte, contese, guerre
e massacri. E in termini oggettivi siamo autorizzati a spendere la parola
progresso. Poiché la maggior parte di noi, almeno nei paesi occidentali, vive in
regimi democratici, sicuramente preferibili ai regni assolutistici dominati
dall’arbitrio. Le Corti internazionali giudicano dei crimini contro l’umanità
commessi da individui che, un tempo, furono condottieri e capi di Stato riveriti
e acclamati: e anche questo, sino a pochi anni fa, sarebbe stato impensabile.
Con il passare del tempo, l’aspirazione generica e indeterminata alla giustizia
cresce e si fa sempre più concreta. Abbraccia la legittima pretesa di diritti
che si vanno affermando sull’onda di un altro progresso, quello scientifico, e
di un’accresciuta sensibilità sociale: il diritto alla salute, al lavoro,
all’ambiente. Tuttavia, la stessa Storia che induce a un cauto ottimismo impone
un diverso ordine di riflessioni. Le Corti internazionali non sono riconosciute
da alcune grandi nazioni, che si rifiutano di aderirvi. E se operano è perché
appena vent’anni fa, nel Mediterraneo, a poche miglia dalle nostre coste, nell’ex-Jugoslavia
si perpetravano il genocidio e lo stupro etnico. La giustizia, per chi era
internato in un campo “etnico” non poteva che essere un’aspirazione: e ancora
oggi lo è per i tanti afroamericani che protestano contro le violenze
poliziesche o per le donne soggiogate dai regimi sessuofobici, e di esempi se ne
potrebbero citare a dozzine. Dopo l’11 settembre, come rivela l’agghiacciante
rapporto del Senato statunitense, la prima democrazia al mondo ha praticato la
tortura. La crisi economica che stiamo attraversando ha inciso profondamente sui
diritti dei lavoratori. Molte delle conquiste sociali degli anni passati sono
rimesse in discussione. Lo Statuto dei lavoratori è un ferrovecchio. Il
sindacato un inutile orpello. Il welfare è sul banco degli imputati. Mentre
l’aspirazione alla giustizia non cessa di crescere, si fa strada nella
collettività un crescente senso di sfiducia e disaffezione verso le istituzioni.
Gli elementi di ottimismo e di pessimismo si bilanciano, rianimando, sotto
diverse spoglie, il costante e irrisolto rapporto dialettico fra la giustizia a
cui si aspira e quella che si vede realizzata. È vero che dai tempi di Hammurabi
molto è cambiato: ma se possiamo accettare di definire la giustizia come
un’aspirazione, non possiamo parlarne in termini di conquista irreversibile. Non
c’è niente di irreversibile in questa storia millenaria. La tensione fra lo
schiavo e il padrone è il nodo centrale intorno al quale ruota la vicenda della
giustizia come aspirazione. In questa corrente dialettica il progresso non può
che stare dalla parte dello schiavo. O per meglio dire, delle molteplici
maschere che lo schiavo assume nel corso del tempo: il combattente per la
libertà di opinione, la donna violata, il profugo in fuga dalla guerra, la
vittima della mafia, il minore abusato, il precario senza diritti, il condannato
che espia la pena e cerca di reinserirsi. Un’aspirazione che dobbiamo tenerci
ben stretta, e per la quale bisognerà ancora e ancora combattere.
Che volete che sia. Con questi
italiani!
Palazzo, le sparate dei
politici non fanno ferie. Dagli insulti di Gasparri alla crisi Pascale-Silvio. E
la cagnolina della Biancofiore, i selfie di Renzi, le analisi economiche di
Belen e il mutuo di Razzi. Tra panettoni e cotechino, i politici non hanno
mancato di rilasciare dichiarazioni surreali anche sotto l'albero. Ecco le
peggiori, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”.
Michaela Biancofiore,
onorevole di Forza Italia: "Non partirò mai per le festività natalizie senza la
mia cagnolina, la carlina Puggy. Vive in simbiosi con me, ne soffrirebbe troppo"
(19 dicembre 2014)
Matteo Renzi, ospite di
Antonella Clerici e Bruno Vespa, nel salotto di “Un mondo da amare” (Raiuno): "È
come se l’Italia non sapesse farsi i selfie..." (19 dicembre 2014)
Antonio Razzi, la vita grama
del senatore berlusconiano (La Zanzara): "Ammé dello stipentio di parlamentare
non me rimane niente. Non posso manco aiutare i miei due figli operai. Non è che
ti restano in tasca 12mila euro al mese, ci sta da pagare la quota al partito,
ci stanno da pagare i collaboratori, alla fine devi stare attento a non finire a
mangiare sagne e facioli..." (19 dicembre 2014)
Silvio Berlusconi, su Twitter:
"Tutti mi chiedono come sto. E come volete che stia? In libertà condizionata"
(22 dicembre 2014)
Matteo Salvini, il grande
quesito della Vigilia, su Facebook: "Amici, una curiosità: ma voi ci credete
agli Oroscopi?" (24 dicembre 2014)
Barbara Mannucci, ex deputata
Pdl, ora stregata da Matteo Salvini: "Salvini è la nostra ultima spiaggia. Che
uomo coraggioso. Che energia. O ci salva lui, oppure non abbiamo speranza.
Salvini è come Berlusconi nel '94 , è da allora che non sento tanto calore".
(Nel 2011 diceva: "Berlusconi è la luce, resterò con lui fino alla fine. Sarò la
sua Claretta Petacci") (20 dicembre 2014)
Andrea
Orlando, ministro della Giustizia, intervistato da Libero: "Mi mancano pochi
esami per laurearmi in Giurisprudenza. Interruppi gli studi per andare a
lavorare..." 21 dicembre 2014)
Don Ferdinando, parroco di
Villasanta, comune alle porte di Monza, durante la messa della Vigilia di
Natale: "Babbo Natale è solo un ciccione ubriacone, inventato dalla Coca-Cola
per simboleggiare il consumismo..." (24 dicembre 2014)
Il Mago Otelma, intervistato
da Libero: "Simpatie grilline? Le nostre simpatie vanno a tutti coloro che
difendono la libertà dei cittadini e tutelano la legalità democratica. Noi
leggiamo nella mente del 'duce invitto' (Renzi) una smodata ambizione, una
protervia lancinante, una ebbrezza superumana che bene riecheggia Zarathustra...
La sua è stata abile propaganda, sapiente utilizzo dei media asserviti e
ruffiani, disinvolto impiego di una retorica laurina..." (30 dicembre 2014)
Silvio Berlusconi, dal
messaggio di auguri pubblicato sul proprio profilo Facebook: "… Il programma che
noi metteremo in pratica, ove avessimo responsabilità di governo, è la formula
liberale del benessere e della crescita che ha funzionato sempre e dovunque sia
stata realizzata. È un programma in tre punti. Il primo punto: meno tasse. Il
secondo punto: meno tasse. Il terzo punto: ancora meno tasse" (24 dicembre 2014)
Beppe Grillo, in passato il
leader 5 Stelle aveva elogiato il "modello" Argentina, ora è il turno della
Russia: "Fare la fine del Rublo se usciamo dall'Euro? Magari!" (27 dicembre
2014)
Roberta Pinotti, ministro
della Difesa, in un'intervista rilasciata a Tv2000, la tv della Cei: "Mi sono
iscritta al Pci nell’89, l’anno della svolta di Occhetto che chiamò a raccolta
anche Acli e Caritas. Votavo Pci, lo sentivo il partito più attento a quelli che
ritenevo gli ultimi, secondo una mia lettura del Vangelo" (27 dicembre 2014)
Mario Borghezio,
l'eurodeputato leghista dice la sua sul rinvio a giudizio di 34 “guardie padane”
(Il Giornale): "Si figuri che il capo delle famigerate camicie verdi era il
generale Pollini. Di professione faceva il guaritore. Credo che imponesse le
mani... Fra l’altro il nocciolo duro dell’organizzazione era composto da ex
alpini con i capelli bianchi e una discreta propensione all’alcol" (29 dicembre
2014)
Il presidente del Consiglio
Matteo Renzi durante la conferenza stampa di fine anno ha fatto riferimento a
''Ogni maledetta domenica'', il film in cui Al Pacino interpreta il ruolo di un
allenatore di football americano che riesce a condurre la squadra alle finali
del campionato. Matteo Renzi, durante la conferenza stampa di fine anno: "Mi
sento un po' come Al Pacino in Ogni maledetta domenica, un coach che dice ai
suoi che ce la possono fare" (29 dicembre 2014)
Maurizio Gasparri, il
vicepresidente del Senato scatenato su Twitter, anche durante le festività
natalizie: "Il Liverpool scarica Balotelli? Un vu gioca' del pallone". "Non vado
pazzo per i sanpietrini, ma l'idea di venderli è così da deficiente che
meriteresti che te li tirassero in fronte Ignazio Marino". "Sei proprio un
deficiente Ignazio Marino". Ad un utente: "Te nu spreca' la corda chiudi l'hanno
in bellezza, buttate!". Rispondendo a NaOh: "Io capodanno da solo? Ora vado
dagli amici e tu stasera stai a casa, la vita da Rom è dura". Rispondendo a
Maria Teresa, che lo critica tirando in ballo la "Repubblica delle banane": "Lei
è una nota esperta di banane a giudicare dalle foto, addio" (29 dicembre 2014)
Giuseppe Pecoraro, prefetto di
Roma, intervistato da Repubblica in merito all'inchiesta su Mafia Capitale: "A
marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del
rispetto che ho per la persona che me l'ha mandato, Gianni Letta. E devo
ammettere che avevo pure rimosso quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di
averlo ricevuto solo quando ho letto l'ordinanza" (30 dicembre 2014)
Francesca Pascale, la
fidanzata di Silvio Berlusconi spegne sul nascere le voci di una possibile crisi
di coppia: "Crisi? Ma quale crisi? Io e il presidente Berlusconi siamo sempre
una coppia quasi normale. Una coppia in cui quel 'quasi' c’è sempre stato, e
riguarda la differenza d’età. E chi si scolla da lui?". "Non ero a Madrid, vuole
che le mandi le mie coordinate geografiche via WhatsApp? Sono ad Arcore, con 'lui',
certo. L'unica emergenza è un'altra: mancano gli struffoli". "E a chi si dava
pensiero anche di sapere come stessero i miei cagnolini, annuncio che si
preparano a festeggiare con noi. Dudù è in ottima forma, e Dudina... non so se
posso dirlo... diciamo che è entrata nell’età adulta" (31 dicembre 2014)
Antonio Razzi, l'incredibile
ammissione del senatore di Forza Italia, come se nulla fosse... (Repubblica.it):
"Io avrei ottenuto qualcosa per passare con Berlusconi? Magari! Non volevo
perdere il posto di lavoro. Io volevo rimanere alla Camera perché volevo pagarmi
il mutuo. È stato un atto di salvarmi la mia paca... Chi è quel lavoratore che
non si salva la sua paca? Era un modo per difendere i miei diritti. Mi mancava
tre anni per la penzione svizzera. E così ho detto, se salvo il governo io mi
salvo tutto e almeno pago il mutuo. Sennò chi lo paga il mutuo? Lei?" (22
dicembre 2014)
Brunetta:
"La legge c'è, basta applicare la mia riforma".
L'ex ministro della Pa: "Ridicolo nascondersi dietro il ddl Madia", scrive
Fabrizio De Feo su “Il
Giornale”.
Onorevole Brunetta, lei è
stato per anni simbolo della lotta ai «fannulloni» nella Pa. Cosa pensa
dell'episodio romano?
«È un episodio grave che
rischia di tramutarsi in un boomerang per chi se ne è reso responsabile. Ma
certo colpisce che la sinistra dopo aver combattuto le mie leggi oggi scopra che
esistono fannulloni e assenteisti. Quando lo dicevo io mi insultavano».
Renzi invoca nuove regole
per il 2015.
«Nascondersi dietro il disegno
di legge Madia è ridicolo. Le regole per combattere fannulloni e assenteisti ci
sono già e portano il mio nome. Vanno applicate subito, senza scuse, e vanno
stigmatizzati certi comportamenti sempre, non solo quando c'è il caso mediatico.
È stata la sinistra, è stata la Cgil a combatterle. Sono stati i governi Monti,
Letta, e anche il governo Renzi, da oltre 10 mesi, a non applicare queste
regole».
In concreto come sono state
disattese?
«Proprio sull'assenteismo dei
dipendenti. Io pubblicavo i dati delle assenze di tutti i dipendenti della Pa,
mensilmente e nel dettaglio. Con la fine del governo Berlusconi questo non è più
accaduto. Avevamo ottenuto risultati importantissimi. Ad esempio l'obbligo dei
certificati medici online sia del pubblico che del privato con la trasmissione
in tempo reale all'Inps. Se vogliono sapere quali medici hanno fatto i
certificati, possono farlo in un attimo».
Contro la sua riforma ci
furono ribellioni da parte dei dipendenti pubblici?
«No, anzi, la Cgil mise in
campo 13 scioperi, tutti falliti, tutti con una partecipazione media del 4%. Il
consenso nella Pa era alto, tranne nel Pci-Pds-Ds-Pd, tranne nella Cgil, tranne
tra gli intellettuali come Scalfari o Merlo, tranne i cantanti, gli attori e i
comici».
Renzi da amministratore
locale come si pose rispetto alla sua riforma?
«La applicava salvo dire: "Ma
non sono mica Brunetta". Quando era presidente della Provincia di Firenze gli
proposi una scommessa: se con la mia riforma tra i tuoi dipendenti l'assenteismo
si riduce più del 40% mi regali una Montblanc; se meno del 40% te la regalo io.
Vinsi la scommessa, ma la Montblanc non me l'ha mai regalata».
In malattia
per cento milioni di giorni all’anno.
Non solo per motivi di salute: le assenze dei dipendenti toccano il 20% nel
settore pubblico e il 13% nel privato. Brunetta stimò un costo annuo per la PA
di 6,5 miliardi, anche se il fenomeno è in calo. Sono tutte giustificate? Scrive
Paolo Baroni su “La
Stampa”.
Solo a causa delle malattie in un anno, il 2013, l’ultimo censito dall’Inps,
vanno in fumo oltre 108 milioni di giornate di lavoro: 77,6 nel settore privato
e 30,8 nel settore pubblico, dove si registra un totale di 4.838.767 «eventi».
In pratica l’altro anno ognuno dei 3 milioni e trecento mila travet si è
ammalato una volta e mezzo nel giro di 12 mesi. In media, ferie comprese, le
assenze dal lavoro toccano il 20% nel settore pubblico ed il 13 in quello
privato. Ma le motivazioni, come insegna la vicenda dei vigili romani, non si
limitano alle sole malattie, ci sono infatti permessi di vario tipo ed i giorni
concessi dalla legge 104 per l’assistenza ai disabili. Un «danno», per la
pubblica amministrazione, che qualche anno fa, quando Brunetta lanciò la sua
crociata contro i «fannulloni», venne stimato in 6,5 miliardi di euro l’ anno. L’ultimo
monitoraggio della Funzione pubblica, che però si ferma ad agosto 2014, calcola
che su 4705 amministrazioni prese in esame, in media ogni dipendente si è
assentato per 0,558 giorni per cause di malattia (con ministeri e agenzie
fiscali che arrivano a 0,987 e le università che si fermano a 0,218). Con picchi
particolarmente alti al ministero della Giustizia (1,827 giorni/dipendente) e
alla Difesa (1,218). Per lo più si tratta sempre di malattie di breve durata:
gli eventi che comportano assenze superiori ai 10 i giorni, infatti, pesano
appena per 0,023 giorni per ogni dipendente. Gli «altri motivi», ovvero le varie
tipologie di permesso, pesano molto di più: la media per dipendente è infatti
pari a 1,001 giornate perse al mese (1,804 nelle comunità montane e 1,739 nelle
università). A livello regionale ci si ammala molto di più al centro (0,725
giorni/dipendenti) ed al Sud (0,607) che nel Nord est (0,386) e nel Nord Ovest
(0,403). Dal ministero assicurano che i dati sulle assenze dei dipendenti
pubblici saranno aggiornati nei prossimi giorni. Per ora questo ultimo
monitoraggio ci dice che rispetto all’anno precedente le assenze di malattia
sono scese del 9% e quelle per «altri motivi» del 15,3%. Nulla rispetto ai
picchi fatti segnare all’avvio della riforma Brunetta, quando nel giro di pochi
mesi si registrò un crollo del 36% delle assenze coi giorni di malattia
pro-capite scesi da 1,04 a 0,64. «Da Monti in poi - denuncia oggi l’ex ministro
di Fi - i governi di turno non hanno più creduto in questa operazione. I dati
non vengono più pubblicizzati e in pratica la lotta all’assenteismo è stata
abbandonata. Peccato perché ora con certificati medici e ricette on line la Pa
avrebbe nuovi importanti strumenti che potrebbe utilizzare». La pubblicità dei
dati, dettagliati per tipologia di amministrazione e territori, in effetti, è lo
strumento più efficace per contrastare questi fenomeni. Per legge tutto è
infatti on line e pubblico: basta accedere ai vari siti e cercare il link
«amministrazione trasparente». E così facendo, ad esempio, si scopre che al
Comune di Roma (nel terzo trimestre 2014) i tassi di assenza, ferie comprese,
oscillano tra il 25 ed un pericoloso 42%, con una quota che spesso supera il 10%
tra malattie e permessi. Quanto ai vigili urbani già a fine 2013 facevano
segnare picchi significativi di malattia (7,4% il gruppo di Montemario), di
permessi legge 104 (3,01% al Tuscolano) e di permessi «vari» (5,95% al
Prenestino). Ma del resto se anche alla Corte dei Conti, dove operano i nostri
censori degli sprechi, in un terzo degli uffici si sfora il 30% di assenze, si
capisce bene come l’assenteismo sia ancora una malattia nazionale.
Da sinistra si grida al lupo
nero, indicando la pagliuzza nell’occhio altrui.
Padrini,
terroristi, servizi segreti e massoni: così dalla Magliana è nata mafia
Capitale.
Quarant'anni fa i capi di 'ndrangheta e banda della Magliana si riunivano al
Fungo. Lo stesso luogo dove è cresciuto Massimo Carminati. E che ritorna
nell'inchiesta su Mafia Capitale. Che sembra sempre più l'evoluzione criminale
della vecchia banda di Romanzo Criminale, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”.
C'è un filo nero che attraversa gli ultimi decenni della storia criminale
italiana. È un cordone che unisce l'Italia: da Reggio Calabria a Roma. Dalla
'ndrangheta a Mafia Capitale, passando per la banda della Magliana, terrorismo
nero, servizi segreti e massoneria. Con un luogo che ritorna oggi come ieri: il
Fungo, zona Eur, Roma. «Con Mancini (Riccardo, l'ex numero uno di Euro Spa
inquisito nell'inchiesta su Mafia Capitale ndr) abbiamo fatto dieci
processi quando eravamo ragazzini... stavamo al Fungo insieme... cioè... ma...
con tante altre persone... che magari hanno fatto carriera... che in questo
momento magari non sono indagate». Massimo Carminati rievoca il passato dei
“neri” di Roma. Lui racconta e intanto le cimici piazzate dagli investigatori
del Ros dei carabinieri intercettano. Carminati ricorda gli anni '70, gli anni
di piombo, quando la gioventù neofascista della Capitale si incontrava in un
luogo simbolo, che ritorna anche nell'inchiesta Mafia Capitale. Il punto di
ritrovo di cui parla “er Cecato” è il Fungo. Un acquedotto costruito negli anni
'60 all'Eur, a pochi chilometri dalla Magliana. Sotto questa struttura di
cemento armato che assomiglia a un enorme fungo si ritrovavano i giovani della
destra radicale, molti dei quali sono poi finiti nei nuclei armati
rivoluzionari. L'ala più feroce dell'eversione di destra. Ma all'ombra del
Fungo, nel ristorante panoramico all'ultimo piano della torre, si sono
incontrati pure altri personaggi da romanzo criminale. Alcuni dei quali
condividono con il boss di Mafia Capitale il credo fascista e il fiuto per gli
affari, di qualunque colore essi siano. È una storia che comincia quarant'anni
fa. Nel 1975. In un 'Italia stremata dalla tensione sociale e politica provocata
dalle bombe, dal lavoro sporco dei servizi deviati e dagli accordi sottobanco
tra organizzazioni mafiose, estremisti neri e 007. Il Paese era terrorizzato. E
il peggio doveva ancora arrivare. Solo un anno prima c'era stata la strage dell'Italicus,
sei anni prima il massacro di piazza Fontana a cui seguì, l'anno dopo, la bomba
che fece deragliare il treno a Gioia Tauro. È in questo contesto di terrore e
tritolo che il 18 ottobre '75 allo stesso tavolo siedono tre capi 'ndrangheta
tra i più influenti nell'organizzazione calabrese e alcuni esponenti della banda
della Magliana. Il summit si è tenuto proprio al Fungo. E qui che la polizia di
Stato interviene e arresta Paolo De Stefano, don Peppe Piromalli, Pasquale
Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale. «Tale riunione, lungi dall'essere
una mera riunione conviviale costituiva invece una vera e propria riunione
mafiosa ad alto livello» si legge nelle informative dell'epoca. Paolo De Stefano
verrà ucciso dieci anni dopo. L'agguato che gli costò la vita diede il via alla
seconda guerra di mafia a Reggio Calabria. Il clan De Stefano però è tuttora il
più potente della città. E nell'organizzazione calabrese è la famiglia che conta
di più, quella che negli anni ha saputo creare relazioni più solide con il
potere: hanno protetto la latitanza del terrorista neofascista Franco Freda;
hanno giocato un ruolo importante nella rivolta dei Boia chi molla per Reggio
capoluogo; l'avvocato Giorgio De Stefano, ucciso nel '77, è stato, secondo
alcuni pentiti, il contatto tra 'ndrangheta e servizi segreti. Tra spioni ed
estrema destra, i De Stefano sono cresciuti e dal poverissimo quartiere Archi
dove hanno mosso i primi passi, hanno allungato i tentacoli fino in Francia,
radicando i propri affari a Roma e Milano. E proprio nel capoluogo lombardo,
stando alle recenti indagini dell'antimafia reggina, ha sede il cuore
finanziario del clan. L'indagine Breakfast sta scavando nei segreti societari
della 'ndrangheta governata dalla famiglia De Stefano, e ha scoperto complicità
nella Lega Nord, con l'ex tesoriere Francesco Belsito, e con uomini un tempo
dell'avanguardia armata nera, come Lino Guaglianone, anche lui come Massimo
Carminati, ex Nar, e precisamente ex tesoriere del nuclei armati rivoluzionari.
Non solo, ma nei rapporti investigativi gli inquirenti segnalano più volte la
vicinanza dei De Stefano alla banda della Magliana, «di cui sono noti i
collegamenti con la destra eversiva e i servizi segreti». Al Fungo c'era anche
Pasquale Condello, detto “il Supremo”. Come i De Stefano è cresciuto nel
quartiere Archi. Insieme hanno conquistato Reggio, salvo poi dividersi in una
guerra durata sei anni e con mille morti ammazzati. Dopo il sangue è tornata
l'armonia e la città è stata divisa equamente. Ancora oggi è pax mafiosa. Il
profilo di Giuseppe Piromalli detto “Mussu stortu” è simile a quello di don
Paolino De Stefano. Le loro famiglie si uniscono alla fine degli anni 70' per
fondare una 'ndrangheta più moderna. Sono i precursori della strategia delle
alleanze trasversali con pezzi delle istituzioni e di altri gruppi mafiosi. E
sono i promotori dei grandi business con la droga. Per farlo hanno dovuto
annientare i vecchi capi bastone. Una volta eliminati è iniziata la loro ascesa
criminale. Peppe Piromalli trascorreva molto tempo nella Capitale. L'interesse
della 'ndrina di Gioa Tauro era quello di allargare la zona di influenza. Un
particolare che verrà confermato dal pentito della banda della Magliana Antonio
Mancini, “l'Accattone”. I Piromalli ritornano nell'indagine della procura
antimafia di Roma su Mafia Capitale. I pm e i militari del Ros hanno infatti
scoperto come la banda de “er Cecato” avesse stretto un patto con i clan
calabresi, in particolare con i Mancuso, attraverso però un parente del boss
Piromalli, dipendente delle cooperative del braccio destro di Carminati,
Salvatore Buzzi. Quel giorno di quarant'anni fa al Fungo accanto ai
mammasantissima della 'ndrangheta c'erano “er Gnappa” Manlio Vitale e “er
Pantera” Gianfranco Urbani. Personaggi di spicco della Magliana. Manlio Vitale
con Massimo Carminati ha condiviso più di qualche avventura malavitosa. Nel 2000
sono stati indagati per il furto nel caveu all'interno del Palazzo di giustizia.
E nella sentenza sulla banda della Magliana i loro nomi vengono accostati
spesso. Vitale come Carminati frequentava il Fungo. D'altronde era zona loro.
Per questo gli 'ndranghetisti sono stati invitati in quel ristorante. Non solo.
Il nome de “er Gnappa” spunta negli atti di Mafia Capitale. Fino a qualche anno
fa, almeno da quel che risulta agli investigatori, frequentava Riccardo Brugia,
«compare e braccio destro di Carminati». Brugia secondo gli inquirenti è «dotato
di una rilevante storia criminale personale e legato al Carminati da una
profonda amicizia e dalla comune militanza nei gruppi eversivi dell’estrema
destra». «Er Pantera» invece è morto qualche mese fa. Nella banda, alcuni
collaboratori di giustizia, lo indicavano come il manager delle relazioni con le
altre organizzazioni. Con la 'ndrangheta ma anche con i clan catanesi, in
particolare con la cosca di Nitto Santapaola (famiglia alleata con Piromalli e
De Stefano). Fu lui, dicono i testimoni, a tenere i contatti con le 'ndrine di
Reggio Calabria e a instaurare il traffico di eroina con la Tailandia. Ora che
molti dei protagonisti della riunione del Fungo non ci sono più, l'eredità di
quei rapporti è passata di mano. A Roma comanda Mafia Capitale e le sue alleate.
Una in particolare, la 'ndrangheta. In fin dei conti, quindi, poco è cambiato.
Se non il clima. Per questo l'organizzazione guidata da “er Cecato” in un certo
senso sembra l'evoluzione criminale della banda dei testaccini, l'anima più
borghese del gruppo della Magliana. Un salto di qualità obbligato. Lo stesso
passaggio che hanno dovuto mettere in atto le altre mafie. In questo nuovo
contesto rapinatori e i killer hanno sempre meno spazio. Ciò che non muta sono
le alleanze di un tempo. E spesso ritornano gli stessi cognomi, gli stessi
personaggi. Segno che il capitale di relazioni e conoscenze accumulato negli
anni passati frutta ancora oggi. E che la mafia più che rottamare riadatta al
nuovo corso i vecchi arnesi.
L’altra faccia della medaglia,
invece, è la trave nascosta negli occhi della sinistra.
Lo scandalo
dei falsi iscritti Pd: "Tesserate persone inesistenti".Una giornalista della Stampa ha ottenuto una tessera dei dem
fornendo false generalità: nessun controllo, nessuna richiesta di documenti. Si
paga, si firma e si ottiene la tessera, scrive Ivan Francese su “Il
Giornale”. Iscriversi al Pd romano
è facile. Facilissimo. Tanto facile che basta scrivere un
nome falso e un indirizzo mail di
fantasia, pagare la quota di iscrizione e la
tessera salta fuori senza alcun controllo. Nessuna richiesta di
documenti, carta d'identità, patente, codice fiscale: niente di niente. Questa
la clamorosa scoperta della cronista de
La Stampa Flavia Amabile, che è riuscita ad iscriversi ad una sezione
capitolina del Partito democratico fornendo generalità inventate ed ottenendo la
tessera del partito senza problemi. Quello delle tessere è stato a lungo un
grosso problema per il Pd nazionale, con il numero degli
iscritti soggetto a cali di centinaia
di migliaia di persone da un anno con l'altro. In
Piemonte si sono registrati casi di
anziani pagati per iscriversi al partito e votare, in
Puglia è stato segnalato un numero di
tessere triplo rispetto a quello degli iscritti. Proprio a Roma, alle
primarie per il sindaco della
primavera 2013, si erano viste file di rom fuori dai seggi, con conseguenti
polemiche sulla regolarità del voto. Ora, anche in seguito allo scandalo di
Mafia Capitale, il presidente del partito
Matteo Orfini, aveva annunciato di voler fare "pulizia" nel Pd romano,
passando ai raggi x gli ottomila iscritti della capitale. Sempre su La
Stampa, l'esponente democratico ammette di "non essere sorpreso" per la
facilità con cui si possono ottenere tessere false, ma chiede anche di "non
crocifiggere nessuno" in attesa che "ci si abitui al rispetto delle regole".
Iscriversi agli altri partiti, chiosa la Amabile, non è però così semplice.
Complice anche una situazione finanziaria che non permette strutture sul
territorio articolate come quelle del Pd, spesso l'iscrizione alle formazioni
politiche richiede la compilazione di formulari online oppure all'interno di
circoli dove i nuovi arrivati vengono "esaminati" più attentamente. Solo a Sel,
scrive la cronista del foglio torinese, "nel tesseramento online non è richiesto
alcun tipo di documento".
Venti euro e zero controlli
per una tessera falsa del Pd. Nome di fantasia, niente documenti né codice
fiscale: il numero di finti iscritti può crescere anche in questo modo. La
tessera finta e la ricevuta del versamento con cui la nostra cronista si è
iscritta con nome falso al Pd, scrive Flavia Amabile su
La Stampa. Da cinque giorni ho in tasca una
tessera del Pd totalmente falsa. Non è stato poi troppo difficile ottenerla, mi
è bastato dare il primo nome che mi è venuto in mente. Nessuno mi ha chiesto né
una carta d’identità né una patente. Mi è stato specificato che anche il codice
fiscale non è importante: conta solo versare i 20 euro necessari. Vuol dire che
due anni sono stati presi e buttati via. Era l’aprile del 2013 quando esplosero
le polemiche intorno alle primarie per il sindaco di Roma con le file di rom
fuori dai seggi denunciate da Cristiana Alicata - allora dirigente del partito
nel Lazio - e ignorate. E poi lo scandalo delle tessere gonfiate, le rivelazioni
dell’inchiesta Mafia Capitale e il commissariamento. Tutto questo non sembra
aver ancora insegnato nulla al Pd romano. Matteo Orfini, il presidente del
partito mandato dal segretario Matteo Renzi a fare pulizia tra i circoli della
capitale, dieci giorni fa aveva annunciato di voler iniziare il suo lavoro dagli
8mila iscritti nella capitale per passare le loro tessere ai raggi X. Ha ragione
perché iscriversi al Pd in alcuni casi è davvero troppo semplice. Molto dipende
dal fatto che è l’ultimo partito ad avere una presenza davvero capillare sul
territorio, oltre 6mila circoli, un punto di forza dal punto di vista elettorale
ma anche un’opportunità per chi abbia voglia di sottrarsi ai controlli centrali
e usare partito e tessere per i propri interessi. La lista completa dei circoli
non è semplice da trovare, sul sito del Pd c’è una mappa 2.0 molto bella ed
avanzata con le regioni da cliccare. Peccato che non funzioni. Per trovare
l’elenco dei circoli della capitale è più utile andare a cercare sul sito del Pd
Roma. Nella mia zona di residenza ne sono indicati almeno sei. Due sono
semichiusi perché, fatta eccezione per i circoli storici, gli altri si
appoggiano a strutture dove affittano spazi per poche ore a settimana: trovarli
aperti al primo colpo è difficile. Il terzo tentativo è in via Galilei 57, un
enorme locale al piano terra gestito da diverse associazioni. Per il Pd devo
tornare di giovedì, dopo le 18. Giovedì 18 dicembre alle sei sono lì, accolta
con incredulità e una certa emozione da un giovane pieddino: deve essere
trascorso molto tempo dall’ultimo nuovo tesserato arrivato a sostenere il
partito. Mi fa entrare nella stanza a disposizione del partito una volta a
settimana, racconta che pagano 400 euro al mese per averla e che 15 dei 20 euro
della mia futura tessera andranno al circolo, gli altri 5 alla federazione. Mi
spiega che è in corso l’ultimissima fase del tesseramento 2014 ma che per avere
la tessera del 2015 bisognerà aspettare almeno sei mesi. Lo rassicuro, voglio
sostenere il Pd, verserò la mia quota comunque e inizio a compilare i moduli.
Invento un nome, lo scrivo. Invento un numero di telefono, lo scrivo. Sbaglio il
codice fiscale, sto per scriverlo di nuovo in base al nome che ho inventato ma
il giovane mi spiega che non è necessario, a loro non serve. Scrivo di essere
disoccupata, invento una mail che sarà uno scherzo aprire al ritorno a casa per
ricevere le comunicazioni, firmo, pago, ringrazio, saluto, vado via. Flavia
Alessi è iscritta: non una parola su di me, sui motivi che mi hanno portata a
scegliere all’improvviso il Pd. Quando il giorno dopo Flavia Alessi prova a
forzare ancora di più il gioco iscrivendosi anche agli altri partiti si trova di
fronte ad un’atmosfera molto diversa. Nessuno ha più soldi a sufficienza per
tenere aperte tante strutture, i tesseramenti avvengono esclusivamente online
oppure all’interno di circoli dove si è talmente pochi che tutti si conoscono e
i nuovi arrivati vengono osservati con attenzione. Resta una possibilità aperta
solo con Sel: nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento.
Ma è più facile che in questo momento faccia gola un eventuale assalto al Pd che
a Sel.
Militante democrat a sua
insaputa. Branco mette alle corde i furbetti. L'ex campione del mondo Branco
si ritrova tesserato e scrive a Renzi: cancellato, scrive Matteo Basile su “Il
Giornale”. Guai a farlo arrabbiare. Non perché sia cattivo o violento,
tutt'altro. Ma perché nella sua più che ventennale carriera di pugile, che lo ha
portato ad essere l'europeo più titolato di sempre, Silvio Branco ha imparato
molte cose. Tra queste a non farsi mettere i piedi in testa e a guardarsi dalle
fregature. Figuriamoci se uno così, abituato a combattere per ottenere
risultati, si fa prendere in giro da un partito politico. Succede che nella sua
Civitavecchia, città dove Branco è un monumento vivente, il pugile, ritirato
solo lo scorso anno dall'attività agonistica alla soglia dei 48 anni, si sia di
fatto ritrovato iscritto a sua insaputa al Partito democratico. Lo scorso 20
dicembre infatti si è tenuto in città il congresso straordinario del Pd, con la
presentazione delle piattaforme politiche e dei candidati alla segreteria.
Inevitabile che nei giorni che hanno preceduto il congresso, come da mondo e
mondo accade in ogni partito politico prima di ogni convention, sia scattata la
corsa al tesseramento, con i vari dirigenti in prima linea per cercare di
«accaparrarsi» quanti più delegati possibili. Missione compiuta si penserebbe
dando uno sguardo ai dati, ancora ufficiosi. Un boom in controtendenza rispetto
al resto d'Italia e altamente discostante rispetto al clima di anti politica che
regna nel Paese: secondo il partito sarebbero state sottoscritte ben 700 tessere
in più rispetto all'anno precedente, senza contare che c'è tempo per iscriversi
ancora fino a domani, 31 dicembre. Branco, in passato delegato allo sport del
Comune visto il suo ruolo di «ambasciatore» italiano del pugilato nel mondo,
viene a sapere che anche lui risulta essere nell'elenco dei nuovi iscritti. Un
colpo basso che non accetta. «Mi è stato detto che ero tesserato ma non avevo
fatto nessuna richiesta né firmato nessun documento - racconta il campione al
Giornale - Allora ho messo le mani avanti e inviato una lettera diffidando il
partito dall'iscrivermi a qualsiasi lista». Una lettera di fuoco inviata da
Branco al segretario del partito Matteo Renzi, al presidente Matteo Orfini e
alla commissaria di Civitavecchia Michela Califano. E visto che Branco, come
detto, non è solo un grandissimo campione ma in città è un'autentica icona, i
dirigenti hanno subito pensato di evitare problemi eliminando il nome del
pugile. Una figuraccia del genere, con il tesseramento di un volto tanto noto a
sua insaputa, non avrebbe certo giovato al Pd. «Quando ho appreso la notizia mi
sono molto amareggiato - confessa Branco - Probabilmente fossi stato il
fruttivendolo del paese non ci sarebbe stato clamore e sarebbe stato iscritto a
sua insaputa. Nulla contro nessuno, sia chiaro, ma certo non mi va di essere
preso in giro». Il campione del mondo dei pesi mediomassimi e dei massimi
leggeri, ha quindi evitato il finto tesseramento sul nascere ma pare che a
Civitavecchia siano stati in molti a diventare militanti del Pd a loro insaputa.
Magari non famosi come Branco ma di certo utili, utilissimi a fare numero. Alla
faccia della trasparenza e della correttezza.
Il manicheismo assoluto dell’inchiesta
Mafia Capitale, scrive Francesco Petrelli, segretario
dell’Unione Camere Penali Italiane su, “Il Garantista”. I fatti accadono. Non
accadono come risultato di un complotto. Ma non accadono neppure a caso.
Proviamo a leggerli nelle loro cadenze più evidenti. Con l’indagine “Mafia
Capitale”, esplosa a Roma i primi di dicembre con alcuni arresti per fatti di
corruzione e associazione mafiosa che legano criminalità comune e potere
politico capitolino, lo sviluppo investigativo impresso dal Capo della Procura
romana assume caratteristiche originali. Ciò che emerge con sufficiente
chiarezza è la deliberata decifrazione in chiave di mafiosità di tutti i
fenomeni criminali, secondo una prassi che porta con sé tutto l’armamentario
affinato nell’ambito della pregressa esperienza investigativa mafiosa, siciliana
e calabrese, e che trasforma l’art. 416 bis in un indiscriminato strumento di
lettura di tutti i fatti delittuosi più o meno ordinari. Così come scriveva
Martin Heidegger: “date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in
un chiodo”: nonostante qualche analogia con Tangentopoli (che si coglie nei
proclami reiterati della Procura, nell’enfatizzazione mediatica dell’indagine e
dei suoi sviluppi, e in quella telecamera fissa fuori dalla porta carraia di via
Varisco …), è questo il tratto distintivo. Là una quasi inaspettata onda di
consenso popolare per l’indagine, sulla quale incredule saltano sopra le
Procure, cavalcandola sino alle sue estreme conseguenze, qui una scientifica,
preventiva e meticolosa articolazione di sofisticati strumenti mediatici messi
in mostra senza alcun pudore. L’ingenuo manicheismo che sortiva fuori
dall’azione della magistratura milanese come un fenomeno spontaneo e divideva la
società civile buona dalla politica corrotta dei partiti, qui diviene il feroce
strumento ideologico che giustifica l’affondo sui crimini della capitale,
trasformata in una Gotham city in cui domina l’orbo veggente che teorizza di
mondi mediani e nella quale loschi passati carcerari incrociano il disinvolto
presente dei manager metropolitani. La Procura antimafiosa è il Bene assoluto
che ridisegna la storia e riscrive i codici e attraverso la sua azione
giudiziaria modella la Verità e la sua virtuosa rappresentazione. Male è la
politica che non si piega più ai veti della magistratura e impone norme
contrarie ai suoi voleri. Male è il giornalismo che non si piega ai desiderata
delle Procure e che offre spazi informativi a chi cerca il senso delle cose al
di fuori dell’unico pensiero che tutti i media pontificando avallano (“Mi
conferma – chiede al ministro un po’ stizzita la Annunziata, costituzionalmente
mal consigliata – che queste nuove norme anticorruzione non si applicheranno ai
fatti di Roma?!). Male sono i giudici che assolvono e che prescrivono i reati,
da Roma a L’Aquila e fino agli ermellini della Corte Suprema. Male è
l’avvocatura. Obliquo ed obsoleto strumento favoreggiatore. Intralcio pericoloso
all’accertamento della verità intesa, non come risultato provvisorio e
falsificabile, ma come esito del parto gemellare che ha messo al mondo la Verità
e l’Indagine al tempo stesso. La storia, come è noto, non si ripete mai uguale a
se stessa, e qui le differenze sotto un profilo strutturale appaiono assai
qualificanti: Tangentopoli nasceva spontanea e, a guardarla oggi, un po’ naif.
Piegava la procedura, ma lo faceva secondo cadenze improvvisate, via via messe a
fuoco sulla spinta cinica della necessità. “Mafia Capitale” è invece il
manifesto di un Manicheismo assoluto, una macchina ideologicamente spietata,
postmoderna, sofisticata, tecnologica, multimediale e perniciosa perché
produttiva di irreparabili squilibri. Vediamone alcuni: visto che il legislatore
imbelle tentenna ad introdurre norme che consentano di applicare a fenomeni
criminali corruttivi le nome antimafia, la Procura romana trasforma con lucida
operazione genetica i fenomeni corruttivi in reati di mafia. I giudici lavorano
con i fatti e li plasmano sulle norme. Così se le norme non si piegano ai fatti,
saranno i fatti a piegarsi alle norme. Le Procure fanno a meno del Legislatore.
Le Procure fanno a meno anche della compressione delle garanzie. Scrive il dott.
Gratteri su MicroMega, uscendo a ottobre dall’ “ombra del suo ministero”: “con
la nostra riforma non arretreremo le garanzie di un millimetro”. Non c’è bisogno
infatti. Le garanzie non si abrogano con le leggi ma si elidono nei fatti: la
mafiosità postulata impone al processo ritmi e cadenze necessitate dalla gravità
del fenomeno: che l’indagato in vincoli venga interrogato a sua garanzia il più
presto possibile e subito dopo l’esecuzione della misura e senza che possa
leggere granché delle oltre mille pagine dell’ordinanza appena notificatagli. Se
poi davvero vi è tanta urgenza di rimescolare le carte di fronte a tanto
evidente e corposa fonte di Verità, che l’avvocato insegua l’indagato nelle
carceri poste ai confini del regno, dove è stato collocato per ovvi motivi di
sicurezza antimafiosa. La politica debole si mette nelle mani della
magistratura. Nonostante le denunce del Procuratore di Palermo, la risalente
prassi, cresciuta al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, di iniettare
magistrati delle procure antimafia direttamente negli assessorati regionali e
comunali disastrati, si ripete e si moltiplica, dalla Regione siciliana al
Comune di Roma: solo il magistrato antimafia è garanzia di legalità. Anche a
Gotham city la politica non si fida più della politica e la Magistratura, che
una volta si candidava in libere elezioni per occupare spazi tramite la libera
competizione elettorale (come sembrano lontani e ingenui i tempi dei Di Pietro,
degli Ingroia e dei De Magistris), ora quegli spazi se li apre di fatto,
sull’onda delle sue stesse indagini, per saltum. Con scientifica sapienza
postmoderna l’indagine “Mafia Capitale” pone così i nuovi confini del Bene e del
Male, impone alle amministrazioni locali i garanti della legalità, impone alla
politica le riforme del processo e al tempo stesso dimostra di non aver bisogno
di nulla e di nessuno per cambiare il mondo, e di poter fare la Storia da sola,
ancora una volta, con un nuovo passo, annunziando la trasformazione con un
formidabile trailer nel quale il Male si arrende davanti a tutti alzando le
mani…
Quando i magistrati prendevano ordini
dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il
Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma
certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile
con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi.
L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse
del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i
nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma
dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato”
non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di
Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la
classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi
interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro
che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta
congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso
tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non
riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di
essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete
preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo
processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri,
dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia
non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono
sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la
statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita
dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno
in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto.
Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo,
la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe
riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati
per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla
deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato
autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed
in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai
petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia.
La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso
dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa
sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso
scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice
Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata
mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in
carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli
arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia
aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante
pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto
tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né
migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere
combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non
piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le
pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo.
Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni
parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove
il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il
privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la
corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di
riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi
trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai
media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce
la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il
solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro
della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il
dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica
dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a
qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le
umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle
loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le
scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre
resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.
Roma, l’ex
pm Sabella in giunta: “Difficile capire chi sono gli onesti”.
Dopo il via libera del Csm, il sindaco Marino presenta il nuovo assessore alla
legalità. L’attacco dell’Unione camere penali: “Prassi degenerativa assai
pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione
da parte della politica di magistrati antimafia”, scrive
Giuseppe Pipitone su “L’OraQuotidiano”.
“Quando vivevo a Palermo mi occupavo di ricerca di latitanti, la battuta che mi
viene è facile: in quel caso sapevo chi erano i mafiosi ma non sapevo dove
stavano, qui probabilmente si sanno dove stanno le persone ma non si sa chi essi
siano in realtà”. Con una battuta fulminante,
Alfonso Sabella ha esordito come nuovo assessore alla Trasparenza e
Legalità del comune di Roma. Nella giornata di ieri il Csm ha infatto dato il
via libera all’aspettativa chiesta dal magistrato con quattordici voti a favore,
tre astenuti e otto contrari ( i vertici della Cassazione Giorgio
Santacroce e il procuratore generale
Gianfranco Ciani, più molti membri laici). Stamattina quindi l’ex pm è
entrato nella nuova giunta varata dal sindaco
Ignazio Marino. “Per me è un grande acquisto per Roma. Un acquisto
necessario se si pensa che nei cinque anni precedenti la mafia aveva raggiunto
posizioni di vertice. Con la nostra amministrazione non ci è riuscita però aveva
tentato in diversi modi. Io credo che la presenza di una personalità come
Alfonso Sabella scoraggerà anche i
tentativi” ha detto il primo cittadino capitolino, che ha presentato la nuova
giunta stamattina in Campidoglio . La nomina dell’ex pm della procura di Palermo
arriva dopo il clamore suscitato dall’inchiesta
Terra di Mezzo, che ha svelato l’esistenza della
Mafia Capitale, l’organizzazione
criminale con al vertice l’ex estremista nero
Massimo Carminati. L’arrivo nella giunta capitolina di
Sabella è stato bacchettato
dall’Unione delle camere penali che ha bollato la nomina come “pericolosa
per la democrazia“. I penalisti denunciano una “prassi degenerativa
assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella
dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno
delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore
popolare”. Per l’Unione camere penale “da un lato, al di fuori di ogni
regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della
politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro
la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando
la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i
suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. Nato a Bivona, piccolo comune
in provincia di Agrigento nel 1962, fratello di
Marzia, anche lei pm a Palermo, Sabella entra in magistratura nel 1989
e non si iscrive mai ad alcuna corrente delle toghe. All’inizio fa il pm a
Termini Imerese, poi nel 1993 viene trasferito a Palermo: sono i mesi successivi
alle stragi di Capaci e via d’Amelio e a dirigere la procura del capoluogo è
appena arrivato Gian Carlo Caselli.
Sabella diventa subito uno dei fedelissimi del magistrato piemontese e inizia a
condurre le indagini su decine dei pezzi da novanta di Cosa Nostra, che
reggevano l’organizzazione criminale dopo l’arresto di Totò Riina. In breve
tempo finiscono in manette a decine:da Leoluca
Bagarella fino a Giovanni Brusca,
passando da Pietro Aglieri, Cosimo Lo Nigro e
Carlo Greco: l’ala militare dei corleonesi è decimata in pochi mesi.
Dopo l’esperienza come dirigente dell’ufficio ispettivo del Dap, Sabella viene
trasferito prima a Firenze e poi diventa giudicante a Roma.
Pecoraro e l'incontro con
Buzzi: "Mi sento pugnalato alle spalle. A Letta dissi: chi mi hai spedito?".
Intervista al prefetto: "L'ho ricevuto in segno di rispetto per l'ex
sottosegretario. Gli spiegai che non potevano arrivare altri profughi a
Castelnuovo", scrive Mauro Favale su “La
Repubblica”. "Quando Salvatore Buzzi andò via, dopo l'incontro con me,
telefonai a Gianni Letta e gli dissi: "Gianni, ma chi mi hai mandato?". E lui?
"E lui mi risposte: "Non lo farò più". Giuseppe
Pecoraro ha festeggiato poche settimane fa il sesto anno da prefetto di
Roma. Un anniversario che ha anticipato di poco la bufera su
mafia capitale che lo vede primo
attore in campo: da un lato sono i suoi uffici che stanno analizzando gli atti
del Campidoglio e che dovranno relazionare al Viminale sulle infiltrazioni
criminali nel Comune di Roma in vista di un eventuale scioglimento. Dall'altro,
proprio in questi giorni, Pecoraro è costretto a difendersi per aver incontrato
il 18 marzo scorso, nei suoi uffici, proprio Buzzi, il ras delle cooperative,
braccio destro di Massimo Carminati, finito in carcere accusato di associazione
mafiosa.
Quello stesso giorno
di marzo, prefetto, partì dai suoi uffici una lettera, indirizzata al sindaco di
Castelnuovo di Porto e al questore, nella quale si segnalava la disponibilità di
una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo. E ora è finito sotto
accusa per questa coincidenza temporale.
"Trattare così questa vicenda
la giudico una carognata, una pugnalata alle spalle".
L'incontro e la
lettera, però, ci sono stati?
"Sì, certo. Ma quella lettera
non è l'unica di quel giorno. Sono state inviate a tutti i sindaci e a tutti gli
enti con posti disponibili con posti disponibili o del consiglio territoriale
per l'immigrazione. E tra queste c'è anche la 29 giugno di Buzzi".
Dalle carte della
procura emerge che quel pomeriggio lei ha incontrato il capo della 29 giugno
dopo l'interessamento dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio,
Gianni Letta.
"A marzo Buzzi non sapevo
neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la
persona che me l'ha mandato. E devo ammettere che avevo pure rimosso
quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di averlo ricevuto solo quando ho
letto l'ordinanza".
Ma è prassi che un
prefetto riceva il rappresentante di una cooperativa e non anche gli altri?
"Vedere i presidenti delle
associazioni è una cosa normale, soprattutto se si tratta di presidenti di
cooperative che collaborano con la prefettura. Non sa quante volte ho incontrato
monsignor Feroci della Caritas, così come molti altri".
E cosa disse a Buzzi?
"Gli dissi che per Castelnuovo
non c'erano possibilità e non potevo cambiare idea. Il mio è stato un no
motivato perché lì esisteva già il Cara, il centro per richiedenti asilo, e quel
Comune non era in grado di ricevere nuovi immigrati. Tra l'altro, anche il
sindaco di Castelnuovo si era sempre lamentato dell'alto numero delle persone
nel centro".
E allora come si
spiega che Buzzi esce dal suo incontro e, al telefono, racconta che era andato
tutto bene? Millantava?
"Questo non lo posso sapere.
Forse avrà pensato che avrebbe potuto provare a fare pressioni sul sindaco di
Castelnuovo o credeva di poter nuovamente passare per Letta".
Cosa che fece?
"No, Letta l'ho sentito io,
subito dopo quell'incontro".
E cosa gli disse?
""Ma chi mi hai mandato?"".
E lui?
""Non lo farò più", mi
rispose. E, in effetti, né lui né nessun altro mi ha mai più parlato di Buzzi".
Disse così a Letta
perché Buzzi non le fece una buona impressione?
"Sì, non mi aveva convinto
particolarmente".
La
commissione antimafia potrebbe doverla risentire.
"Ho parlato con la presidente
Rosy Bindi, le ho dato la mia massima disponibilità. In ogni caso, loro hanno
già la documentazione che dimostra come a quella lettera non fu poi dato alcun
seguito".
La storia, dunque, è
chiusa?
"Per me sì. Ovviamente gli
articoli di giornale usciti in questi giorni verranno valutati dai miei
avvocati".
Chi è Giuseppe Pecoraro, il
prefetto in guerra che bisticcia con Marino e fa il commissario di se stesso.
Lo schizzo di fango da “mafia capitale”, il lungo e difficile rapporto con il
Comune di Roma, gli scazzi sulla monnezza e l’assenza di “avveduta precauzione”
sciasciana, scrive Marianna Rizzini su “Il
Foglio”. Prefetto lo è, Giuseppe Pecoraro, burocrate di lunga carriera ma di
non evidente propensione a vestire i panni del classico prefetto: l’uomo uguale
fra tanti uomini uguali, rassicurante funzionario al servizio dello stato,
ventriloquo della direttiva superiore che, quando è eroe (nei film), lo è alla
maniera del “prefetto di ferro” di Pasquale Squitieri con Giuliano Gemma: un
uomo che per non adeguarsi ai poteri grigi viene infine promosso (e di fatto
rimosso). Il prefetto Pecoraro non soltanto è, di questi tempi, necessariamente
diverso dai suoi simili che lavorano nell’ombra discreta delle stanze
prefettizie, ché lo si trova un giorno sì e l’altro pure sui giornali per una
divergenza di opinioni con il sindaco di Roma Ignazio Marino (sulle nozze gay
come sulla cosiddetta mafia capitale) o per quella visita che Salvatore Buzzi,
presunto co-boss al fianco di Massimo Carminati, tributò proprio al prefetto, a
proposito di un centro accoglienza in quel di Castelnuovo di Porto. C’è poi che
il prefetto Pecoraro, prima di tutto per fisiognomica, poco si adatta
all’immagine di prefetto alla Elio Petri (quello che in “Indagine su un
cittadino al di sopra di ogni sospetto” si presenta col fazzoletto bianco nel
taschino identico a quello degli altri innumerevoli prefetti in fila con abiti
indistinguibili). Si dà il caso, infatti, che Pecoraro abbia sembianze e movenze
da sceriffo più che da protagonista meticoloso di riti da vecchia provincia –
indimenticabile resta il prefetto che non vuole farsi trasferire nonostante la
sequela di scocciature in “L’ultima provincia” di Luisa Adorno, libro Sellerio
adorato da Leonardo Sciascia, ritratto di prefetto e prefettessa nell’aria
immobile di una Toscana-deserto dei tartari, dove il Natale si trasforma in
incubo di notabili in visita e teorie di dame relegate nella stanza “a parte”,
quella delle donne, a parlare del più e del meno incrociando le piume dei
cappelli. “Avveduta precauzione” dei prefetti, la chiamava Sciascia in
“Invenzione di una prefettura”, una piccola storia della prefettura di Ragusa, e
chissà se Pecoraro, col senno del poi, vorrebbe averla avuta, quella “avveduta
precauzione”. Fatto sta che oggi il prefetto dice che sì, Buzzi l’ha ricevuto
per rispetto verso l’ex sottosegretario Gianni Letta che gliel’aveva inviato, ma
che dopo averlo ricevuto ha prontamente telefonato a Letta per lamentarsene
(“chi mi hai spedito?”) e Letta poi se n’è quasi scusato (“non lo farò più”). E
dice il prefetto che, dopo la visita di Buzzi, aveva sì inviato una lettera al
sindaco di Castelnuovo di Porto in cui si segnalava la disponibilità di una
delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo, ma che “trattare così
questa vicenda”, com’è stata trattata in questi giorni sui giornali, con tanto
di titoli su di lui, il prefetto, “è una carognata e una pugnalata alle spalle”,
perché quella lettera era stata inviata in automatico e ce n’erano altre dello
stesso tenore inviate a Guidonia, a Ciampino, a Rocca Priora, ad Anguillara “e,
in copia, alla Questura”. Lungi dal risparmiare dalle luci della ribalta il
prefetto, figura tradizionalmente destinata alle pur gloriose penombre della
burocrazia, ieri il Corriere della Sera, a firma Fiorenza Sarzanini, raccontava
della “gara europea bandita dalla prefettura di Roma” nel 2013 e vinta da una
delle coop di Buzzi (la Eriches 29) per gestire il centro accoglienza della
discordia (quello di Castelnuovo di Porto) e dell’“esposto del prefetto”, così
si leggeva sul Corriere, “contro il giudice Tar ‘nemico’ della coop” di Buzzi.
Tuttavia non era cosa inconsueta, per Pecoraro, il ritrovarsi alla ribalta. E’
capitato infatti, pochi giorni fa, che Pecoraro comparisse sul Messaggero,
intervistato come parte in causa nella infinita querelle con il sindaco Marino
(“se non sapeva il prefetto, che ricevette il capo delle coop, come potevo
sapere io”?, aveva detto Marino, e Pecoraro avevo risposto senza salamelecchi
prefettizi: “Buzzi era estraneo ai miei uffici; nell’amministrazione Marino,
invece, ci sono tre indagati”). E non basta: qualche giorno dopo il prefetto, al
giornale RadioRai, aveva parlato della commissione d’accesso agli atti del
Comune. Scherzo della sorte vuole, infatti, che Pecoraro sia al tempo stesso
l’uomo dell’incontro in prefettura con Buzzi ma anche e soprattutto l’uomo che
controlla chi con Buzzi avesse a che fare: dalla prefettura provengono i
commissari che devono leggere gli atti del Campidoglio in vista della relazione
sul tema “infiltrazioni criminali” al Comune di Roma (in teoria anche a rischio
scioglimento). E alla radio il prefetto se ne usciva con la profezia che molto
faceva indispettire il sindaco: “… Può venire fuori che ci sia la necessità di
uno scioglimento…”, diceva Pecoraro; “immagino che il prefetto sappia molte cose
e non le possa dire proprio perché fa il prefetto… ”, diceva Marino. E Matteo
Orfini, commissario per il Pd romano, su Twitter scriveva che il prefetto gli
pareva intento, ultimamente, a “fare più dichiarazioni e interviste di Matteo
Salvini”. “Il ministro Alfano venga in Aula a riferire e valuti l’opportunità di
avvicendare il prefetto Pecoraro dopo otto anni di permanenza nella capitale”,
dicono intanto, da Sel, i deputati Arturo Scotto e Filiberto Zaratti, mentre il
consigliere radicale Riccardo Magi fa notare che “alcuni dei fatti più gravi su
cui si indaga”, per esempio per quanto riguarda affidamenti e campi rom, “sono
avvenuti in regime commissariale per l’emergenza rom. Non è che il
commissariamento mette al riparo dall’illegalità”. Nemmeno nei momenti di
massima insofferenza per le processioni locali in cui si dovevano fare
passettini accanto a preti e autorità “all’andatura del santo”, e lasciare che
la banda “rintronasse il cervello”, il prefetto defilato de “L’ultima provincia”
avrebbe potuto immaginare di assurgere al livello di visibilità cui è assurto
Pecoraro (e non da oggi). Il prefetto, infatti, è già stato, in tempi di governo
Berlusconi (ministro dell’Interno Roberto Maroni), “commissario delegato per il
superamento dell’emergenza rom” per la regione Lazio e la città di Roma, e
commissario all’emergenza rifiuti in tempi di Comune guidato da Gianni Alemanno
e di Regione guidata da Renata Polverini. “Prefetto in guerra”, lo chiama
Massimiliano Iervolino nel libro “Roma, la guerra dei rifiuti”, in cui si narra
la vicenda della tentata “sostituzione” della discarica di Malagrotta e della
ricerca di un sito alternativo (molti vip contestarono il prefetto per via
dell’ipotesi Corcolle, nei pressi di Villa Adriana. Si mobilitarono Giorgio
Albertazzi, Franca Valeri e Urbano Barberini, quest’ultimo al grido di “è come
mettere i rifiuti a Luxor o alle Piramidi”). Alla fine il prefetto si dimise da
commissario per l’emergenza rifiuti, senza rinunciare a essere prefetto a modo
suo. (Intanto dovrà pronunciarsi, dopo aver ricevuto le “memorie” delle aziende
coinvolte, sui primi due commissariamenti di appalti decisi da Raffaele Cantone,
presidente dell’Authority anti-corruzione).
Manca un progetto. E Totti
è l’alibi della grande schifezza, scrive Sandro Medici su “Il
Manifesto”. Marino e la nuova giunta di Roma. Non bastano gli
assessori-commissari. E il pm Sabella arriva. Il sindaco Ignazio Marino prova
a ripartire. Rinnova la sua giunta e tratteggia quel che d’ora in poi dovrebbe
connotare la sua amministrazione: impegno a perdifiato e legalità assoluta. Un
nuovo inizio. Con cui si tenterà di riprendere quel faticoso cammino che finora
non è apparso particolarmente smagliante, e con cui si proverà a bonificare quel
grumo politicomafioso che ha insidiato e a tratti aggredito il Campidoglio. I
tre nuovi assessori, più gli altri tre subentrati nei mesi scorsi, hanno
ridisegnato sensibilmente l’assetto iniziale: e non sfugge che siano l’esito dei
tanti tormenti che hanno attraversato la politica comunale. Al di là delle
singole soggettività, tutto questo rimescolamento è la rappresentazione di
quanto sia ancora precaria e incerta la prospettiva su cui la città dovrebbe
ritrovare fiducia e convinzione. Tra annunci e rassicurazioni, sorrisi e pochi
applausi, Roma continua a non avere una strategia di sviluppo, un progetto di
rilancio, una visione generale sul suo futuro. È doveroso insistere sulla
necessità di superare il trauma politico-criminale che ha investito la politica
amministrativa. Anzi, è obbligatorio: c’è da recuperare una credibilità infranta
e smarrita. Ma è davvero inevitabile affidarsi a una pletora di commissari,
tutori, garanti e supervisori? Forse la politica (almeno a Roma) non è più nelle
condizioni di reagire e di responsabilizzarsi. Ma allora, viene da chiedersi,
cos’è diventata la politica (almeno a Roma)? L’impressione è che, già esile in
partenza, l’amministrazione Marino si sia ulteriormente indebolita: sfiorata
dalle pratiche corruttive ereditate dal passato, ma anche per limiti propri. Ed
è difficile che l’ingresso di un magistrato in giunta possa migliorare
l’impronta politica del Campidoglio. Anzi. Non foss’altro perché il
neo-assessore alla legalità, oltre a vantare riconosciuti meriti antimafia,
viene ricordato anche per la sua “negligenza” in occasione della terrificante
repressione nel 2001, durante il G8 a Genova. L’Associazione Giuristi
democratici ricorda che Alfonso Sabella era allora il coordinatore delle
attività penitenziarie, comprese quelle nel carcere di Bolzaneto, dove ai molti
fermati fu riservato un trattamento ai limiti della tortura. Tanto che in
un’ordinanza del Tribunale di Genova viene definito «negligente nell’adempiere
al proprio obbligo di controllo», poiché «non impedì il verificarsi di eventi
che sarebbe stato suo obbligo evitare». Storie vecchie, certo. Ma comunque
dolorose. Soprattutto perché rimandano alla contraddittorietà del profilo
politico con cui il sindaco Marino connota la sua amministrazione, non senza
imbarazzi nei ranghi della sua maggioranza, che tuttavia non provocano
particolari sussulti. Una maggioranza che appare sostanzialmente obbligata
a sostenere il suo sindaco: per le note vicende giudiziarie, ma anche perché
paventa il pericolo che diversamente possa andar peggio. E così, senza dissensi
né contrasti, si approvano politiche economiche antipopolari, si persiste nei
processi di privatizzazione, si spengono le esperienze culturali indipendenti
e diventa anche possibile approvare delibere inguardabili, come quella che
l’altro ieri ha sancito l’utilità pubblica dello stadio della Roma. Per quanto
si possa “amare” la squadra giallorossa, autorizzare l’edificazione di un
milione di metricubi tra funzioni direzionali, commerciali e d’intrattenimento,
sol perché necesari a realizare un impianto sportivo privato, non
è precisamente catalogabile come vantaggio sociale o utilità pubblica. Eppure
così è andata. Totti è un alibi perfetto per promuovere questa grande schifezza.
L’ombra di Bolzaneto sul
nuovo assessore di Roma, scrive Damiano Aliprandi su “Il
Garantista”. Gli spettri delle torture subite dai manifestanti contro il G8
a Genova si affacciano sul Campidoglio. E’ arrivato ieri sera l’ok del Csm per
l’aspettativa che Alfonso Sabella, giudice presso il tribunale romano, attendeva
per poter rispondere positivamente all’offerta di Ignazio Marino, il sindaco di
Roma che lo ha voluto come assessore alla Legalità e alla Trasparenza dopo i
fatti di Mafia Capitale. La nomina di Sabella viene oggi pesantemente criticata
dall’associazione Giuristi Democratici di Roma che rievoca – tramite un
comunicato – il ruolo avuto da Sabella durante il G8 di Genova. Il magistrato
che a questo punto entrerà nel governo della Capitale della città – si legge nel
comunicato dove i giuristi democratici esprimono perplessità riguardo l’idea di
nominare Sabella assessore alla legalità- durante i fatti di Bolzaneto era il
coordinatore “dell’organizzazione e del controllo su tutte le attività
dell’amministrazione penitenziaria”, e dunque era anche deputato a sovrintendere
su ciò che accadeva alla caserma Bixio. Per i fatti del G8 Sabella finì a
processo e la sua posizione fu archiviata. Tuttavia, scriveva il Tribunale
nell’archiviarlo, «il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle
necessità del momento. Egli fu infatti negligente nell’adempiere al proprio
obbligo di controllo, imprudente nell’organizzare il servizio (…) imperito nel
porre rimedio alle difficoltà manifestatesi»: così i giudici del Tribunale di
Genova nella sua ordinanza del 24 gennaio 2007; e ancora: «Alfonso Sabella non
adempì con la dovuta scrupolosa diligenza al proprio dovere di controllo e che,
pur trovandosi nella speciale posizione di “garante” (…), non impedì il
verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». La posizione di
Sabella fu stralciata da quella degli altri imputati e per lui venne chiesto il
non luogo a procedere. «A Bolzaneto vide che i detenuti erano tenuti in piedi
con la faccia contro il muro, ma non fu testimone diretto delle violenze più
gravi, né della loro sistematicità, quindi non avrebbe potuto impedirle»,
scrivevano i Pubblici Ministeri nel richiedere al Gip l’archiviazione per
Sabella. Il giudice, dopo l’ordine di un supplemento di indagini a carico del
magistrato, e nonostante l’avvocato di Sabella stesso avesse chiesto il
processo, dispose l’archiviazione scrivendo nell’ordinanza le parole
sopracitate. Ma la dichiarazione di Sabella che fece indignare all’epoca – e che
oggi vengono ricordate dai Giuristi Democratici per sollecitare Ignazio Marino
affinchè torni sui suoi passi – fu la sua opinione in merito all’operato degli
agenti penitenziari durante le giornate terribili del G8 di Genova: secondo il
magistrato Sabella il loro comportamento è stato «esemplare». I Giuristi
Democratici di Roma infatti scrivono nel comunicato: «Sebbene l’operato del Dr.
Sabella non sia stato ritenuto illecito, lo stesso non è stato ritenuto in grado
di svolgere i ruoli organizzativi e di controllo sulla commissione di reati
affidatigli, avendo per di più creduto alle giustificazioni di chi fu poi
condannato per quei fatti gravissimi». E viene anche ricordata la frase di
Sabella, pronunciata nel 2001: «Non ho alcuna intenzione di dimettermi. A Genova
l’operato degli agenti penitenziari è stato esemplare»; secondo il magistrato,
infatti, non sarebbero stati gli agenti penitenziari a picchiare i manifestanti
durante il vertice genovese: «Qualcuno è stato. Ma i fermati sono arrivati alla
caserma di Bolzaneto già ricoperti di ecchimosi», aggiungeva Sabella, allora,
nell’intervista.
Mafia Capitale, penalisti
contro assessore-pm Sabella: “Prassi pericolosa”, scrive F. Q. su “Il
Fatto Quotidiano”. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è
arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al 'prestito'
in Campidoglio. Ad avviso dell’Unione delle camere penali "la magistratura si
insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante
della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler
delegittimare se stessa". Da magistrato ha fatto scattare le manette ai polsi di
pezzi da novanta di Cosa Nostra: da Leoluca
Bagarella fino a Giovanni Brusca
eppure la nomina di Alfonso Sabella
all’assessorato alla Legalità di Roma viene considerata pericolosa dai
penalisti. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via
libera dal Consiglio superiore della magistratura al ‘prestito’ in Campidoglio.
Secondo l’Unione delle camere penali è una “prassi
degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed
istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati
antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e
sospinta dal favore popolare”. Ad avviso dell’Unione delle camere penali, “da un
lato, al di fuori di ogni regolamentazione
legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica
legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la
politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la
propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità
con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. L’ex sostituto
procuratore del pool antimafia di Palermo, guidato da Gian Carlo Caselli, sarà
quindi il nuovo assessore alla Legalità della giunta di Ignazio Marino. Una
figura di garanzia fortemente voluta dal primo cittadino dopo lo scandalo di
Mafia Capitale. Sabella fu pm nel
1993, nel day after delle stragi mafiose che spazzano via
Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino, senza mai iscriversi ad alcuna corrente della
magistratura. Sabella è stato anche al vertice del Dap, dove aveva imposto una
regolamentazione feroce delle spese. Il suo incarico dura appena due anni: nel
2001 a dirigere l’amministrazione penitenziaria arriva
Giovanni Tinebra, e i due magistrati
entrano subito in contrasto. Il risultato è che dopo pochi mesi Sabella viene
allontanato su ordine diretto dell’allora Guardasigilli Roberto Castelli. Oggi
il plenum del Csm ha dato l’ok a maggioranza al collocamento fuori ruolo con
quattordici voti a favore, otto contrari e 3 gli astenuti. In particolare hanno
votato contro molti consiglieri laici e i vertici della Cassazione, il primo
presidente Giorgio Santacroce e il
procuratore generale Gianfranco Ciani;
si sono invece astenuti i togati Ercole Aprile e Maria Rosaria San Giorgio,
oltre al consigliere laico Renato Balduzzi. “Ovviamente per me è una notizia
molto positiva. Sabella credo abbia una competenza in materia anche
amministrativa di appalti e contratti tale da poterci garantire che, ancora più
di prima, con la nostra giunta tutto avverrà nella piena legalità e nella
trasparenza” ha commentato il sindaco di Roma Ignazio Marino. “Si tratta di un
magistrato con una reputazione straordinaria
– aggiunge – e che ha lavorato al fianco di Gian Carlo Caselli per molti anni.
Ha condotto alcune delle operazioni di contrasto alla mafia più importanti come
l’arresto di Brusca”.
Comunque se i politici onesti
son questi?
«Pd, rimborsi fasulli per
2,6 milioni» Sotto inchiesta 6 parlamentari laziali. Dopo il clamoroso caso
Fiorito (Pdl), anche il centrosinistra colpito dalle indagini sui brogli nel
bilanci del Lazio. La Procura di Rieti: ostriche, vecchie multe e olio con i
fondi regionali 2010-2012; rimborsi maggiorati su taxi, biglietti ferroviari e
aerei, scrivono Alessandro Capponi e Ilaria Sacchettoni su “Il
Corriere della Sera”. Olio extravergine d’oliva soprattutto. Che, nel
reatino, non sarà come in Liguria, ma è pur sempre d’origine controllata. Ma
anche rimborsi per vecchie multe, cesti natalizi e le immancabili cene che
(elettorali e no, anche a base di ostriche) sempre figurano in nota spese. Come
ricostruito dai finanzieri del Tributario per la procura di Rieti, le «spese
pazze» dei consiglieri regionali del Pd, fra il 2010 e il 2012, varrebbero 2
milioni e 600 mila euro. E se per i consiglieri pidiellini della giunta di
Renata Polverini - Franco «Batman» Fiorito, il più rappresentativo - sono già
scattate le prime condanne (o assoluzioni), ora potrebbe aprirsi il capitolo
processuale che riguarda l’allora opposizione del Partito democratico. Perché
gli investigatori coordinati dal procuratore Giuseppe Saieva sono prossimi alla
notifica delle conclusione delle indagini a diverse persone. Sotto accusa
l’intero gruppo Pd in Regione durante la consiliatura Polverini con accuse che
vanno dal peculato, alla truffa aggravata, dal finanziamento illecito al falso.
Una volta caduta la giunta Polverini, l’allora candidato del centrosinistra
Nicola Zingaretti condusse una battaglia col partito per non far ripresentare in
Regione neanche uno dei consiglieri uscenti. Così molti di loro, oggi sotto
accusa, sono stati candidati direttamente in Parlamento. Fra gli indagati,
infatti, ci sono gli attuali senatori Claudio Moscardelli, Bruno Astorre, Carlo
Lucherini, Francesco Scalia e Daniela Valentini. Sotto inchiesta anche il
sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, il cui nome era affiorato all’avvio
delle indagini, così come quelli di Enzo Foschi - già nella segreteria del
sindaco di Roma, Ignazio Marino - e del tesoriere Mario Perilli. Indagato anche
il deputato Marco Di Stefano, già coinvolto in un’altra vicenda giudiziaria: è
accusato di corruzione per fatti che risalgono alla giunta Marrazzo, quando da
assessore al Demanio avrebbe intascato una tangente milionaria per alloggiare la
società «Lazio Service» nei locali dei costruttori romani Pulcini. Un’inchiesta
che ha intersecato anche il giallo della scomparsa del suo ex collaboratore
Alfredo Guagnelli. Di Stefano e gli altri saranno ascoltati in Procura per
rispondere a una serie di contestazioni. Secondo gli investigatori avrebbero
chiesto al partito rimborsi maggiorati su spese ordinarie, da quella per il taxi
ai biglietti ferroviari e aerei. In nota al partito anche spese ordinarie,
pranzi e cene in ristoranti dal menu a base di pesce. Perfettamente bipartisan
le ostriche: contestate ai consiglieri Pdl e ora in conto ai rappresentanti del
Pd che le avrebbero mangiate vicino al Pantheon. In qualche caso si mascheravano
singole elargizioni attraverso la formula delle collaborazioni occasionali che
di fatto, per i pm, non sarebbero mai avvenute. Nel mirino degli investigatori
anche rimborsi per murales nel quartiere popolare del Quadraro. Sul conto del
partito in Regione sarebbero finiti pure il finanziamento di una serie di sagre
paesane, di tornei di calcio e, per l’accusa, di attività non riconducibili alla
politica.
Ostriche e fagiani, ecco
gli sprechi del Pd.
Chiusa l’inchiesta dei pm di Rieti sui rimborsi utilizzati per
scopi privati Quarantuno gli indagati. Coinvolti 15 ex consiglieri della Regione
Lazio, scrivono Augusto Parboni e Martino Villosio su “Il
Tempo”. Pesce crudo e ostriche al Pantheon, tanto per andare sul classico.
Ma anche guizzi più fantasiosi, come le battute di caccia e i fagiani gustati al
ristorante, le sagre di provincia finanziate con i soldi dei rimborsi, lo sfizio
di pubblicare la propria autobiografia messo in conto al Gruppo. Il campionario
delle prodezze compiute con i soldi pubblici dai consiglieri regionali si
aggiorna e impreziosisce di nuovi spunti, e stavolta il «merito» - in base alle
accuse della procura di Rieti - è tutto del Gruppo Pd protagonista al consiglio
regionale del Lazio nel triennio 2010-2012. Fiorito impazzava, la procura di
Roma setacciava gli scontrini del gruppo Pdl alla Pisana, l’opposizione Pd
guidata da Esterino Montino fremeva d’indignazione e chiedeva le dimissioni
della giunta Polverini. Adesso però i magistrati di Rieti, partiti un anno e
mezzo fa dalla denuncia di un blogger locale, hanno chiuso un’indagine
corposissima, di cui nei mesi scorsi aveva parlato Il Tempo . E nelle
loro carte, c’è l’epicentro di un nuovo devastante terremoto per l’immagine del
Partito Democratico non solo a livello locale. L’elenco delle spese contestate
ai 15 ex consiglieri regionali Pd indagati, cinque dei quali nel frattempo
diventati senatori e due nel frattempo deceduti, è sterminato e imbarazzante. Ci
sono i pranzi e le cene offerti ad amici e simpatizzanti, a colpi di otto, dieci
e ventimila euro, certo. Ma anche, incredibile eppure vero, le battute di caccia
a Fiumicino, dove c’è chi si fa fa mettere in conto perfino i 25 fagiani
centrati dalle proprie doppiette e poi serviti in tavola, totale 50 coperti. Il
direttore del circolo che ospitò il banchetto racconta alla Guardia di Finanza
quella fondamentale riunione di partito: a un certo punto qualcuno si sarebbe
alzato, avrebbe fatto un discorsetto elogiativo sul Pd, per poi rimettersi
serenamente a mangiare. Col denaro altrui vengono pagate le multe della
macchina, i biglietti per i viaggi personali in treno e in aereo, gli omaggi
enogastronomici per le festività, gli addobbi per l’albero di Natale, l’olio
extrovergine per cucinare a casa, financo la bottiglietta d’acqua da 0,45
centesimi. Vengono retribuiti soggetti incaricati di gestire i profili dei
consiglieri sui social nerwork, si assumono familiari e conoscenti come
portaborse violando ogni normativa vigente e pagando alcuni di loro senza che
abbiano lavorato un solo giorno. C’è chi invece avrebbe sovvenzionato una sagra
del tartufo con 5000 euro scrivendo sulla fattura «convegno». Chi è accusato di
aver dato 8.000 euro per finanziare i graffiti del museo del Quadraro, a Roma.
Una suora di Fara in Sabina chiede un contributo per gli immigrati e lo riceve
segnando su un pezzo di carta «prestazione occasionale». Il tentativo di
rinascita di Paese Sera, nel 2011, è finanziato con 26 mila euro senza uno
straccio di contratto. Alcuni imprenditori emettono inoltre fatture per
operazioni inesistenti o fatture gonfiatissime, per poi dividere con il
consigliere amico. Mentre il sindaco di Rieti Simone Petrangeli, anche lui
indagato, si sarebbe fatto regalare video e manifesti per la campagna
elettorale. I 15 ex consiglieri avrebbero distratto con «spese non inerenti i
fini istituzionali» 2 milioni e 600 mila euro, la metà dei fondi che la Regione
ha versato al gruppo per quei 3 anni. Dopo 200 controlli incrociati e 300
testimoni ascoltati, i 13 rischiano il processo. Cinque sono oggi senatori:
Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela
Valentini. Spicca poi nel lungo elenco di questa chiusura indagini il nome di
Marco Di Stefano, oggi deputato Pd già sulla graticola perché accusato di
corruzione e altro dalla procura di Roma nell’inchiesta su Enpam. Avrebbe speso
36 mila euro per pubblicare 25 mila copie della sua autobiografia. L’ex
tesoriere del gruppo, il reatino Mario Perilli (fulcro dell’inchiesta) avrebbe
invece sovvenzionato la «famosa» sagra del tartufo con 5000 euro, L’ex capo
segreteria del sindaco di Roma Marino, Enzo Foschi, i graffiti del Quadraro. Non
manca il nome di Esterino Montino, grande fustigatore all’epoca dello scandalo
Fiorito dai banchi del gruppo Pd alla Pisana, oggi sindaco di Fiumicino. Più o
meno le accuse sono le stesse accuse per tutti, peculato, truffa aggravata,
fatture false, illecito finanziamento. Gli indagati in totale sono 41, tra cui
23 collaboratori dei consiglieri Pd, mentre 16 persone sono state segnalate alla
procura. Ci sono anche accertamenti in corso su 27 presunti evasori totali.
Nell’inchiesta ci sono anche altri esponenti del Pd del Lazio, imprenditori,
professionisti, fornitori, collaboratori. E non finisce qui, gli occhi della
procura e della Guardia di Finanza di Rieti sono già puntati sulle spese di
altri gruppi protagonisti della precedente consiliatura.
Chi ha paura di chiamarla
mafia, scrive Francesco Merlo su “la
Repubblica”. Il famoso "la mafia non esiste" si è trasformato in "la vera
mafia sta altrove", ma negare la mafia rimane tipico della mafia, la prima prova
a carico per applicare il 416 bis. Intanto perché i boss babbìano sempre. Dagli
antenati don Calò e Genco Russo - "noi la chiamiamo amicizia" - sino ai
nipotini Carminati e Diotallevi: "Eravamo degli straccioni, solo un gruppo di
cani sciolti". E poco importa se il loro babbìo negazionista non si conclude con
"baciamo le mani" ma con "li mortacci tua". Nell'idea che "questa non è mafia "
c'è anche, e forse soprattutto, l'autodifesa di un mondo (di mezzo?) che non
vuole scoprirsi e accettarsi come complice. "La mafia è diventata policentrica",
disse il generale Dalla Chiesa a Giorgio Bocca e stava parlando di Catania, che
a quell'epoca reagiva negando, formando comitati di difesa e contrapponendo
l'antropologia levantina a quella araba, i carusi chiacchieroni e senza mistero
"che uccidono con la risata" ai picciotti di panza e sottopanza con i piedi
incretati, l'innocenza della truffa d'Oriente alla precisione della lupara
d'Occidente. E poi Siracusa e Messina non potevano essere mafiose perché erano
provincia babba. E a Reggio Calabria erano invece troppo anarchici, troppo
Ciccio Franco, troppo umore di terremoto che non sopporta disciplina: feroci sì,
ma di natura sregolati e strafottenti. E così via distinguendo sino a Roma
appunto dove è subito arrivata, con la mafia, la disputa linguistica e storica
sulla parola mafia perché, come insegna la teologia, la suprema astuzia del
diavolo è far credere che non esiste. È vero che c'è una profondità di
differenza, anche in termini di fuoco e di simboli, perché all'Atac non sono
trovate teste di capretto mozzate né è stato usato il tritolo nella sede
dell'Ama. Ma anche le diversità fanno mafia alimentando e non impoverendo la
ricchezza del fenomeno criminale e dunque dei futuri studi comparati. Infatti
sono già all'opera gli esperti che, a partire dall'oziosa ovvietà che Roma non è
Palermo, stanno mettendo a confronto codici e grammatiche. E forse la prima
grande novità è che Mafia Capitale non è la sciasciana linea della palma che
sale verso Nord, ma è la geografia che scende. È Roma che, smottando verso Sud,
è ormai diventata Mezzogiorno di suk e di illegalità. L'abusivismo di piazza
Navona, la sporcizia per le strade, le buche, il centro storico assediato, le
"croste" dei parcheggi in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori
pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di
incompetenze, le esecuzioni per strada ... ... sono già identità meridionale e
scenografia di mafia anche se l'Opera di Roma è al tempo stesso uguale e
distinta dal Massimo di Palermo, e il Corviale è diversamente Zen, e Tor
Sapienza (non) è Librino così come Carminati (non) è Matteo Messina Denaro ...
Insomma la geografia non è filosofia e non si accontenta di surrogati, ma
propone scenari nuovi. Il potere a Roma è relazione gnam gnam, e a Palermo è
oppressione bum bum. A Roma l'affare si imbroglia e a Palermo si sbroglia. I
circoli sul Tevere non sono cupi come le concessionarie d'auto di Santapaola ma
anche a Catania, come adesso a Roma, i distributori di benzina (ricordate
Calderone?) sono stati le scuole-quadri della mafia. A Roma i covi sono i bar, e
la buvette del Campidoglio ha il ruolo che a Trapani ebbero le cliniche private
di Aiello e Cuffaro. Certo, l'innocente e brava Serena Dandini, sponsorizzata
dalla cooperativa di Buzzi, non ha lo stesso ruolo che i neomelodici hanno a
Napoli, ma nella Roma delle relazioni la Melandri ha lavorato per 15 anni con
l'amico commercialista Stefano Bravo che riciclava i soldi di Buzzi e Carminati.
E Odevaine, prima ancora di diventare capo di gabinetto di Veltroni, era con lei
in Legambiente. Ed è vero che il sindaco Marino non poteva sapere che la
cooperativa di Buzzi era criminale. Ma perché ha accettato finanziamenti da
un'azienda che faceva affari con il comune di Roma e a cui il Comune, dopo
l'elezione, concesse a prezzi d'affitto stracciati i locali di Via Pomona? A
Roma sono tutti "amici", ma non nel senso dell'omertà palermitana. Fra sacrestie
e conferenze, Andreotti andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista
Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa. E intanto frequentava la
segreteria di Stato di Pio XII. Nella Roma dei ponti, "il ponte Andreotti"
congiungeva il Vaticano e Botteghe Oscure. C'era di tutto in quel pezzo di
storia contemporanea ma non c'era la mafia. C'era l'assassinio di Pecorelli, di
cui furono accusati e poi assolti - guarda caso - Andreotti e Carminati. Ma
non era ancora mafia. Tutto questo solo ora è diventato quel pasticcio
meridionale che anima la terribile degradazione della politica, la sua resa alla
mafia. Quel Pd criminale che ieri su Repubblica ci ha raccontato Giovanna Vitale
è l'erede del partito comunista di Maurizio Ferrara, di Antonello Trombadori, di
Giancarlo Pajetta, sino agli eroi della Resistenza e delle Fosse Ardeatine. Come
può rassegnarsi alla mafia chi li ha conosciuti, chi ci credeva? Anche io, se
fossi per famiglia, per amicizie o per storia, il custode di quel mondo negherei
con sarcasmo che quell'apostolato civile possa essere diventato mafia. Buzzi,
nell'intervista a Report del 2007, aveva il Quarto Stato dietro la scrivania
perché la sua cooperativa, dove si incontravano i redenti e i dannati, è la
degenerazione del cattocomunismo romano, della carità coniugata con la
solidarietà di classe, della pietà e della mano tesa alla schiuma della terra.
Come è possibile che il vecchio segretario di sezione di quel partito sia stato
sostituito dal monatto manzoniano? Com'è possibile che il funzionario del sol
dell'avvenire sia diventato il Caron Dimonio che traghetta e deruba le anime in
pena verso la speranza? Credevano, quegli uomini, che i banditi fossero i
ribelli primitivi da trasformare in rivoluzionari o in santi grazie al
catechismo di Marx o al Vangelo di Gesù. Come si può accettare che, nel loro
nome, i naufraghi siano oggi il pretesto per i più sordidi affaracci mafiosi? E
sono paradigmi depistati persino quelli tolkieniani e dei Nar che, sebbene
malviventi e fascisti, avevano comunque in testa un progetto di società, un
brandello di idealismo, una distopia più che un'utopia. Quella spada giapponese
di Carminati, per esempio, è tutto quel che gli resta dello squinternato
armamentario culturale, da Evola a Guénon all'antimodernità del Samurai di
Mishima con l'arma bianca, feticci anche per Alemanno che fu l'orsuto attor
giovane del rautismo. Quel confuso ragazzo pugliese con il mito della romanità,
che posava a ideologo, è il primo responsabile politico della Mafia Capitale,
una sorta di Ciancimino de Roma, non si sa quanto consapevole. Come reagirebbe
Almirante e cosa direbbe il pittoresco Teodoro Buontempo che dormiva in una
Cinquecento? La destra degenerata in mafia è una triste novità romana che a
Palermo non si era mai vista e che seppellisce tutto il mondo degli ex camerati
e fa deragliare anche il sogno di Giorgia Meloni, la reginetta di Coattonia,
candidata sindaco dalla nuova Lega di Salvini. A Roma i fascisti a non sono più
fascisti, sono mafiosi. Come si vede, a Roma anche la resistenza alla parola
mafia è trasversale, è una larga intesa. A New York, prima di battezzare "mafia"
la mafia la chiamavano "la mano nera". La mafia infatti non è mai un trapianto,
non è un'emigrazione. E adesso è "romana de Roma", cioè una gran confusione
circondata dalla storia come dal mare, uno stridio di uomini e un definitivo
pervertimento di ideali apparentemente inconciliabili, un pascolo immenso sul
quale non si ancora chi davvero ha regnato e chi regnerà. Ed è un melting pot
che si preannuncia longevo e solido perché è vero che "natura non facit saltus",
ma Roma lo ha fatto. La sua umanità bonaria e cinica ha preso la durezza e la
violenza della mafia, ma in un'eternità di foresta.
Così Mafia Capitale voleva
conquistare l'Italia. Tra tangenti, appalti e grazie a politici amici. Il
clan di Massimo Carminati aveva il progetto di allargare i suoi interessi
criminali all’intera Penisola, senza fermarsi alla città di Roma. Ecco
attraverso quali personaggi e con quali alleanze puntava a "scalare" il Paese,
scrive
Lirio Abbate su “L’Espresso”.
Sognavano di costruire un impero. Tra tangenti, ricatti e minacce, la “mafia
Capitale” si sentiva in grado di arrivare ovunque. Continuava a impadronirsi di
imprese, puntava agli appalti miliardari nel Lazio e in tutta Italia, mettendo a
libro paga altri politici, altri burocrati, altri professionisti, altri
dirigenti pubblici. Fino a tentare persino la scalata al
Viminale. Ogni
emergenza per loro si trasformava in
denaro sonante. Emergenza neve, emergenza abitativa e soprattutto emergenza
immigrati erano parole magiche, capaci di farli “spiottare”, ossia incassare
subito milioni. Ma soprattutto di costruire altre alleanze oscure: nuovi ponti
tra il “Mondo di Mezzo” e i piani alti del potere.
Massimo Carminati è solo il vertice di
questa piramide criminale, una vera associazione mafiosa nata e cresciuta nel
cuore di Roma. Nell’ultimo decennio il “Nero” è riuscito a tra sformare una
banda di eversori e rapinatori in una potente organizzazione che mostra sul
territorio la capacità effettiva di incutere timore e soggezione attorno a sé, e
in molti casi ha usato la forza dell’intimidazione per piegare uomini dei
partiti, dello Stato e delle imprese. Ma l’arresto dell’estremista di destra e
di altre 36 persone è solo la prima scossa di un terremoto che avrà
ripercussioni per molti mesi. I magistrati guidati dal procuratore
Giuseppe Pignatone e dall’aggiunto
Michele Prestipino hanno iscritto su l registro degli indagati un centinaio di
persone per reati collegati alla mafia, fra loro anche l’ex sindaco Gianni
Alemanno. La trascrizione di un anno e mezzo di intercettazioni mostra uno
spaccato del malaffare romano che va oltre, mostrando rapporti incredibili tra
grandi imprenditori e boss della strada, tra politici e pregiudicati. È Roma
Capoccia, che non ammette presenze meridionali: nessun emissario di ’ndrangheta,
camorra o Cosa nostra era ammesso. Per entrare nel loro territorio i padrini
dovevano venire a patti, con accordi che saranno oggetto delle prossime fasi
dell’inchiesta. Il lavoro dei pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli è
solo all’inizio. Ci sono ancora altri complici imprenditoriali e criminali nella
rete di Carminati su cui si indaga. E c’è un tesoro da recuperare in giro per i
continenti. Il boss si vantava di mettere da parte un milione l’anno (ma gli
investigatori pensano che siano decine all’anno), denaro investito soprattutto
all’estero per non creare sospetti: è l’oro di Roma sulle cui tracce si sono
messi gli uomini del Ros dei Carabinieri e della Guardia di finanza. In questa
storia di mafia non ci sono coppole e lupare, ma una schiera di persone perbene
che consapevolmente si mettono al servizio della rete di Carminati. La figura
forse più inquietante è quella di Luca Odevaine,
58 anni: dal 2001 vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, poi
nominato da Nicola Zingaretti direttore di polizia e protezione civile della
provincia di Roma. Siede nei comitati nazionali che devono trovare una
sistemazione per i profughi che attraversano il Mediterraneo. L’affare più
ricco, perché come dice Salvatore Buzzi,
presidente della cooperativa “29 giugno” e braccio destro di Carminati, «con gli
immigrati si guadagna più del traffico di droga». Odevaine viene chiamato «il
Padrone» per la sua capacità di influire sullo smistamento dei profughi e
sull’accreditamento dei centri di accoglienza. Più ne sbarcano, più strutture
servono e ogni persona vale 35 euro al giorno. Con l’operazione
Mare Nostrum il ritmo diventa
frenetico: i centri vengono riempiti nel giro di pochi giorni. È una miniera
d’oro: 150 milioni di euro da incassare, praticamente senza controlli. Odevaine
sostiene di avere convinto il prefetto Morcone - con cui dice di avere preso
appuntamento tramite Veltroni - a concentrare i flussi sulle regioni
centro-meridionali «tanto al Nord non li vogliono». E spinge Buzzi ad aprire
altre strutture di accoglienza in Sicilia, Lazio, Campania. Al telefono se ne
citano almeno sette gestite dagli accoliti di Mafia Capitale. Creano un accordo
con la più potente arciconfraternita religiosa impegnata nell’assistenza,
spartendosi alcuni contratti e ipotizzando interventi del
Vicariato di Roma su Alfano per
smuovere altre commesse. Odevaine invece grazie al suo ruolo parla con tutti i
responsabili del Viminale. È esperto, si mostra efficiente: offre soluzioni ai
dirigenti del ministero, ai sindaci e alle imprese. E intasca soldi nella sede
della sua fondazione personale. Nelle indagini è stata filmata anche la consegna
di una misteriosa busta da parte di un alto dirigente de La Cascina, azienda
legata alla Compagnia delle Opere ciellina. Una relazione preziosa, che sembra
aprire le porte per altri business. Come i
subappalti dell’Expo milanese. E soprattutto gli appalti negli
ospedali della Regione Lazio: un
contratto colossale, quasi 200 milioni. Si discute di entrare nella partita
grazie all’accordo tra Compagnia delle Opere e coop rosse, cavalcando il feeling
politico tra Pd e Ncd che ispira il governo nazionale, dove il consorzio
ciellino poteva contare sulla benevolenza dei ministri Alfano e Lupi. I soci di
Carminati dovevano garantire l’operatività su Roma. E il boss parla del modo di
arrivare a Nicola Zingaretti e al suo
staff per accaparrarsi l’affare. Puntano pure sul premier Renzi, senza riuscire
ad avvicinarlo. Ma Buzzi comunque contribuisce alla
cena di finanziamento capitolina del
presidente del Consiglio: un evento tenuto all’Eur, poco lontano da quel fungo
di cemento dove trent’anni fa nacque il gruppo neofascista che ancora domina la
capitale. Odevaine fa le cose in grande. Ed è lui a spiegare che per il salto di
qualità la rete romana deve trovare alleati imprenditoriali. Discute di
contratti enormi, che finora non sono
stati oggetto di indagine, come quello per il centro immigrati di Mineo, il più
grande di tutti. «I Pizzarotti sono impresa importante di Parma, molto amici di
Gianni Letta, di Berlusconi. Da quello che ho capito hanno fatto un accordo
perché Lupi, il ministro Lupi gli ha sbloccato due o tre appalti grossi…».
Valuta in parecchi milioni il vantaggio ottenuto dall’azienda parmense. Poi su
un’altra gara per i rifugiati Odevaine assicura: «Il presidente della
Commissione lo faccio io… è una gara finta». Mafia Capitale, come in precedenza
la banda della Magliana, ha continuato ad avere rapporti con
Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra.
Gli investigatori del Ros lo scrivono nelle loro informative ai pm: «le altre
organizzazioni criminali presenti nel territorio riconoscevano la forza del
sodalizio diretto da Carminati». Chiunque volesse fare affari all’interno del
grande raccordo anulare, doveva chiedere il permesso al “Cecato”. Perché qui è
lui che comanda. E si scopre che il referente di Cosa nostra a Roma è il vecchio
Ernesto Diotallevi, che si definisce in una intercettazione il «capo dei capi».
Lui è legato a Riina e ai mafiosi siciliani fin dai tempi di Pippo Calò. Anche
lui pare in grado di arrivare a chiunque. Mario Diotallevi, figlio del boss,
intercettato lo scorso anno mentre parla con il padre, gli riferisce che avrebbe
avuto un appuntamento con Aurelio De Laurentiis «al quale avrebbe proposto di
acquistare la villa di Cavallo da destinare ad un giocatore del Napoli
calcio».Cosa nostra è ben rappresentata da boss palermitani che hanno lasciato
l’isola e si sono trasferiti all’ombra del Colosseo. I siciliani avrebbero
fornito a Carminati sicari per commettere omicidi, ma anche appoggio
“logistico”: se servivano armi i picciotti sapevano a quale porta bussare.
Racconta un collaboratore di giustizia che il gruppo del siciliano Benedetto
Spataro aveva anche effettuato “lavori” per conto di Carminati che, in una
circostanza, aveva anche venduto ai catanesi delle armi. «Benedetto le ha prese
da Carminati qui a Roma e le ha portate in Sicilia», ha dichiarato il pentito
Sebastiano Cassia. I legami dell’ex Nar arrivano anche in Campania. A Michele
Senese e a tutta la galassia a lui riconducibile. Ci sono legami con i fratelli
Esposito, Salvatore e Genny, e con il figlio di quest’ultimo, Luigi, alias
“Gigino a’ Nacchella”. Tutti e tre esponenti di spicco del clan camorristico
facente capo alla famiglia Licciardi, già parte della “alleanza di Secondigliano”,
e legatissima a Senese. Con loro la banda di Carminati faceva affari di piccolo
calibro, ma vigeva un rapporto di mutuo soccorso. Non si pestavano i piedi,
anzi, spesso si trovavano a condividere le stesse zone di influenza e a darsi
una mano. Il 23 gennaio scorso i carabinieri del Ros registrano una
conversazione nell’ufficio di una coop di Buzzi. Quest’ultimo racconta a
Carminati un episodio che collega i romani con i calabresi e la ’ndrangheta.
Buzzi, riferendosi ad un uomo della sua cooperativa, con orgoglio dice al “Cecato”:
«... è tremendo.. gli ho visto fare una volta una trattativa con la
’ndrangheta... ce fai sparà gl’ ho detto.. a trattà su 5 lire … gl’ho detto
scusa “e questo rompeva il cazzo” ce sparano sto giro... in piena Calabria!».
Investigatori e magistrati evidenziano come in passato Carminati ha goduto della
protezione «derivante da legami occulti con apparati istituzionali». I camerati
di un tempo adesso hanno fatto carriera e sono diventati «rappresentanti
politici o manager di enti pubblici economici». Lo spiega lo stesso boss in
un’intercettazione: «Io a loro li conosco... c’ho fatto politica... ma poi
ognuno ha preso la sua strada. Chi è diventato un bandito da strada, chi si è
laureato... A quei tempi ci stava gente che adesso sta nell’ufficio studi della
Banca d’Italia, ci sta Fabio Panetta
che è il numero tre della Bce. L’unico della Banca d’Italia che si è portato
Draghi. Io ci ho fatto le vacanze insieme per tutta la vita è uno dei miei
migliori amici, ogni tanto mi chiama... mi ha chiamato proprio dopo l’articolo
(de “l’Espresso” ndr), mi ha detto “a Ma’ sei sempre rimasto il solito bandito
da strada”, mi ha detto. Gli ho detto “sì, tu sei sempre rimasto il solito
stronzo che stai lì a leccare il culo alla Bce”». Panetta ha smentito rapporti
recenti con “il Nero”. Ma le parole sono indicative delle relazioni che
Carminati può vantare. «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile?» dice in una
telefonata alla compagna Salvatore Buzzi, «perché era lui che portava i soldi
per Finmeccanica! Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo!». Alla sua
compagna Alessandra Garrone, che come lui è stata arrestata, Buzzi racconta:
«Massimo non mi dice i nomi perché non me li dice… Tutti! Finmeccanica! Ecco
perché ogni tanto adesso… Quattro milioni dentro le buste! Alla fine mi ha detto
Massimo “è sicuro che l’ho portati a tutti!’ tutti!”». La Garrone lo interrompe:
«A tutto il Parlamento!». E lui precisa: «Pure a Rifondazione». Carminati si
interessa molto alle vicende del gruppo statale. Disprezza Lorenzo Cola, il
faccendiere legato ai vertici di Finmeccanica,
per la collaborazione con i magistrati che ha fatto finire in cella il
commercialista Iannilli, nella cui villa ha abitato fino all’ultimo. In
occasione dell’arresto, è preoccupato che la moglie di Iannilli possa parlare
con gli investigatori. E in effetti una relazione dei carabinieri riporta le
confidenze fatte dalla donna. Al militare parla di come Lorenzo Cola avrebbe
fatto consegnare somme di denaro all’amministratore delegato di Alenia. La
moglie del commercialista svela che esiste una organizzazione che ha forma
piramidale «a tre livelli: al vertice ci sarebbe Lorenzo Cola, al secondo
livello ci sarebbero i “controllori”, non meglio identificati, al terzo livello
ci sarebbe “l’esercito”, ovvero le persone come Iannilli. Cola, che avrebbe
sempre utilizzato Iannilli come un bancomat, sarebbe arrivato ad estorcergli
troppo denaro». E suo marito «nel corso degli anni è stato molto “generoso”,
tanto che non avrebbe potuto più far fronte alle pretese di Cola e quindi si
sarebbe rivolto a Massimo Carminati per ricevere protezione. Quest’ultimo si
sarebbe presentato a Cola intimandogli di desistere dalle sue intenzioni». La
donna ha dipinto Carminati «come un uomo che ha aiutato lei e la sua famiglia in
un momento di grande difficoltà, affermando che non è un “bandito di strada”, è
“omologo” di La Russa ed Alemanno, avendo scelto “la strada anziché il
Parlamento, ma che “... è uno di loro...”». Ecco, il Mondo di Mezzo, appunto.
Mafia Capitale, Carminati e
i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di
Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive Sabino
Labia su “Panorama”.
In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si
sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del
Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla
Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria
Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà
dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta
provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo,
vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre
indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il
Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al
mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’
sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una
strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una
certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile
il ruolo di Carminati a Roma.
Il furton al caveau della
Banca di Roma del Tribunale.
E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto
bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si
tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli
del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si
confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella
della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro
ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20
gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a
quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona
un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne
i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e,
alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo
sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e
che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale
dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i
tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un
by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un
istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due
rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la
aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma
l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da
qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in
precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174
cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte
rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di
operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il
quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa
da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati;
rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito
dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna
delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni
pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo
l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel
momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era
considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche
ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto
delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste
finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia
sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino
composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi,
cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più
inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e
dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco,
ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi
dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello
stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia
Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un
anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato,
e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale
dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti
nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il
Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al
contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni
uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le
intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano
di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto
si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non
si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di
banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su
commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della
vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un
cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato
massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che
di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni
di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma
perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.
Il Guercio nella terra dei
ciechi e tutte le storie di Mafia Capitale, scriveMariagrazia Gerina
su “Internazionale”.
Roma sotto inchiesta per mafia. Non più capitale ma “mondo di mezzo”, dove tutto
si rimescola: affari, criminalità e politica. La procura di Roma che un tempo
era definita il “porto delle nebbie” ha deciso di riscrivere la storia della
città. Cento indagati, i palazzi della politica perquisiti, mille e
centoventitré pagine fitte di intercettazioni, di nomi, di mazzette. Da cinque
giorni, tutti le compulsano ossessivamente. Sono pagine che fanno a pezzi la
politica romana, rischiano di distruggerne la credibilità. Hanno provocato
finora reazioni scomposte, dichiarazioni d’innocenza anche da parte di chi non
era indagato, dimissioni. La confusione regna. Il Partito democratico (Pd) di
Roma è stato commissariato, la regione Lazio ha bloccato tutte le gare
d’appalto, in Campidoglio si pensa a una giunta d’emergenza “capitale” con
dentro il Movimento 5 stelle per allontanare il rischio di scioglimento del
comune. Il presidente del consiglio, Matteo Renzi, invoca: processi subito. Già
perché in quel migliaio e passa di pagine c’è di tutto, ma non ci sono ancora
condanne o assoluzioni. Eppure da lì bisogna ripartire per diradare le nebbie
del mondo di mezzo. Dai nomi, dai soldi, dalle intercettazioni. E da quello che
di questa inchiesta, fin qui, è stato scritto. Nel film
Johnny Stecchino (1991), il comico toscano Roberto Benigni raccontava la
mafia con una battuta:
“La piaga di Palermo è il traffico”.
Adesso finalmente è chiaro che anche a Roma il problema non sono i varchi
elettronici e le multe. C’è voluta una corposissima ordinanza con i suoi
100 indagati e 37 arresti,
perché tutti si svegliassero una mattina, il 2 dicembre, per leggere nero su
bianco: a Roma c’è la mafia. Ed è arrivata fino al Campidoglio. Qualche
anno fa, sembrava quasi sconveniente nominarla. Si cominciò a parlare di
“Quinta mafia”
a metà degli anni duemila per il basso Lazio. Mentre a Roma si era già diffuso
il contagio. Adesso bisogna fare i conti con la “Mafia Capitale”. Una mafia
“originale” e “originaria”, perché nasce a Roma ed è diversa da tutte le altre.
Ha dalla sua la fluidità della criminalità romana: armata e per questo temibile.
Così la descrive Flavia Costantini, il giudice per le indagini preliminari, che
ha dato questo nome alla nuova organizzazione. In cima,
Massimo Carminati,
il primo nella lista degli arresti, er Cecato o
anche il Pirata (per la ferita all’occhio), l’ex militante dei Nuclei armati
rivoluzionari, che aggiorna antichi rapporti per tenere in pugno il Campidoglio.
Negli anni settanta si muoveva con scaltrezza tra l’estrema destra armata e la
banda della Magliana, negli anni duemila è il “Re di Roma”, come lo
definisce il giornalista dell’Espresso Lirio Abbate,
capace di mettere d’accordo i clan, ma anche di ottenere informazioni da
poliziotti infedeli.
È lui, secondo Flavia Costantini, il “capo indiscusso di
Mafia Capitale”. Carminati può disporre direttamente anche di alcuni dei più
stretti collaboratori del sindaco Alemanno, controlla politici e imprenditori,
estorsioni e appalti comunali. La storia della nuova consorteria tracciata dal
giudice Flavia Costantini coincide con la sua biografia criminale, mutua le sue
principali caratteristiche organizzative dalla banda della Magliana, ma “ha
avuto la capacità di adattarsi alla particolarità delle condizioni storiche,
politiche e istituzionali della città di Roma”. Dietro, c’è perfino una
filosofia criminale. Quella ormai nota del “Mondo di mezzo”, da cui prende nome
l’inchiesta condotta da Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli,
coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dallo stesso
procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Copyright di Massimo Carminati: “È
la teoria del mondo di mezzo compà”, spiega l’ex terrorista in un monologo
interrotto appena dagli “embè” e i “certo” dei suoi collaboratori: Ci stanno…
come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo in cui tutti
si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello… come è possibile che ne
so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi… cazzo è impossibile…
capito come idea? … è quella che il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si
incontra… si incontrano tutti là… allora nel mezzo, anche la persona che sta nel
sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che
non le può fare nessuno… e tutto si mischia…
Quando la procura di Roma la intercetta, Mafia Capitale è già approdata alla
“fase matura” e ha rimestato parecchio nel mondo di mezzo. A Roma, dal 2008,
governa Gianni Alemanno, il primo sindaco della capitale che viene dall’estrema
destra.
Indagato, assicura di non aver mai conosciuto Carminati.
Le intercettazioni raccontano invece i rapporti diretti del Pirata con alcuni
dei suoi uomini di fiducia. Con il capo della sua segreteria, Antonio Lucarelli,
ex Forza nuova. Con Luca Gramazio, allora capogruppo del Popolo della libertà.
Lui e suo padre, Domenico Gramazio, vengono avvistati insieme a Carminati a
piazza Tuscolo, alla fine del 2012. Discutono del bilancio comunale, ipotizzano
gli inquirenti. Nel luglio del 2013 di nuovo tutti e tre sono a cena dar
Bruttone. Un’altra volta è Luca
Gramazio da solo a incontrare Carminati, che gli passa della documentazione. Sul
campo rom di Castel Romano, ipotizzano i magistrati. Il rapporto più
stretto der Cecato è con Riccardo Mancini, un passato di militanza nell’estrema
destra, fino al 2012 amministratore delegato dell’azienda che gestisce i beni
immobiliari dell’Eur, plenipotenziario del sindaco per i rapporti con gli
imprenditori e della sua campagna elettorale nel 2008. “È lui che ce sta a passà
i lavori buoni perché funzioni questa cosa”, confida Carminati a un uomo di
fiducia. Il
“grassottello”, lo apostrofa Carminati. Qualche volta
non si comporta bene agli occhi dell’associazione: “Lo so, ma poi… io… gli ho
menato, eh?”, rivendica con toni da boss. E se rinvia i pagamenti: “Mo’ ‘o famo
strillà come un’aquila sgozzata”. Quando sa che sta per essere arrestato
per la presunta tangente su un appalto del trasporto pubblico da 600mila euro,
Carminati fa in modo di assicurarsi che non parli: “Se deve tenè er cecio ar
culo”.
Nel mondo di mezzo tra affari, criminalità e politica non c’è alcuna differenza
di stato. Ed è da questa incredibile terza dimensione che spunta l’altro
protagonista di Mafia Capitale, Salvatore Buzzi,
l’uomo delle cooperative rosse romane che diventa sodale del Pirata. Una
parabola quasi più sorprendente di quella di Carminati. La sua storia e quella
della cooperativa di ex detenuti da lui fondata (qui
il suo racconto diretto)
tocca il cuore della sinistra romana, prima ancora di arrivare a riempire il
portafoglio di alcuni esponenti dell’attuale Partito democratico. La
cooperativa 29 giugno, oggi una rete di cooperative che conta più di mille
dipendenti, prende nome da
un convegno sulle misure alternative al carcere che si tenne a
Rebibbia nel 1984. Condannato per omicidio all’inizio
degli anni ottanta, a Rebibbia Buzzi mette in scena con altri detenuti uno
spettacolo, Antigone (“le leggi degli dèi sono più importanti delle
leggi degli uomini…”), si lancia in una piccola impresa di imballaggio di
pomodori, insomma, si comporta da “detenuto modello”, sotto gli auspici
di Miriam Mafai, Laura Lombardo Radice e Pietro
Ingrao, che ai pomodori di Rebibbia dedica addirittura un articolo sull’Unità.
Uscito dal carcere, fonda la 29 giugno e grazie ad Angiolo Marroni – ala
migliorista del partito romano e assessore al bilancio della provincia, suo vero
mentore fin dal periodo del carcere – ottiene il primo appalto assegnato con
grande urgenza per il taglio dell’erba sulla via Tiberina. Quasi trent’anni
dopo, lo ritroviamo mattatore della scena. A capo di una “holding” che dà lavoro
a 1.200 persone e fattura 59 milioni di euro. In queste ore spunta anche la sua
presenza, poche settimane fa, alla cena romana di finanziamento del Partito
democratico, con il segretario Matteo Renzi. Ma
nell’inchiesta c’è la foto di un’altra cena,
organizzata da Buzzi nel 2010: al suo tavolo siedono il presidente della
Legacoop e futuro ministro Giuliano Poletti; il sindaco di Roma Gianni Alemanno;
Franco Panzironi, al vertice della municipalizzata dei rifiuti; Luciano
Casamonica; il futuro assessore alla casa della giunta guidata da Ignazio
Marino, Daniele Ozzimo; e c’è, immancabile, Angiolo Marroni, diventato nel
frattempo garante dei detenuti del Lazio, insieme al figlio Umberto, oggi
deputato, all’epoca capogruppo dei democratici in Campidoglio. Buzzi ne ha fatta
di strada. E ha un nuovo sodale che sa aprirgli, nella Roma governata da
Alemanno, anche le porte per lui ancora chiuse. Si chiama Massimo Carminati, il
“Re di Roma”. Per Buzzi: l’uomo che portava “i bustoni di soldi a
Finmeccanica”. Buzzi ha
difficoltà a parlare con il capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per
farsi sbloccare un pagamento? “Allora chiamiamo Massimo”, racconta lo stesso Buzzi,
“e faccio: ‘Guarda che qui c’ho difficoltà a farmi fa’… i trecentomila euro’”. A
quel punto – prosegue il racconto, con tanto di dialoghi mimati – Carminati gli
dice: “Va in Campidoglio, alle tre,
che scende Lucarelli e viene parlare con te”. “Aò”, chiosa Buzzi, “alle tre meno
cinque scende, dice ‘con Massimo, tutto a posto domani vai…’”.
“Io c’ho i soldi suoi”, confida in un’altra intercettazione. “I
soldi suoi, lui sai, m’ha detto quando… c’aveva paura che l’arrestavano perché
se l’arrestava… se parlava quello il prossimo era lui poi…”. E ancora racconta
che Carminati gli avrebbe detto: “Guarda qualunque cosa succede ce l’hai te, li
tieni te e li gestisci te, non li devi dà a nessuno, a chiunque venisse qui da
te… nemmeno mia moglie”. E aggiunge: “Non so’ soddisfazioni?”. Il ruolo che gli
inquirenti assegnano a Buzzi nell’associazione guidata da Carminati è quello di
organizzatore: “Gestisce, per il tramite di una rete di cooperative, le attività
economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei
rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del
verde pubblico e negli altri settori oggetto delle gare pubbliche aggiudicate
anche con metodo corruttivo, si occupa della gestione della contabilità occulta
della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti”. Le
cooperative nate all’ombra del Partito comunista al servizio della Mafia
Capitale.
Ma la scoperta più inquietante dell’inchiesta è quella del “libro
mastro”
ritrovato in casa della segretaria personale di Buzzi, Nadia Cerrito,
che, arrestata, ha già cominciato a parlare. Un libro nero dove Buzzi tiene con
precisione la contabilità occulta delle somme pagate e delle persone a cui sono
destinate. Argomento da cui il fondatore della 29 giugno sembra ossessionato. Le
intercettazioni sono piene di nomi accompagnati da cifre. Pesci grandi e piccoli
della politica romana, ma anche funzionari e dirigenti comunali (in casa di un
funzionario dell’ufficio giardini
sono stati trovati 572mila euro). È in questa contabilità orale che tutto
davvero si rimescola. E che Buzzi millanta rapporti anche con molti nomi del
Partito democratico.
Quello del presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, che, indagato, si è
dimesso il giorno degli arresti. “Me
so’ comprato Coratti”, annuncia
Buzzi all’inizio del 2014, che parla di 150mila euro promessi per sbloccare un
pagamento relativo al “sociale”. Per incontrarlo si serve del suo capo
segreteria, Franco Figurelli: “Gli diamo mille euro al mese”. Altro nome del
Partito democratico è quello del consigliere regionale Eugenio Patanè. “Voleva
120mila a lordo”, sostiene Buzzi (siamo a maggio di quest’anno), richiesta che
spiega di aver ricevuto per conto suo da un intermediario. “Gli abbiamo dato
diecimila per… per carinerie, e finisce lì, non gli diamo più una lira”, chiosa
in una successiva conversazione. È seccato Buzzi
quando i conti non gli tornano: “A Panzironi che comandava gli avemo dato il 2
virgola 5 per cento, 120 mila euro su 5 milioni… mo’ damo tutti ’sti soldi a
questo?”. Parlano di un appalto per la raccolta dei rifiuti. Franco Panzironi,
a cui Buzzi paga 15mila euro ogni mese (“l’ho messo a 15 al mese”), è l’ex
amministratore delegato dell’azienda per i rifiuti. Altro fedelissimo di
Alemanno, finito agli arresti. Socio fondatore della sua fondazione, la Nuova
Italia. Sulla fondazione del sindaco Alemanno piovono bonifici.
Nel novembre del 2012, in particolare, arrivano 30mila euro dalle cooperative di
Buzzi, proprio nel momento in cui il comune approva i provvedimenti di bilancio.
In ballo ci sono i soldi per le aree verdi, per i campi rom e per i minori
dell’emergenza in Nordafrica. Smista soldi
Salvatore Buzzi. E smista anche i voti. L’11 maggio 2013, a pochi giorni dalle
elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio comunale, Buzzi parla con
Gianni Alemanno al telefono. “Allora? Ma è vera ’sta storia del disgiunto?”,
s’informa il sindaco uscente. “Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo e
Alemanno”, conferma Buzzi e ride. “Eh, questo… questo mi onora molto”, replica
il sindaco. E Buzzi, ridendo: “Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh!”.
Daniele Ozzimo, eletto con 5.317 preferenze, diventa l’assessore alla casa nella
giunta guidata da Ignazio Marino. Si è dimesso anche lui,
come Coratti. Nelle intercettazioni, un sms della sua ex moglie,
Micaela Campana, responsabile welfare nella segreteria di Matteo Renzi, al
presidente della 29 giugno: “Bacio, grande Capo”.
In realtà Buzzi, qualche mese prima, sembrerebbe essersi entusiasmato a un altro
scenario: “Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco,
eh!”. Poi la storia va diversamente e Umberto Marroni si candida alla camera. Ma
il fondatore della 29 giugno è uomo dalle strategie larghe: “Mo’ c’ho quattro…
quattro cavalli che corrono… col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini
c’è…”. Qualche differenza c’è: “I nostri sono molto meno ladri di quelli della
Pdl”, confida. Comunque rassicura: “Io pago tutti… finanzio giornali, faccio
pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti”. Specie
quando c’è la campagna elettorale per le comunali: “Questo è il momento che pago
di più…”.
Quando Alemanno viene battuto da Ignazio Marino (sui giornali è
spuntato un
finanziamento anche alla sua campagna elettorale), non
si arrende: di amici in giunta ne conta sei su nove, ma non fa i nomi. “Dacce
’na mano perché siamo messi veramente male con la Cutini”, si lamenta
dell’assessore alle politiche sociali (quota Sant’Egidio) con il vicesindaco
Luigi Nieri, di Sinistra ecologia libertà, con cui invece mostra un buon
rapporto. Mentre l’ex segretario del Partito democratico romano, ora
commissariato da Matteo Orfini, Lionello Cosentino lo
considera “proprio un amico nostro”. In Campidoglio Buzzi cerca incontri,
sponsorizza nomine (come quella di Walter Politano,
che Marino ha subito rimosso da responsabile della trasparenza). E s’interroga
anche su come “legare a sé” il giovane di punta nel gabinetto del sindaco,
Mattia Stella (che non è indagato), già
segretario del presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. Sono giorni frenetici,
in cui tentare di tessere una nuova tela: “Bisogna vendersi come le
puttane”, gli suggerisce Massimo
Carminati, il mondo di mezzo. Buzzi da una
parte, Carminati dall’altra. In mezzo i politici che si mettono al loro
servizio. A leggersi le pagine dell’ordinanza, sembra proprio che Mafia Capitale
voglia prendersi tutto: la gara d’appalto per la raccolta differenziata, quella
per la manutenzione delle piste ciclabili, la nevicata del 2012,
che mise in ginocchio la città governata da Alemanno, e la raccolta delle
foglie. Ma anche cemento, affari nell’edilizia.
A Roma, in questa città dove niente funziona, dopo la lettura di “Mondo di
mezzo”, niente è più come prima. Neppure le foglie che ostruiscono i tombini.
Certo, sotto tutta un’altra luce rispetto alle manifestazioni
delle scorse settimane, si legge la vicenda dell’accoglienza dei migranti e dei
campi rom
nella capitale. Due settori su cui l’associazione punta molto. Nelle
intercettazioni si parla in particolare del campo rom di Castel Romano, che è
stato già costruito, in un mese e mezzo. “A me ’na grande mano per quel campo
nomadi me l’ha data Massimo perché un milione e due, seicento per uno, chi cazzo
ce l’ha”, rivela Buzzi. Che poi briga perché i fondi siano previsti
nell’assestamento di bilancio. Ma è sulla vicenda dei migranti che Buzzi punta
ancora di più. Detto con
le parole del
presidente della 29 giugno: “Tu
c’hai un’idea di quanto ce guadagno con gli immigrati? Il traffico di droga
rende meno”. E il suo “socio”, Sandro Coltellacci, presidente della cooperativa
Formula sociale: “Qui stiamo a parlà della cooperazione sociale a Roma”.
Ed
è a proposito di immigrati che spunta la figura di Luca Odevaine, ex vicecapo di
gabinetto quando il sindaco era Walter Veltroni. Odevaine
è uno dei nomi più sorprendenti dell’inchiesta Mondo di mezzo. L’uomo a cui
Veltroni aveva affidato tutta l’area della sicurezza, dalle occupazioni delle
case ai campi rom, chiamato poi da Nicola Zingaretti a coordinare la polizia e
la protezione civile della provincia. Anni dopo lo ritroviamo al fianco di
Salvatore Buzzi, che lo vorrebbe capo di gabinetto del sindaco Marino: “Lo sai a
Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese… ogni mese…”. L’interesse di
Buzzi è legato all’incarico che Odevaine, consulente anche del consorzio che
gestisce il Cara
di Mineo, ricopre presso il Tavolo di coordinamento
nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione
internazionale, come rappresentante dell’Unione delle province italiane. Gli
inquirenti parlano addirittura di un “sistema Odevaine”.
“Cioè chiaramente stando a questo tavolo nazionale… e avendo questa relazione
continua con il ministero… sono in grado un po’ di orientare i flussi che
arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… da Mineo…
vengono smistati in giro per l’Italia…”, spiega Odevaine al telefono. “Se loro
c’hanno strutture che possono essere adibite a tavoli per l’accoglienza… da
attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono
occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro”. Ora le gare e
gli appalti si
fermano. In Campidoglio, come in
regione (anche lì, Buzzi millanta contatti e un uomo a busta paga per tenere i
rapporti con il presidente Nicola Zingaretti). Il mondo di sopra è congelato. Il
mondo di sotto, in carcere. Quello delle cooperative pulite è sconvolto. Nella
politica romana, sono in tanti a tremare. Alle volte Carminati sembra proprio il
Guercio in una terra di ciechi.
Mariagrazia Gerina
è una giornalista freelance. Scrive per l’Espresso e per il Fatto Quotidiano. Ha
lavorato per molti anni all’Unità, occupandosi soprattutto di Roma e di
Campidoglio. Con Marco Damilano e Fabio Martini ha scrittoWalter Veltroni.
Il piccolo principe
(Sperling & Kupfer 2007).
Mafia Capitale. La lunga
scia di sangue e affari sporchi che avvolge Roma da 60 anni, scrive Gianni
Rossi su “Articolo
21”. La Casta politica italiana non vuole proprio fare i conti con la storia
patria. Dall’analisi del substrato capitolino, a partire dal Dopoguerra ad oggi,
si possono capire le origini di “Mafia capitale” e il perché
dell’improntitudine e dell’incapacità della classe politica di qualsiasi colore
di sottrarsi all’abbraccio tentacolare della Piovra.
Roma “Capitale corrotta = Italia nazione
infetta”. A 60
anni di distanza dalla prima grande inchiesta giornalistica sulla speculazione
edilizia a Roma e gli intrecci con la finanza vaticana e il “generone
capitolino” (pubblicata sull’Espresso l’11 dicembre 1955, a firma di Manlio
Cancogni), siamo ancora ad interrogarci sulle cause e la diffusione di quel
virus che ha nel suo DNA un intreccio perverso tra malaffare, politica e “poteri
forti” dello stato. Quel “generume”, come lo ribattezzò il grande Giorgio Bocca,
che viveva e vive all’ombra del Cupolone, che si ritrova in circoli esclusivi,
che frequenta salotti di anziane “signore” vedove di esponenti della destra
romana, che si genuflette nelle ovattate stanze vaticane, che sfoggia
abbigliamenti d’altri tempi per omaggiare gli ospiti illustri nei cortili
vaticani come “maggiordomi d’ancien regime”, che si divide solo allo stadio
Olimpico tra le due opposte tifoserie, che sopravvive alle intemperie
economico-politiche e ai rivolgimenti delle amministrazioni capitoline,
continuando a mungere affari e stringere alleanze. Quel generone comprendeva
un tempo i rampolli della nobiltà decaduta, “papalina e nera”, esponenti di
primo piano del mondo politico e governativo, specie democristiano, massoni più
o meno “coperti”, ecclesiasti di peso nella Curia, alti ufficiali, dirigenti dei
servizi segreti, palazzinari, vertici di alcuni quotidiani. Erano gli anni del
“Sacco di Roma”, quando i politici del centrosinistra di allora e gli affaristi
in corsa per cementificare ovunque, in barba alle leggi urbanistiche, dovevano
comunque passare per le stanze cardinalizie della Società Generale Immobiliare,
il nucleo dorato della finanza vaticana, che negli anni Settanta passò nelle
grinfie di Michele Sindona. A quel generone, dalla fine degli anni Settanta si è
aggiunta una “Cupola” criminale, dalle fattezze mafiose, ma che ha tratto spunto
nei modi di operare dai primi e vi ha aggiunto una spregiudicatezza e una
efferatezza sconosciuta. Una Cupola che ha di fatto soppiantato i modi felpati
di un tempo con l’arroganza e la violenza da “Romanzo criminale”. Ma a bloccare
ogni indagine giornalistica e a stroncare qualsiasi denuncia c’era allora la
Casta giudiziaria raccolta nel “Porto delle nebbie” del Palazzaccio, che veniva
in soccorso alla classe politica e affaristica del momento, “sopendo e
troncando”, fino alle avocazioni e ai trasferimenti in procure minori.
1978 – 1979: gli anni della “svolta”.
Un giorno forse si scopriranno i fili che tennero insieme nel ‘78 personaggi
delle Brigate Rosse, esponenti della Banda della Magliana, apparati deviati dei
servizi e massoni “piduisti” durante e dopo il rapimento e l’uccisione del
presidente della DC, Aldo Moro, l’uomo dell’apertura governativa al PCI. Una
brutta fine la fece anche il giornalista Mino Pecorelli, perché si vantava si
saperne molto e di rivelare nomi e cifre, che avrebbero squarciato il velo
dell’ipocrisia che coprivano gli intrecci perversi. Moro e Pecorelli furono
dunque le vittime ancestrali che segnano il confine della “Terra di mezzo”: il
punto di convergenza e di non ritorno tra malavita organizzata, ambienti
dell’estrema destra terroristica e del brigatismo rosso, settori dei servizi
deviati, massoneria coperta, mondo degli affari e della politica che conta.
Qualcuno che ne sapeva più degli altri è purtroppo morto, portando con sé i
segreti inconfessabili di quel “delitto di stato”. Si era battuto per
liberazione di Moro, aveva perso e si era dimesso dal governo. Più tardi salì al
Colle, con un accordo bipartisan e un’unanimità mai più ripetuta. Le sue carte e
le sue registrazioni non sono mai state ancora lette né decifrate. E forse non
sarà sufficiente neppure aprire gli “armadi della vergogna” di Forte Braschi per
decrittarne i segreti tra gli impolverati faldoni. Ma una concomitanza salta
agli occhi: da quel periodo, i reduci della Banda della Magliana estendono i
loro tentacoli mafiosi e, nonostante sanguinarie vendette personali ed alcune
coraggiose indagini, il sistema di quei balordi si è andato affermandosi e
incuneandosi negli sulla vita politica e affaristica della Capitale. Durante il
periodo epico e di rottura col passato della seconda metà degli anni Settanta,
grazie alla Rinascita democratica, sociale e culturale avviata dalle
“amministrazioni rosse” con i sindaci comunisti (Argan, Petroselli e Vetere),
Roma sembrava aver chiuso per sempre con l’epoca dei palazzinari, con le
periferie “accattone” (850 mila abitanti reclusi in quartieri fuorilegge per il
Piano Regolatore, senza servizi primari e trasporti), con la malavita rozza e “pastasciuttara”.
La città fu restituita ai suoi abitanti, le periferie divennero parte integrante
del sistema urbanistico, l’integrazione generò un circuito virtuoso di
convivenza e di drastica diminuzione dell’allarme sociale e criminale. Ma sotto,
sotto, covavano i prodromi degli epigoni del “Signore degli anelli”. In realtà
i “Signori delle tenebre” cominciavano ad uscire dal mondo dei morti per
conquistare la “Terra di mezzo” e volare verso le vette rarefatte di Valinor,
utilizzando i mostri della “Terra di sotto” per stroncare qualsiasi opposizione.
Una mitologia, creata dallo scrittore inglese Tolkien, cara ai giovani della
destra più nostalgica e violenta che, abbandonati i pestaggi e gli assalti ai
“rossi”, negli anni Ottanta s’infilano i golfini di cachemire, indossano
cappotti loden e si introducono negli ambienti del generone romano.
Dalla “corruzione partitica a quella
parcellizzata”.Con
gli anni Ottanta, la rottura della non-belligeranza tra il PSI e il PCI,
l’ascesa di Craxi e l’arrivo sulla scena affaristico-politica dei nuovi
“cavalieri bianchi”, si apre la voragine di Tangentopoli, che poi passerà dai
finanziamenti occulti ai partiti, a quelli ben più disseminati dei singoli
esponenti. E qui trovano spazio anche le “larghe intese” tra destra e sinistra:
tutti cercano di guadagnarci qualcosa, perché “tengono famiglia” e perché hanno
come mito di riferimento il mondo virtuale creato dai media berlusconiani e
dall’affermarsi di valori consumistici decadenti. I partiti tradizionali “ di
massa”, con la cosiddetta crisi delle ideologie (in realtà con l’affermarsi
dell’unica ideologia dominante, questa capitalista- liberista) si riducono in
partiti elettoralistici, buoni per condurre le campagne di propaganda al
servizio di leader “padri padroni”. Scompare la selezione dei quadri intermedi,
la lunga trafila interna, per immettere personale politico adeguato ai ruoli e
agli incarichi istituzionali, locali e nazionali. L’importante è conquistare
gruppi di voti nei settori più “sensibili”, grazie alle amicizie inconfessabili,
ai finanziamenti sottotraccia, alle tessere gonfiate. Non importa con chi e in
che modo allearsi in questo pantano melmoso, basta far eleggere uomini e donne
“capaci a disobbligarsi” con i veri padroni della città. Si privilegiano i
legami familiari, i circoli e i salotti che contano, alcune categorie lavorative
e imprenditoriali, si ricorre al voto di scambio/posti di lavoro nei servizi
pubblici, alle promesse di nuovi appalti sempre più gonfiati. Le Primarie e le
Parlamentarie del PD sono state le occasioni per imporsi da parte di questo
sistema melmoso negli ultimi anni: personaggi politici quasi sconosciuti agli
elettori ai vari circoli, che venivano “bloccati” e posizionati ai primi posti,
a danno di esponenti noti da tempo e dal passato trasparente; carriere politiche
inventate all’ultimo minuto, per arricchire curricula inconsistenti; trascorsi
inconfessabili cancellati, di chi nel volgere di pochi anni era passato dalla
destra finiana, a quella berlusconiana, per poi entrare nel PD. Alle forti
ascendenze di Walter Veltroni e Goffredo Bettini, da una parte, e Massimo
D’Alema, dall’altra, che per decenni hanno scelto e imposto i loro candidati sia
dentro il partito che nelle amministrazioni locali, si sono affiancati i “nuovi
padroni” di Roma, che hanno generato i “mostri” della sinistra che potevano
gemellarsi con i “mostri” della destra. Nel frattempo però, qualcosa di
importante era cambiato a Roma: il vecchio “Porto delle Nebbie”, il fortilizio
di Piazzale Clodio si era come aperto alla luce del sole. Aria nuova stava
entrando tra gli uffici tetri del Palazzaccio, proprio sotto la “collina del
disonore”, quella di Monte Mario, simbolo negli anni Cinquanta/Sessanta della
prima inchiesta giornalistica scandalistica dell’Espresso sulle speculazioni
edilizie. E’ come se il cerchio si chiudesse attorno al “Mondo di Mezzo”, grazie
ad un pool di giudici, guidati da un binomio esperto nella lotta alla mafia e
alla ‘ndrangheta, impersonato dal Procuratore Capo Giuseppe Pignatone e dal suo
Aggiunto Michele Prestipino. Se l’opinione pubblica, i media e i corpi intermedi
della società sapranno creare attorno a loro una rete di protezione, forse
allora per la prima volta, anche la Casta dovrà operare per “purificarsi”. Ma se
ai primi segnali di qualche errore giudiziario, più o meno formale, ci si
trovasse di fronte al solito coro mediatico del “garantismo” ad oltranza, che
già fece arenare l’inchiesta di Mani Pulite, allora i “Pupari” della Terra di
Mezzo e gran parte della Casta potranno cantare vittoria: autoassolversi. E
l’Italia sprofonderà ancora di più non solo nelle classifiche di Transparency
International (oggi al 69° posto su 177 con 43 punti su 100), ultima tra i 28
paesi dell’UE con la Romania, e tra gli ultimi paesi del club esclusivo del G20.
Ma soprattutto saranno i mercati finanziari internazionali e le maggiori
cancellerie del mondo a condannarci alla decadenza, a causa proprio della
corruzione politica, del finanziamento occulto dei partiti, il controllo sui
grandi appalti pubblici e il carsico fenomeno dell’evasione fiscale.
Mafia Capitale, Ancora una
volta la magistratura commissaria la politica italiana, scrive Lanfranco
Caminiti su “Il
Garantista”. Se restiamo inchiodati a discutere di 416 bis, a proposito
dell’ordinanza “Mafia Capitale” che ha letteralmente sconquassato la vita
politica e amministrativa di Roma e del Lazio, cioè se la fattispecie
dell’associazione di tipo mafioso contestata dalla procura di Roma sia
corrispondente o no al vasto fenomeno di corruzione che ha provocato arresti,
indagini e dimissioni a catena, non ne usciamo vivi, schierati in trincea di
opinione da una parte o dall’altra. Certo, è una battaglia di garanzia e di
diritti, ma questo non è tutto. Non ci vuole la zingara per immaginare – come ha
già scritto il direttore di questo giornale – che i pubblici ministeri e il
procuratore capo Pignatone sapessero benissimo quale valanga stessero
provocando. Quale valanga politica. Non solo l’evidente questione se il Comune
di Roma vada sciolto e commissariato, dato che è “quasi giurisprudenza” – quanto
meno è la teoria di Gratteri, procuratore di Reggio Calabria, non proprio
l’ultimo in merito – che basti anche solo la “infiltrazione mafiosa” di un
assessore perché tutto il consiglio vada sciolto. E dato che questa teoria è
stata largamente applicata, al Sud almeno, non si capisce perché Roma dovrebbe
godere di uno statuto privilegiato. E l’altro versante, quello che lambisce il
ministro Poletti, in quanto già capo della Lega delle coop, anche se non c’è
alcuna sussistenza di reato né tanto meno alcuna indagine in merito, non è un
effetto collaterale da meno. Sarà un effetto mediatico, ma di questo campa la
politica. D’altronde, ci si obietterà, non ci più sono “santuari” inaccessibili
e il tribunale di Roma, come altri, non è più un “porto delle nebbie” dove tutto
si insabbia, e è meglio così. Il punto perciò è che l’indagine “Mafia Capitale”,
al di là degli aspetti folckloristici sul “Pirata o “er Cecato” Carminati e su
tutta la mole di intercettazioni che lasciano trapelare avidità e pochezza nel
mondo dell’amministrazione della cosa pubblica, è soprattutto una “cosa
politica”. L’indagine “Mafia Capitale” è una questione squisitamente politica.
Era il 17 febbraio 1992 quando arrestarono Mario Chiesa, socialista, che
ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano, e che
venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire.
Era l’inizio di Tangentopoli. Il “mariuolo” – come lo definì Bettino Craxi –
Mario Chiesa sarà il primo tassello di un domino che getterà giù l’impianto
politico della Prima repubblica. È una storia che tutti sanno. Si ricordano meno
alcuni caratteri della vita politica di allora, in senso sociale, ampio, di
partecipazione. Alle elezioni politiche del 5 aprile 1992 – poco dopo l’arresto
di Chiesa, perciò – votarono per la Camera in 41 milioni 479.764, cioè l’87,35
per cento degli italiani; e per il Senato, in 35 milioni 633.367, cioè l’86,80
per cento. Alle elezioni politiche del 1994, quando ormai Tangentopoli era un
diluvio, un giudizio universale, e Berlusconi era sceso in campo votarono per la
Camera in 41 milioni 546.290, cioè l’85,83 per cento; e per il Senato, votarono
in 35 milioni 873.375, cioè l’85,83 per cento. Sono dati dell’archivio del
ministero dell’Interno, e sono numeri incommensurabili rispetto la
partecipazione attuale al voto. Il sindaco Marino, per dire, che di questo
stiamo parlando, è stato eletto con il 45,05 per cento degli aventi diritto di
voto. Meno di uno su due romani andò a votare. Lo sconquasso politico di
Tangentopoli non provocò il vuoto, o quanto meno il vuoto della po-itica che non
esiste in natura fu colmato da Berlusconi e dalla Lega, mentre i grandi partiti
di massa ancora tenevano. Aggiungo un paio di dati: nel 1991 gli iscritti al
Pci/Pds sono 989.708, quasi un milione; l’anno prima ne aveva un milione 264.790
e nel 1987 un milione e mezzo. Insomma, siamo dopo la caduta del muro di Berlino
e c’è sconcerto, ma il “partito comunista più forte dell’occidente” tiene ancora
botta. Se li confrontiamo, questi numeri – tratti dalle ricerche dell’istituto
Cattaneo – con la sconfortantissima polemica tutta intestina sugli iscritti
attuali del Pd, che non arrivano nemmeno ai trecentomila, si capisce di costa
sto parlando. E gli iscritti alla Democrazia cristiana, sempre nel 1991, erano
un milione 390.918, mentre l’anno prima ne aveva sopra i due milioni. Ora, la
differenza evidente tra l’indagine “Mafia Capitale” con altri episodi di
corruzione della cosa pubblica, tanto per dire il “caso Fiorito” che pure portò
alle dimissioni della giunta Polverini, con il suo contorno di feste da
Trimalcione e sprechi privati giustificati da pizzini volanti, sta nel carattere
di “sistema”: mentre il caso Fiorito, che pure riguardava una pletora di
consiglieri che allegramente spendevano i lauti soldi dei loro stipendi ha
aspetti erratici e casuali – e peraltro molti si appellavano alle larghe maglie
di discrezionalità che la legge offriva loro –, quello che risulta e risalta
dall’indagine della procura di Roma è un “sistema” di gestione di flussi
finanziari, con la triangolazione tra soggetti pubblici, soggetti privati,
cooperative sociali. È qualcosa, insomma, che somiglia molto più a una
Tangentopoli che a una Parentopoli. L’anomalia, insomma, è quel signore che
teneva in casa centinaia di migliaia di euro “bloccati”: gli altri spendevano,
compravano case, automobili, affittavano ville, insomma alimentavano e drogavano
il Pil della città, con l’economia criminale. Certo, Tangentopoli era il
“sistema Italia” e qui parliamo di un “sistema Roma”. Però, la valenza politica
di Roma Capitale è sempre stata tale da avere un risvolto nazionale. Che sia
implicato o meno un ministro. La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso
sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il
grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto
nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun
suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza
in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione
Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione
Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per
cento delle regionali di qualche giorno fa, e si capisce di cosa stia parlando.
Il professor De Rita è intervenuto più volte recentemente a proposito del
declino dei “corpi intermedi” – della politica, delle istituzioni – e della
fragilità complessiva che questo comporterebbe nel sistema Paese, un vuoto non
sostituibile con il verticismo e l’avocazione verso il centro che il presidente
del Consiglio sembra privilegiare. Il fatto è che il renzismo non sembra coprire
il vuoto della partecipazione politica, anzi all’opposto sembra incassarne gli
effetti. Non è solo una caduta di stile la battuta arrogante di indifferenza
rispetto la scarsa affluenza alle urne. Forse è vero che la magistratura vuole
mostrare di poter tenere sempre sotto schiaffo la politica, qualsiasi. O forse,
in un certo senso l’indagine della procura di Roma di Pignatone sembra dare una
mano al renzismo. È un’indagine rottamatoria. E di lunga durata. E in quanto
tale ne prolunga la vita, lo rende ineluttabile. Proprio l’opposto di
Tangentopoli. E la risposta politica è: si commissaria il partito, si avocano a
sé le decisioni. Se sarà il caso, si procede anche sfidando le urne a livello
locale: si può vincere anche con il trenta per cento di voti, o pure meno.
Forse, non è di questo che ha bisogno Roma. E neppure il Paese…
Bentornati nel “porto delle
nebbie”, scriveva già Ferruccio Sansa su
Il Fatto Quotidiano del 13 agosto 2011. Il “porto delle nebbie”. Il
Tribunale di Roma si porta addosso il titolo conquistato tra gli anni ’70 e ‘90.
Sospetti, indagini contese con altri tribunali, dalle schedature Fiat allo
scandalo dei petroli, passando per i fondi neri Iri e la Loggia P2. Un elenco
che tocca anche Tangentopoli, con le inchieste romane che,
per usare un eufemismo, non produssero
gli effetti di quelle milanesi. I magistrati romani oggi ripetono: “Non siamo
più il porto delle nebbie”. E, però, ecco il procuratore aggiunto
Achille Toro (ormai ex), che patteggia
una condanna a 8 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio per l’inchiesta G8.
Ecco il procuratore Giancarlo Capaldo
sotto inchiesta del Csm per la cena con il ministro dell’Economia, Giulio
Tremonti, e il suo braccio destro Marco Milanese, all’epoca indagato a Napoli.
Così a qualcuno tornano in mente inchieste approdate a Roma per finire
archiviate o apparentemente dimenticate. Pare finita nel nulla l’inchiesta
arrivata nella Capitale su Alfonso Pecoraro
Scanio, ministro delle Politiche agricole nel governo Amato e
dell’Ambiente nell’ultimo Prodi. La Camera ha negato al tribunale dei ministri
l’utilizzo delle intercettazioni del pm Henry John Woodcock. Eppure nella
richiesta del Tribunale dei ministri si legge: “Dalle intercettazioni emerge
che l’imprenditore Mattia Fella si è interessato al reperimento di una sede per
una fondazione che sarebbe stata intitolata al ministro nonché all’acquisto per
conto del ministro, di un terreno nei pressi di Bolsena dove quest’ultimo
avrebbe dovuto realizzare un complesso agrituristico dotato di piscina ed
eliporto. Infine, dalle telefonate risulta che il ministro ha sempre manifestato
disponibilità a esaudire le richieste del Fella”. Fella ambiva a stipulare
convenzioni con il ministero e con l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e
alla nomina del fratello Stanislao in una commissione ministeriale, il ministro
in cambio avrebbe ottenuto “numerosi spostamenti con un elicottero pagato da
Fella per 120 mila euro; numerosi viaggi-soggiorno in Italia e all’estero per
decine di migliaia di euro; l’acquisto di un terreno – pagato 265 mila euro da
Fella – per l’edificazione di un agriturismo biologico e di una villa con
piscina ed eliporto, destinato al ministro”. Pecoraro Scanio ha sempre
negato ogni addebito. Archiviato anche il fascicolo sugli appalti per i centri
di accoglienza che vedeva tra gli indagati
Gianni Letta, accusato di abuso d’ufficio, turbativa d’asta e truffa
aggravata per aver favorito, questa la tesi dei pm, imprese legate al gruppo “La
Cascina” vicino a Cl, a Giulio Andreotti e al segretario di Stato vaticano,
Tarcisio Bertone. L’indagine parte da Potenza: Woodcock lavora su una presunta
organizzazione specializzata nell’aggiudicarsi commesse pubbliche truccando le
gare. Il 6 agosto 2008 Angelo Chiorazzo (dirigente Cascina) è a Palazzo Chigi.
Letta chiama il capo dell’immigrazione al ministero, il prefetto Morcone. Due
giorni dopo Chiorazzo torna alla carica. Dopo il secondo incontro, Letta
richiama Chiorazzo: “Il prefetto di Crotone mi dice che vuole che lei vada o
lunedì o martedì… perché poi lui va a Cosenza dove è stato trasferito e dice:
"E’ meglio che lascio le cose fatte". Allora, la aspetta in Prefettura… eh… a
nome mio”. Ma l’inchiesta si concentra anche su altri appalti, come quello da un
milione e 170mila euro per il Cara di Policoro (Matera), aperto a tempo di
record e affidato a società legate ai Chiorazzo. Secondo la Procura di Roma,
però, in questa vicenda non ci sarebbe nulla di penalmente rilevante. Il pm
Sergio Colaiocco nell’aprile 2009 ha fatto archiviare l’accusa di associazione
per delinquere contro Letta e Morcone. A suo avviso, lo stato d’emergenza
legittimava tutto, quindi anche le altre accuse dovevano cadere. Secondo
Woodcock, invece, l’emergenza non farebbe venir meno l’obbligo di chiedere 5
preventivi prima di assegnare un appalto
milionario con un paio di telefonate. Ma alla fine anche il pm di
Lagonegro, cui l’inchiesta era stata affidata per competenza, archivia. Nel
dimenticatoio pare finita anche la vicenda in cui era indagata
Daniela Di Sotto, all’epoca signora
Fini. Cioè moglie del vice-premier Gianfranco. È il 19 aprile 2005 quando gli
investigatori della Procura di Potenza registrano una telefonata imbarazzante:
“Io sono andata a sbattermi il culo con Storace”, allora presidente della
Regione Lazio. A parlare era appunto Daniela Fini. Il suo interlocutore era
l’allora segretario di suo marito Francesco
Proietti, poi divenuto deputato. Lo “sbattimento” di Daniela con
Storace secondo l’accusa avrebbe prodotto risultati. Scrive Woodcock: “Proietti
e Di Sotto fanno esplicitamente cenno all’interessamento profuso dalla donna
presso Storace affinché la clinica Panigea – di cui Di Sotto era socia –
operasse in regime di convenzione l’esecuzione di esami costosi”. La
richiesta della Panigea è dell’11 febbraio, il parere favorevole Asl è del 14,
la delibera della giunta è del 18. Basta una settimana. Ma a beneficiare della
convenzione non saranno Di Sotto e Proietti, bensì la loro socia Patrizia
Pescatori. Cognata di Gianfranco Fini. Il pm Sergio Colaiocco ha anche
archiviato un’inchiesta (partita da De
Magistris, prima di approdare a Roma) sull’allora ministro della
Giustizia, Clemente Mastella. Al
centro dell’indagine i rapporti tra l’esponente politico e l’imprenditore
Antonio Saladino. Ma la Procura di Roma non condivide le accuse: Mastella non
avrebbe compiuto i reati contestati nell’inchiesta Why Not almeno nel periodo in
cui era ministro. Non emergono, secondo il pm, “elementi diversi
dall’asserita esistenza di rapporti di amicizia tra Saladino e Mastella” e
quindi si esclude che vi siano “fonti di prova che depongano per la
sussistenza di reati commessi a Roma”.
Procura romana porto delle
nebbie. Mele: "parlarne male è una moda", scriveva Nese Marco su Corriere
della Sera (25 settembre 1992). Dicono che nel "manuale Cencelli" (la guida
pratica per la spartizione dei posti di potere) l'incarico di capo della Procura
di Roma equivalga a due ministeri. E si può ben capire. Il più importante
ufficio italiano della pubblica accusa ha gli occhi direttamente puntati sul
"Palazzo". Dicono che talvolta i suoi sguardi verso i potenti siano troppo
benevoli. I maligni insinuano che proprio adesso ne abbiamo una prova sotto gli
occhi. I giudici milanesi hanno fatto arrestare sette alti papaveri romani.
Dovevano muoversi quelli di Milano? A Roma non si erano accorti di nulla?
Domande più che legittime. Però, almeno stavolta, non si può dare la croce
addosso ai magistrati della capitale. La loro parte contro i pubblici
amministratori corrotti la stanno facendo. Hanno messo dentro assessori,
industriali, personaggi di grosso calibro. La "Tangentopoli" romana coinvolge
finora almeno ottanta inquisiti. "Facciamo meno chiasso dei milanesi, ironizza
un sostituto procuratore, per questo le nostre inchieste passano inosservate".
C'è anche chi polemizza per i sette arresti ordinati da Milano. "Vedremo, dicono
alla Procura, se gli episodi contestati si sono svolti al Nord o nella capitale.
Se la corruzione e il versamento delle mazzette sono avvenute a Roma, i milanesi
dovevano semplicemente passarci le carte per una questione di competenza".
Accetta di parlare anche il capo della Procura, Vittorio Mele, che si è
insediato da quasi tre mesi. "Non abbiamo riguardi per nessuno. Bisogna
considerare, però, che in materia di pubblica amministrazione le indagini non
sono semplici. Ci vuole un episodio. Come è capitato a Di Pietro con Mario
Chiesa. Quando mi sento dire: voi che fate, non vi muovete?, mi viene da
considerare che gli episodi su cui indagano i colleghi milanesi si riferiscono
agli anni Ottanta. Allora potrei dire: cosa facevano loro mentre la corruzione
si diffondeva, e cosa facevano gli imprenditori? Non lo dico in tono polemico,
ma solo per spiegare che non è facile smascherare i corrotti. Soprattutto se non
si ha la fortuna di trovare persone disposte a parlare". A Milano questa fortuna
l'hanno avuta. "Ne sono felice per loro, dice Mele, ma anche noi stiamo facendo
la nostra parte. Io sono arrivato qui da poco, ma in passato, ricordo che
un'inchiesta della Procura romana ha fatto cadere la giunta del sindaco
Signorello. E oggi, per citare solo alcuni casi, abbiamo in piedi inchieste
sugli assessori Lamberto Mancini, Arnaldo Lucari, Carlo Pelonzi. Ma io voglio
perfezionare le indagini. Sto pensando a un pool di sostituti solo per le
inchieste sulla pubblica amministrazione". Il nuovo Procuratore vuole cancellare
anche la brutta nomea di Roma affossatrice di scandali. Alla richiesta di
strappare l'inchiesta sugli ex ministri Bernini e De Michelis ai magistrati
veneziani ha risposto no. Ha rinunciato a sollevare conflitto di competenza.
"Non volevo che domani mi potessero accusare, dice Mele, di essermi intromesso
allo scopo di insabbiare. Eppure, a ogni occasione rispunta la storia della
Procura romana che è un porto delle nebbie. La verità è che parlare male di
questo ufficio è una moda". Adesso, forse, le cose sono cambiate. Ma in passato
le accuse alla Procura romana non erano fantasie. E' successo di tutto in quei
piccoli uffici male illuminati. All'inizio degli anni Settanta erano state
registrate le conversazioni telefoniche tra il boss mafioso Frank Coppola e
Natale Rimi, figlio di un capomafia, che si era inserito alla Regione Lazio.
Quando gli inquirenti andarono ad ascoltare i nastri, scoprirono che erano stati
manomessi, tagliati e ricuciti. Poi cominciò l'epoca dei processi strappati ad
altre città. Il primo fu quello per la strage di piazza Fontana, fatto spostare
a Roma perchè nello stesso giorno erano esplose bombe anche nella capitale e
questo doveva considerarsi il segno di un unico disegno eversivo. Stessa sorte
subì l'inchiesta sui petroli. Quella avviata a Genova. La conducevano tre
giovani pretori che vennero definiti "d'assalto" perchè avevano osato mettere
sotto torchio alcuni personaggi importanti. Anche nelle inchieste sul terrorismo
Roma fece la parte dell'arraffatutto. A Milano avevano ordinato l'arresto di
Franco Piperno. A Roma fecero altrettanto, contestando però un reato più grave,
il delitto Moro. Fra mille polemiche, l'inchiesta passò a Roma, ma le accuse
vennero subito smontate. Ci fu un tempo in cui i Procuratori della capitale
lasciavano il loro ufficio con un marchio indelebile. A Giovanni De Matteo è
rimasta la brutta fama di aver favorito i fratelli Caltagirone, palazzinari
legati ad Andreotti. Il suo successore, Achille Gallucci, è passato alla storia
per il caso dei cappuccini. A suo avviso, ne bevevano troppi al Consiglio
superiore della magistratura, un segno di spreco, che Gallucci bollò come
peculato. I maligni dissero che lo scopo di Gallucci era solo quello di far
cadere il Csm. E tutte le forze politiche ammisero che si trattava di uno
scontro a carattere istituzionale. Un'operazione oscura, mentre divampava lo
scandalo P2. Gallucci è stato forse il più chiacchierato Procuratore. Non c'è
caso scottante, non c'è scandalo politico-finanziario che non sia passato per le
mani di Gallucci, dai fondi neri Montedison, all'Italcasse, alla Sir, alla Rosa
dei Venti, alle banche, al caso Calvi. Tutti gli episodi più infelici e sinistri
della nostra storia recente.
Mafia Capitale, parlano 2
sbirri: “Nel 2003 avevamo scoperto tutto ma siamo stati bloccati.” Da chi?Si chiede
Infiltrato.it.Ieri sera, 4 dicembre 2014, ad Anno Uno, è andato in onda una clamorosa
video-denuncia, in cui 2 ex poliziotti della Mobile di Roma ha raccontato la
loro assurda vicenda: “Nel 2003 avevamo già scoperto e denunciato Mafia
Capitale. Ma siamo stati bloccati.” Da chi?, chiede il cronista. Ecco la
risposta, che lascia a bocca aperta.
Stefano Bianchi ha incontrato ad Ostia Gaetano Pascale e Piero Fierro, ex
poliziotti della squadra mobile di Roma. I due agenti già lo scorso anno
avevano rivelato al cronista de
ilfattoquotidiano.it Luca Teolato gli insabbiamenti delle inchieste da
loro condotte. Nel 2003 Pascale aveva messo le mani sulla mafia di Ostia, prima
che lo facesse l’inchiesta “Nuova Alba”. Ma è stato fermato da qualcuno. “Questa
cosa ha favorito i narcotrafficanti” – dichiara Fierro – “La prendo con
ironia ma bisognerebbe scappare da ‘sto Paese. Ho fatto un giuramento: essere
fedele alla patria. e da allora ho preso solo calci in faccia”. E rivela: “Nel
2003 eravamo arrivati alle stesse conclusioni del 2013. C’è stato un solo
problema: c’hanno fermato. La mafia e la politica dividono lo stesso territorio:
o si mettono d’accordo o si sparano. Voi avete mai visto un politico sparato a
Roma?”. E aggiunge: “A Roma c’era Pippo Calò. Secondo voi una volta morto
lui hanno tirato giù la saracinesca e scritto ‘chiuso per ferie’. Ho cercato
solo di fare il mio dovere: lo sbirro. Ero pagato per questo. poco, ma per
questo”.
Come raccontava anche Repubblica,
“la parola fine alla mafia di Ostia-Roma poteva essere scritta 10 anni fa.
Perché quei nomi e cognomi eccellenti della malavita, quei traffici di droga e
quei giri di armi, quell'impero economico su cui stavano mettendo le mani i clan
(e che fanno parte anche dell’inchiesta Mondo di Mezzo, ndr),
erano sotto la lente di un pool di investigatori a cui qualcuno
recise le ali. Piero Fierro, agente pluridecorato della polizia di frontiera e
Gaetano Pascale, eccellente investigatore della Narcotici alla Mobile, insieme
ad altri cinque colleghi erano a un passo dalla verità.
Ma qualcuno decise di stroncare la loro carriera, di metterli fuori dai giochi.
E oggi i sette poliziotti sono in pensione, con cause per mobbing ancora aperte
(seguite dall'avvocato Floriana De Donno) e procedimenti penali che li hanno
trascinati da un giorno all'altro nella bufera, archiviati.”
Lo Stato ha fermato, deliberatamente, alcuni dei suoi agenti migliori per
proteggere i mafiosi. E allora le domande che ci poniamo sono: chi li ha
fermati? Chi si voleva proteggere?
Gen. Antonio Pappalardo su
“Agora
Magazine”: «La mafia a Roma e nello Stato».
Nel 1991 ero Comandante del Gruppo Carabinieri Roma 3, con sede in Frascati.
Avevo alle dipendenze circa 1.500 uomini, che dovevano soprattutto vigilare
affinché la camorra napoletana non si infiltrasse dal sud nella capitale. Un
giorno, bello per la giustizia, ma brutto per i politici corrotti, il Capitano
della Compagnia Carabinieri di Ostia mi comunicò, estremamente preoccupato, che
aveva scoperto un vasto giro di corruzione politica, che investiva i massimi
palazzi del potere di Roma. Lo rassicurai: poteva tranquillamente svolgere le
sue indagini, colpendo qualsiasi palazzo del potere. Ci sarei stato io dietro le
sue spalle. Ed il bravo capitano mollò ceffoni a tutti, senza guardare in faccia
a nessuno. La magistratura di Roma, venuta a conoscenza dei fatti, insabbiò
tutto, così meritandosi l’appellativo di porto delle nebbie. Qualche mese dopo
scoppiò Tangentopoli a Milano e quella magistratura – si è scoperto dopo, per un
fine politico, quello di annientare il PSI, che si poneva come ostacolo alla
fusione DC-PCI - avviò un’indagine a tappeto, mandando tutto il sistema politico
della Prima Repubblica all’aria. Si buttarono nel fango l’acqua sporca e il
bambino, favorendo la nascita di nuovi movimenti politici che continuarono,
stavolta indisturbati, a rubare. Ancora di più! Mentre dal 2003 al 2006 ero Capo
di Stato Maggiore della Divisione Unità Specializzate, un ufficiale dei
carabinieri, che non può non essere considerato un fellone, si sfogò dicendo che
il ROS Carabinieri, nato per combattere la mafia e il terrorismo, si stava
occupando troppo della corruzione politica, dando fastidio a parecchi potenti
della Repubblica. Quei potenti, se il ROS non fosse stato frenato, si sarebbero
ricordati al momento opportuno di noi, giungendo persino a proporre
l’eliminazione della stessa Arma dei Carabinieri. Questi cialtroni ci hanno
provato e le voci sull’eliminazione dell’Arma, con l’attribuzione di tutti i
poteri alla Polizia di Stato, con l’assorbimento da parte di essa delle stazioni
carabinieri, si sono moltiplicate. Ma noi nel 2004 mandammo a farsi benedire il
suggeritore malefico mandato dai politici. Oggi, dopo tanti anni di silenzio,
dovuti a diversi fattori, non ultimo quello di aver mantenuto al comando del ROS
un uomo ricattabile, il nostro reparto speciale è esploso mettendo in luce la
grave corruzione politica e mafiosa che pervade Roma e i palazzi del potere.
Dopo tanti anni si è capito che il cancro non è a Milano (là c’era una
metastasi), ma a Roma dove tutti gli intrallazzi nascono e crescono. Bravi i
nostri solerti e incorruttibili investigatori del ROS! Certo, se si fossero
mossi subito a seguito delle indagini della Compagnia di Ostia, questo cancro si
sarebbe scoperto in quegli anni e molti mascalzoni, che sono stati eletti in
Parlamento, oggi sarebbero da anni in galera. Comunque, la colpa non è di loro,
ma di qualcuno, che volendo rimanere attaccato alla poltrona ed occuparne delle
altre, maggiormente prestigiose, gioca come il gatto con il topo, che viene
lasciato libero, ma subito dopo riacciuffato. Il COCER, che dovrebbe vigilare
affinché non si facciano brutti giochi o scherzi all’Arma, non guarda nella
giusta direzione e si occupa di aspetti secondari. Si limita a guardare la
pagliuzza negli occhi di qualche comandante, di mentalità ristretta e ottusa, e
non guarda, invece, nell’occhio di qualcuno, che ha la trave. I Delegati non
sanno che di talune gravi mancanze, da loro non rilevate, saranno un giorno
giudicati, perché solo Dio è eterno. Tutti gli altri, prima o poi, sebbene
protetti dai soliti potenti e prepotenti, passano! Palermo, 3 dicembre 2014.
Gen. Antonio Pappalardo.
La corruzione passa per il
tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un
nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi
aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi
rallenta le udienze. Il Pm di Roma: "Un fenomeno odioso", scrive
Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”.
A Napoli, dove
il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo
conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza
doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di
atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne
chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...»,
rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le
intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha
lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea
sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti
che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se
a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un
magistrato con aragoste e champagne, oggi in
Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami
con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di
Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito
arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori
disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate;
gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e
avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime
si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca
sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a
parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del
giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione
per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si
contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento
interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il
giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”.
A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai
peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha
contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della
verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per
business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire
caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un
segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto
più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia
giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno
dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più
scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia
e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran
bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri
articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare
l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a
un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri
ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le
statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti
penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio,
comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel
2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il
trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono
stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con
quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea
per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un
saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre
che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici,
il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione,
rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i
magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario
ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze
(come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del
giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo
Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la
fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare
un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da
22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era
morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere
l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli
sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli
Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un
avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile
della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un
benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare
della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha
aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto
compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo
ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un
avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa
ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla
Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di
oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da
Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come
l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis,
«dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi
numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore
difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della
Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora
3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a
un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità
delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non
parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come
sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania,
Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e
avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai
soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici
della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul
quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose
montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi...
insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di
selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al
nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici
protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal
magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella
nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi
giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i
contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle
maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a
comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il
gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per
corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il
giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere
intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo
Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha
indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di
Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei
Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in
quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e
faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti.
Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte
dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha
patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i
togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio
Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al
magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire
dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica
amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua
ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di
informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore
giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano
vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano
episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi
fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i
Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è
finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente
Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa
di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a
Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del
Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della
Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche
viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150
mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno
tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara
Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che
mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche
a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare
della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti,
avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario
soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega
Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”.
Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per
cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese.
«Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti
del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei
giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai
cittadini!». Come dargli torto?
Così le coop
hanno riempito Roma di profughi e campi rom.
"Gli immigrati rendono più della droga". Ecco perché, nonostante il tetto di 250
profughi, a Roma ce ne sono più di 2.500, scrive Andrea Indini su “Il
Giornale”.
"Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende
meno".
Massimo Carminati aveva un braccio
destro proveniente dall'estrema sinistra. Ma
Salvatore Buzzi, 59 anni, arrestato con il presunto capo della "Mafia
Capitale", intercettato dai carabinieri diceva candidamente che
"la politica è una cosa, gli affari sò
affari". E lui, condannato in passato per omicidio, si era inventato
prima una cooperativa sociale con ex detenuti, poi aveva creato un piccolo
impero nel settore. Capace di mettere al tavolo - in senso letterale - esponenti
di destra e di sinistra, a lui Carminati aveva chiesto di
"mettersi la minigonna e battere"
per ingraziarsi la nuova giunta Marino. Perché, grazie alla sua cooperativa e al
sodalizio con l'ex vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni,
Luca Odevaine, facevano tutti una "paccata"
di soldi coi fondi per l'accoglienza degli
immigrati e per la gestione dei campi
nomadi.
"Quando la Lega denunciava che c’è gente che si arricchisce grazie alla presenza
di Rom e immigrati eravamo razzisti: adesso che a Roma è venuto fuori, forse
abbiamo ragione noi?".
La denuncia di Matteo Salvini corre su Facebook. E incarna un mal di pancia
tutto romano nei confronti del Campidoglio.
Il bubbone capitolino esplode a pochi giorni dalle proteste e dagli scontri di
Tor Sapienza. Altro che accoglienza, dietro al traffico di immigrati e profughi
ci sarebbe un vero e proprio giro d'affari. Che guarda alle cooperative rosse.
Il link col welfare è proprio Buzzi, il "braccio destro imprenditoriale" del
Nero. Il gip Flavia Costantini nell'ordinanza d’arresto descrive
"il suo ruolo apicale indiscusso, la sua
posizione di primazia nel settore dell’organizzazione volto alla sfera pubblica,
la sua presenza operativa in tutti i numerosissimi reati commessi nel settore".
Lui, signore delle coop, lo dice chiaramente in un’intercettazione allegata
all’ordinanza di circa 1200 pagine: "Il
traffico di droga rende meno". L’affare dei centri di accoglienza per
rifugiati e immigrati è, secondo la
procura di Roma, garantito da Odevaine, descritto nell’ordinanza come
"un signore che attraversa, in senso
verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative
nel settore dell’emergenza immigrati". I fondi per i
centri d’accoglienza sono un piatto
ricco. Gli inquirenti lo chiamano, appunto, "sistema Odevaine".
"La gestione dell’emergenza immigrati è
stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo si è
insinuato con metodo eminentemente corruttivo – si legge nell'ordinanza del gip
Costantini – alterando per un verso i processi decisionali dei decisori
pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle
risorse economiche gestite dalla pubblica amministrazione". Un
sistema studiato per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici che "si
dividono il mercato". La "qualità pubblicistica" di Odevaine sta
tutta nella possibilità di sedere al Tavolo di coordinamento nazionale insediato
al ministero dell’Interno e, al tempo
stesso, di essere uno degli esperti del presidente del Cda per il Consorzio
"Calatino Terra d’Accoglienza", l'ente che soprintende alla gestione del Cara di
Mineo. In una intercettazione è lo stesso Odevaine a spiegare al commercialista
che, "avendo questa relazione continua"
con il Viminale, è "in grado un po’ di
orientare i flussiche arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi…
vengono smistati in giro per l’Italia… se loro c’hanno strutture che possono
essere adibite a centri per l’accoglienza da attivare subito in emergenza… senza
gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere
parecchio lavoro…". Siriani, libici, tunisini e iracheni. Tutti
smistati a Roma, tra Caracolle e Tor Sapienza. I residenti delle banlieue
capitoline lo dicevano che, forse forse, erano un filino troppi. È lo stesso
Odevaine a spiegare il perché: "I posti
Sprar (Sistema di protezione per
richiedenti asiloe rifugiati, ndr)
che si destinano ai comuni in giro per l'Italia fanno riferimento a una tabella
tanti abitanti tanti posti Sprar... per quella norma a Roma toccherebbero 250
posti... che è un assurdo... pochissimo per Roma, no?... allora... una mia... un
mio intervento al ministero ha fatto in modo che... lo Sprar a Roma... fosse
portato a 2.500 per cui si sono presentati per 2.500 posti... di cui loro...
secondo me ce n'hanno almeno un migliaio". Insomma, a Roma erano
destinati 250, ma grazie allo zampino di Odevaine i posti sono lievitati a dieci
volte tanto, in modo che almeno mille venissero "ospitati" nelle case
accoglienza di Buzzi. Per questo "servizio" l'ex vicecapo gabinetto di Veltroni
riceveva un regolare stipendio da 5mila euro. La cupola di Mafia Capitale
specula (e fa affari) con qualsiasi emergenza della Capitale. Dal maltempo ai
protocolli per la prevenzione del rischio, dal servizio giardini del comune alla
raccolta differenziata. Ma, soprattutto, con i fondi per la costruzione e la
gestione dei campi nomadi. Gli inquirenti hanno, infatti, messo a nudo la
capacità di interferire nelle decisioni dell’Assemblea Capitolina in occasione
della programmazione dei bilanci pluriennale in modo da
"ottenere l’assegnazione di fondi pubblici"
per rifinanziare i campi nomadi, la pulizia delle aree verdi e il progetto
"Minori per l’emergenza Nord Africa". Tutti settori in cui operano le società
cooperative di Buzzi. "Noi quest'anno
abbiamo chiuso... con quaranta milioni di fatturato - spiega lo stesso Buzzi -
ma tutti i soldi... gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull'emergenza
alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero".
Inchieste e scandali,
quante ombre sulle cooperative rosse, scrive Alessandro
Genovesi su “Ibsnews”.
Dentro gli scandali degli ultimi tempi, su tutti l'EXPO, un ruolo nient'affatto
marginale è stato giocato dalle cosiddette
cooperative rosse. Si guardi, tanto per non fare nomi, al gigante Manutencoop
Facility Management e al suo presidente
Claudio Levorato, iscritto nel
registro degli indagati per concorso in turbativa d'asta e utilizzazione di
segreti d'ufficio. Per il manager di Manutencoop i PM della procura della
Repubblica di Milano avevano addirittura chiesto anche l'applicazione di misure
cautelari. Tuttavia il giudice per le indagini preliminari ha rigettato la
richiesta, ritenendo che nei confronti di Levorato non sussistessero le esigenze
cautelari richieste dal codice di procedura penale. Un'ombra piuttosto
imbarazzante per il mondo delle coop, da sempre legato a doppio filo alla
sinistra, in tutte le sue diverse declinazioni (PCI-PDS-PD). Vedasi, ad esempio,
il caso di Giuliano
Poletti, ministro del Lavoro del governo Renzi dopo essere stato per anni
Presidente di Legacoop. Ma gli intrecci delle
cooperative vanno al di là della politica. Sentite, a tal proposito, cosa ha
detto la segretaria CGIL, Susanna Camusso, in
occasione del congresso di Rimini del mese scorso: "Sappiamo bene che
veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando
non si riesce a dare risposta al tema della
falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i
contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera
della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci
lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia
nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene". Parole dure e
inconsuete, se si pensa al triangolo PCI-COOP-CGIL che per decenni ha costituito
un inscalfibile centro di potere e di interesse. Parole, ci permettiamo di
osservare, anche tardive: da molti anni oramai le cooperative si comportano alla
stessa maniera delle aziende di tipo "capitalista", vale a dire mettendo, nella
scala delle priorità, molto avanti i profitti e molto indietro i diritti dei
lavoratori-soci. Quando va bene. Perché quando va male, ad essere aggirate
sono le norme del codice penale. Oltre al caso Manutencoop, ancora
tutto da dimostrare, sono in corse altre indagini che coinvolgono altri colossi
del mondo cooperativo. Si pensi alla CMC,
società con sede a Ravenna che si occupa di costruzioni, finita agli onori della
cronaca per il caso del "porto fantasma" di Molfetta, cantiere aperto -
secondo l'ipotesi accusatoria della procura di Trani - per incassare i
contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi.
La CMC, per non farsi mancare nulla, è implicata anche nell'inchiesta sulla
bonifica dell'area Rho-Pero, che fa parte dell'operazione Expo, con l'accusa a
un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non
ostacolasse il lavoro della cooperativa.
Anche altri due giganti del mattone come
Coopsette e Unieco sono finiti nell'occhio del ciclone l'anno scorso
quando, in occasione dell'arresto del Presidente della regione Umbria Maria Rita
Lorenzetti, i magistrati hanno ipotizzato
l'esistenza di un'associazione a delinquere finalizzata proprio a finanziare
indirettamente le due cooperative, entrambe in odore di fallimento.
Insomma, altro che solidarietà e tutela del lavoro. Le COOP sono ormai
perfettamente integrate nel capitalismo all'italiana, dove la spintarella,
l'aiutino e la mazzetta la fanno da padrone, alla faccia dei "sacri" valori del
libero mercato.
Coop rosse di vergogna tra
inchieste e lotte sindacali. Ora nel mirino della Cgil, scriveGiorgio Meletti su
Il Fatto Quotidiano di mercoledì 14 maggio 2014.
L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando.
Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento
nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non
sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario
generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma
proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al
tema della falsa cooperazione". Altro che magistrati. L’attacco più duro alle
coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil,
Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini,
il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle
cooperative parole al vetriolo:
“Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci
indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa
cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i
contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera
della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci
lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia
nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”. I fendenti di
Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del
Lavoro Giuliano Poletti che ha appena
lasciato la presidenza di Legacoop per
farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli
anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati
già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto
sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno
scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e
solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di
conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti –
che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume
più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche
infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese
private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità
morale. Il coinvolgimento del gigante
Manutencoop e del suo presidente
Claudio Levorato nell’inchiesta sulle
tangenti per l’Expo milanese
non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma
l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli
appalti della Asl di Brindisi, per il
quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è
uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop,
Mauro De Feudis è finito ai
domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del
Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale
rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la
problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal
consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro
l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”. Il
gigante delle costruzioni Cmc di
Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio
dell’alta velocità in Val di Susa, è
all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere
aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i
contributi pubblici poi stornati verso
altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro
e il faccendiere Sergio Cattozzo,
intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo,
mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta,
non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello
Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno
utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta
sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con
l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere
perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa.
C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul
tunnel dell’alta velocità di Firenze,
per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs)
Maria Rita Lorenzetti, ex presidente
della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione
a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in
difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e
determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni
possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia
favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di
cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno
delle casse dello Stato”. In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del
mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato
preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi.
Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le
imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso
che gli affari non vanno per niente bene. Storia antica anche qui. L’idea che
esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della
sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è
scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al
tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora
imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per
tutti”. Già il pool Mani pulite,
indagando su Tangentopoli, scoprì con
una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e
quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde
impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata
da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile
Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente
all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare
la scalata alla Fonsai da parte
dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore
Mauro Lusetti, si limitano a
minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole
imprese cooperative. Non sorprende quindi che il risultato della
“balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole
coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop
Lanfranco Turci, poco prima di essere
fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di
Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop
Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier
Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop
Adriatica. Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è
ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come
datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso
Marco Palombi ha raccolto un
florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente
abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il
sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu
trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.
"Mafia Capitale".
"A Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono
diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo
chiamato Mafia Capitale, romana e originale, senza legami con altre
organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso", ha anche detto
Pignatone in conferenza stampa il 2 dicembre 2014. "Ci sono approfondimenti in
corso sul personale di forze dell'ordine ma l'operazione non si chiude oggi: la
posizione di alcuni è al vaglio per favoreggiamento".
Non è più vero che il crimine
non paga; rende, eccome. Perfino ai magistrati. Dopo le mazzette a giudici
romani.
A volte
ritornano anche i titoli dei giornali. Quello, celebre, dell’Espresso
suonava così: “Capitale corrotta=nazione infetta”. Era il 1956, ma sembra ieri,
nel senso proprio di ieri, se si guarda all’inchiesta esplosiva che a Roma ha
appena portato in carcere 37 persone, indagandone altre cento per una serie di
reati gravissimi, a partire dall’associazione mafiosa. Un intreccio tra affari,
politica e delinquenza che sembra evocare anche un altro e più recente titolo di
film e di puntate televisive tratte dal libro “Romanzo criminale”.
Cinquantotto anni fa l’inchiesta a puntate dell’Espresso
a firma Manlio Cancogni, denunciò con
questo titolo, diventato famoso, la corruzione e la speculazione edilizia che
strangolavano Roma. Oggi la situazione è molto peggiorata e Roma continua ad
essere la vetrina di un’Italia ormai preda delle mafie, della corruzione
politica e dello sfacelo ambientale.
“Capitale corrotta, Nazione infetta” è il titolo della celebre inchiesta de
L’Espresso del 1955, a firma di Mario Cancogni, sulla speculazione edilizia di
Roma; un titolo riproposto diverse volte in occasione di scandali con
conseguente indignazione popolare, come fu per Tangentopoli e come è stato negli
ultimi mesi in occasione delle inchieste sugli appalti o sul finanziamento
pubblico dei partiti. E’ un titolo che ci ricorda come in sessant’anni di vita
democratica del nostro Paese alcuni vizi del potere non siano mai tramontati,
seppur con declinazioni diverse a seconda delle circostanze e dei periodi
storici.
"A Roma mi sento come nella
mia Palermo" dice Maurizio Crozza truccato da Padrino nella copertina di "diMartedì"
del 2 dicembre 2014 su La7. "I carabinieri hanno voluto fare un omaggio a
Michelangelo: rinvio a giudizio universale, dall'affresco a tutti al fresco".
"Ci sono i vivi sopra e i
morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di
mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un
politico...", così Massimo Carminati nell'intercettazione di una conversazione
tra lui e il suo braccio destro Brugia. "Carminati ha creato sinergie illecite
con mondi diversissimi tra di loro - spiega il procuratore capo di Roma Giuseppe
Pignatone nel corso della conferenza stampa - La teoria del mondo di mezzo è un
mondo in cui tutti si incontrano indipendentemente dal proprio ceto. Un mondo in
cui tutto si mischia. Carminati parla con il mondo di sopra (ossia la politica e
gli imprenditori) e con quello di sotto, ossia quello criminale. E' al servizio
del primo avvalendosi del secondo soprattutto per il suo vantaggio".
"Il dieci mattina mi paghi
te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il
dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così
un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros.
Un approfondimento a 360
affinchè si superi quel vizio italiano per il quale, per partito preso, si
considera criminale solo la parte avversa.
Mafia e politica a Roma,
Buzzi: "C'ho quattro cavalli che corrono col Pd e tre col Pdl",
scrive di Rita Cavallaro su “Libero
Quotidiano”. Mafia Capitale, alla fine, è venuta alla
luce. Ci sono voluti due anni d’indagini dei carabinieri del Ros, che hanno
effettuato pedinamenti e intercettazioni. Giorno dopo giorno le «gesta» del
gruppo dell’ex Nar Massimo Carminati sono finite sulle 1.249 pagine di ordinanza
che hanno fatto scattare i 37 arresti di ieri e un centinaio di avvisi di
garanzia. Nel faldone c’è di tutto: l’estrema destra eversiva che ha
terrorizzato Roma negli anni ’70, ma anche insospettabili manager e politici
locali. Che parlano, al telefono e in strada. Sicuri di non essere ascoltati e
di poter controllare affari e appalti in barba alle regole della gestione
pubblica. Le intercettazioni descrivono la cupola nera. E danno addirittura il
nome all’operazione dei carabinieri. «Mondo di mezzo» nasce infatti dalle parole
di Carminati, che in gergo spiega l’intreccio tra Mafia Capitale e
amministratori. È l’11 gennaio 2013 e l’ultimo Re di Roma descrive con una
metafora al suo braccio destro, Riccardo Brugia, i rapporti con i politici. «È
la teoria del mondo di mezzo compà...ci stanno...come si dice...i vivi sopra e i
morti sotto e noi stiamo nel mezzo. Ci sta un mondo...un mondo in mezzo in cui
tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello...il mondo di mezzo
è quello invece dove tutto si incontra...cioè...hai capito?...si incontrano
tutti là...ma non per una questione di ceto...per una questione di merito,
no?...allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che
qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno».
Carminati si sente il padrone della città: «È il re di Roma che viene qua, io
entro dalla porta principale». Lo dice chiaramente a un interlocutore davanti a
un bar a Vigna Stelluti: «Nella strada tanto comandiamo sempre noi, nella strada
tu c’avrai sempre bisogno». Non solo nella strada, anche nei palazzi, tanto che
il «cecato» si prende la libertà di lamentarsi dell’ad di Eur Spa, Riccardo
Mancini, chiamato «il sottoposto». «Vede io che gli combino...a me non mi
rompesse il cazzo...a me me chiudesse subito la pratica là», dice a un sodale.
In un’altra intercettazione diceva «passo le ’stecche» (la sua parte, a Mancini,
ndr) per i lavori che fa, però l’altro giorno gli ho menato». Nelle carte ci
sono pure le preoccupazioni dell’organizzazione criminale sulla probabile
vittoria di Ignazio Marino al Campidoglio. Secondo gli inquirenti Salvatore
Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Carminati, «pone in essere
l’avvicinamento dei decisori pubblici, sia con la vecchia che con la nuova
amministrazione, in funzione degli interessi del sodalizio». E infatti, con
l’avvento della nuova giunta, Buzzi entra in azione. «Eloquente esempio», per i
magistrati, è l’attività di Buzzi che, «secondo l’indicazione strategica di
Carminati di “mettere la minigonna e andare a battere con la nuova
amministrazione”, nell'immediatezza del cambio di maggioranza politica al comune
di Roma» cerca «con Coratti, presidente dell’assemblea Comunale di Roma
Capitale» di intessere rapporti. A tal proposito a pagina 138 si citano Mirko
Coratti e Franco Figurelli, suo capo segreteria, i quali, venivano interessati
da Salvatore Buzzi affinché si occupassero di aggiudicarsi una gara d’appalto
all’Ama, l’azienda dei rifiuti, di sbloccare i pagamenti sui servizi sociali
forniti al Comune di Roma e di pilotare la nomina di un nuovo direttore del V
Dipartimento. «Oh, me so’ comprato Coratti», dice Buzzi, che racconta anche come
Figurelli veniva retribuito con 1.000 euro mensili, oltre a 10.000 euro pagati
per poter incontrare il Presidente Coratti, mentre a quest’ultimo venivano
promessi 150.000 euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3
milioni sul sociale. Sempre Buzzi parla con un’amica degli affari fatti con la
gestione delle cooperative di immigrati. Dice la donna: «Perchè su Tivoli non è
che un cantiere che ti guadagna miliardi». Lui: «Apposta tu c’hai idea quanto ce
guadagno sugli immigrati? Eh. Il traffico di droga rende di meno». Con un
imprenditore, infine, Buzzi, spiega come funziona il sistema: «Tu li voti, vedi,
i nostri sono molto meno ladri di...di quelli della Pdl». E poi aggiunge più
avanti nella conversazione: «Ma lo sai agli altri soldi che gli do’ Giova’? Ma
tu lo sai perché io c’ho lo stipendio, non c’hai idea di quante ce n’ho... non
ce li hanno… pago tutti pago...Anche due cene con il sindaco
settantacinquemilaeuro ti sembrano pochi? Oh so centocinquanta milioni eh. I
miei ti posso assicura’ che non li pago». «Mo’ c’ho 4 cavalli che corrono col Pd
e 3 col Pdl».
Roma tra
mafia, sangue e giochi di potere nel libro "Grande raccordo criminale".Nell'inchiesta di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti
(Imprimatur), le connivenze e la violenza che stringono da tempo la Capitale e
che oggi sono culminati con gli arresti di Massimo Carminati e altre cento
persone. Eccone alcuni stralci, scrive “L’Espresso”.
«E’ la terra di mezzo, i vivi sopra e i morti sotto, noi siamo nel mezzo, un
mondo in cui tutti si incontrano, perché anche il sovramondo ha interesse che
qualcuno del mondo di sotto faccia qualcosa nel suo interesse». Massimo
Carminati, arrestato oggi con l’accusa di essere a capo della mafia Capitale,
descrive così la terra di mezzo, quella in cui la criminalità e il potere si
incontrano per fare affari. Quella in cui la corruzione lascia il posto alla
violenza solo quando è necessario ribadire chi comanda. E’ Carminati per gli
inquirenti a scegliere i dirigenti dell’Ama, l’azienda dei rifiuti di Roma, e
persino il presidente della Commissione Trasparenza in Campidoglio ai tempi del
sindaco Gianni Alemanno, oggi indagato per il reato di 416 bis, ossia
l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Ed è sempre lui a tenere legami
con l’ex vice capo di gabinetto della giunta Veltroni, Luca Odevaine, accusato
di aver orientato le scelte sui flussi di migranti verso le strutture
cooperative in mano a Carminati. Quella di Carminati è una figura di primo piano
nella malavita romana. Il suo arresto mina alle fondamenta il crimine della
Capitale. Grande raccordo criminale di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti,
edito da Imprimatur, è un'inchiesta che svela le connivenze, il sangue e la
violenza che stringono da tempo la Capitale, ricostruendone i rapporti mafiosi e
gli intrecci di potere che oggi sono emersi con l’operazione ‘Mondo di mezzo’.
Ne riportiamo alcuni stralci. “«Non ama farsi vedere, tanto meno parlare. Si
spiega più con i gesti. Ogni passo è una frustata, ogni movimento una scarica
elettrica. Una forza gelida e oscura che ti inchioda a terra e non ti fa alzare
lo sguardo». Una vita all’apparenza ordinaria: nessun lusso, nessuna
ostentazione, nessuna retorica. «Niente inflessioni dialettali, niente eccessi.
Sempre misurato e cortese». Si muove come un’ombra, raccontano. Massimo
Carminati, un’ombra che fa tremare. A lui la Roma criminale si rivolgerebbe per
le primizie, per avere un’intercessione negli affari che contano. Il suo nome si
sussurra. Ed è già troppo farlo. In tanti gli tributano deferenza e rispetto.
Tutti ne hanno paura. Non eserciterebbe il potere direttamente, preferirebbe
valutare, mediare, e solo dopo decidere. Ma se qualcuno dei suoi è toccato,
saprebbe come agire. Non ha amici, solo camerati. La fratellanza politica per
lui sarebbe il valore più importante. E quei camerati, come li difendeva allora
fisicamente, sembra sia pronto a difenderli anche ora. Sono pochi però, quelli
fidati. In nome di quel senso di appartenenza a un gruppo ristretto e a un
ideale che dalla gioventù ha portato con sé nell’età adulta. Appartenenza e
coraggio. Pochi valori, infrangibili, che non si discutono mai. Carminati, il
nero. È stato un terrorista dei Nar e accusato di essere killer al servizio
della banda della Magliana. Anello di congiunzione tra la criminalità romana ed
i gruppi eversivi di estrema destra. Al centro dei misteri più controversi della
Repubblica Italiana, processato per rapine e omicidi, ne è uscito quasi sempre
indenne. «Uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a
sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura».
Valerio Fioravanti l’ha descritto così. La violenza, un signum distinctionis.”
“Potere che pare esplodere quando Gianni Alemanno varca la soglia del
Campidoglio. Chi trent’anni fa ha condiviso la militanza nell’estremismo di
destra sembra sappia di non potergli dire di no. Una famiglia con un legame più
forte della parentela. Il vincolo della militanza politica, degli ideali, delle
battaglie condivise, e anche dei segreti da custodire.” Gianni Alemanno oggi
indagato per 416 bis. ( …) “Una corte di fedelissimi, tra cui molti ex di quella
stagione di piombo, stretti ad Alemanno. Una corte di cui Carminati pare conosca
ogni segreto. Le sue frequentazioni di Carminati del resto possono arrivare
ovunque, lui vanterebbe sempre ottima accoglienza, da Gennaro Mokbel, prodotto
glocal di una Roma oscura, a Lorenzo Cola, superconsulente di Finmeccanica,
negoziatore di accordi da miliardi di euro, in rapporto con agenti segreti di
tutti i continenti.”
Roma, le mani della mafia
nera sulla città. L'operazione "Terra di mezzo" svela l'alleanza fra la
politica, l'eversione neofascista e la criminalità comune per gestire gli affari
sporchi, scrive “Panorama”.
Un'alleanza di ferro fra mafia, politica, frammenti dell'estrema destra eversiva
e la criminalità comune. L'ha rivelata l'operazione "Terra di mezzo", condotta
ieri dai Ros e guidata dalla Procura di Roma, che ha portato all'arresto di 37
persone e ha coinvolto fra gli indagati anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, che
dice: sono estraneo alla faccenda e lo dimostrerò. Obiettivo dell'offensiva la
una cupola nera che ha gestito gli affari romani per anni pilotando appalti,
riciclando denaro che scotta, alleandosi con i clan emergenti del litorale
capitolino, con boss in odore di camorra come Michele Senese e con politici e
burocrati spregiudicati e corrotti. Un'inchiesta che è solo all'inizio ed è
destinata a segnare la storia della capitale. Roma appare così come una Capitale
della Mafia dove ogni affare veniva gestito dal malaffare. Dove quei personaggi
finiti nei libri e nei film, come il "Nero" Massimo Carminati, ex Nar accusato
di legami con la Banda della Magliana, in realtà erano attivissimi e
contemporanei. L'organizzazione, dicono gli inquirenti, aveva modus operandi e
radicamento propri della mafia. Col valore aggiunto criminale di un filo
nerissimo che lega molti dei personaggi principali, con trascorsi nell'eversione
di destra. Massimo Carminati è dunque il protagonista, guida
l'organizzazione, usando minacce e violenza, e manovra il potente di turno,
l'imprenditore, il professionista e il manager di Stato. Carminati di fatto
gestiva un ecosistema versatile: dagli appalti all'estorsione, dall'usura al
recupero crediti. Aveva contatti con manager, politici e col crimine di ogni
specie: da Michele Senese, boss in odore di Camorra, alla "batteria" di Ponte
Milvio che controlla i locali della movida romana, dalla potente famiglia nomade
romana dei Casamonica alla spiccia criminalità di strada. L'organizzazione,
secondo l'accusa, ha potuto contare anche su figure di vertice
dell'amministrazione capitolina dal 2008 al 2013. Per i magistrati guidati da
Giuseppe Pignatone il clan era arrivato anche all'ex sindaco Gianni Alemanno,
indagato per associazione a delinquere, e ai suoi uomini. In manette,
nell'operazione congiunta di Ros e Guardia di Finanza, sono finiti infatti l'ex
amministratore dell'Ente Eur, Riccardo Mancini (da sempre braccio destro di
Alemanno) e quello dell'Ama, Franco Panzironi. I due erano "pubblici ufficiali a
libro paga" che fornivano "all'organizzazione uno stabile contributo per
l'aggiudicazione degli appalti". I due manager si sono adoperati anche per "lo
sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e
come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale". Di
fatto quello presieduto da Carminati è a tutti gli effetti un comitato d'affari
che copriva tutti i settori produttivi della Capitale compreso il business
dell'accoglienza degli immigrati e quello dei campi nomadi. Tra gli arrestati
c'e' anche Luca Odevaine, già capo di gabinetto nel 2006 dell'allora sindaco di
Valter Veltroni, che nella sua qualità di appartenente al Tavolo di
Coordinamento Nazionale sull'accoglienza per i richiedenti e titolari di
protezione internazionale ha orientato, in cambio di uno "stipendio" mensile di
5 mila euro garantito dal clan, le scelte del tavolo per l'assegnazione dei
flussi di immigrati alle strutture gestite da uomini dell'organizzazione. Tra
gli indagati anche tre esponenti di punta dell'attuale amministrazione
capitolina: l'assessore alla casa Daniele Ozzimo e il presidente dell'assemblea
capitolina Mirco Coratti, entrambi del Pd, che si sono gia' dimessi pur
dichiarandosi "estranei". Indagato anche il responsabile della Direzione
Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano, che domani sarà rimosso dal
suo incarico. Oltre a Massimo Carminati, tra le carte si incontrano altre
conoscenze tra eversione nera e crimine. Gennaro Mokbel, ex militante nella
gioventù nera romana e Marco Iannilli, commercialista, già coinvolti nella maxi
truffa di 2,2 milioni di euro Fastweb-Telecom Italia Sparkle. Il fedele del
sindaco Alemanno, anche lui indagato per associazione di stampo mafioso,
Riccardo Mancini, ex ad di Ente Eur, già coinvolto nell'inchiesta su una
presunta tangente per la fornitura di bus per il corridoio Laurentina a Roma. E
poi Franco Panzironi, ex ad di Ama, coinvolto nell'ormai famosa Parentopoli
della municipalizzata romana. E nell'ordinanza spunta pure il nome di Lorenzo
Alibrandi, fratello dell'ex Nar Alessandro, morto nel 1981 in un conflitto a
fuoco. Prima di approdare nella maxi inchiesta, gli intrecci pericolosi tra clan
emergenti, politica e affari tutti romani erano emersi di recente soprattutto
dalle indagini su un delitto "per caso", ovvero l'omicidio di Silvio Fanella,
custode di un vero e proprio tesoro per conto della galassia nera romana.
Fanella era il cassiere di Mokbel: un commando nel luglio scorso lo voleva
prelevare dalla sua abitazione romana ma qualcosa andò storto e il tentativo di
sequestro finì con la morte di Fanella. A capo del commando c'era un ex
componente dei Nar, Egidio Giuliani. Un nome non indifferente tra gli addetti ai
lavori. Ex compagno di cella del killer Pierluigi Concutelli, (condannato
all'ergastolo per l'omicidio del giudice Vittorio Occorsio) e accusato di voler
ricostruire gruppi eversivi di destra negli anni '90, Giuliani avrebbe avuto in
passato collegamenti anche con la banda della Magliana. E nel gruppo di fuoco
anche un ex di Casapound, Giovanni Battista Ceniti. Dopo l'omicidio Fanella fu
ritrovato anche il tesoro: 34 sacchetti con diamanti purissimi che si sono
lasciati alle spalle anche una scia di sangue fatta di omicidi e ferimenti. I
diamanti, uno dei beni di lusso favoriti dal gruppo "nero" di Mokbel - secondo i
magistrati - per riciclare i fiumi di denaro frutto di truffe e malaffare.
Mafia, arrestato il re di
Roma Massimo Carminati. Indagato Gianni Alemanno. Una holding criminale che
spaziava dalla corruzione all'estorsione, dall'usura al riciclaggio, con
infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. E'
ciò che emerge dall'inchiesta della procura di Roma che ha portato all'arresto
di 28 persone. Indagini sull'ex sindaco e altri politici capitolini, scrive
Lirio Abbate su “L’Espresso”.
L'arresto di Carminati Il “re di Roma” Massimo Carminati è stato arrestato
nell'ambito di una grande operazione per associazione mafiosa ordinata dai pm
della Procura di Roma ed eseguita dai carabinieri del Ros. Una holding criminale
che spaziava dalla corruzione, per aggiudicarsi appalti, all'estorsione,
all'usura e al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto
imprenditoriale politico e istituzionale. Un'organizzazione radicata a Roma con
a capo Massimo Carminati. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss
che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti
di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici. In
cella sono finite 28 persone, ma in totale nell'inchiesta coordinata dal
procuratore capo Giuseppe Pignatone, dall'aggiunto Michele Prestipino e dai
sostituti Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, sono indagate 37
persone, fra queste anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, accusato di reati
collegati alla mafia. Indagati politici di destra e sinistra. E beni per un
valore complessivo di 200 milioni di euro sono stati sequestrati agli indagati,
in particolare a Carminati, che è risultato di fatto proprietario di immobili e
attività commerciali intestati a prestanome. Il momento dell'arresto dell'ex
terrorista dei Nar nella maxi operazione a Roma per associazione di stampo
mafioso. Tra i 37 finiti in manette anche l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo
Mancini, l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi e Luca Odevaine, a capo della
polizia provinciale. I magistrati hanno disposto decine di perquisizioni, in
particolare negli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio. I carabinieri
del Ros stanno acquisendo documenti presso gli uffici della Presidenza
dell'Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio.
Perquisizioni negli uffici del consigliere regionale Pd Eugenio Patanè e di
quello Pdl Luca Gramazio, e in Comune negli uffici del presidente dell'Assemblea
capitolina Mirko Coratti, il quale in serata si è dimesso dall'incarico,
dichiarandosi, tuttavia, «totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore
dalle indagini». È un'indagine che non ha precedenti nella storia giudiziaria
della Capitale, da cui emerge che Roma non è una città, ma un intreccio di
traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera.
Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la
metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti
di destra di due generazioni, con la complicità di uomini della sinistra. Al
vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare
con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada.
Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager
nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo
nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la
componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli
permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere
bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal
Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a
Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema
criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche
tanto piombo. Per il procuratore Giuseppe Pignatone «a Roma non c'è un'unica
organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni
mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato “mafia Capitale”,
romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui
però usa il metodo mafioso». L'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, e l'ex
amministratore di Ama, Franco Panzironi, arrestati entrambi, rappresentano per i
pm «pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno
stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti». I due manager si
adoperavano anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese
riconducibili all'associazione e tra il 2008 e il 2013 come garanti dei rapporti
dell'associazione con l'amministrazione comunale». Per quanto riguarda un altro
manager, Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte
dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordinando le
attività corruttive dell'associazione e occupandosi della nomina di persone
gradite al sodalizio in posti chiavi della pubblica amministrazione». Fra i
cento indagati c'è anche il nome dell'uomo d'affari Gennaro Mokbel, accusato di
tentata estorsione, avrebbe preteso dal commercialista Marco Iannilli la
restituzione di circa 7-8 milioni di euro che gli aveva messo a disposizione
perchè fosse investita nell'operazione Digint. Secondo i pm Mokbel già
condannato a 15 anni di carcere per la truffa ai danni delle compagnie
telefoniche Tis e Fastweb, ha desistito dopo l'intervento di Massimo Carminati
che ha operato in difesa di Iannilli. «Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene
nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati
stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente
operativo». Lo ha detto il procuratore aggiunto di Michele Prestipino
descrivendo «l'incessante attività di lobbying» dell'organizzazione criminale
individuata «per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi».
Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione
Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove
risiede Massimo Carminati - di un uomo fidato poi eletto. Uomini delle forze
dell'ordine sono iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento al
clan di Carminati. I pm stanno vagliando la loro posizione per comprendere il
ruolo che hanno avuto nell'organizzazione di “mafia Capitale”. Appalti per
decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato
il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di
migliaia di euro. È il “patto corruttivo-collusivo” descritto dal procuratore
aggiunto Michele Prestipino. «In cambio di appalti a imprese amiche venivano
pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di
migliaia di euro in un solo colpo». Tra gli appalti pubblici Prestipino ha
citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di
Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama,
municipalizzata romana dei rifiuti, per altri cinque milioni di euro sono in
corso approfondimenti d'indagine. «L'organizzazione scoperta a Roma affonda le
sue radici nella criminalità organizzata degli anni Ottanta, ma ha saputo
riciclarsi con una duttilità sorprendente». Lo ha spiegato il comandante dei
carabinieri del Ros, generale Mario Parente. «Un'evoluzione del sodalizio che
però rimane sempre ancorato alle sue radici, ovvero quelle criminali».
Mafia a Roma, 37 arresti
per appalti del Comune. Indagato Alemanno. Pignatone: "Gli uomini dell'ex
sindaco nell'organizzazione". In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente
Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Un centinaio gli
indagati, tra cui l'assessore alla Casa, Daniele Ozzimo e Mirko Coratti,
presidente dell'Assemblea capitolina, entrambi si sono dichiarati "estranei ai
fatti" e si sono dimessi. Coinvolto anche Politano, responsabile della direzione
Trasparenza e Anticorruzione del Comune di Roma. Perquisizioni alla Pisana e in
altre amministrazioni della Capitale. Sequestri per 200 milioni della Guardia di
finanza. L'indagine ribattezzata "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei
rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi, scrivono Federica Angeli,
Valeria Forgnone e Viola Giannoli su “La
Repubblica”. Massimo Carminati Maxi
operazione a Roma per "associazione di stampo mafioso" con
37 arresti, di cui 8 ai domiciliari, e
sequestri di beni per 200 milioni. Un "ramificato sistema corruttivo" in vista
dell'assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle
aziende municipalizzate con interessi, in particolare, anche nella gestione dei
rifiuti, dei centri di accoglienza per gli stranieri e campi nomadi e nella
manutenzione del verde pubblico: è quanto emerso dalle indagini del Ros che
hanno portato alle misure restrittive e ai sequestri da parte del Gico della
Finanza. Le accuse vanno dall'associazione di tipo mafioso, estorsione, usura,
corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di
valori, riciclaggio e altri reati. "Con questa operazione abbiamo risposto alla
domanda se la mafia è a Roma - ha spiegato il procuratore capo di Roma, Giuseppe
Pignatone, nel corso della conferenza stampa dopo la maxi-operazione - Nella
capitale non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città ma ce ne
sono diverse. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato 'Mafia
Capitale', romana e originale, senza legami con altre organizzazioni
meridionali, di cui però usa il metodo mafioso". Nello specifico, ha riferito
Pignatone, "alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno
titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione. Con
la nuova amministrazione il rapporto è cambiato ma
Massimo Carminati e
Salvatore Buzzi (presidente della
cooperativa 29 giugno arrestato oggi) erano tranquilli chiunque vincesse le
elezioni". Gli arresti. A capo
dell'organizzazione mafiosa l'ex terrorista dei
Nar, Massimo Carminati che, secondo gli investigatori, ''impartiva le
direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni
riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni
criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con
appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti''. L'organizzazione di
Carminati è trasversale. Ne è convinto il procuratore capo di Roma Giuseppe
Pignatone che sull'argomento ha precisato: "Con la nuova consiliatura qualcosa è
cambiato, in una conversazione Buzzi e Carminati prima delle elezioni dicevano
di essere tranquilli". Carminati diceva a Buzzi, ha spiegato Pignatone: "Noi
dobbiamo vendere il prodotto, amico mio, bisogna vendersi come le puttane" e di
fronte alle difficoltà presentate da Buzzi, Carminati aggiungeva: "Allora
mettiti la minigonna e vai a battere con questi".
Gianni Alemanno, ex sindaco di
Roma dal 2008 al 2013. Ancora da verificare il ruolo che ha avuto nell'ingresso
dell'associazione criminale e delle sue aziende di riferimento all'interno degli
appalti più importanti assegnati dal Campidoglio.In mattinata è stata perquisita
la sua casa nel quartiere Camilluccia a Roma.
Massimo Carminati, da molti
considerato il vero capo della criminalità romana. Conosciuto da molti come il
"Nero" del libro "Romanzo Criminale", è finito nelle pagine più oscure della
storia italiana, dalla strage alla stazione di Bologna fino all'omicidio
Pecorelli, processi da cui è uscito assolto.
Franco Panzironi, già indagato
per la Parentopoli Ama, ora sarebbe un altro dei personaggi chiave
dell'associazione criminale. Il suo ruolo sarebbe stato quello di ponte con
l'Ama e con tutti gli appalti assegnati dall'azienda romana dei rifiuti.
Panzironi ha legato la sua storia recente a Gianni Alemanno. E' accusato di
associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e turbativa d'asta.
Riccardo Mancini è un altro
nome chiave della vicenda. Da sempre legato all'estrema destra romana e in
particolare a quella dell'Eur. Ha guidato l'Ente Eur ed è già sotto inchiesta
per la tangente pagata da una società legata al Gruppo Finmeccanica per i
filobus della Laurentina. E' accusato di associazione di tipo mafioso.
In carcere è finito anche Luca
Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore
extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma.
L'accusa parla di corruzione aggravata.
Giovanni Fiscon, attuale
direttore generale dell'Ama: è stato arrestato per corruzione aggravata e
turbativa d'asta.
Daniele Ozzimo, assessore
capitolino alla Casa: è indagato a piede libero per corruzione aggravata. Si è
dimesso dall'incarico: "Pur essendo totalmente estraneo allo spaccato
inquietante che emerge dagli arresti, rimetto il mio mandato per senso di
responsabilità e serietà. Una scelta sofferta perchè sono orgoglioso del lavoro
portato avanti in questi mesi".
Mirko Coratti, presidente
dell'assemblea capitolina: è indagato a piede libero per corruzione aggravata e
illecito finanziamento. Si è immediatamente dimesso dall'ìncarico: "Sono
estraneo, ho piena fiducia nel lavoro della magistratura ma mi dimetto per
correttezza verso la città e l'amministrazione".
Eugenio Patanè, consigliere
regionale del Pd: è indagato a piede libero per turbativa d'asta e illecito
finanziamento.
Antonio Lucarelli, capo
segreteria di Alemanno durante il suo mandato di sindaco: è accusato di
associazione di tipo mafioso.
Luca Gramazio, consigliere
regionale Pdl: è indagato a piede libero per associazione di tipo mafioso,
corruzione aggravata e finanziamento illecito.
Tra gli arrestati anche altri
nomi di spicco come l'ex ad dell'Ente
Eur, Riccardo Mancini e l'ex
presidente di Ama, Franco Panzironi:
per i pm romani "pubblici ufficiali a libro paga che forniscono
all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". E
Luca Odevaine, ex capo di gabinetto
della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e
Protezione civile della Provincia di Roma.Gli indagati. Fra gli
indagati figura l'ex sindaco della città Gianni
Alemanno, la sua abitazione è stata perquisita. "Chi mi conosce sa bene
che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute
a viso aperto e senza indulgenza - ha commentato a caldo l'ex primo cittadino -
Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile
vicenda ne uscirò a testa alta. Sono sicuro che il lavoro della magistratura,
dopo queste fasi iniziali, si concluderà con un pieno proscioglimento nei miei
confronti". "L'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è indagato per il reato di 416
bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso, ma la sua posizione è
ancora da vagliare - ha detto il procuratore capo Pignatone - Sugli indagati
preferiamo non fare alcuna precisazione''. Pignatone ha inoltre aggiunto che
l'inchiesta ''non si chiude oggi'' e che tra gli indagati ci sono anche alcuni
esponenti delle forze dell'ordine che hanno agevolato l'organizzazione guidata
da Massimo Carminati. Non solo. "Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato
con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo
stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo - ha
spiegato il pm di Roma Michele Prestipino parlando dell''incessante attività di
lobbying' dell'organizzazione criminale individuata "per collocare con successo
manager asserviti ai loro interessi". Prestipino ha citato anche la nomina del
presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a
sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo
Carminati, considerato capo di Mafia Capitale - di un uomo fidato poi
eletto. Indagato anche l'ex capo della segreteria di Gianni Alemanno,
Antonio Lucarelli. Il procuratore
Giuseppe Pignatone ha riferito di un incontro tra uno dei bracci destro di
Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e
Lucarelli. "Buzzi voleva far sbloccare un finanziamento e Lucarelli non lo
riceveva - ha detto - dopo la telefonata di Carminati si precita sulla scalinata
del Campidoglio da Buzzi che gli dice che è tutto a posto, che ha già parlato
con Massimo. Buzzi commentando questo incontro dice 'c'hanno paura di lui'".
Coinvolti come indagati anche l'assessore capitolino alla Casa,
Daniele Ozzimo, che ha deciso di
dimettersi dalla carica pur dichiarandosi "totalmente estraneo allo spaccato
inquietante emerso". Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha accettato le sue
dimissioni e aggiunto: "Siamo fiduciosi nel lavoro della magistratura. Ci
auguriamo sia fatta piena luce su una vicenda inquietante e che sta facendo
emergere l'esistenza di un sistema diffuso di illegalità ai danni della città.
Questa amministrazione ha improntato il suo lavoro sulla trasparenza. Per questo
apprezzo la decisione personale e il coraggio di Daniele Ozzimo che rassegnando
le dimissioni, ha agito prima di tutto nell'interesse della città mettendo in
secondo piano se stesso", ha detto Marino. Indagati anche il consigliere
regionale Pd Eugenio Patanè, quello
Pdl Luca Gramazio, e il presidente
dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti.
Che si è dimesso anche lui, dopo qualche ora: "Con sconcerto ho appreso che nei
miei confronti è stata aperta un'indagine giudiziaria nell'ambito di una
maxi-inchiesta dai risvolti inquietanti. Nel dichiararmi totalmente estraneo a
quanto emerge in queste ore dalle indagini, per correttezza verso la città e
verso l'amministrazione comunale ho deciso di dimettermi dall'incarico che mi
onoro di servire, rimetto pertanto da subito a disposizione dell'Assemblea
capitolina che mi ha eletto la mia carica. Nell'esprimere piena fiducia nel
lavoro della magistratura sono certo che dalle inchieste in corso emergerà con
chiarezza la mia totale estraneità ai fatti contestati". Nei loro uffici alla
Regione Lazio e in Campidoglio sono scattate le perquisizioni dei militari.
Nella lista degli indagati c'è anche il responsabile della Direzione Trasparenza
del Campidoglio, Italo Walter Politano:
è accusato di associazione di stampo mafioso. Nominato dal sindaco Ignazio
Marino il 15 novembre 2013, Politano è di fatto referente al Comune di Roma del
Commissario nazionale anticorruzione Raffaele Cantone. Domani dovrebbe essere
rimosso dall'incarico. Ma ci sarebbero un centinaio di nomi negli atti della
Procura di Roma. Tra cui quello di Gennaro
Mokbel, già condannato in primo grado per l'inchiesta Telecom
Sparkle-Fastweb, e tre avvocati penalisti, ai quali i pm contestano il reato di
concorso esterno in associazione mafiosa: avrebbero concordato con gli associati
"la linea difensiva da adottare" in un procedimento in cui era coinvolto
Riccardo Mancini, ex amministratore delegato dell'Ente Eur, arrestato in passato
per un giro di presunte mazzette legate
all'appalto per la fornitura di filobus al Comune di Roma. Tra gli
indagati c'è anche Lorenzo Alibrandi, il fratello più piccolo di Alessandro
Alibrandi, il terrorista dei Nar, figlio dell'ex giudice istruttore del
tribunale di Roma, Antonio Alibrandi. Ci sono anche una ventina di quadri di
valore tra gli oggetti sequestrati durante le perquisizioni, come ha riferito il
capo dei carabinieri del Ros, il generale Mario Parente. Si tratta di quadri
trovati nell'abitazione di uno degli indagati e di proprietà dello stesso
Carminati che vanno da opere di Andy Warhol a Jackson Pollock. Le opere verranno
ora analizzate dagli esperti. A casa di un altro indagato sono invece stati
trovati 570mila euro in contanti. Appalti per decine di milioni di euro a
società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione
mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. E' il "patto
corruttivo-collusivo", secondo il pm della Direzione antimafia (Dda) di Roma
Michele Prestipino, individuato dall'indagine Mondo di Mezzo. "In cambio di
appalti a imprese amiche - ha detto il magistrato - venivano pagate tangenti
fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in
un solo colpo, fino a versamenti di denaro a enti e fondazioni legate alla
politica romana". E tra queste "anche la fondazione creata da Alemanno". Tra gli
appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta
differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle
foglie. Su altri appalti dell'Ama - municipalizzata romana dei rifiuti - per
altri 5 milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. E' infatti
un'azione senza precedenti quella che ha messo a soqquadro Roma e il suo
hinterland. Coordinata da tre pubblici ministeri - Luca Tescaroli, Paolo Ielo
e Giuseppe Cascini - sotto la supervisione del procuratore capo della procura
di Roma Giuseppe Pignatone ha infatti smantellato un'organizzazione che
racchiude almeno dieci anni di malavita. Personaggi che hanno solcato la scena
della mala capitolina, come il nero Carminati ex della Banda della Magliana, ma
anche politici e amministratori che hanno favorito e consentito a questo
malaffare di radicarsi, di mettere le radici, di infilarsi coi suoi tentacoli
ovunque. Ribaltando di netto le regole del gioco. Ricostruire la trama e gli
intrecci che hanno reso possibile tutto questo malaffare è stata un'impresa
titanica. C'è un'intercettazione che spiega il senso dell'organizzazione mafiosa
messa su da Massimo Carminati e ha dato il nome all'indagine. "L'intercettazione
per noi più significativa è questa - ha spiegato Giuseppe Pignatone - quando
Carminati parlando con il suo braccio destro militare, Riccardo Brugia, gli dice
'E' la teoria del mondo di mezzo, ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in
mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove
è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...'. Carminati parla
col 'mondo di sopra', quello della politica e col 'mondo di sotto', quello
criminale, e si mette al servizio del primo avvalendosi del secondo al servizio
del primo. La caratteristica principale di questa organizzazione sta nei suoi
rapporti con la politica e nel fatto che alterna la corruzione alla violenza,
preferendo la prima perché fa meno clamore". Le perquisizioni scattate all'alba
hanno riguardato boss della malavita, come esponenti di noti clan di Ostia, e
politici di elevato spessore a Roma. Il reato ipotizzato nei confronti degli
arrestati è il 416 bis, l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Reato per
cui sono già indagate 51 persone dei clan Fasciani e Triassi di Ostia, e che a
dicembre si concluderà con la sentenza di primo grado. Reato per cui a Roma,
nessuno mai è stato condannato. Perché, come in un refrain, per anni si è
continuato a dire che la mafia a Roma non esiste. Almeno fino a oggi. "Quello
che sta emergendo è un quadro inquietante - ha commentato il presidente della
Regione Lazio, Nicola Zingaretti - E' un bene che la magistratura sia impegnata
a fare piena luce. Con sempre più forza bisogna proseguire, ognuno nei propri
ambiti, sulla via della legalità senza se e senza ma". "E' un'inchiesta che
certifica il profondo inquinamento delle istituzioni, al di là delle vicende dei
singoli, e che conferma sempre di più la presenza di una cupola criminale con le
mani sulla città. Il sistema mafioso corruttivo svelato oggi impegna subito chi
ha responsabilità amministrative e politiche ad assumere urgenti misure nella
lotta alla criminalità e alla corruzione - si legge in una nota dell'Ufficio di
Presidenza di Libera - Siamo convinti che accanto alla repressione e gli
strumenti giudiziari, è necessario il risveglio delle coscienze, l'orgoglio di
una comunità che antepone il bene comune alle speculazioni e ai privilegi,
contrastando in tutte le sedi la criminalità organizzata e i suoi complici".
"Cade il velo di ipocrisia sulla città e Roma diventa Capitale delle mafie", ha
commentato l'Associazione dasud che "denuncia dal 2011 gli affari criminali a
Roma con dossier e inchieste, da "Roma città di mafie" all'ebook "Mammamafia".
Il welfare lo pagano le mafie". L'indagine di oggi, finalmente racconta di un
patto trasversale inquietante che tiene insieme boss, imprenditori, manager,
funzionari, amministratori pubblici e politici di destra e sinistra,
rappresentanti del mondo dell'associazionismo e del terzo settore e descrive
come ha funzionato fino a ieri il sistema degli affari a Roma, quale ruolo le
mafie abbiano svolto sul degrado delle periferie,? quanta speculazione sia stata
fatta sui migranti e i rom della città,? quale sistema di corruzione abbia
regolato i rapporti tra imprese e pubblica amministrazione, quali relazioni
pericolose regolino i rapporti tra politica e pezzi significativi della storica
eversione nera e l'estrema destra di oggi. Il sodalizio con a capo Carmati come
ha detto il procuratore Pignatone è solo uno dei tanti che opera su Roma. Il
negazionismo e l inerzia della politica e delle classi dirigenti sono serviti
solo a farli agire indisturbati. Non è più il tempo dell antimafia di facciata,
serve subito un impegno trasversale".
Ecco la
"mafia Capitale": 37 arresti per appalti del Comune. Indagato anche Alemanno.
Carminati, l'intercettazione che spiega la teoria del "mondo di mezzo". Un
centinaio le persone coinvolte nell'operazione "Mondo di mezzo". Affari nella
gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi. In carcere l'ex Nar
Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a
testa alta". Tra gli inquisiti anche Politano, capo dell'anticorruzione in
Campidoglio, scrive “La
Repubblica”. La mafia a Roma c'è ed è autoctona. Sono le conclusioni del
procuratore capo Giuseppe Pignatone
che, nell'illustrare la maxi operazione "'Mondo di mezzo" che ha portato
all'arresto di 37 persone per associazione mafiosa, ha parlato dell'esistenza di
una "mafia capitale, tutta romana e originale, senza legami con altre
organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso e con cui si
confronta alla pari". Una mafia che "non ha una struttura precisa ma ha la
capacità essenziale di creare equilibri tra mondi diversissimi tra loro". A Roma
dunque in questi ultimi anni ha agito un'associazione di stampo mafioso che ha
fatto affari con imprenditori collusi, con dirigenti di municipalizzate ed
esponenti politici, per il controllo delle attività economiche in città e per la
conquista degli appalti pubblici. Ne sono convinti i magistrati della Dda della
procura e i carabinieri del Ros che hanno chiesto e ottenuto dal gip Flavia
Costantini l'arresto di 37 persone (29 in carcere e otto ai domiciliari) per una
molteplicità di reati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa
d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione è
un volto noto alla giustizia, l'ex terrorista dei Nar
Massimo
Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri
partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva
i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi
della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle
forze dell'ordine e ai servizi segreti". A disposizione dell'organizzazione,
secondo gli investigatori, ci sono, tra gli altri, l'ex capo di Ama
Franco Panzironi e l'ex amministratore
delegato di Ente Eur Riccardo Mancini,
soggetti che per i pm hanno fatto dal 2008 al 2013 da garante o da tramite "dei
rapporti del sodalizio con l'amministrazione comunale". La lista, poi, comprende
anche il manager Fabrizio Franco Testa accusato di "coordinare le attività
corruttive dell'associazione" e di "occuparsi della nomina di persone gradite
all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Tra gli
indagati a piede libero (almeno 100), coinvolti negli accertamenti che
porteranno sicuramente a sviluppi importanti nei prossimi mesi, ci sono anche
l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno,
il commercialista Marco Iannilli, l'uomo d'affari Gennaro Mokbel e il
consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio. "Dimostrerò la mia totale
estraneità a ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa
alta", ha replicato Alemanno. "Chi mi conosce - ha aggiunto l'ex sindaco - sa
bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre
combattute a viso aperto e senza indulgenza". Pignatone ha detto che quella di
Alemanno "è una posizione ancora da vagliare".
"Soldi per le elezioni in
cambio di appalti. Così Alemanno favoriva il clan dei camerati". Sindaco
della capitale dal 2008 al 2013, "aveva contatti diretti e aiutava il sodalizio
mafioso". Tra finanziamenti, accordi politici e nomine ai vertici delle
municipalizzate, scrivono Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su “La
Repubblica” L'uomo che governava Roma era nelle mani dell'uomo che la
derubava. Gianni Alemanno, sindaco dal 2008 al 2013, con la "mafia capitale" di
Massimo Carminati aveva "contatti diretti e ne favoriva il sodalizio". Nominando
i vertici delle partecipate che la banda decideva. Riservando, a sfregio del già
disastrato bilancio del Comune, denaro per alimentare l'appetito di Salvatore
Buzzi, il ras delle cooperative. "Senti, noi qui abbiamo rimediato quindici
milioni eh", comunicava personalmente l'allora sindaco al suo capo Dipartimento
servizi sociali il 23 novembre del 2012, risolvendo così il problema di
finanziare l'ampliamento del campo nomadi di Castel Romano, che tanto
interessava al "guercio", l'ex Nar che si è preso Roma. In cambio, ricavandone
da Buzzi 75.000 euro in cene elettorali e sostegno economico alla sua fondazione
Nuova Italia. Pure una claque elettorale di 50 persone, alla bisogna. Perché
tutti al Comune sapevano di che pasta erano fatte le amicizie di Alemanno, ora
indagato per associazione per delinquere di stampo mafioso. Carminati aveva un
filo diretto con il suo più stretto collaboratore, Antonio Lucarelli, capo della
segre- teria. Lo chiama al telefono, ci va a pranzo, si frequentano. Quando
Buzzi, in ansia per uno sblocco di 300.000 euro, cerca un contatto, deve passare
attraverso Carminati. "Mi dice - spiega il manager delle coop in
un'intercettazione del 20 aprile 2013 - "va in Campidoglio, alle tre, che
scende Lucarelli e viene a parlare con te"... Aò alle tre meno cinque scende,
dice "ho parlato con Massimo (Carminati, ndr), tutto a posto"... aò tutto a
posto veramente! C'hanno paura delui ". "Ero il sindaco di Roma - com- menta
ora Alemanno con i suoi fedelissimi - è facile tirarmi in ballo. C'è molto
millantato credito, è in atto un tentativo di attacco politico nei miei
confronti". Stando all'ordinanza del gip Flavia Costantini, Alemanno non ha
rapporti diretti con Carminati. Ci fa parlare i suoi, Luca Gramazio (ex
capogruppo comunale del Pdl, ora alla Regione) e Fabrizio Franco Testa, manager
e "testa di ponte" tra l'organizzazione mafiosa e la politica. Sono loro a
decidere, insieme a Buzzi e Carminati, chi mettere nel cda dell'Ama, la
municipalizzata dei rifiuti che assegnerà infatti alle società di Buzzi tre
appalti milionari finiti nell'inchiesta, relativi alla raccolta differenziata,
alla raccolta delle foglie e altri lavori per 5 milioni di euro. Così Alemanno
nomina Giuseppe Berti nel consiglio di amministrazione e Giovanni Fiscon alla
direzione generale, "espressione diretta degli interessi del gruppo" Gente di
cui il "guercio" e compagnia si possono fidare. Il 20 aprile del 2013 le
microspie dei carabinieri del Ros captano la conversazione in automobile tra
Salvatore Buzzi e il suo collaboratore Giovanni Campennì. I due parlano delle
imminenti elezioni amministrative di Roma. "Oh l'avevamo comprati tutti ho...
- dice Buzzi - se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo
l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine (Giordano, ndr) doveva stà assessore
ai Servizi Sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico,
Alemanno... che cazzo voi di più...". Campennì chiede se pagasse anche l'altra
parte politica, il centro sinistra da cui proviene. "No, no questo te lo posso
assicurà io che pago tutti, i miei non li pago. Ma lo sai agli altri i soldi che
gli do già? Anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi? ".
Alemanno ha mai preso soldi dal gruppo di Carminati? Direttamente non risulta.
Buzzi racconta dei 75mila euro in cene elettorali che ha sborsato. Ma ci sono
anche i bonifici alla fondazione politica di Alemanno, "Nuova Italia". Il 6
dicembre 2012, "a poche settimane dall'approvazione del bilancio che avrebbe
stanziato ulteriori fondi in favore del campo nomadi di Castel Fusano - annota
il gip - e in concomitanza con la cena elettorale e l'aggiudicazione della
gara Ama", dalle società di Buzzi partivano bonifici a Nuova Italia per 30mila
euro divisi in tre assegni. Altri 5mila euro dal Consorzio "Enriches 29" il 28
novembre 2011. E ancora, il 17 aprile 2013, 15mila euro dalla cooperativa
"Formula Sociale", riconducibile a Buzzi, in favore del mandatario elettorale di
Alemanno, più altri 5mila nel novembre dello stesso anno. A cui si aggiungono i
soldi che arrivavano attraverso Franco Panzironi, ex ad di Ama "a libro paga".
Oltre al mensile di 15mila euro, lo foraggiavano con finanziamenti "non
inferiori a 40mila euro" alla fondazione. Ma Buzzi, per Alemanno, non è soltanto
un bancomat. Gli serve anche per mettere in scena entusiasmo elettorale. Il 9
novembre 2013 Panzironi chiama Buzzi e gli chiede di reperire "un po' di gente
per fare volume" alla manifestazione organizzata dall'ex sindaco all'Adriano per
il suo rientro in politica. E per sostenere la candidatura alle europee, Buzzi
ha delle risorse insospettabili. "Devo fare delle telefonate? ", gli chiede
Alemanno al telefono. "No, no, tranquillo, manderemo a Milardi (Claudio, fa
parte dello staff dell'ex sindaco, ndr ) l'elenco di persone, nostri amici del
sud, che ti possono dare una mano cò parecchi voti". Qualche giorno dopo, Buzzi
spiega a sua moglie di chi parlava: "Sono 7-8 mafiosi che c'avemo in
cooperativa".
Appalti e criminalità a
Roma: nei verbali la mappa di Mafia Capitale. Una rete di contatti, una
piovra che controlla la città: appalti, usura, estorsioni, corruzione. Tutto
gira intorno a Massimo Carminati, ma tra i 37 arrestati e i centinaia di
indagati ci sono nomi eccellenti della politica e para-politica, scrive Fabio
Tonacci su
“La
Repubblica”. La banda, la
nuova banda di Roma. "La Mafia capitale", per dirla con le parole dei
magistrati. Strutturata come una piovra che asfissia la città. Ogni uomo ha un
compito, ogni compito ha un prezzo. Appalti, usura, estorsioni, corruzione.
Dentro il Comune di Roma, nelle istituzioni, nelle cooperative. Amministratori
"a libro paga" come Franco Panzironi,
ex presidente Ama, e Carlo Pucci
dirigente di Eur spa. Pubblici ufficiali "a disposizione", come
Riccardo Mancini, ex presidente di Eur
spa, che ha fatto da garante con l'amministrazione di Alemanno dal 2008 al 2013.
La collusione con forze di polizia e servizi segreti. Un luogo: il distributore
di benzina di Corso Francia, gestito da Roberto
Lacopo, "base logistica del sodalizio". E tutto quest'universo
criminale che ruota attorno a Massimo Carminati, l'ex nar,
56 anni. Capo, organizzatore, fornitore ai suoi sodali di schede telefoniche
dedicate, reclutatore di imprenditori collusi "ai quali fornisce protezione",
l'uomo che "mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni
criminali operante su Roma, nonché esponenti del mondo politico istitutzionale,
con esponenti delle forze dell'ordine e dei servizi". La sua villa di Sacrofano,
Carminati la intesta fittiziamente a Alessia Marini, acquistandola per 500mila
euro, di cui 120 mila in contanti. Accanto a lui c'è sempre
Riccardo Brugia, col quale condivide il passato di estremista di
destra. Nell'organizzazione di Carminati, armata e di stampo mafioso secondo i
pm di Roma, Brugia ha il compito di gestire le estorsioni, "di coordinare le
attività nei settori del recupero crediti e dell'estorsione, di custodire le
armi in dotazione del sodalizio", scrive il gip Flavia Costantini nelle 1249
pagine dell'ordinanza di custodia cautelare. Brugia e Carminati, tra le altre
cose, sono accusati di estorsione ai danni di Luigi Seccaroni per farsi vendere
il terreno in via Cassia. Ogni uomo ha un compito, dunque. Ad esempio
Fabrizio Franco Testa, manager, e
presidente di Tecnosky (Enav) e uomo di Alemanno ad Ostia. "Lui è la testa di
ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordina le
attività corruttive dell'associazione, si occupa della nomina di persone gradite
all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Oppure
Salvatore Buzzi, l'uomo della rete di
cooperative. Amministratore delle coop riconducibili al gruppo Eriches-29
giugno, affidatarie di appalti da parte di Eur Spa, gestisce per conto della
banda Carminati le attività criminali nei settori della raccolta e smaltimento
dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del
verde pubblico, settori "oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con
metodo corruttivo". Si occupa anche - secondo i pm - della contabilità occulta
dell'associazione. Sullo sfondo una pletora di imprenditori collusi, in primo
piano, invece Franco Panzironi. Nel
suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione e amministratore
delegato di Ama spa dal 2008 al 2011, ha del tutto "asservito la sua qualità
funzionale". Nelle carte ci sono tutti gli addebiti a suo carico: violando il
segreto d'ufficio, violando il dovere di imparzialità nell'affidamento dei
lavori, ha preso accordi con Buzzi "per il contenuto dei provvedimenti di
assegnazione delle gare prima della loro aggiudicazione". Panzironi è accusato
anche di averla turbata, quella gara. L'appalto è quello della raccolta delle
foglie per il comune di Roma, 5 milioni di euro. Per la sua attività di
"agevolazione dell'associazione mafiosa di Carminati" nel tempo ha ricevuto, per
sé e per la sua fondazione Nuova Italia, 15.000 euro al mese dal 2008 al 2013,
120.000 euro in una tranche (il 2,5 per cento dell'appalto assegnato da Ama), la
rasatura gratuita del prato di casa, e finaziamenti non inferiori a 40.000 euro
per la sua fondazione. Per dire come funzionavano le cose al Campidoglio, basta
leggere le accuse che vengono fatte a Claudio
Turella, funzionario del Comune di Roma e responsabile della
programmazione e gestione del Verde Pubblico: per compiere atti contrari ai suoi
doveri di ufficio nella assegnazione dei lavori per l'emergenza maltempo, la
manutenzione delle piste ciclabili e delle ville storiche, "riceveva da Buzzi,
il quale agiva previo concerto con Carminati e in accordo con i suoi
collaboratori, 25.000 euro per l'emergenza maltempo, la promessa di 30.000 euro
per le piste ciclabili, più la promessa di altre somme di denaro". Nel calderone
degli arresti c'è anche Luca Odevaine,
ex vice capo di gabinetto di Veltroni. Nella sua qualità di appartenente al
Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza dei rifugiati, dunque
pubblico ufficiale, "orientava le scelte del Tavolo al fine di creare le
condizioni per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da
soggetti economici riconducibilia Buzzi e Coltellacci", "effettuava pressioni
finalizzate all'apertura di centri in luoghi graditi al gruppo Buzzi". E per
questo "riceveva 5.000 euro mensili in forma diretta e indiretta da Coltellacci
e Buzzi". Con l'aggravante di aver agevolato la banda di Carminati. Infine
Gennaro
Mokbel, che finisce in questa inchiesta con l'accusa di
estorsione, perché "mediante violenza e minacce" voleva costringere Marco
Iannilli a restituire 8 milioni di euro "comprensiva dell'attesa remunerazione,
consegnatagli un anno prima per investirla nell'"operazione Digint"". E qui è
intervenuto Carminati il quale, su richiesta della vittima, "la proteggeva da
Mokbel". Faceva anche questo, Carminati. Il protettore.
Mafia e politica:
perquisizioni, arresti Indagato anche ex sindaco Alemanno. In corso
perquisizioni tra uffici di consiglieri della Regione Lazio, uffici del
Campidoglio e abitazione dell’ex primo cittadino. Notificati 37 ordini di
custodia cautelare, scrivono la Redazione Online, Lavinia Di Gianvito e Fiorenza
Sarzanini su “Il
Corriere della Sera”.Pedinamenti, intercettazioni e verifiche sui
flussi di denaro. Si sono mosse su un doppio binario le indagini del Ros dei
carabinieri e del Nucleo tributario della Finanza sfociate, mercoledì mattina,
in 37 arresti, decine di perquisizioni - comprese la Regione, il Campidoglio e
24 aziende - e la notifica di 39 avvisi di garanzia. È l’inchiesta «Mondo di
mezzo», che nel legare gli affari di politici, malavitosi e manager ipotizza
l’associazione a delinquere di stampo mafioso, a cui sono da aggiungere altri
reati come la corruzione, l’estorsione e il riciclaggio. Sono stati circa 500 i
carabinieri del Comando provinciale di Roma impiegati nelle perquisizioni, più i
militari del gruppo cacciatori di Calabria, elicotteri e unità cinofile. Le
Fiamme gialle, al comando del colonnello Cosimo Di Gesù, hanno controllato 350
posizioni tra persone fisiche e società e hanno bloccato 205 milioni frutto del
reimpiego di capitali illeciti, senza calcolare i conti correnti e il contenuto
delle cassette di sicurezza. In due abitazioni dell’ex Nar Massimo Carminati,
finito in carcere, sono stati sequestrati 50 quadri di enorme valore: fra gli
autori Andy Warhol e Jackson Pollock. L’imprevista scoperta potrebbe aprire un
nuovo filone d’inchiesta poiché, spiega il comandante del Ros, il colonnello
Mario Parente, «possono essere riconducibili a un traffico di opere d’arte».
Nella lista dei 37 arrestati compaiono il direttore generale dell’Ama Giovanni
Fiscon, gli ex amministratori delegati dell’ Ama Franco Panzironi (coinvolto
anche nello lo scandalo Parentopoli) e di Eur spa Riccardo Mancini (già rinviato
a giudizio per le tangenti sui filobus), l’ex capo della polizia provinciale
Luca Odevaine, che è stato anche a vicecapo di gabinetto del sindaco
Veltroni.Tra gli indagati ci sono l’assessore alla Casa Daniele Ozzimo, il
presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti (entrambi dimissionari), il
responsabile della direzione Trasparenza del Campidoglio Italo Walter Politano
(che domani sarà rimosso dal suo incarico), i consiglieri regionali Eugenio
Patanè e Luca Gramazio, l’ex sindaco Gianni Alemanno («foraggiata», secondo gli
inquirenti, anche la sua fondazione Nuovaitalia) e i suoi fedelissimi Antonio
Lucarelli e Stefano Andrini. E poi tre avvocati, fra cui Pierpaolo Dell’Anno,
alcuni appartenenti alle forze dell’ordine accusati di favoreggiamento e il
faccendiere Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per la truffa a
Fastweb e Telecom Sparkle . «Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda
se la mafia è a Roma. La risposta è che Roma la mafia c’è e dimostra originalità
e originarietà», sottolinea il procuratore Giuseppe Pignatone. Lo scorso sabato
30 novembre, all’assemblea dei democratici, Pignatone aveva ammonito: «Corrotti
e mafia, patto che fa paura» riferendosi al mondo politico romano. Quel giorno
nessuno aveva compreso che gli inquirenti stavano tirando le fila di
un’inchiesta durata oltre due anni, che disegna una holding criminale capace di
aggiudicarsi gli appalti per i rifiuti, le piste ciclabili, i punti verdi
qualità, la raccolta delle foglie, la realizzazione dei villaggi nei campi
nomadi, l’assegnazione dei flussi di immigrati. Al vertice dell’organizzazione,
secondo la Direzione distrettuale antimafia, c’era Carminati, che con le sue
società avrebbe incamerato commesse per decine di milioni. «In cambio - spiega
il capo della Dda, Michele Prestipino - sono state pagate per anni tangenti fino
a 15 mila euro al mese. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo
colpo». Odevaine, per esempio, avrebbe avuto uno «stipendio» mensile di
cinquemila euro. Carminati, sostengono gli inquirenti, «manteneva i rapporti con
gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e
del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell’ordine e
ai servizi segreti». Il procuratore ricorda una conversazione tra Carminati e il
suo braccio destro, Salvatore Buzzi: «Dobbiamo vendere il prodotto amico mio.
Bisogna vendersi come le puttane adesso. Mettiti la minigonna e vai a battere
con questi amico mio». Dopo le ultime elezioni comunali «qualcosa è cambiato»,
precisa Pignatone, tuttavia in un’intercettazione «Carminati con i suoi
collaboratori dicono: “Siamo tranquilli abbiamo amici”». Nell’ordinanza firmata
dal giudice Flavia Costantini si legge: «Allo stato dell’indagine può essere
affermato con certezza che vi erano dinamiche relazionali precise, che si
intensificavano progressivamente, tra Alemanno e il suo entourage politico e
amministrativo da un lato e il gruppo criminale che ruotava intorno a Buzzi e
Carminati dall’altro. Dinamiche relazionali che avevano a oggetto specifici
aspetti di gestione della cosa pubblica e che certamente non possono inquadrarsi
nella fisiologia di rapporti tra amministrazione comunale e stakeholders».
Quanto a Mancini e Panzironi, stando all’accusa, rappresentano «i pubblici
ufficiali a libro paga che forniscono all’organizzazione uno stabile contributo
per l’aggiudicazione degli appalti». I due manager si sarebbero dati da fare
anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili
all’associazione» e tra il 2008 e il 2013 come «garanti» dei rapporti
dell’organizzazione con il Campidoglio. Il manager Fabrizio Franco Testa,
invece, per i magistrati è «una testa di ponte» del gruppo «nel settore politico
e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell’associazione e
occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiave della
pubblica amministrazione». L’ex sindaco di Roma, nel dichiararsi fiducioso nel
lavoro della magistratura, precisa in una nota: «Chi mi conosce sa bene che
organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a
viso aperto e senza indulgenza. Dimostrerò la mia totale estraneità». E
annuncia: «Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa
incredibile vicenda ne uscirò a testa alta». Per il presidente della Regione
Lazio, Nicola Zingaretti, «quello che sta emergendo è un quadro inquietante».
Dopo lo scandalo di Marco Di Stefano (deputato Pd a lungo in Regione Lazio, dove
fu anche assessore al Patrimonio) travolto a fine ottobre dall’inchiesta per le
tangenti da due milioni di euro nel caso degli affitti pilotati alla Pisana, una
nuova «puntata» giudiziaria sembra travolgere le istituzioni della Capitale.
Proprio mentre scattavano le perquisizioni, martedì Di Stefano è arrivato a
Piazzale Clodio per essere interrogato nell’ambito dell’inchiesta su una
presunta tangente da 1,8 milioni di euro che avrebbe ricevuto, quando era
assessore alla Regione Lazio nella giunta Marazzo, dai costruttori Antonio e
Daniele Pulcini. Di Stefano è indagato per corruzione e falso: per l’accusa la
tangente servì per favorire la locazione di due immobili dei Pulcini alla
società «Lazio service». Di Stefano sarà sentito anche come testimone sulla
scomparsa del suo braccio destro Alfredo Guagnelli.
«Mafia
capitale», la strana piovra che avvolge la politica debole di Roma.
Lo choc di una città che si ritrova in mano a un ex estremista nero e a un ex
detenuto, scrive iovanni Bianconi su “Il
Corriere della Sera”. Nel quadro dipinto dalla Procura antimafia di Roma e
dai carabinieri del Ros, l’immagine che traspare è quella di una piovra che ha
avvolto la Capitale attraverso i suoi tentacoli, arrivando fino al Campidoglio.
Con i politici – l’ex amministrazione di centro-destra, e qualche propaggine che
sostiene la nuova – al servizio di un gruppo in grado piegare la politica e
l’imprenditoria ai propri interessi. Un gruppo criminale chiamato “Mafia
capitale”, perché si avvale del metodo mafioso nell’intimidazione e nel
condizionamento dei pubblici poteri. In maniera diversa da come si muovono le
cosche dei Cosa nostra in Sicilia o quella della ‘ndrangheta in Calabria e in
Lombardia, ma ugualmente pervasiva. Un sistema messo in piedi da un ex militante
della destra sovversiva degli anni Settanta, Massimo Carminati, poi passato ai
rapporti con la malavita comune, che può contare – secondo l’accusa - anche sul
“carisma criminale” guadagnato in decenni di cronache giudiziarie e processi
andati per lo più a buon fine (per lui), e da un imprenditore legato al mondo
delle cooperative: Salvatore Buzzi, anche lui ex detenuto che proprio in
carcere, trent’anni fa, ha cominciato a intessere relazioni con l’esterno grazie
alle occasioni di reinserimento offerte ai condannati; e oggi gestisce, stando
alle carte degli inquirenti - «le attività economiche» di mafia capitale,
occupandosi «della contabilità occulta e dei pagamenti ai pubblici ufficiali
corrotti». Una città in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto,
insomma. Almeno nel disegno dei pubblici ministeri e del giudice che ha concesso
gli arresti. Accuse da provare, ovviamente, ma dalle quali emerge già, con
nettezza, la debolezza della politica cittadina e amministrativa che si lascia
quantomeno tentare e influenzare, nelle sue scelte, da metodi e interessi poco
commendevoli. Nella capitale d’Italia.
«L’ho
comprato, gioca per me». La rete che arruolava i politici.
I boss cambiavano perfino il bilancio. «Cosentino (Pd) è amico nostro»,
scrive Fiorenza Sarzanini su “Il
Corriere della Sera”. In ogni posto chiave avevano
sistemato una persona fidata. Aziende municipalizzate, assessorati, persino il
bilancio del Campidoglio erano in grado di modificare. Per riuscire a
controllare le commissioni Trasparenza e Anticorruzione hanno fatto carte false,
forse convinti che questo li avrebbe salvati. È una rete di potere autentico
quella creata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, «inserendo nei ruoli
decisionali della pubblica amministrazione uomini che, per ragioni diverse di
affiliazione o di subordinazione, rispondono direttamente al sodalizio, non
sempre con una piena consapevolezza delle sue caratteristiche». Quando Gianni
Alemanno cede la guida di Roma a Ignazio Marino, si concentrano sugli esponenti
del Pd che potevano mettersi a disposizione in cambio di favori e tangenti. E
riescono ad agganciarli. Nelle intercettazioni che fanno da filo conduttore alle
indagini dei carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente, si parla di
appuntamenti chiesti al vicesindaco Luigi Nieri, di incontri con il capo di
gabinetto Mattia Stella. Mentre Eugenio Patanè avrebbe preso soldi per
«pilotare» appalti alla Regione, del senatore del Pd Lionello Cosentino,
segretario della federazione Pd romana, dicono: «È proprio amico nostro». Ad
Alemanno, dipinto dalle carte dell’accusa quasi come un burattino nelle loro
mani, pagano le cene elettorali oltre ai contanti versati alla sua Fondazione
«Nuova Italia» e portano «comparse» per la claque ai comizi. A far da «cerniera»
ci pensa spesso l’assessore Luca Gramazio. Ma alla vigilia delle amministrative
di giugno 2013, quando lui tentenna sulla concessione di una proroga alle
cooperative, il ricatto di Buzzi è esplicito: «Me la proroghi a sei mesi, arrivi
a dopo le elezioni... se li famo tutti in santa pace, qui c’hai pure gente che
ti vota... così ci costringi a fare le manifestazioni». Riccardo Mancini,
amministratore delegato di Eur spa è sempre stato uno dei personaggi di
riferimento, «espressione dell’amministrazione comunale avendo gestito le
campagne elettorali di Alemanno ed essendo considerato una sorta di
plenipotenziario nella gestione dei rapporti con gli imprenditori, soprattutto
nel settore trasporti». È quello che «deve passa’ i lavori buoni». Quando
finisce sotto inchiesta Buzzi racconta: «Lo semo annati a pija’, gli amo detto
cioè “o stai zitto e sei riverito o se parli poi non c’è posto in cui te poi
anda’ a nasconde’‘». Regolarmente stipendiato con 15 mila euro mensili è Franco
Panzironi, ex amministratore delegato di Ama spa, «indicato quale reale dominus
della stessa municipalizzata, nonostante non rivestisse più nessun incarico
formale». Buzzi è categorico: «M’ha prosciugato tutti i soldi Panzironi...
dovevo daje un sacco de soldi, 15 mila euro, gli ultimi glieli do oggi e poi ho
finito». Con la giunta Alemanno il controllo dell’Ama è totale. Quando arriva
Marino, l’organizzazione si attrezza. E in vista della gara per la raccolta del
Multimateriale Buzzi appare sicuro: «I nostri assi nella manica per farci vince
la gara dovrebbero essere la Cesaretti per conto di Sel, Coratti che venerdì ce
vado a prende un bel caffè e metto in campo anche Cosentino». Parlando del
presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, Buzzi dice «me lo so’
comprato, ormai gioca con me», e il 23 gennaio 2014 racconta di avergli
«promesso 150 mila euro se fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3
milioni sul sociale». L’8 aprile invia un sms a Mattia Stella: «Sono da Coratti».
Lui lo chiama immediatamente: «Oh Salvato’ io sto giù da me». Buzzi è pronto:
«Appena finisco da Coratti, scendo giù da te». Del resto con i collaboratori più
stretti era stato esplicito: «Sto’ Mattia lo dobbiamo valorizzare, lo dobbiamo
lega’ di più a noi». Luca Odevaine, vicecapo di gabinetto del sindaco Walter
Veltroni, viene ritenuto un esponente dell’organizzazione e infatti Buzzi conta
sulla possibilità che diventi capo di gabinetto di Marino «così ci si infilano
tutte le caselle... qualche assessore giusto... ci divertiremo parecchio».
L’interesse dell’organizzazione a orientare la politica è palese sin dalla
scelta del candidato sindaco. A ottobre 2012 Carminati si informa con Buzzi:
«Come siete messi per le primarie?» e lui risponde: «Stiamo a sostene’ tutti e
due... avemo dato 140 voti a Giuntella e 80 a Cosentino che è proprio amico
nostro». In realtà a novembre Buzzi annuncia: «Noi oggi alle cinque lanciamo
Marroni alle primarie per sindaco eh!». Il possibile cambio in giunta era per
loro un’ossessione e il 22 gennaio 2013, analizzando ogni possibilità dice: «È
vero, se vince il centrosinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo
bene». Marroni diventa deputato del Pd mentre l’altro «amico» Daniele Ozzimo è
nominato assessore alla Casa. Tutti restano comunque inseriti nella «rete» che
ha continuato a garantire affari e potere.
Carminati,
il "Nero" interpretato da Scamarcio,
scriveRoberto Scafuri su “Il
Giornale”. Gioventù bruciata, vecchiaia maledetta. C'è da chiedersi che cosa
attragga di più della trasgressione senza rimedio, che cosa porti a decidere un
giorno di buttare al macero la tua vita in un bar dell'Eur chiamato il «Fungo».
Era lì che Massimo Carminati, il «Nero» di Romanzo criminale interpretato da
Riccardo Scamarcio, milanese piombato nella Capitale negli anni Settanta con la
famiglia, incontrò il suo destino. Assieme a nomi al pari suo passati alla
storia del terrorismo nero, prima Avanguardia nazionale poi Nar, amici di sangue
come Valerio Giusva Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi. Lì, in
quel fasullo mondo di pulizia medio-altoborghese, e poi al bar Fermi e in quello
di via Avicenna, Massimo frequenta gli esponenti più in vista della banda della
Magliana, e vi si lega a filo doppio. In quei giardinetti verdi nasce una
strategia del terrore che si trasforma via via in malavita ordinaria e
quotidiana, scelta che costa a Carminati un occhio, l'uso di una gamba, quella
sinistra, il soprannome di «Cecato», quando la mattina del 20 aprile dell'81 sta
cercando di fuggire in Svizzera, e di lì in Spagna. Di quella metamorfosi
inesorabile che i neofascisti cresciuti nel quartiere di Monteverde subiscono,
diventando delinquenti, Carminati diventa snodo centrale e rispettato, anche in
virtù dei suoi stretti rapporti con i boss Giuseppucci e Abbruciati. Rapine,
omicidi, attentati ai treni, la morte di Pecorelli: negli anni bui d'Italia il
nome del Guercio è una certezza: finisce alla sbarra, spesso senza un adeguato
impianto accusatorio, ne esce sempre assolto. La condanna a dieci anni arriverà
invece solo nel '98 nel processo che vedrà alla sbarra l'intera banda della
Magliana. Per il Nero comincia un altro dei suoi tunnel maledetti.
Carminati,
dai neri alla Magliana: «Sono il Re, vedi che gli combino».
Un imprenditore legato al gruppo dell’ex terrorista: «Io qui sono diventato
intoccabile», scrive Giovanni Bianconi su “Il
Corriere della Sera”. Quando lo arrestarono la prima volta mentre tentava di
attraversare il confine tra Italia e Svizzera, nel 1981, dopo che un poliziotto
gli sparò un colpo di pistola che gli fece perdere un occhio, faticarono a
identificarlo. Perché aveva addosso un documento falso, e perché il suo vero
nome era uno dei tanti estremisti di destra ricercati, niente più. Oggi,
trentatré anni e qualche vita dopo, quello stesso nome è sufficiente a fare
paura come l’identità di un boss, utile a incutere timore e rispetto insieme. Al
pari dei soprannomi derivati dalla pallottola conficcata nell’occhio: «Il Cecato»
o «Il Pirata». È quel che sostengono gli inquirenti a proposito di Massimo
Carminati, 56 anni compiuti a maggio, l’ex militante dei Nuclei armati
rivoluzionari poi transitato armi e bagagli dalle parti della banda della
Magliana, rimanendo coinvolto - e riuscendo a uscirne pulito, il più delle
volte, o con pochi danni - nelle vicende criminali più clamorose: dall’omicidio
del giornalista Mino Pecorelli (assolto in tutti i gradi di giudizio) al furto
consumato nel caveau del tribunale di Roma nel 1999 (condanna ridotta a quattro
anni), passando per altre vicende più o meno misteriose. Un altro ex sovversivo
«nero» degli anni Settanta arrestato nell’operazione di ieri (ce ne sono
diversi, anche se ormai l’ideologia e la politica c’entrano poco e niente;
sembra più una questione di soldi, e di metodi per accaparrarne) racconta in un
colloquio intercettato che quando lo arrestarono per una rapina nel 1994, nella
quale era rimasto ferito, appena arrivato a Regina Coeli tutti gli offrirono
assistenza e solidarietà in virtù della sua amicizia con Carminati; «anche
persone che, non conoscendo, però sapevano». Perfino l’averla quasi sempre
scampata nei tribunali, o comunque essersela cavata con pene leggere, secondo
gli inquirenti contribuisce ad accrescere il mito dell’impunità e quindi del
potere sotterraneo che riesce a esercitare. Il resto l’hanno fatto alcuni
articoli di rotocalco dove veniva definito (insieme ad altri) il «Re di Roma», e
lui stesso commentava: «Sul nostro lavoro... sono pure cose buone... Se sentono
tranquilli», riferito alle persone con cui aveva rapporti. Oppure, quando c’era
da sfruttare l’aura di duro con chi doveva adeguarsi alle sue indicazioni:
«Sennò viene qua il Re di Roma... tu sei un sottoposto... è il Re di Roma che
viene qua... entro dalla porta principale... vede io che gli combino». Sia
quando militava nelle file della destra sovversiva, sia nei rapporti con i
banditi della Magliana (in particolare Franco Giuseppucci, boss con simpatie
neofasciste), Carminati si è mostrato attento a mantenere un ruolo autonomo,
amico che non tradisce gli amici e fa valere più il vincolo personale che quello
politico o di «batteria». Pronto a usare metodi maneschi e «convincenti»,
abituato a parlare poco e apprezzare chi parla poco, rispetto a quelli che
vantano rapporti altolocati. Consapevole del proprio ruolo e della propria
capacità intimidatoria ma anche imprenditoriale, attento agli affari e a nuove
forme d’investimento attraverso persone fidate. Come Salvatore Buzzi,
l’imprenditore delle cooperative che - nella ricostruzione dell’accusa - gli
gestiva buona parte dei soldi ed è divenuto il suo principale socio occulto. «È
uno di quelli cattivi -, dice a proposito di Carminati uno degli imprenditori
collusi con la presunta associazione mafiosa -. Questi c’hanno i soldi pe’ fà
una guerra, ai tempi d’oro hanno fatto quello che hanno fatto... Quando te serve
una cosa vai da lui, non è lui che viene da te». E chi poteva godere della sua
protezione si sentiva come un altro imprenditore legato al gruppo di Carminati:
«Non me può toccare manco Gesù Cristo... cioè qui... io qui a Roma sono
diventato intoccabile».
"Li compriamo tutti. Se
vinceva Alemanno saremmo stati a posto. Proviamoci con Marino". Salvatore Buzzi
come punto di raccordo tra gli interessi di Carminati e la politica. Il suo
ruolo chiave emerge dalle intercettazioni a ridosso delle elezioni 2013. L'uomo
delle coop autocollocato "a sinistra" si vantava del suo potere di persuasione.
Una "vocazione corruttiva" che secondo i magistrati non aveva distinzioni di
colore, scrivono Mauro Favale e Giovanna Vitale
su “La
Repubblica”. "Me li sto a comprà tutti", si
vantava al telefono Salvatore Buzzi, uomo chiave dell'inchiesta, figura centrale
e di raccordo tra gli interessi di Massimo
Carminati e la politica. Era lui, da uomo delle cooperative che si
auto-collocava "a sinistra", a gestire le
attività economiche della associazione nei settori della raccolta e
smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi, della manutenzione del
verde pubblico. Nella sua rete, secondo le indagini, finiscono politici di
centrodestra e di centrosinistra, senza particolari distinzioni di colore.
Durante la campagna elettorale per le elezioni del 2013, quando le quotazioni di
Gianni Alemanno vengono date in discesa, si esprime così al telefono con Emilio
Gammuto, figura "tra le più attive - scrive la gip Flavia Costantini - sul
versante della corruzione".
Buzzi:
"Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, partivamo fiuuuu (fonetico
intendendo partiamo a razzo, ndr.). C'amo l'assessore ai lavori pubblici,
Tredicine doveva stà assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde. Cochi
non è comprato però è un amico, Alemanno... Che cazzo voi di più?".
Ma quella che i magistrati
definiscono "vocazione corruttiva", per Buzzi non ha barriere politiche. A suo
dire è in "trattative corruttive" anche con l'amministrazione Marino. Dall'altra
parte del telefono c'è sempre Gammuto.
Buzzi: "E mo
vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino".
Gammuto: "Va
bè mò, Marino tramite Luigi Nieri".
Buzzi: "Ma
Nieri, è entrato Nieri?".
Gammuto: "Non
lo so".
Buzzi: "Cazzo
ne sai? Noi c'avemo Ozzimo, quattro: Ozzimo, Duranti, Pastore e Nigro".
L'ex assessore alla Casa della
giunta Marino, indagato per corruzione, si è dimesso ieri, dichiarandosi
"estraneo ai fatti". Nelle chiacchiere tra gli arrestati contenuti
nell'ordinanza del gip viene a più riprese definito "un amico", tanto che Buzzi
confessa ad Alemanno di aver dato indicazioni di un voto disgiunto alle elezioni
"Ozzimo-Alemanno".
Alemanno:
"Pronto?".
Buzzi:
"Gianni come stai?".
Alemanno:
"Allora? Ma è vera 'sta storia del disgiunto?".
Buzzi:
"Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo ed Alemanno". (ride)
Alemanno:
"Eh, questo mi onora molto".
Buzzi: "No,
ma non se fa più".
Alemanno: "Mi
onora molto".
Buzzi: "Non
lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh". (ride).
Alemanno:
"Come?"
Buzzi: "Non
lo possiamo dire".
Alemanno:
"No, no. Vabbè, vabbè. Poi, ma poi si nota. Per cui, vediamo dopo. Però mi
raccomando eh! Fate i bravi ragazzi".
Buzzi: "Per
me vinci. Per me gliela fai, gliela fai".
Alemanno:
"Sì, sì. Penso, penso di sì e siamo in recupero. Poi, ovviamente bisogna vedere,
non bisogna mai sottovalutare l'avversario. Va bene".
Sempre per quanto riguarda i
legami con l'amministrazione Alemanno, risulta che attraverso alcune sue
società, Buzzi avrebbe pagato due cene elettorali all'ex sindaco attraverso la
Fondazione Nuova Italia. Non solo: su richiesta di
Franco Panzironi, ex ad di Ama, Buzzi
recupera 50 uomini per formare una claque elettorale nel corso della campagna
elettorale di dell'ex sindaco. L'uomo delle cooperative, inoltre, è in ottimi
rapporti anche con Luca Gramazio, attuale capogruppo di Fi in Regione e,
all'epoca, presidente dei consigliere comunali del Pdl. Secondo il gip "le
indagini hanno delineato un quadro indiziario tale da indurre ad ipotizzare che
Gramazio possa essere un collegamento dell'organizzazione con il mondo della
politica e degli appalti". Gramazio, oltre ad avere una costante frequentazione
direttamente con Massimo Carminati, il leader del gruppo, è anche la figura
incaricata di collocare all'interno dell'amministrazione "soggetti che
esprimevano gli interessi dell'associazione, quali Berti, Fiscon e Quarzo". Si
interessa alle vicende relative agli appalti per il campo nomadi di Castel
Romano e, soprattutto, per recuperare le risorse necessarie nonostante l'assenza
di fondi nel bilancio comunale 2013. "Una trama di rapporti che, secondo le
conversazioni che sono state indicate a proposito della corruzione di Turella,
relativa allo stanziamento per le piste ciclabili, lo avrebbe visto remunerato
con la somma di almeno 50.000 euro", scrive la gip. Quando l'amministrazione
cambia colore, l'organizzazione criminale non si scoraggia e riesce a
"reclutare" anche rappresentanti del centrosinistra. In particolar modo
l'abboccamento funziona con Mirko Coratti, Pd, presidente dell'Aula Giulio
Cesare, anch'egli ieri dimessosi dopo l'avviso di garanzia, accusato di aver
intascato una tangente da 150.000 euro. L'intercettazione tra Buzzi e Claudio
Caldarelli (suo collaboratore) è esplicativa.
Caldarelli: "Vabbè,
ricordate sta cosa: so un milione e 8, è importante. Perché è politica la scelta
al di là...".
Buzzi: (a
bassa voce:) "Oh, me sò comprato Coratti".
Caldarelli:
"Eh, ricordate da diglielo".
Buzzi: "Lui
sta con me. Gioca con me ormai".
Caldarelli:
"Eh, ricordateglie de questo perché... ".
Buzzi: "Oh ma
che sei peggio de lui, ce vado venerdì a pranzo ma che sei rincoglionito. Ma che
cazzo, non cambi mai, sempre la stessa cosa".
Caldarelli ride.
Buzzi: "E che
cazzo, che me so rincoglionito, poi non tutte riescono però uno ce prova, eh
(ride). Gliel'ho detto: "Guarda, lo stesso rapporto che c'abbiamo con Giordano
lo possiamo aver con te. M'ha capito subito. Poi però il problema è che lui non
so quanto a quanta gente c'ha... mentre con Giordano semo... Quando io gl'ho
detto tutto lui non m'ha detto no. M'ha detto ci vediamo a pranzo venerdì. Più
de questo, che me deve di'? Al capo segreteria suo noi gli diamo 1000 euro al
mese. Sò tutti a stipendio Cla'. Io solo per metteme a sede a parlà con Coratti
10 mila gli ho portato". L'arruolamento di Coratti e del suo capo segreteria,
secondo gli inquirenti, ha tre obiettivi: "L'aggiudicazione del bando di gara
AMA n. 30/2013 riguardante la raccolta del multimateriale; lo sblocco dei
pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma; la nomina di un nuovo
direttore del V Dipartimento, in sostituzione della neo incaricata Gabriella
Acerbi, ritenuta persona poco disponibile". Per provare a condizionare la giunta
Marino, Buzzi stringe i legami anche con Mattia Stella, capo segreteria di
Marino, che non risulta indagato ma che gli arrestati provano a blandire.
"Eloquente nel senso della costruzione di un rapporto privilegiato con Stella
- scrive la gip - è la conversazione nella quale Buzzi chiamava Carlo Guarany,
lo informava che prima sarebbe andato in Ama e successivamente presso il
"Gabinetto per incontrare Mattia". In questa conversazione si sottolinea la
necessità di "valorizzare Mattia e legarlo di più a noi". Gli interessi di
"mafia capitale" si rivolgono anche alla Regione. E lì, col cambio di giunta
agganciano Eugenio Patanè, consigliere Pd. Anche lui sarebbe coinvolto, secondo
la procura, nell'appalto Ama del 2013 per il quale sarebbe stato pagato con una
tangente più bassa rispetto alle richieste. Lo spiega Buzzi intercettato al
telefono con la sua compagna Alessandra Garrone.
Buzzi: "Noi
dovremmo dare a Patanè per la gara che abbiamo vinto...".
Garrone: "122
euro".
Buzzi: "122
euro e non esiste proprio. Non esiste che quelli hanno chiesto i soldi a Patanè.
120.000 euro, 120 noi e 120... hai capito come funziona?"
Garrone: "Ho
capito".
In un'altra intercettazione,
questa volta ambientale, Buzzi spiega meglio il sistema ai suoi interlocutori.
Buzzi: "Noi a
Panzironi che comandava gli avemo dato 2,5%, 120 mila euro su 5 milioni. Mo damo
tutti 'sti soldi a questo?".
A insistere per i soldi a
Patanè è Franco Cancelli, della cooperativa Edera, finito ai domiciliari.
Buzzi: "Lui
mi dice "ah però bisogna da'" e alla fine dice, "la differenza sarebbero 10 mila
euro" perché ne vorrebbe subito 60 e gliene toccherebbero 50, dice. Ho fatto
"oh, guarda che il problema però è la tua aggressività. Perché se Patanè
garantisce, non c'avemo problemi".
I quattro re
di Roma.
Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il
controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo
eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici, scrive Lirio Abbate “L’Espresso”.
Non ama guidare e preferisce spostarsi a piedi o cavalcando uno scooter. Nessun
lusso negli abiti, modi controllati e cortesi: in una città dove tutti parlano
troppo, lui pesa le parole ed evita i telefonini. Sembra un piccolo borghese,
perso tra la folla della metropoli, ma ogni volta che qualcuno lo incontra si
capisce subito dalla deferenza e dal rispetto che gli tributano che è una
persona di riguardo. Riconoscerlo è facile: l'occhio sinistro riporta i segni di
un'antica ferita. Il colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata da un
carabiniere nel 1981: è sopravvissuto anche alla pallottola alla testa,
conquistando la fama di immortale. Anche per questo tutti hanno paura di lui. Ed
è grazie a questo terrore che oggi Massimo Carminati è considerato l'ultimo re
di Roma. La sua biografia è leggendaria, tanto da aver ispirato "Il Nero", uno
dei protagonisti di "Romanzo criminale" interpretato sullo schermo da Riccardo
Scamarcio. È stato un terrorista dei Nar, un killer al servizio della Banda
della Magliana, l'hanno accusato per il delitto Pecorelli e per le trame degli
007 deviati, l'hanno arrestato per decine di rapine e omicidi. Come disse
Valerio Fioravanti, «è uno che non voleva porsi limiti nella sua vita
spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di
droga, scommesse, usura». Sempre a un passo dall'ergastolo, invece è quasi
sempre uscito dalle inchieste con l'assoluzione o con pene minori: adesso a 54
anni non ha conti in sospeso con la giustizia. Ma il suo potere è ancora più
forte che in passato. Il nome del "Cecato" viene sussurrato con paura in tutta
l'area all'interno del grande raccordo anulare, dove lui continua a essere
ritenuto arbitro di vita e morte, di traffici sulla strada e accordi negli
attici dei Parioli. L'unica autorità in grado di guardare dall'alto quello che
accade nella capitale. "L'Espresso" è riuscito a ricostruire la nuova mappa
criminale di Roma tenuta in pugno da quattro figure, con un ruolo dominante di
Carminati. Lo ha fatto grazie alle rivelazioni di fonti che hanno conoscenza
diretta dei traffici che avvengono all'interno della metropoli e a cui è stato
garantito l'anonimato. Queste informazioni sono state riscontrate e hanno
permesso di ricostruire un quadro agghiacciante della situazione. Il business
principale è la cocaina: viene spacciata in quantità tripla rispetto a Milano,
un affare da decine di milioni di euro al mese, un'invasione di droga che
circola in periferia, nei condomini della Roma bene e nei palazzi del potere,
garantendo ricchezza e ricatti. I quattro capi non si sporcano le mani con il
traffico, si limitano a regolamentarlo e autorizzare la vendita nei loro
territori, ottenendo una percentuale dei proventi. Cifre colossali, perché ogni
carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo
pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dal Venezuela o
dai Balcani: il fatturato è di centinaia di milioni di euro. Carminati viene
descritto come il dominus della zona più redditizia, il centro e i quartieri
bene della Roma Nord. Dicono che la sua forza starebbe soprattutto nella
capacità di risolvere problemi: si rivolgono a lui imprenditori e commercianti
in cerca di protezione, che devono recuperare crediti o che hanno bisogno di
trovare denaro cash. Non ha amici, solo camerati. E chi trent'anni fa ha
condiviso la militanza nell'estremismo neofascista sa di non potergli dire di
no. Per questo la sua influenza si è moltiplicata dopo l'arrivo al Campidoglio
di Gianni Alemanno, che ha insediato nelle municipalizzate come manager o
consulenti molti ex di quella stagione di piombo. Le sue relazioni possono
arrivare ovunque. A Gennaro Mokbel, che gestiva i fondi neri per colossi come
Telecom e Fastweb. E a Lorenzo Cola, il superconsulente di Finmeccanica che ha
trattato accordi da miliardi di euro ed era in contatto con agenti segreti di
tutti i continenti: un'altra figura che - come dimostrano le foto esclusive de
"l'Espresso" - continua a muoversi liberamente tra Milano e la capitale
nonostante sentenze e arresti. Come Carminati, anche gli altri re di Roma sono
soliti sospetti. Personaggi catturati, spesso condannati, ma sempre riusciti a
tornare su piazza. Michele Senese domina i quartieri orientali e la fascia a
Sud-Est della città, fitta di palazzi residenziali e sedi di multinazionali. La
sua carriera comincia nella camorra napoletana: diversi pentiti lo hanno
indicato come un sicario attivo nelle guerre tra cutoliani e Nuova Famiglia. Poi
si è trasferito nella Capitale ed è diventato un boss autonomo, chiamato "o
Pazzo" perché le perizie psichiatriche gli hanno permesso più volte di uscire
dalla cella: i medici - che lo hanno definito capace di intendere e volere - lo
hanno però indicato come incompatibile con il carcere. Fino allo scorso febbraio
era detenuto in una clinica privata, dove però avrebbe continuato a ricevere
sodali e gestire affari e ordini nonostante una sentenza a 17 anni ridotta a 8
in appello. Poi è finito a Rebibbia, ma per poco: da sei mesi ha ottenuto gli
arresti domiciliari, sempre per l'incompatibilità con la prigione, confermata
anche dalla Cassazione, e a fine anno tornerà libero. All'interno del territorio
di Senese c'è un'enclave in mano ai Casamonica, altra presenza fissa nelle
cronache nere romane. Sono sinti, etnia nomade ormai stanziale in Italia da
decenni, che spadroneggiano nella zona tra Anagnina e Tuscolano e fanno affari
di droga con la zona dei Castelli. Ricchi, con ville arredate in modo sfarzoso e
auto di lusso, si muovono tra usura e cocaina, senza che le retate abbiano
intaccato i loro traffici: rifornivano anche il vigile urbano che faceva da
autista a Samuele Piccolo, il vicepresidente del consiglio comunale arrestato lo
scorso luglio. Ormai sono più di trent'anni che si parla di loro, ma soltanto
nel gennaio di quest'anno gli è stata contestata l'associazione per delinquere:
secondo la Squadra Mobile possono contare su un migliaio di affiliati, pronti a
offrire i loro servizi criminali alla famiglia. Dopo l'arresto del leader di un
anno fa, Peppe Casamonica, adesso alla guida del clan c'è la moglie del boss. I
processi hanno avuto scarsa incidenza anche sulle attività di "don" Carmine e
Giuseppe "Floro" Fasciani, i fratelli avrebbero la supervisione sulla fascia
Sud-Occidentale, che comincia da San Paolo e comprende i quartieri a ridosso
della Cristoforo Colombo fino al litorale di Ostia. Don Carmine è un'altra
vecchia conoscenza, che compare nei dossier delle forze dell'ordine dai tempi
della Magliana. Come uno dei figli di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere
della Banda, adesso segnalato tra le figure emergenti nonostante un arresto e
una condanna non definitiva. Carmine Fasciani invece è finito in cella nel 2010,
quando gli venne sequestrato uno dei locali più trendy dell'estate romana con
discoteca sulla spiaggia: lo aveva comprato per 780 mila euro nonostante ne
dichiarasse al fisco solo 14 mila. Meno di due anni dopo è stato assolto in
primo grado, con restituzione dei beni. Pochi mesi più tardi è tornato dentro e
in più operazioni i carabinieri hanno messo i sigilli ad altre proprietà per un
valore di oltre dieci milioni di euro. Anche Fasciani aveva amicizie nei reduci
dei Nar. E con lui al telefono il solito Mokbel millantava di avere pagato per
fare assolvere Valerio Fioravanti e Francesca Mambro: il segno di come tutte le
storie criminali a Roma finiscano per intrecciarsi intorno allo stesso filo
nero. E anche Fasciani ha tenuto rapporti con camorra, 'ndrangheta e Cosa
nostra. Per le grandi mafie Roma resta una città aperta. Possono investire
liberamente in ristoranti, negozi e immobili a patto di non pestare i piedi ai
quattro re. E possono tranquillamente prendere domicilio. Da Palermo si sono
trasferiti nel quartiere africano Nunzia e Benedetto Graviano, fratelli dei boss
di Brancaccio, gli stragisti di Cosa nostra. E poi l'ex capomafia di Brancaccio,
il medico Giuseppe Guttadauro, che dal suo salotto di casa dava direttive a
politici e giornalisti e ordinava omicidi e attentati: è tornato libero dopo uno
sconto per buona condotta mettendo su casa a Roma. Operano a Nord, in zona
Flaminia, nel territorio di Carminati, anche alcuni componenti della 'ndrangheta
di Africo, in particolare i Morabito. Non è forse un caso che il capobastone
Giuseppe Morabito, detto Peppe Tiradritto, è il nonno di Giuseppe Sculli, ex
giocatore della Lazio, coinvolto nell'indagine su alcune combine di partire di
serie A: Sculli, secondo gli investigatori, avrebbe avuto contatti proprio con
"il Nero". In tutto il Lazio ormai i clan campani e calabresi hanno insediato
feudi stabili, ma a Roma è un'altra storia. Non comandano loro: nella Capitale
per qualunque operazione illecita devono chiedere l'autorizzazione dei sovrani
capitolini e riconoscergli la percentuale. Perché la situazione che si è creata
all'ombra dei sette colli non ha precedenti: è come il laboratorio di una nuova
formula criminale, flessibile ed efficiente, che permette il controllo del
territorio limitando l'uso della violenza. Sotto certi aspetti, ricorda Palermo
degli anni Settanta, prima dell'avvento dei corleonesi, quando le vecchie
famiglie dominate da Stefano Bontate pensavano ad arricchirsi con droga ed
edilizia evitando gesti clamorosi. Roma è lontanissima dal capoluogo siciliano:
non ci sono clan che impongono il pizzo sistematicamente a tutti i commercianti.
Anzi, spesso sono esercenti e imprenditori a rivolgersi ai boss cercando
protezione, prestiti o offrendo capitali da investire nell'acquisto di partite
di coca. Le indagini hanno evidenziato il ruolo di costruttori e negozianti
impegnati come finanziatori nell'importazione di neve dal Sudamerica, quasi
sempre dei quartieri nord, quelli che fanno capo a Carminati. I quattro re e le
grandi cosche, secondo quanto appreso da "l'Espresso", hanno raggiunto un
accordo dieci mesi fa: niente più omicidi di mafia nella Capitale. In questo
modo le forze dell'ordine non si dovranno muovere in nuove indagini e il
business illegale non avrà ripercussioni. Il patto è stato siglato dopo che i
boss hanno appreso dell'arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone.
Gli undici delitti che lo scorso anno hanno fatto nascere l'allarme su Roma in
realtà non sarebbero semplici regolamenti di conti, ma tanti episodi di una
strategia finalizzata a imporre questo nuovo modello criminale: venivano punite
le persone che violavano i patti, mettendo in crisi il sistema di potere. Per
spiegare i meccanismi di questo sistema, "l'Espresso" ha raccolto il retroscena
del delitto più clamoroso avvenuto lo scorso anno: l'uccisione di Flavio Simmi,
a poca distanza da piazza Mazzini e dal palazzo di giustizia. Figlio di un
gioielliere e ristoratore coinvolto nelle inchieste sulla Banda della Magliana e
poi assolto, Flavio gestiva un Compro oro e pochi mesi prima era stato ferito:
un solo colpo di pistola ai testicoli. Un avvertimento che sarebbe stato deciso
da un calabrese legato alla 'ndrangheta, arrestato all'inizio del 2011. L'uomo
dal carcere avrebbe chiesto alla sua convivente di andare da Simmi e ritirare
una grossa somma di denaro, forse provento di attività comuni. Ma il debitore le
manca di rispetto e così il detenuto decide di ucciderlo. Prima però chiede il
permesso a chi controlla il territorio. A questo punto interviene il padre, che
per salvare il figlio probabilmente contatta vecchi amici della banda ancora
importanti, ottenendo che la sentenza di morte sia trasformata in un
avvertimento: la pistolettata sui genitali e l'ordine di andare via da Roma. Il
giovane però rimane in città e allora viene decisa l'esecuzione, senza che
scattino vendette. Le istituzioni per anni non sono riuscite a scardinare questo
sistema. Ha pesato anche un deficit culturale: l'incapacità di riconoscere la
manifestazione di questo differente modo di essere mafia e imporre il dominio
sulla città. Il reato di associazione mafiosa non è stato mai riconosciuto in
una sentenza: i giudici hanno sempre stabilito che a Roma ci fossero
trafficanti, rapinatori, spacciatori ma non vere organizzazioni criminali. È
questo il clima che serve ai clan per prosperare. E non appena i giornali hanno
fatto trapelare la possibilità che alla guida della procura capitolina potesse
arrivare Giuseppe Pignatone, con decenni di esperienza nella lotta alle cosche,
i boss hanno deciso di imporre la pace. I delitti sono cessati all'improvviso:
negli ultimi dodici mesi ci sono stati solo due omicidi connessi alla
criminalità, entrambi però sul litorale, lontanissimo dal centro. È la stessa
strategia criminale della sommersione o dell'invisibilità che è stata attuata in
Sicilia dal vecchio padrino Bernardo Provenzano nel 1993 dopo l'arresto di
Riina. Niente più omicidi ma solo affari svolti in silenzio con l'aiuto della
politica sostenuta dalla mafia. Le fonti de "l'Espresso" hanno descritto come si
sia trattato di una scelta imposta dai "quattro re". Pronti a debellare in
qualunque modo chi infrange la moratoria: poche settimane fa un ex dei Nar che
stava per assaltare una banca armato fino ai denti è stato catturato durante un
controllo dei carabinieri scattato al momento giusto. Questo silenzio ha indotto
in inganno, alcuni mesi fa, qualche investigatore, il quale avrebbe riferito al
prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, facendolo sobbalzare dalla sedia, che la
mafia non è presente in città. La realtà è ben diversa. Con un potere invisibile
che trae linfa dalla corruzione generalizzata. La scorsa settimana il
procuratore Pignatone partecipando ad un convegno organizzato nell'ambito del
salone della Giustizia ha detto: «Roma è una città estremamente complessa perché
mentre a Palermo e Reggio Calabria tutto viene ricondotto alla mafia, nella
capitale i problemi sono tanti. Credo che da un lato non bisogna negare, come
accaduto a Milano, che ci sia un problema di infiltrazioni mafiose». Pignatone
al Salone della Giustizia ha detto: «A Roma c'è un rischio: l'inquinamento del
mercato e dell'economia per l'afflusso di capitali mafiosi. Facciamo appello
agli imprenditori perché stiano attenti: diventare soci di un mafioso significa
prima o poi perdere l'azienda. Nella capitale è diffusa la corruzione ed è
altissima l'evasione fiscale. La procura è impegnata a far sì che non appaiono
come fenomeni normali. Qualche giorno fa abbiamo sequestrato il libretto degli
assegni di un signore, che sulla causale aveva scritto "tangente". Questa è la
dimostrazione del rischio di assuefazione, di accettazione. Bisogna reagire a
questo stato di cose». Per questo motivo Pignatone non è solo; oltre a validi
pm, lavora con un pool di investigatori che il procuratore ha voluto portare
nella capitale e con lui hanno condiviso il "modello Reggio Calabria", che con
intercettazioni e pedinamenti ha smantellato il volto borghese della
'ndrangheta. Poliziotti, carabinieri e finanzieri abituati a lavorare in
squadra, l'unico modo per dare scacco ai re di Roma.
Roma,
poltrone ai fascisti.
Ex di Avanguardia Nazionale, esponenti di Terza Posizione, perfino naziskin
vicini a Mokbel. Così Alemanno ha piazzato nei posti che contano della Capitale
i suoi amici estremisti neri, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”.
Boia chi molla, gridava a fine anni Ottanta il giovane Gianni Alemanno, al tempo
capo del Fronte della Gioventù e fedelissimo di Pino Rauti, leader dell'ala
movimentista dell'Msi e futuro suocero. Vent'anni dopo, nessuno può accusarlo di
incoerenza: Gianni, diventato sindaco di Roma, non ha mollato nessuno. Non ha
tradito, non ha lasciato per strada i vecchi camerati, nemmeno quelli finiti in
galera per banda armata e atti terroristici, neppure i personaggi più discussi
della galassia d'estrema destra protagonista degli anni di piombo. Anzi.
Nell'anno di grazia 2010 Roma è sempre più nera, con fascisti ed ex fascisti che
spuntano dappertutto. Nei posti cardine dell'amministrazione comunale e
nell'entourage ristretto del nuovo Dux, nell'assemblea capitolina e nelle
società controllate dal Comune, passando per enti regionali e ministeri. Vecchie
conoscenze sono comparse anche nella parentopoli che ha investito l'Atac, dove
lavorano - come ha scritto Ernesto Menicucci sul "Corriere" - l'ex Nar Francesco
Bianco (in passato arrestato e processato per rapine e omicidi insieme ai
fratelli Fioravanti, fu scarcerato per decorrenza dei termini) e l'ex di Terza
posizione Gianluca Ponzio. Ponzio oggi è a capo del Servizio relazioni
industriali della municipalizzata del Comune, negli anni Ottanta fu protagonista
di arresti plurimi per rapina e possesso d'armi. La sinistra ha gridato allo
scandalo, ma i due sono sono solo la punta dell'iceberg di un gruppo di potere
sempre più radicato in città, cementato dagli ideali e dall'antica appartenenza,
da interessi (anche economici) e da relazioni amicali e familiari. La lista
comprende ex militanti di Terza posizione e dei Nuclei armati rivoluzionari,
uomini di Forza nuova, naziskin vicini alla cricca di Gennaro Mokbel, capi
storici di Avanguardia nazionale, ultrà e combattenti delle battaglie degli anni
Settanta e Ottanta. Battuto a sorpresa Francesco Rutelli, disintegrati i
potentati di Forza Italia (già messi a dura prova durante la giunta regionale
guidata da Francesco Storace) ora sono nella cabina di controllo e, nella
nerissima capitale, comandano loro. I due personaggi più influenti
dell'amministrazione non sono assessori, ma due amici del sindaco: Franco
Panzironi e Riccardo Mancini. Del primo, a capo dell'Ama, si sa praticamente
tutto. Meno noti, invece, sono i trascorsi dell'uomo che Alemanno ha voluto alla
guida di Eur spa, società controllata dal Campidoglio e dal ministero
dell'Economia che ha nel suo portafoglio immobili per centinaia di milioni.
Mancini, classe 1958, ha finanziato la campagna elettorale del 2006 e ha fatto
da tesoriere durante quella del 2008. È un imprenditore di successo: erede di
parte del patrimonio della famiglia Zanzi (energia e riscaldamento), ha comprato
nel 2003 la Treerre, società di bonifiche e riciclaggio che fattura oltre 6
milioni di euro l'anno. Anche lui, che ha sempre vissuto all'Eur, è stato vicino
ai camerati di Avanguardia nazionale: nel 1988 è stato processato - insieme ai
leader del movimento Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher, che oggi lavora in
Regione con Teodoro Buontempo - e la Corte d'Assise lo condannò a un anno e nove
mesi per violazione della legge sulle armi. Ora, dopo vent'anni, Alemanno gli ha
dato le chiavi di un quartiere che conosce bene, quello del "mitico" bar Fungo,
dove un tempo si ritrovavano quelli di Terza posizione, i ragazzi di Massimo
Morsello e il gruppo di Giusva Fioravanti. Una curiosità: un socio in affari di
Mancini, Ugo Luini (amministratore della holding del gruppo, la Emis) è pure tra
i consiglieri della fondazione del sindaco, Nuova Italia. Mancini e Panzironi,
ovviamente, si conoscono bene. A novembre il capo dell'Eur Spa ha assunto Dario,
il figlio di Franco, già portaborse al Comune e ora funzionario con contratto a
tempo indeterminato. La scelta ha fatto gridare allo scandalo il centrosinistra,
ma sono altre le indiscrezioni che preoccupano Alemanno. Mancini, l'uomo che
dovrebbe gestire la Formula 1, è infatti amico di Massimo Carminati, tra i
fondatori dei Nar e leader della sezione dell'Eur, simpatizzante di Avanguardia
nazionale e sodale della Banda della Magliana: il personaggio del "Nero" del
film "Romanzo Criminale" è ispirato alla sua storia. I due sono spesso insieme,
tanto che qualcuno sospettava che l'ex estremista (incriminato per vari delitti
efferati ma assolto - quasi sempre - da ogni accusa) fosse stato assunto dalla
municipalizzata. «Una sciocchezza» chiosano a "L'espresso" gli uomini del
sindaco «Mancini lo vede solo perché si conoscono da anni. Nessun rapporto di
lavoro». Un lavoro ben retribuito Alemanno e Panzironi l'avevano invece trovato
a Stefano Andrini, assurto agli onori delle cronache perché insieme a un
gruppetto di naziskin picchiò selvaggiamente, nell'estate del 1989, due
"compagni" davanti al cinema Capranica. Andrini, 40 anni, fa parte di una
generazione successiva a quella dei movimenti storici degli anni di piombo. La
rissa costò a lui e al fratello gemello una condanna a quattro anni e otto mesi
(poi ridotti a tre) per tentato omicidio. La carriera criminale continua anche
dopo la reclusione: entrato nell'orbita del gruppo di Delle Chiaie, Stefano nel
1994 viene arrestato per alcuni scontri con gli autonomi. Un passato burrascoso
che nel 2009 non gli impedisce di sedersi sulla poltrona di amministratore
delegato di Ama Servizi Ambientali. Andrini, ultrà della Lazio, non c'è rimasto
molto. Lo scorso febbraio è stato travolto dall'inchiesta sugli affari della
banda capeggiata da Gennaro Mokbel. Secondo i magistrati sarebbe stato proprio
lui a organizzare - tramite i suoi agganci a Bruxelles - la falsa candidatura di
Nicola Di Girolamo, il senatore tanto caro a Mokbel («Sei il mio servo», gli
diceva) e alle famiglie 'ndranghetiste di Isola Capo Rizzuto. Il sindaco, si sa,
non molla mai nessuno. E perdona tutti, forse perché anche lui è stato sfiorato
da vicende giudiziarie, come aggressioni e lancio di bombe molotov (sempre
assolto). Non bisogna sorprendersi, così, che abbia provato a sistemare anche
altri ex skin protagonisti del pestaggio al cinema Capranica. Così Mario Andrea
Vattani (arrestato con gli Andrini ma poi assolto al processo), figlio del
potente presidente dell'Ice Umberto, è diventato capo delle relazioni
internazionali e del cerimoniale del Campidoglio. Assunto fino al 2013, costerà
ai contribuenti 488 mila euro tra stipendio e oneri previdenziali. Anche
Demetrio Tullio, pure lui arrestato e prosciolto, ha ottenuto un posto fisso.
Stavolta al ministero delle Politiche agricole: è entrato grazie a un concorso
bandito nel 2006, quando Alemanno era titolare del dicastero. Tullio lavora alla
direzione generale della Pesca marittima, ma nel tempo libero si occupa anche di
manifestazioni culturali. Il mensile di Ostia "Zeus" lo indica come «presidente
dell'associazione Minas Tirith», dal nome della città assediata del Signore
degli Anelli, che qualche giorno fa ha organizzato un convegno intitolato
"Serate dannunziane". Secondo il giornale, la tre giorni è stata un successo.
Non sappiamo se Alemanno ha perdonato anche Mokbel, che si è vantato di averlo
preso a schiaffi durante una manifestazione (era il 1998) in cui Gennaro
organizzava il sevizio d'ordine. Di sicuro l'inchiesta sul faccendiere che ha
messo in piedi la più colossale truffa dal dopoguerra non gli fa dormire sonni
tranquilli. Mokbel (in passato «destinatario», scrive il gip Aldo Morgigni
nell'ordinanza, «di provvedimenti cautelari per fatti omicidiari collegati ad
azioni di gruppi terroristici di estrema destra unitamente a soggetti - quali ad
esempio Carminati Massimo - ancora oggi oggetto di ricerche da parte delle forze
di polizia») ha infatti complici assai vicini al mondo di quella che fu Alleanza
nazionale. In primis l'avvocato Paolo Colosimo, finito anche lui in galera per
associazione a delinquere: fino a qualche tempo fa tra i suoi clienti c'era
Nicolò Accame, l'ex portavoce di Francesco Storace alla Regione Lazio. Rampollo
della dinastia Accame (il papà Giano, "fascista di sinistra", fu un
intellettuale influente, la sorella Barbara è la moglie del leader carismatico
di Terza posizione Peppe Dimitri, morto tragicamente nel 2006) è stato
condannato per corruzione, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio
nell'ambito dell'inchiesta "Lazio-gate". Non solo. Del gruppo Mokbel fa parte
anche Silvio Fanella, considerato dagli inquirenti il cassiere della banda. Il
suo nome è spuntato a sorpresa nella compravendita di una società, la Mondo
Verde, fondata anni fa dal capo della segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli,
e da due suoi cugini. A "L'espresso" risulta che Fanella rilevi il 50 per cento
delle quote nel luglio del 2000, quando Antonio ha già lasciato l'impresa. Dopo
pochi mesi, Fanella e il suo socio Teodolo Theodoli vendono le azioni a una
ditta amministrata da tal Fabrizio Moro. Sarà un caso, ma Moro è un amico di
Lucarelli. Sarà una coincidenza, ma per la Mondo Verde targata Moro lavorerà in
alcuni progetti - come ha rivelato "Repubblica" - il cognato di Gennaro Mokbel.
Lucarelli, classe 1965, imprenditore, è uno dei fedelissimi di Alemanno. Con
l'estrema destra ha sempre avuto grande feeling: il segretario del sindaco nel
2000 era il portavoce romano di Forza Nuova, movimento di estrema destra fondato
nel 1997 dai latitanti Massimo Morsello, ex Nar, e Roberto Fiore, ex Terza
posizione, che sfuggirono a una retata. Era il 1980, l'anno della strage di
Bologna. I due scapparono a Londra, e tornarono solo quando le condanne per
banda armata furono prescritte o, nel caso di Morsello gravemente malato,
inapplicabili. Lucarelli si dà da fare: con i suoi organizza sit in inneggianti
al leader dell'ultradestra austriaca Haider, manifestazioni contro il gay pride
(i volantini lo definivano «la saga del pervertito») e risse davanti al
Campidoglio (Marcello Fiori, vicecapo di gabinetto di Rutelli, denunciò di
essere stato spintonato da Lucarelli). Nel who's who della cerchia di Alemanno
ci sono anche altri ex camerati di rango. Vincenzo Piso, ex militante di Terza
posizione e di Ordine nuovo, siede oggi in Parlamento ed è coordinatore del Pdl
regionale. Venne arrestato nel 1980, restò in carcere per quattro anni con
l'accusa di banda armata, venne poi prosciolto. Influente consigliere di Piso e
del sindaco è poi Marcello De Angelis, anche lui di Terza posizione, cinque anni
di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 27Obis,
riferimento all'articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di
terrorismo. Fratello del leader di Terza posizione Nanni, morto in circostanze
misteriose in carcere, Marcello ora è senatore e direttore di Area, la rivista
fondata da Alemanno e Storace. Da un anno al Comune lavora anche Loris
Facchinetti (nell'ordinanza del 31 dicembre 2009 si specifica che la
collaborazione è «a titolo gratuito»), ex leader di Europa civiltà, un movimento
neopagano e paramilitare di estrema destra nato nel 1969 che aveva rapporti pure
con la massoneria. Fermato «per reticenza nell'inchiesta di piazza Fontana»,
come ricorda Ugo Maria Tassinari nel suo libro "Fascisteria", Facchinetti -
sposato con la sorella di Fabio Rampelli - oggi è delegato del sindaco di Roma
per il Mediterraneo, ed esperto di "Politiche internazionali" della fondazione
di Alemanno. Che ha voluto vicino a sé pure Claudio Corbolotti, aiutante di
Lucarelli al Comune, arrestato nel 2004 per gli scontri avvenuti fuori
l'Olimpico durante il derby Lazio-Roma. A proposito di ultrà, anche Guida
Zappavigna, ex dei Boys della Roma ed ex Fuan, arrestato come presunto Nar e
prosciolto in istruttoria, ha avuto un incarico dalla Polverini: ora è
presidente del parco del Lago Lungo e Ripa. Grande tifoso di Totti e compagni è
anche Mirko Giannotta. Le cronache ricordano che è stato arrestato nel 2003
insieme al fratello perché accusato di rapine ai danni di banche e gioiellerie,
e che dal 2008 è diventato capoufficio del decoro urbano del gabinetto del
sindaco. Già. Alemanno, cuore nero, non molla mai nessuno.
I
fasciomafiosi alla conquista di Roma.
Ex terroristi e colletti bianchi uniti dall’ideologia e dal denaro. E ormai più
forti dei tradizionali clan. Ecco l’inedita rete di potere che oggi controlla la
Capitale. E l'arresto per l'omicidio Fanella legato al caso Mokbel è solo
l'ultimo tassello di un mosaico più grande, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”.
Non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su
cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il
controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma
di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni. Al vertice ci
sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le
istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai
loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager
nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo
nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la
componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli
permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere
bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal
Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a
Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema
criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche
tanto piombo. Una fascio-mafia, che sintetizza la forza perversa di due
tradizioni in un’efficacia che gli ha consegnato anni di dominio incontrastato.
Persino gli investigatori hanno fatto appello alla sociologia per spiegare il
modello romano. Qui si incarna la microfisica del potere teorizzata da Paul
Michel Foucault: il potere criminale-mafioso si esercita, si infiltra, «non è
qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono
esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere
analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a
catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è
mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita
attraverso un’organizzazione reticolare». Si estende in tutte le strutture
sociali ed economiche, con dinamiche che cambiano continuamente e costruiscono
altri patti e altri affari. Si infiltra, entra nei ministeri, nelle finanziarie,
nelle grandi società pubbliche come nei covi dei rapinatori e nelle piazze di
spaccio. A Roma non ci sono zone in cui commercianti e imprenditori sono
obbligati a pagare il pizzo. Non c’è l’oppressione del boss di quartiere. E gli
omicidi sono calibrati con estrema attenzione. Luglio si è aperto con
l’assassinio di un pezzo da novanta di questo sistema, Silvio Fanella, nei
condomini bene. Agosto si è chiuso con l’esecuzione di un’autista della nettezza
urbana, Pietro Pace, nella periferia estrema: il padre ha offerto una taglia di
100 mila euro sui killer. Delitti miratissimi, perché quello che conta è far
girare i soldi, che si tratti di gestire immobili, licenze, investimenti o di
vendere droga. Gli architetti di questo sistema non si sporcano le mani con il
sangue. Sanno a chi affidare il lavoro sporco. E quando devono colpire duro,
hanno a disposizione una centuria nera compattata dall’estremismo di destra. Uno
dei componenti di questa cupola rivoluzionaria è Massimo Carminati, che sembra
avere trasformato il suo personale romanzo criminale in una marcia trionfale. È
stato nella banda della Magliana e nelle squadre terroriste dei Nar, con
amicizie di rango in Cosa nostra e negli apparati deviati dello Stato. Coinvolto
in processi importanti, come quello per l’omicidio del giornalista Mino
Pecorelli, ne è sempre uscito assolto. Ha scontato pochi anni di carcere per
episodi minori. Nella Roma nera è un mito: un leader da seguire e ascoltare. E
lui da leader si comporta e agisce. Si mostra, a chi non lo conosce, con modi
felpati ed educati. Ma quando vuole sa imporsi con la forza, tanto che sodali e
rivali lo rispettano con timore. È lui “l’ultimo re di Roma”. I suoi avvocati
Ippolita Naso e Rosa Conti respingono questa ricostruzione: «Se tutto ciò
rispondesse a verità, più che un uomo di potere sarebbe corretto definirlo uomo
dai super poteri, che ha in mano le redini dell’imprenditoria capitolina, in
grado di condizionare le vicende della politica romana, capace di passare dal
traffico di droga ai vertici degli affari economici controllando, già che c’è,
anche il territorio. E il tutto con un occhio solo!». Un riferimento a quella
ferita vecchia di trent’anni, l’eredità di un conflitto a fuoco con i
carabinieri che gli ha fruttato il soprannome di “er Cecato”. Per i legali però,
come scrivono in un atto di citazione per difendere il loro cliente: «Siamo
all’apoteosi dei luoghi comuni cinematografici. E di questo strabordare di
informazioni neanche l’ombra di un elemento, un indizio, una circostanza
oggettiva, una testimonianza, un riscontro, una indicazione di massima, una
traccia, un segno che si sforzi di dare una parvenza di verità a quanto
riferito». Per gli avvocati, «Carminati non ha più alcun conto in sospeso con la
giustizia, è attualmente privo di pendenze penali e soprattutto re-inserito in
un contesto sociale e familiare del tutto lecito, nel quale lodevolmente egli
sta cercando di recuperare» e poi «si prende cura costantemente del figlio
ventenne e convive stabilmente con la compagna, Alessia Marini, con la quale
gestisce il negozio di abbigliamento “Blue Marlin”». Le parole degli avvocati
sono un punto di partenza per decifrare la pista nera. Il negozio fa capo alla
“Amc Industry srl” di cui è amministratore unico Alessia Marini e Carminati non
compare come socio. La “Amc industry” dal primo gennaio 2011 ha preso in affitto
una villa a Sacrofano, alle porte di Roma, su una collinetta che domina tutta la
zona. Si tratta di una bella abitazione, ben rifinita, su due piani, con grande
piscina circondata da prato all’inglese e un lungo viale che separa dal
cancello. Qui vive Massimo Carminati. La villa risulta di proprietà del
commercialista Marco Iannilli, un professionista dalle alte relazioni che negli
ultimi quattro anni è diventato protagonista della cronaca giudiziaria. È stato
arrestato e condannato in primo grado per la colossale truffa su Fastweb e
Telecom Sparkle, che ha fatto girare centinaia di milioni di euro. Ma ha anche
un ruolo chiave nelle istruttorie su Enav, l’azienda pubblica che gestisce il
traffico aereo, su Digint e su Arc Trade: procedimenti che ruotano intorno a
Finmeccanica, il gigante statale degli armamenti hi-tech. È nei guai anche per
la vicenda della mazzetta pagata da Breda Menarini, sempre del gruppo
Finmeccanica, per aggiudicarsi la fornitura di autobus da Roma Metropolitane, in
cui sono indagati anche l’ex sindaco Gianni Alemanno e Riccardo Mancini. Che in
passato avevano avuto rapporti con Carminati: un passato forse non così remoto.
Solo coincidenze? Quando nel febbraio 2010 i carabinieri del Ros arrestano
Iannilli, lo trovano in possesso di una Smart intestata a Carminati. E quando il
commercialista a novembre 2011 finisce ancora in cella, i finanzieri del Nucleo
di polizia tributaria di Roma e i militari del Ros annotano che «immediatamente
dopo l’arresto di Iannilli, si recava presso la sua abitazione Massimo Carminati,
allertato a tal proposito dalla moglie del commercialista». Perché tanto
interesse? Negli atti non c’è risposta. Ma Iannilli per gli inquirenti era un
esperto «nell’utilizzo di prestanome» e «per la costituzione o la rilevazione di
società italiane ed estere, e la conseguente apertura dei relativi conti
correnti, allo scopo di veicolare i profitti illeciti provenienti da operazioni
di frode fiscale di notevole entità». Un professionista insomma che gestisce
decine di milioni di euro e che sarebbe stato capace di dare copertura pulita ad
attività in tutto il mondo, «il tutto per agevolare altri soggetti o
organizzazioni criminali, in attività di riciclaggio di denaro». Il
commercialista sembra pendere dalle labbra del “Cecato”. E non pare essere
l’unico. C’è un altro uomo introdotto nei salotti buoni e di manifesta fede
fascista che avrebbe subito il carisma dell’ex terrorista: Lorenzo Cola, tra i
principali collaboratori di Pierfrancesco Guarguaglini, fino al 2011 numero uno
di Finmeccanica. Per gli investigatori ha controllato un sistema illegale «in
grado di influenzare le scelte societarie e commerciali dell’Enav». In questo
modo ha creato operazioni di sovrafatturazione fra le aziende di Finmeccanica e
società subappaltanti riconducibili a Iannilli: somme trasferite all’estero
grazie alla rete del commercialista. Iannilli e Cola erano in affari con un
altro estremista duro e puro: Gennaro Mokbel, condannato in primo grado come
regista della truffa Fastweb con un riciclaggio da due miliardi. Ma è anche
l’uomo che con l’aiuto, da una parte degli amici di Carminati e dall’altra della
’ndrangheta, è riuscito a far eleggere al Senato Nicola Di Girolamo, oggi
detenuto ai domiciliari. In ogni indagine condotta dalla magistratura romana che
riguardi grandi operazioni finanziarie spunta sempre qualcuno legato all’estrema
destra, alla ’ndrangheta, agli 007 deviati, e a boss napoletani trapiantati
nella Capitale. E su tutto si allunga l’ombra del “Cecato”. Perché lui vive in
una terra di mezzo, perché sa come risolvere i problemi di chi abita negli
attici dei Parioli e sa a chi chiedere nei meandri delle periferie più
malfamate. L’intreccio di business e crimine, di manager e fasci, è esploso con
i proiettili che il 3 luglio scorso in un condominio elegante della Camilluccia
hanno ucciso Silvio Fanella. Gli inquirenti lo definiscono “il cassiere di
Mokbel” e stava scontando ai domiciliari la condanna a nove anni proprio per
l’affaire Fastweb-Telecom Sparkle. Uno degli aggressori è rimasto ferito ed è
stato arrestato: Giovanni Battista Ceniti, ex dirigente piemontese di Casa Pound.
Non doveva essere un omicidio. In tre, fingendosi militari delle Fiamme Gialle,
volevano rapire Fanella e farsi rivelare il nascondiglio di un tesoro da
sessanta milioni di euro. Solo una parte è stata poi ritrovata dal Ros: mazzette
di denaro e sacchetti pieni di diamanti, sepolti in un casale ciociaro. La
caccia a quel forziere è stata un’ossessione, che potrebbe avere incrinato
antichi accordi tra i nuovi re di Roma. Già due anni fa avevano provato a rapire
Fanella. E proprio le indagini sul primo raid hanno aperto un altro spaccato sui
poteri occulti della Capitale. Per quel blitz la procura ha ordinato l’arresto
di tre persone. Uno è Roberto Macori, 40 anni, fino al 2011 factotum di Mokbel
che poi si è legato ad un altro dei senatori della Roma criminale: Michele
Senese, detto “o Pazzo”, il padrone della periferia a Sud del raccordo anulare,
dove domina lo spaccio. Anche lui passato dalla banda della Magliana, ma
soprattutto boss legato alla camorra e ai casalesi: da un anno è in cella per
omicidio. Anche lui abituato a pensare in grande e muoversi nell’imprenditoria,
sempre in accordo con Carminati. Prima dell’arresto, assieme a Macori voleva
mettere in piedi una truffa da 60 milioni, rilevando un deposito di carburante a
Fiumicino. Entrambi erano in stretto contatto e Macori al telefono parlava
dell’interesse «dei napoletani» per il tesoro custodito da Fanella. Non sarà un
caso se a casa di Macori, dopo l’arresto, i carabinieri hanno sequestrato sei
diamanti purissimi che sembrano essere uguali a quelli trovati nel caveau di
Fanella. E gli investigatori non credono più alle coincidenze. Stanno
ricostruendo un mosaico in cui tanti delitti, tante acrobazie finanziarie in cui
compaiono gli stessi nomi e gli stessi metodi. I reduci dei Nar, gli emissari di
’ndrangheta e camorra, la manovalanza a mano armata reclutata tra i neofascisti:
l’organigramma della nuova fascio-mafia romana.
Alemanno, il missino che ha
scalato il Campidoglio. Per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di
voce non proprio suadente, scrive Roberto Scafuri su “Il
Giornale”. Gianni Alemanno, per i detrattori Paperino in virtù di un timbro
di voce non proprio suadente. Genero di Pino Rauti, ideologo della Destra
sociale, il giovane Alemanno è uno degli esponenti di punta della gioventù
neofascista. D'origine barese, ricalca il modello dell'«intellettuale
tenebroso», spesso vestito di nero, sempre apparentemente cupo, fascinoso per il
gruppo che gli va dietro. Finirà implicato in una sola azione violenta, il
lancio di una molotov all'ambasciata Usa. Ma siamo già alla fine della stagione
incendiaria: Gianni nel frattempo ha conosciuto Isabella Rauti, ne frequenta la
casa, di lì a poco sarà deputato con il Msi. La sua esclation politica, il suo
«passaggio di grado» avviene soltanto nella terza vita, quando dopo aver
accettato di malavoglia la trasformazione del Msi in An, viene lanciato prima
come ministro (all'Agricoltura, probabilmente la sua stagione migliore), quindi
nella sfida per la poltrona del Campidoglio. Stracciò Rutelli, ex «big» a corto
di charme , ma tanto del merito fu anche suo. Luci e ombre nella sua stagione da
sindaco, dove un uso assai disinvolto di concorsi e assunzioni per gli amici gli
è costata il voltafaccia dei cittadini.
Gianni Alemanno, primo
sindaco nero di Roma, indagato per associazione mafiosa. Cinque anni vissuti
maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti,
fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle
parentopoli dell’Ama e dell’Atac, scrive Susanna Turco su “L’Espresso”.
Nel suo fu comitato elettorale romano, ex deposito Atac di via della Lega
Lombarda, giganteggia ancora lo slogan dell’ultima perdente campagna elettorale
per il Campidoglio: “Il coraggio del fare”. Su Twitter, l’ultima foto è quella
con “mia zia Maria di oltre 102 anni”, postata esattamente 20 ore prima del
diluvio. Adesso che il diluvio è arrivato, quasi con un salto spazio temporale
da brividi, Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma e primo ex sindaco ad
essere indagato per associazione mafiosa, dirama note e messaggi in cui
assicura: “Dimostrerò la mia totale estraneità e ne uscirò a testa alta. Chi mi
conosce sa che ho sempre combattuto a viso aperto mafia e criminalità”. Il
procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, titolare dell’ inchiesta “Mondo di
mezzo” , spiega che “alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono
componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi
di corruzione”, ma chiarisce che “la posizione di Alemanno è tutta da vagliare”.
Parole che, fuori dalla vicenda giudiziaria s’intende, non stridono con l’adagio
politico per cui nei palazzi s’è sempre descritto Alemanno come “un perfetto
gregario, non un leader”, che ha fatto di questo “il segreto del suo successo”.
Comunque, per la cronaca, a poche ore dalla notizia della procura l’unico a
scomodarsi subito per dirsi pubblicamente “certo della sua estraneità alle
accuse” è Ignazio La Russa. Il resto, silenzio assoluto. L’accelerazione dentro
un romanzo criminale in piena regola, intanto, cade per Alemanno su un percorso
di quieta ricostruzione di sé – e magari di una qualche destra possibile – dopo
i nefasti fasti del potere: un percorso che fino a ieri aveva accenti gozzaniani.
Con l’adorabile zia Maria, le scritte “noi Alemanno duriamo a lungo”, le foto
invero tristissime con la pizza a taglio sulla scrivania, le presenze in piazza
e a Tor Sapienza, e il tintinnare delle multe sulla panda rossa, e le foto dei
temporali romani, gli immigrati, le foto dei Fori imperiali vuoti di macchine
(“la grande tristezza”), le iniziative di presentazione a Rieti della
“rivoluzione italiana”, i pomeriggi a convegno con “gli amici di Fratelli
d’Italia” per il porto di Gioia Tauro, i plausi al ribellismo azzurro di
Raffaele Fitto, il figlio che studia l’esame all’università, le trasferte a
Orvieto, a Crotone, a Catanzaro, le presentazioni del suo ultimo libro. Insomma,
il disegno complessivo di un crepuscolo politico battagliero, tutto sommato ben
vissuto, nello stile di un grande avvenire dietro le spalle. Salvo naturalmente
il puntuale, reiterato, a tratti ossessivo attacco a Marino, l’uomo che gli
soffiò la poltrona in Campidoglio: comprensibile anche questo, in fondo. E non
solo per motivi personali. Già, perché adesso che Alemanno è indagato, e il
senatore grillino Andrea Cioffoli ne chiede le “dimissioni”, a Montecitorio
parlamentari e giornalisti sbottano: “Ma dimissioni da che?”. Con il che
chiarendo in che punto fosse precipitata – prima del diluvio appunto – la
percezione pubblica di un personaggio che i più avevano salutato nella primavera
del 2013, dopo i ballottaggi. Ecco invece Alemanno è sempre rimasto lì, da
perdente ai ballottaggi, nel consiglio comunale a Roma. Mancata pure la
catapulta delle europee con Fdi, ha continuato ad essere legato a doppio filo
col regno che una volta guidò. Cercando anche di far dimenticare i lati peggiori
di quei cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di
presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di
garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, fino alla
sublime catastrofe della gestione della neve a Roma. Ombre che parevano
sbiadite, consegnate al passato – anche grazie alle disgrazie
dell’amministrazione Marino – e che invece ora tornano a brillare.
Buzzi, la mente della coop
con le mani in pasta. Salvatore Buzzi, 59 anni, in galera è di casa. Fu lì
che gli venne l'idea, e non si trovava in gita di piacere, scrive Roberto
Scafuri su “Il
Giornale”. Il 29 giugno dell'85, dopo un convegno tenutosi a Rebibbia l'anno
prima, fonda la cooperativa sociale per il reinserimento dei detenuti. «Non fu
un atto volontario, ero un detenuto in attesa di giudizio», ricorderà con
ironia. Nel 2004 la «29 giugno» (la chiamarono proprio così, «per tenere a mente
quella giornata che aprì le nostre gabbie mentali») ha già 215 dipendenti. Uno
snodo delle politiche ambientali e sociali del Comune. Di lì a poco, secondo gli
inquirenti, per Buzzi ci sarebbe stata una seconda «illuminazione», ancora più
brillante della prima. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il
traffico di droga rende meno», dice nelle intercettazioni. Sistema perfetto per
far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici, il cui crocevia porta il nome di
Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni. Anche Buzzi godeva
di buone entrature : «Solo in quattro sanno quello che succede e sono
nell'ordine Bianchini, Marino, Zingaretti e Meta», dice a Carminati. E questi,
senza esitazioni: «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi ,
amico mio».
Ozzimo, dal volontariato a
ras del piano casa. Daniele Ozzimo è un ragazzo di Centocelle, classe '72,
uno conosciuto dalle parti della Tiburtina perché s'è fatto largo nel
volontariato, scrive Roberto Scafuri su “Il
Giornale”. Classico studente «impegnato» di Scienze politiche alla Sapienza,
nel '94 s'iscrive al Pds, continua a occuparsi di servizi sociali e disabilità.
Nel 2000 è segretario del partito al V Municipio, nel 2008 entra nel Consiglio
comunale tra le fila del Pd. Ma è già un altro Daniele, rispetto al ragazzo di
Centocelle che si batteva per handicappati e barriere architettoniche. Ora può
contare su appoggi importanti e conoscenze influenti, che gli valgono la
poltronissima di assessore alla Casa nella giunta Marino. Con deleghe
dall'emergenza abitativa al piano casa, ai centri di formazione professionale.
Ieri Ozzimo si è dimesso subito, non credendo ai propri occhi e reclamando la
totale estraneità ai fatti, «per non arrecare in nessun modo danno
all'amministrazione della città». Attestati di stima gli sono arrivati dal
sindaco e altri esponenti del Pd cittadino, duramente colpito anche per il
coinvolgimento nell'inchiesta di Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea
capitolina, e due consiglieri: Franco Figurelli ed Eugenio Patanè (regionale).
La foto che imbarazza il
ministro Poletti, scrive “Libero
Quotidiano”. C'è una foto che sta girando online e che
certamente imbarazzerà l'attuale ministro del Lavoro del governo Renzi, Giuliano
Poletti. E' uno scatto risalente al 2010, quando Poletti era presidente della
Lega Coop. E lo vede a tavola in un ristorante romano assieme ad alcuni dei
personaggi che sono stati coinvolti e indagati nell'indagine sulla "cupola
romana" che controllava gli appalti nella capitale con modalità di stampo
mafioso. Poletti è seduto accanto a Franco Panzironi, ex ad della
municipalizzata dei rifiuti Ama (arrestato); il deputato del Pd Umberto Marroni
(non indagato); l'ex assessore alla Casa della giunta Alemanno Daniele Ozzimo
(indagato); Angelo Marroni, garante dei detenuti del Lazio (non indagato);
Salvatore Buzzi, responsabile della coop "29 giugno" (indagato); l'allora
sindaco Gianni Alemanno (indagato). per la cronaca, seduto a un altro tavolo c'è
il pregiudicato Luciano Casamonica.
Da Poletti al Pdl tutti a
tavola col capo clan Una foto racconta il potere di mafia Capitale. Nel 2010
il braccio destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi organizzò una cena per
ringraziare "I politici che ci sono a fianco". Da Rebibbia al Palazzo,
l'incredibile carriera di un ex detenuto modello divenuto il dominus di una
cooperativa da sessanta milioni, scrive Emiliano Fittipaldi “L’Espresso”
C'è una foto che racconta alla perfezione la parabola di Salvatore Buzzi,
secondo la procura di Roma capo della nuova Mafia capitolina insieme all'ex
fascista Massimo Carminati. Lo scatto risale al 2010, e immortala una cena in un
centro di accoglienza organizzata da Buzzi e la sua cooperativa, "29 giugno".
Attorno al tavolo ci sono tutti quelli che a Roma contavano qualcosa. Politici
di destra e sinistra, assessori e esponenti del clan dei Casamonica, tutti
insieme appassionatamente. Buzzi, detenuto negli anni '70 e '80 per omicidio,
poteva dirsi più che soddisfatto: era riuscito infatti a far sedere fianco a
fianco l'allora sindaco Gianni Alemanno (oggi indagato con Buzzi per
associazione mafiosa), l'ex capo dell'Ama Franco Panzironi (arrestato con
Buzzi), un esponente del clan dei Casamonica in semilibertà, l'attuale assessore
alla Casa Daniele Ozzimo (al tempo consigliere Pd e pure lui indagato oggi dai
magistrati: si è dimesso ), il portavoce dell'ex sindaco Sveva Belviso e il
potente parlamentare del Pd Umberto Marroni, seduto, sorridente, vicino a
Panzironi. Marroni (accompagnato dal padre Angiolo, al tempo garante dei
detenuti della Regione Lazio) era capogruppo del Partito democratico in
Consiglio comunale, sulla carta il capo dell'opposizione ad Alemanno. Oggi è
onorevole, e siede alla Camera. «Per due anni - raccontò Buzzi - insieme ad
altre nove cooperative abbiamo lottato contro Alemanno che voleva tagliarci i
fondi. Abbiamo organizzato sette manifestazioni in Campidoglio. Alla fine
abbiamo raggiunto un accordo e perciò c'è stata quella cena. Invitammo i
politici che ci erano stati a fianco, per questo c'erano anche esponenti del
Pd». Nella cena bipartisan Buzzi era riuscito a infilare anche Giuliano Poletti,
attuale ministro del Lavoro e allora gran capo della Lega Coop. Poletti e Buzzi
si conoscono bene: il ministro (non indagato e non coinvolto nell'inchiesta) è
stato invitato dal braccio destro di Carminati anche all'assemblea della
cooperativa 29 giugno per l'approvazione del bilancio 2013. Tanto che, per
festeggiare l'arrivo di Giuliano al dicastero del Lavoro, lo scorso maggio Buzzi
ha dedicato la copertina del magazine dell'associazione proprio all'ignaro
Poletti. Numero del magazine sul quale troviamo le firma di Angiolo Morroni e
interviste di Ozzimo e Giovanni Fiscon, dirigente dell'Ama anche lui finito in
manette. Buzzi è uno che ci sa fare. La sua carriera ha dell'incredibile.
Arrestato per omicidio, condannato a trent'anni, nel 1980 decide di mettersi a
studiare e di laurearsi. Tre anni più tardi, risulta a "L'Espresso" riesce a
diventare dottore in Lettere Moderne, con una tesi sull'attività giornalistica
dell'economista Pareto. Un lavoro eccellente: Buzzi prende 110 e lode, è il
primo a laurearsi all'interno delle mura di Rebibbia. Un anno dopo, sempre in
carcere, si fa notare prendendo la parola in un convegno su "Misure alternative
alla detenzione e ruolo della comunità esterna". La sua relazione chiede che la
riforma carceraria venga applicata rapidamente, in modo da garantire ai
carcerati misure alternative alla detenzione. Anche stavolta, applausi a scena
aperta, tanto che Stefano Rodotà, allora deputato della sinistra indipendente,
secondo l'Ansa dichiara che «la relazione svolta dal detenuto Buzzi rappresenta
un documento concreto e di grandissimo interesse per cui d'ora in poi per le
istituzioni non ci sono più alibi». Un detenuto modello, insomma. Buzzi due anni
dopo corona il suo sogno, ed esce dalla cella. Fonda con altri soci la
cooperativa «Rebibbia 29 giugno» e comincia a rifarsi una vita. Partecipa nel
1986 a un convegno sugli anni di piombo a Roma a cui partecipano ex terroristi
dissociati che hanno aperto cooperative, e racconta di aver ottenuto - con la
sua - alcuni lavori di ristrutturazione sulla Tiberina, persino quelli per la
ristrutturazione di una caserma dei carabinieri. «Se non ci saranno altri
lavori» spiega dal palco «tutto finirà. Cosa aspetta il comune di Roma a dare
una destinazione ai 500 milioni di lire che la Regione Lazio ha attribuito ad
ogni comune sede di istituzioni carcerarie?». Non sappiamo quando Buzzi decide
si tornare al crimine, né quando conosce Carminati e e i sodali con cui costuira
l'associazione mafiosa che - ha spiegato Giuseppe Pignatone - da lustri domina
Roma attraverso tangenti, intimidazioni, usura, riciclaggio e corruzione.
Sappiamo che di soldi, alla sua cooperativa, ne arriveranno a bizzeffe. Grazie,
soprattutto, agli accordi con la politica: spulciando il bilancio 2013, si
scopre che i ricavi della galassia presieduta da Buzzi hanno sfiorato i 59
milioni di euro, mentre il patrimonio di gruppo ha superato i 16,4 milioni.
Possibile che la politica, in tutti questi anni, non si sia mai accorta che l'ex
detenuto modello era tornato dalla parte dei cattivi?
«Ohh ma che... me so’
comprato Coratti» Intercettazioni, imbarazzo nel Pd romano. Secondo gli
inquirenti che indagano sulla Mafia Capitale, all'esponente dem Mirko Coratti
sarebbero stati promessi "150 mila euro di stecca" qualora fosse intervenuto per
sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”.
«E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi amico mio, eh capisci».
A buon intenditor poche parole. E l'ultimo Re di Roma, Massimo Carminati detto
“Er cecato”, le parole sa dosarle con attenzione. Metafore e mezze parole per
dire e non dire. I suoi interlocutori però capiscono al volo gli ordini.
Mettersi la minigonna e andare a battere è un messaggio preciso che coglie al
volo Salvatore Buzzi, il presidente della Cooperativa 29 giugno, legata a
Legacoop, imprenditore di riferimento di Carminati e con quest'ultimo finito
agli arresti nell'operazione sulla Mafia capitale della procura antimafia di
Roma. Quella frase vuol dire che il gruppo, che i pm definiscono Mafia Capitale,
ha necessita di trovare nuovi referenti politici nell'era post Alemanno. «A
seguito del mutamento nella maggioranza del comune di Roma sortito dalle
consultazioni elettorali, investe nell’acquisizione di nuovo capitale
istituzionale, decisione strategica mimeticamente rappresentata dall’espressione
di Carminati, a suo dire rivolta a Buzzi». All'ordine di Carminati segue una
campagna acquisti nella nuova compagine di maggioranza. «La scuderia è pronta»,
commenta Buzzi, che i pm definiscono come uomo in «indiretta collaborazione con
Carminati», riferendosi ad alcuni amici politici che hanno ricevuto incarichi
istituzionali. Tra le figure agganciate a sinistra, i magistrati e gli
investigatori del Ros guidati dal colonnello Stefano Russo, indicano Mirko
Coratti. Esponente del Partito democratico e presidente dell'Assemblea
capitolina. Un'insospettabile cui si rivolge Buzzi, il quale sostiene che« solo
per metteme a sede a parla’ con Coratti, 10mila gli ho portato». E' sempre il
presidente della cooperativa rossa a rivelare altri particolari captati dalle
cimici dei detective dell'Arma. A Coratti sarebbero stati promessi 150 mila euro
di stecca qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di
euro sul sociale. «Ohh ma che..me so’ comprato Coratti» esclama il manager della
29 giugno. Un ulteriore riferimento al presidente del Consiglio comunale è in
una conversazione tra il boss Carminati e lo stesso Buzzi. «Con ste bustine, il
libricino nero e bustine qua, eh!» chiede il Re di Roma, «Vedo Coratti, il
segretario vediamo ste cose con lui» risponde l'imprenditore riferendosi alle
«bustine» sul tavolo. I rapporti diretti con Coratti, scrivono i magistrati, non
sono millanteria. «Emerge non solo dalle conversazioni intrattenute con il capo
segreteria di costui finalizzate a costruire momenti d’incontro, ma anche da
contatti tra Buzzi e Coratti, riconducibili alla gara del multimateriale di Ama
e ad altre questioni di rilevanza pubblica», scrive il giudice per le indagini
preliminari nell'ordinanza di custodia cautelare. A tirare in ballo il politico
del Pd un'altra frase intercettata pronunciata sempre da Buzzi: «Perché Coratti
sicuramente me chiede da divide già l’anticipo per cui io glie dò un lotto.. ah
gliel’ho detto che il milione già se lo so…possono..». Intercettazioni che hanno
fatto luce sul sistema de "Er cecato" e che stanno mettendo in forte imbarazzo
il Pd capitolino.
Killer neri e violenti
rossi. Il "cupolone" trasversale nel nome degli affari. La strana alleanza
tra l'ex Nar Carminati e l'uomo delle cooperative Buzzi. Distanti in politica ma
uniti nel mettere in società i loro contatti per far soldi, scrive Massimo
Malpica su “Il
Giornale”. Il Rosso e il Nero, a braccetto, nel nome degli affari. Secondo
la procura di Roma, la capitale era coperta da un «cupolone» rigorosamente
trasversale, che per i magistrati ha, in pratica, reinventato la mafia.
Perquisizioni dei Carabinieri in Campidoglio nell'ambito di un'inchiesta su
un'organizzazione di stampo mafioso. Ma se toccherà alle toghe dimostrare la
concretezza delle accuse, non può non colpire la «strana coppia» al centro
dell'indagine che ha sconvolto la città eterna. Da una parte c'è Massimo
Carminati, l'esponente dei Nar legato alla banda della Magliana (è il «Nero»
nell'epopea di libri, film e tv sulla banda, ma il suo vero soprannome è il «Cecato»).
Dall'altra c'è Salvatore Buzzi, una condanna per omicidio risalente agli anni
'80 prima di far carriera come presidente della cooperativa di detenuti ed ex
detenuti «29 giugno», legata a Legacoop. Che c'azzeccano Nar e coop rosse? Che
ci fanno insieme due tipi così? Fanno soldi, nel «mondo di mezzo». Secondo la
procura di Roma, la loro «cupola» pilotava e lucrava su gare e appalti pubblici,
dai rifiuti ai campi nomadi, dalla manutenzione del verde pubblico ai centri
d'accoglienza. Tutto contando su solidissimi appoggi politici, naturalmente
trasversali anch'essi. Tant'è che tra gli indagati c'è l'ex sindaco di
centrodestra della capitale, Gianni Alemanno, perché per la procura uomini a lui
vicini erano legati all'organizzazione. Ma c'è anche l'assessore alla Casa della
giunta Marino targata Pd, Daniele Ozzimo, come pure il presidente dell'assemblea
capitolina, Mirko Coratti. E tra i nomi citati a vario titolo nelle mille e
passa pagine di ordinanza c'è quasi tutta la politica locale a 360 gradi. Lo
slogan, insomma, è che «la politica è una cosa, gli affari so' affari», come
riassume, intercettato, proprio Buzzi, rispondendo a chi gli chiede come, lui di
sinistra, possa lavorare con Carminati. E se la guida è bicefala, ognuno cura i
rapporti con gli «amici» della propria parte politica, nel comune interesse. E
bicefale, trasversali, inevitabilmente lo diventano anche le ramificazioni del
comitato d'affari. La «mafia capitale», come l'ha battezzata la procura di Roma.
O semplicemente la «scuderia», per rubare proprio a Carminati e Buzzi la
metafora ippica che i due usano a proposito della nuova giunta di Ignazio
Marino, sperando che dei «nove cavalli» alla fine ce ne fossero almeno «sei
dentro», così «la scuderia è pronta» - spiega Buzzi - e «poi si cavalcherà»,
replica Carminati. Diversi, appunto, ma soci, collaborativi, in grado di usare
sia le amicizie che le intimidazioni. Tanto che Buzzi racconta a un
collaboratore di quella volta in cui, non riuscendo a parlare al capo segreteria
di Alemanno, Antonio Lucarelli, per lo sblocco di un finanziamento, era
intervenuto con una telefonata Carminati: «Aò alle tre meno cinque scende, dice,
“ho parlato con Massimo, tutto a posto domani vai”... aò, tutto a posto
veramente! C'hanno paura de lui». Intimidazione o amicizia, l'importante è il
business. E appunto la vocazione agli affari, annotano gli inquirenti, «non ha
barriere politiche». Con Buzzi che, subito dopo le ultime comunali romane,
quando Marino al ballottaggio sconfigge Alemanno, si rammarica ma assicura di
non essere impreparato. Perché lui, e l'organizzazione, erano già pronti a
qualunque evenienza, indipendentemente dall'esito del voto. «Se vinceva Alemanno
ce l'avevamo tutti comprati», racconta intercettato, «e mo vedemo Marino, poi ce
pigliamo 'e misure con Marino». Sono i traghettatori e parlano con tutti.
Mediatori, sensali, collettori, ricattatori quando serve, portano le tangenti e
decidono le assunzioni, definiscono gli affari e spartiscono la torta,
raccomandano e suggeriscono, tramano e fanno girare il mondo. Sono le anime del
mondo di mezzo, sono i padroni del purgatorio, né vivi né morti. Non esiste più
destra e sinistra, ma alto e basso, sopra e sotto. L'obiettivo è sempre lo
stesso: denaro e potere. Nessun timore nel mettere le mani su una giunta e nel
lavorare per fare il bis con la successiva, di colore opposto. Nessun problema
nel trovare gli agganci, a destra prima e a sinistra poi. Il Rosso e il Nero,
insieme alla conquista di Roma.
"Bustoni di soldi a tutti,
anche a Rifondazione". Nelle carte dell'indagine Carminati descrive la rete
di contatti tra criminali e politici. I pm: "Era intoccabile perché foraggiava
partiti di ogni genere", scrive Patricia Tagliaferri su “Il
Giornale”. Nel mondo di Massimo Carminati, «il mondo di mezzo» che ha dato
il nome all'inchiesta della Procura di Roma, è normale che un ex Nar vada a cena
con un politico. È lo stesso Carminati a dirlo al suo braccio destro militare
Riccardo Brugia. Per il procuratore Giuseppe Pignatone l'intercettazione più
significativa di tutta l'indagine è quella in cui Carminati spiega la teoria del
mondo di mezzo, quello dove «ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo
nel mezzo...un mondo in cui tutti si incontrano e dove è possibile che un domani
io mi trovi a cena con un politico». Perché per i pm la struttura messa in piedi
da Carminati era una vera e propria cerniera tra ambienti criminali e settori
istituzionali, che traeva il suo potere e la sua forza di intimidazione dai
legami storici con la Banda della Magliana e con l'eversione nera e il cui
sviluppo criminale si era evoluto al punto da individuare come terreni
privilegiati della sua azione, quelli dell'economia e degli appalti. Carminati
utilizzava i suoi trascorsi criminali per convincere gli imprenditori ad
affiliarsi alla sua organizzazione. Con uno di questi, che incuriosito gli aveva
chiesto quale fosse a suo dire la rappresentazione cinematografica più calzante
che era stata fatta del suo personaggio, si mette a fare una vera e propria
classifica del suo palmares: «Bene Romanzo Criminale , ma solo il film, perché
la serie è una buffonata, ma la vera banda della Magliana è quella descritta su
History Channel». Per i magistrati sarebbe un errore derubricare il ruolo di
Carminati a quello di pensionato del crimine. Piuttosto deve essere considerato
un personaggio dalla caratura criminale assoluta, un «intoccabile per aver
foraggiato partiti di ogni genere che rende intoccabili quelli che con lui si
associano». Nell'ordinanza viene citata un'informativa del Ros in cui Salvatore
Buzzi spiegava di aver saputo dallo stesso Carminati del suo coinvolgimento
negli affari illeciti in cui era coinvolta Finmeccanica: «Ma lo sai perché
Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica,
bustoni di soldi. A tutti li ha portati Massimo. Non mi dice i nomi perché non
me li dice....tutti! Ecco perché ogni tanto adesso...4 milioni dentro le
buste...Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l'ho portati a tutti! Pure a
Rifondazione!”». I pm citano una conversazione tra Carminati e l'ex direttore
commerciale di Finmeccanica Paolo Pozzessere, imputato di corruzione per vicende
interne alla controllata pubblica, in cui quest'ultimo chiede protezione all'ex
Nar: P.:«Chi c'hai te di cose là...per difendermi?» C.:«C'ho il gruppo....so'
tosti loro, comunque sono tosti, so' duri insomma, eh. È dura cioè, però capito
loro una volta che si liberano del processo una cosa è finita la festa no, che
cazzo te ne frega...vuoi mette. A te praticamente l'accusa viene da coso, da
Borgogni la tua, l'accusa de Borgogni». Quando sta per cambiare la maggioranza
al Comune cominciano le strategie per tessere rapporti con la nuova
amministrazione. Carminati dà a Buzzi indicazioni precise: «Mettiti la
minigonna, amico mio, e vai a batte co' questi». L'obiettivo è di tessere
rapporti con Mirko Coratti, presidente dell'assemblea comunale, e di legare il
più possibile a loro il dirigente delle segreteria del nuovo sindaco Marino,
Mattia Stella. Dopo la nomina di Giovanni Fiscon a direttore generale dell'Ama,
frutto di una pesante attività di lobbying, i pm intercettano una telefonata nel
corso della quale il manager informa Buzzi della nomina e questi gli dispensa
alcuni consigli tranquillizzandolo nel caso le elezioni comunali le avesse vinte
Marino: «Marino viaggia in area Zingaretti, capito? Riusciamo a parlarci,
tranquillo». La ricerca di interlocutori nell'amministrazione romana non ha
confini nè colori. La mancata vincita di Alemanno, certo, li ha rammaricati («Se
vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori
pubblici, Tredicine doveva sta' assessore ai servizi sociali, Cochi andava al
verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno che cazzo voi di più»). Ma
si sono presto riorganizzati e le trattative corruttive sono andate avanti anche
con l'amministrazione successiva. Buzzi riferisce che Franco Figurelli, capo
segreteria dell'assemblea, veniva retribuito con mille euro mensili, oltre a
10mila euro pagati per poter incontrare Coratti, mentre a quest'ultimo venivano
promessi 150mila euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3
milioni sul sociale. Buzzi intercettato spiega quante ruote vanno unte nel suo
lavoro: «Pago tutti, anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano
pochi?». Poi prosegue: «La cooperativa campa di politica, perché il lavoro che
faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, eventi,
faccio pubblicità, pago segretaria, pago cena, pago manifesti, lunedì c'ho una
cena da 20mila euro pensa... questo è il momento che paghi di più perché stanno
le elezioni comunali...noi spendiamo un sacco di soldi sul Comune». Cercando
sponde anche nei media a proposito di un appalto contestato per un centro
rifugiati, salta fuori un sms della parlamentare Pd pugliese Micaela Campana in
risposta alla richiesta di Buzzi di presentare un'interrogazione. Il messaggio
della deputata, annotano gli investigatori, si chiude con un «bacio grande
Capo». Buzzi vanta buoni rapporti anche con il vice di Ignazio Marino, Luigi
Nieri di Sel. Tanto da caldeggiare direttamente con lui la nomina di un capo
dipartimento che «avesse risposto alle loro esigenze». Dopo sms e chiacchiere,
Buzzi conclude: «Dacce una mano perché stamo veramente messi male con la Cutini
(assessore alle Politiche sociali che aveva voce in capitolo, ndr)». E Nieri lo
rassicurava: «Lo so lo so, come no? Assolutamente...va bene? Poi ce vediamo
pure...».
Il business dei migranti e
l'asse con le cooperative. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a
un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della
cooperazione, scrive Gian Maria De Francesco su “Il
Giornale”.
Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti
profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione. Non è solo il
centrodestra il terreno di coltura dell'organizzazione criminale guidata da
Massimo Carminati.
Nel corso di una conversazione intercettata nell'ufficio di Salvatore Buzzi il
15 novembre 2013, Claudio Bolla illustra a tre avvocati la storia delle
cooperative costituite dallo stesso Buzzi. Qui di seguito il riassunto dei
pubblici ministeri: «Negli anni 1999/2000 la cooperativa (29 Giugno Onlus, ndr)
entrava in contatto con la Lega Coop dell'area emiliano-romagnola, con la quale
iniziò a collaborare nell'ambito delle pulizie industriali. Ciò faceva compiere
un primo salto di qualità alla cooperativa stessa, la quale decideva di
interessarsi anche della raccolta dei rifiuti e manutenzione del verde. Bolla
spiegava quindi che, nel tempo, la cooperativa 29 Giugno era cresciuta sempre di
più, tanto che nel 2010 venne deciso di costituire anche la cooperativa 29
Giugno Servizi, attiva ne settore delle pulizie. (...) A tal proposito, Bolla
precisava: «...però nasce e c'ha uno scatto di qualità nel momento in cui ci
viene affidata l'emergenza Nord Africa, che riusciamo anche con l'apporto della
Lega Coop a contendere al gruppo della Cooperativa cattolica:
l'Arciconfraternita.. il rapporto con loro, soprattutto dal punto di vista
diciamo delle attività è sempre di l a 5, nel campo dell'accoglienza richiedenti
asilo, nel campo dell'accoglienza minori...ai Misna, perché abbiamo anche quel
settore... però già essere entrati... contemporaneamente riusciamo con Eriches
anche nel campo dell'emergenza alloggiativa». Poi precisava: «...Questo 1 a 5
però ci ha consentito di far si che il consorzio Eriches, diciamo da un
consorzio poco significativo che a stento raggiungeva il milione di curo fino al
2010... abbia avuto un fatturato significativo, che stiamo intorno ai 16 milioni
di euro».
Rapporti anche con
Zingaretti. Il 22 gennaio 2013 Salvatore Buzzi parla nel suo studio con
Carlo Guarany, referente dell'organizzazione per i rapporti con la pubblica
amministrazione. L'associazione a delinquere è preoccupata di un'eventuale
vittoria del centrosinistra alle amministrative, ma i rapporti con alcuni
esponenti del Pd non sembrano poi cattivi. In particolare, con l'ex capogruppo
dem in consiglio comunale e ora deputato Umberto Marroni (candidato alle
primarie ma sconfitto da Ignazio Marino), con Mario Ciarla (attuale presidente
della Commissione Agricoltura della Regione Lazio) e con il governatore laziale
Nicola Zingaretti.
Buzzi: è vero, è vero se vince
il centro sinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene.
Guarany: e chi ci va più dal
Sindaco poi..(...)
G: va bene, senti un po'
Salvatore, siccome poi oggi pomeriggio devo passare da Marroni per la... siccome
mi ridirà di «Ciarla» (fonetico, ndr) ci pensi tu a fissa' con lui?
B: con Ciarla?
G: eh
B: ma si fa una cena, famo un
incontro.
G: no, no, ma io pensavo di
vederlo io e te, andarlo a trova'... incontrarlo io e te.
B: esatto.
G: si, si, poi magari lo famo
venì quando famo la cosa con Zingaretti.
S: esatto..
Tangenti a Patané. Particolare
rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco
un'intercettazione del 16 maggio 2014: Particolare rilievo assume la figura del
consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un’intercettazione del 16 maggio
2014: «Buzzi: eh .. se lui riesce .. se Massimo se riesce a piglià quello della
destra noi pigliamo (inc) ... sta a loro trovasse co la destra! ... terza cosa
.. Patané voleva 120 mila euro a lordo .. allora gli ho detto "scusa ...
Caldarelli: de quale? .. parli de? Gauarany: del Multimateriale"».
Altri agganci con il Pd. Nelle
conversazioni del sodalizio si accenna a un non megli oprecisato Leonori in
riferimento al Pd. Potrebbe trattarsi di Marta Leonori, deputata chiamata da
Ignazio Marino nella giunta del Comune di Roma per «liberare» un posto
all’inquisito Marco Di Stefano. «Proseguendo nell’analisi degli appalti sui
quali focalizzare l’impegno delle proprie risorse, Guarany palesava anche la
necessità di trovare un sostegno politico( «madobbiamo sceglie la strada
politica pure .. capito .. la strada politica sono 2 ..odentro il Pd.. che
sarebbe questa de Leonori.. »). In merito ad una non meglio precisata gara da
“60 milioni”,Massimo Carminati ricordava ai presenti che Regione Lazio potevano
contare anche sull'appoggio di Luca Gramazio».
Primarie «inquinate».
Nell’ottobre 2013 il sodalizio criminale tenta di accreditarsi ulteriormente con
il Pd romano sostenendo i principali candidati alla segreteria locale: il
senatore Lionello Cosentino, poi vincitore, e Tommaso Giuntella. Nelle
intercettazioni compare pure il nome di Daniele Pulcini,l’imprenditore da cui il
piddino Marco Di Stefano affittò due immobili a 7 milioni di euro per Lazio
service, società della Regione. Il 28 ottobre 2013 «Salvatore Buzzi tentava di
effettuare delle chiamate e, non riuscendo a mettersi in contatto, esclamava:
“non risponde Daniele!“ (riferendosi a Daniele Pulcini). Alla domanda di Massimo
Carminati: “come siete messi per le primarie?“ Buzzi rispondeva: “stiamo a
sostene' tutti e due ... avemo dato centoquaranta voti a Giuntella e 80 a
Cosentino“, puntualizzando: “Cosentino è proprio amico nostro“.
Spunta anche il ministro
Cancellieri. In una conversazione del1 4novembre 2012 tra gli indagati si fa
riferimento anche ad una telefonata di Gianni Alemanno all’ex ministro
dell’Interno Annamaria Cancellieri per ottenere risorse pubbliche per Roma. «Quadrana
da Alemanno .. . ha chiamato la Cancellieri(Ministro dell’Interno,ndr), mo
domani si sente Salvi con questo del Ministero, intanto vediamo un attimo di
riuscire a far partire, anche tramite solo una lettera ... che serve a Salvi per
sbloccare gli impegni».Gramazio precisava che la lettera da parte del Ministero
ad Alemanno,sarebbe stata sufficiente per sbloccare i fondi.
C’è pure Bettini. Il 9 aprile
2014 Buzzi chiamò Carlo Guarany dicendogli che sarebbe andato lui da Coratti
(presidente del consiglio comunale di Roma), quindi gli chiedeva di andare da
Bettini (Goffredo Bettini, deus ex machina di Ignazio Marino; ndr).
L’affare «verde». In una
intercettazione del novembre 2012 Fabrizio Testa afferma: «perfetto ...
importantissimo ... D'Ausilio (verosimilmente Francesco D’Ausilio: Capogruppo PD,
ndr) chiama Giovanni Quarzo (Consigliere Roma Capitale-Presidente Commissione
Trasparenza, ndr) e gli dice “Sul verde Roma stanno (inc) i soldi“ dice “voi chi
c’avete“... allora ha detto “io c’cho Buzzi della 29 giugno è il mio referente
per tutto il verde di Roma».
"Gli immigrati rendono più
della droga". La mafia nera nel business accoglienza. Così i fascio-mafiosi
di Massimo Carminati si sarebbero spartiti secondo i Pm i soldi per i
richiedenti asilo. Milioni di euro. Senza controlli, grazie alla logica
dell'emergenza. E a rapporti privilegiati con le autorità. La parte delle
indagini che riguarda il consorzio Eriches e Salvatore Buzzi, scrive Francesca
Sironi su “L’Espresso”.
Uno sbarco a Brindisi«Rendono più della droga». Per la mafia nera che comandava
su Roma gli immigrati erano un business favoloso. Messi da parte gli ideali
politici, la banda fascista che rispondeva agli ordini di Massimo Carminati,
arrestato questa mattina insieme ad altre 36 persone, aveva trovato
nell'accoglienza dei profughi l'occasione per intascare milioni. Il regista
dell'operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L'idea di
trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni '80 proprio in
prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del
consorzio di cooperative Eriches guidava un gruppo capace di chiudere il
bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da
servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria,
manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel
terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi
strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe
«un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento
imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l'attività economica del
sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione». I documenti
dell'operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della
mafia fascista svelata da Lirio Abbate su “
l'Espresso ” in numerose inchieste, mostrano nuovi dettagli sull'attività
della ramificazione nera di Roma. A partire appunto dall'attività per gli
stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli
immigrati?», dice Buzzi al telefono in un'intercettazione: «Non c'ho idea»,
risponde l'interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E
in un'altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta
milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari,
sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono
a zero». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di
droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro
'imprenditoriale' di Massimo Carminati. Più chiaro di così. Il suo consorzio,
Eriches, dentro cui si trova anche la "Cooperativa sociale 29 giugno", nel 2011
riesce ad entrare a pieno titolo nella gestione dell'Emergenza Nord Africa: un
fiume di soldi (1 miliardo e 300 milioni) gestiti a livello nazionale dalla
Protezione Civile e dalle prefetture per l'accoglienza straordinaria delle
persone in fuga dalla guerra in Libia e dalle rivolte della Primavera Araba. È
in quel periodo che le cooperative di Buzzi, nate come progetto durante la sua
permanenza in carcere negli anni '80, arrivano a fatturare oltre 16 milioni di
euro solo con l'accoglienza degli stranieri. Business che continueranno a
seguire. Anche che sono proseguiti fino ad oggi con la marea umana di Mare
Nostrum. Per ottenere immigrati da ospitare, intascando rimborsi che vanno dai
30 ai 45 euro al giorno a persona, Buzzi s'impone nelle trattative. E può
contare, stando alle indagini, su referenti di primo piano. Come Luca Odevaine,
presidente di Fondazione IntegrAzione ed ex vice capo di Gabinetto di Walter
Veltroni al comune di Roma. In qualità di rappresentanza dell'Upi, l'unione
delle province italiane, Odevaine seide al “Tavolo di coordinamento nazionale
sull'accoglienza”, da cui, spiega in diversi incontri con Buzzi e i suoi
colleghi, può «orientare i flussi che arrivano», favorendo le cooperative
amiche, perché ricevano più immigrati e quindi più soldi dallo Stato. In
un'altra intercettazione sostiene di poter controllare le decisioni del prefetto
Rosetta Scotto Lavina «che è in difficoltà, ha troppi sbarchi, non sa dove
mettere le persone», e per questo lui può aiutarla indicandole a chi affidare i
fondi. Per questa attenzione, spiega Buzzi in una serie di intercettazioni
riportate negli atti, Odevaine avrebbe ricevuto dal clan di Carminati uno
stipendio da 5mila euro al mese. Ma non era l'unico riferimento politico del
consorzio. Anche l'assessore alle politiche sociali Angelo Scozzafava in una
telefonata assicura: «su Roma quanti posti c'hai? Perché me sa che sta per
arrivà l'ondata...». Per controllare l'accoglienza degli stranieri, Buzzi
avrebbe avuto un accordo «al 50/50», ovvero per dividersi a metà tutti gli
appalti, con la rete dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San
Trifone, network di coop cattoliche in cui rientra anche Domus Caritatis, la
cooperativa di cui “
l'Espresso ” aveva raccontato le politiche spregiudicate durante l'Emergenza
Nord Africa del 2012, quando barboni e adulti furono fatti passare per minorenni
pur di ottenere rimborsi duplicati dal ministero (malagestione denunciata da
Save The Children e dal Garante per l'Infanzia). Stando agli atti dei Pm,
l'accordo per la spartizione del business dei profughi sarebbe stato sancito con
Tiziano Zuccolo, rappresentante della rete dell'Arciconfraternita, con cui
ancora nel maggio del 2013 Buzzi parlava del “Patto” in riferimento all'arrivo
dei siriani scappati dalla guerra. «Va be’, a Salvato’, noi l’accordo, l’accordo
è quello al cinquanta, no?», chiedeva Zuccolo, e Buzzi confermava: «Ok, io sto
premendo per riceverne altri 140» e Zuccolo ribadiva: «Eh, bravo, l’accordo è al
cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?» Grazie a queste poltiche
la holding dominata da Buzzi, che condivideva tutte le scelte, secondo le
indagini, con il boss Carminati, è riuscito a ricevere anche fondi europei. Nel
2011 ad esempio ha avuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati ben 234mila e 400
euro, di cui 130 direttamente da Bruxelles e gli altri dallo Stato. Nel 2012 le
cooperative che rispondevano alla “mafia capitale” hanno assistito 1320 famiglie
per conto del Comune di Roma nell'ambito di un'altra emergenza, quella
abitativa. Ma è stato il 2013 l'anno migliore per il consorzio Eriches, come si
legge nel bilancio, chiuso con un margine netto di quasi tre milioni di euro.
«Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione
delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme
con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», spiega il
presidente, Salvatore Buzzi: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale
per 491 immigrati facenti parte dello SPRAR, una commessa significativa che ci
consentirà di stabilizzarci nel settore», con rimborsi garantiti da 35 euro al
giorno. E pochi controlli sulla qualità degli aiuti. Nel 2013 Eriches ha vinto
anche il bando della prefettura di Roma per il Cara di Castelnuovo di Porto,
ovvero il centro per richiedenti asilo di Roma: centinaia di posti, continue
proteste per le condizioni indegne di vita. L'appalto da 21 milioni di euro è
stato però bloccato dal Tar. E nel bilancio Buzzi si lamenta, evocando il
conflitto d'interessi: «nonostante le nostre giustificazioni siano state
accettate dalla Prefettura, non siamo riusciti ad iniziare il servizio peralcuni
“dubbi” provvedimenti adottati della Terza Sezione Ter del TAR Lazio», scrive:
«presieduta da Linda Sandulli, la quale, per inciso, è proprietaria insieme al
marito di una ditta edile (PROETI Srl) che effettua manutenzioni proprio
all’interno del CARA; un enorme conflitto di interessi». «Siamo fiduciosi che il
Consiglio di Stato possa a breve ripristinare legalità e diritto», conclude.
Forse con un senso, implicito, dell'ironia.
Minori come schiavi ai
Mercati generali. Bambini egiziani ospiti delle case di accoglienza che
lavorano oltre 12 ore al giorno per pochi euro, intimidazioni e ricatti alle
famiglie che hanno pagato il viaggio della speranza verso l'Italia. È la realtà
del Centro Agroalimentare di Guidonia, alle porte di Roma, il più grande del
paese e terzo in Europa come volume d'affari. Malgrado gli sforzi di
sorveglianza e le inchieste della magistratura continua a essere preso d'assalto
da giovanissimi in cerca di un lavoro che si trasforma spesso in un brutale
sfruttamento, scrivono Rosita Fattore e Caterina Grignanisu “La
Repubblica”.
Caporalato al servizio dei
negozi di frutta, scrive Rosita Fattore. Come una prigione il Centro
agroalimentare di Roma è circondato da una rete di acciaio alta due metri e
mezzo, con sopra 20 centimetri di filo spinato. Tre turni di agenti controllano
continuamente l'intera area con cani lupo al guinzaglio, ma non è per non far
uscire qualcuno: scoraggiano l'ingresso dei non autorizzati. Ma ogni giorno
decine di minori scavalcano le recinzioni e spostano cassette di frutta per 12
ore, guadagnando 20 euro a giornata. Questo prevedeva l'accordo che le loro
famiglie hanno sottoscritto in patria, quando li hanno spediti attraverso il
mare, a fare fortuna in Italia. Per la legge sono le vittime
dell'intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro minorile.
Caporalato insomma. Il Centro agroalimentare di Roma, a Guidonia, è il mercato
generale più grande d'Italia, il terzo in Europa per volume di affari. Loro, i
clandestini che scavalcano, sono ragazzi egiziani fra gli 11 e i 18 anni.
"Abbiamo eseguito anche 200 respingimenti al giorno - racconta Flavio Massimo
Pallottini, direttore della Car scpa, società proprietaria dei 140 ettari di via
Tenuta del Cavaliere - ma non possiamo fare molto se non accompagnare questi
ragazzi fuori dal perimetro del Car. È un fenomeno preoccupante e odioso che
riguarda le persone di età minore che alloggiano nelle case famiglia che sono
pagate dai contribuenti, e che magari il giorno vanno a fare cose di questo
tipo". Sono giovani arrivati in Italia senza adulti che li accompagnassero e
quindi non possono essere ricondotti nella nazione di provenienza. "La presenza
di minori immigrati irregolari a Roma è rilevantissima - osserva il
vicecomandante della Polizia Locale di Roma Capitale, Antonio Di Maggio - Il
nostro Nucleo assistenza emarginati (Nae) riceve decine di richieste ogni
giorno. I ragazzi arrivano al centro, dicono di essere minori e chiedono
assistenza da parte del Comune". L'impressione è che sappiano perfettamente che
la legge italiana li tutela e che siano informati perfino degli spostamenti che
questo ufficio ha subito negli ultimi tempi, da viale Trastevere e via Goito.
"Arrivano al Nae vestiti bene, a volte con dei telefonini - prosegue Di Maggio -
È chiaro che dietro a questo fenomeno ci sono sicuramente uno o più gruppi, più
o meno strutturati, che gestiscono questa organizzazione". Le indagini sul
caporalato diffuso in tutta la Capitale partono dalle frutterie etniche. Il 3
gennaio 2012 proprio Di Maggio diffonde una circolare, in cui chiede a tutti i
dirigenti delle unità operative di comunicare al comando centrale "i dati
completi delle attività commerciali gestite da persone originarie del Nord
Africa". Un documento che trascina Di Maggio nella polemica politica, tacciato
da alcuni esponenti del consiglio capitolino di razzismo. In realtà il
vicecomandante vuole leggere dentro un fenomeno in cui il comando è inciampato
per caso pochi mesi prima. Da alcuni sopralluoghi nei negozi di frutta gestiti
da stranieri emerge che in quei locali spesso lavorano, e addirittura vivono,
"stranieri che soggiornano illegalmente nel paese". O che da lì si spostano per
andare a lavorare altrove. L'intuizione è giusta, bastano pochi mesi e viene a
galla lo scandalo del caporalato che dilaga nel Centro agroalimentare di
Guidonia. "C'è un fenomeno particolare nell'ortofrutta ed è la crescita di
questi negozi gestiti da extracomunitari, in particolare egiziani che hanno
creato in questo settore un tessuto e una rete importante - spiega ancora
Pallottini che riveste anche la carica di amministratore delegato della Cargest
srl, società che gestisce operativamente il centro di Guidonia - ed è egiziana
la componente maggiore che riscontriamo tra chi si introduce abusivamente. I
minori entrano nel Car in modo illegittimo scavalcando, forzando le recinzioni,
nascosti nei camion, risalendo dai campi. Vengono per lavorare e a volte per
accaparrarsi gli imballaggi". Gli abusivi nei mercati ci sono sempre stati. Ci
sono qui come a Torino, Milano e Napoli o altrove. Ma a Guidonia capita che i
ladri di lavoro siano minori, "infra-sedicenni e addirittura bambini",
sottolineano i rapporti della Polizia Locale di Roma Capitale che lo scorso 18
dicembre hanno fatto scattare un'operazione nel Car. Quel giorno gli
investigatori trovano al lavoro 12 minori e denunciano due operatori del Car.
Secondo gli inquirenti, il punto di collegamento tra l'arrivo dei ragazzi in
Italia e il loro sfruttamento sarebbero proprio i negozi di ortofrutta gestiti
da egiziani che sfruttano vincoli di conoscenza o anche familiari con chi lavora
al Car. Sono loro che gestirebbero in modo più o meno diretto la manodopera. Il
fenomeno era talmente diffuso che la Cargest ha cercato una soluzione. Qualche
mese fa ha riaperto il bando per la movimentazione di merci all'interno del
centro. La vecchia azienda che lo faceva non riusciva a garantire efficienza. La
Rossi Transworld si è aggiudicata l'appalto e ha iniziato a lavorare a pieno
regime. Dopo neanche due settimane, a metà settembre, è scoppiata però una
gigantesca rissa proprio tra i banchi dell'ortofrutta. Un gruppo di "abusivi"
come sono definiti nei verbali, ragazzi e tutti stranieri, ha aggradito i
lavoratori della Transworld. È una vera e propria guerra di territorio. "Il
grave episodio di settembre - osserva Pallottini - attesta che il lavoro nero
a Guidonia sta trasformandosi in qualcosa di simile ad un racket intimidatorio
dedito a violenze e pretese egemoniche di tipo criminale". Un gruppo di facchini
abusivi ha aggredito lavoratori regolari di un'azienda che opera al Centro
Agroalimentare di Roma. La denuncia arriva dall'amministratore delegato della
società di gestione del Car Massimo Pallottini. "Evidentemente hanno sentito
crollare le loro ambizioni di controllo sulle attività di carico e scarico nei
padiglioni ortofrutticoli, così ieri sera una cinquantina di giovani abusivi
stranieri ha fatto irruzione nel Padiglione Ovest del Mercato Ortofrutticolo per
aggredire i lavoratori regolari di una azienda logistica privata che, da lunedì,
ha assunto in concessione i servizi di trasporto e spostamento di pedane e
cassette nel Car". Dopo le indagini e la rissa, oggi la situazione è più o meno
calma sia dentro che fuori dal centro. I respingimenti sono una quarantina ogni
giorno. Una quiete tra una tempesta e l'altra. La Cargest ha potenziato la
sicurezza al punto di investire in sorveglianza 80mila euro al mese. "Va da sé
che una struttura come questa - dice ancora Pallottini - non può arrivare a
spendere 2 milioni di euro, cioè il doppio di quello che c'è ora in bilancio,
solo per tutelarsi da questo fenomeno". Dal canto loro, le forze dell'ordine non
hanno personale a sufficienza per presidiare l'accesso e il perimetro del
mercato e le cose rischiano di aggravarsi ulteriormente quando i soldi
finiranno.
Il procuratore: "Fenomeno
indecoroso", scrive Rosita Fattore. "Siamo di fronte a un fenomeno indecoroso
per il nostro paese". Con queste parole Luigi De Ficchy, procuratore di Tivoli,
descrive quello che ogni giorno avviene al di là dei cancelli dei mercati
generali di Roma. Un vero e proprio sistema di facchinaggio abusivo che spesso
si avvale della manodopera di minori immigrati irregolarmente.
Procuratore, può dirci
cosa sta succedendo?
"Polizia e Carabinieri
svolgono controlli giornalieri e da settembre una nuova cooperativa di facchini
si è stabilita regolarmente all'interno del Centro agroalimentare di Guidonia.
Questo ha tolto un po' di spazio agli irregolari e la situazione sta
migliorando, ma nel Car rimane un grande interesse dietro allo sfruttamento del
lavoro irregolare di adulti e minori".
Quando parla di
sfruttamento fa riferimento al caporalato?
"Posso dirle che pensiamo che
c'è una rete di attività che cerca di incanalare queste persone sin dalla
partenza dal loro paese. Arrivano qui con l'idea di poter lavorare al Centro
agroalimentare, ma al momento non abbiamo elementi sufficienti per andare oltre
le ipotesi".
Chi sono i ragazzi che
vanno a lavorare a Guidonia, da dove arrivano?
"Quando vengono fermati
ovviamente non dicono nulla: non raccontano chi li ha introdotti all'interno del
centro né per chi lavorano. Alcuni hanno mostrato dei documenti che dichiaravano
che sono nelle case famiglia di Roma e da lì si muovono come possono e
vogliono...".
Ma queste strutture
non hanno delle responsabilità nei confronti dei minori che ospitano?
"Il loro dovere verso i
ragazzi è lo stesso di un genitore o di un tutore. Non c'è obbligo di tenerli
all'interno della casa famiglia, o di seguirli una volta fuori".
Quindi vengono
lasciati soli?
"Ci sono delle regole riguardo
alle attività, ma non è facile sorvegliare questi ragazzi quando escono dalle
strutture. Si potrebbe però valutare una sanzione amministrativa, per esempio la
revoca delle autorizzazioni per chi non vigila".
E all'interno del Car
come funziona la sicurezza?
"E' un centro privato e quindi
la vigilanza interna non spetta allo Stato. Certo, ci sono stati dei
pattugliamenti sul posto, ma abbiamo enormi problemi di controllo del
territorio: un'estensione troppo grande per le risorse che abbiamo. Magari
potessimo avere un commissariato solo per gli accessi al Car".
L'avvocato: "Manca una legge
ad hoc", scrive Caterina Grignani. Quando arriva un ragazzo che dichiara di
essere minorenne, le forze dell'ordine lo portano da un medico che attraverso il
rilevamento del polso stabilisce se è al di sopra o al di sotto dei 18 anni. I
minori vengono portati nei centri di accoglienza che ne diventano, di fatto, i
tutori. Idealmente in queste strutture dovrebbero imparare l'italiano, ricevere
informazioni sulla loro condizione legale ed essere avviati a un lavoro che gli
consentirà, una volta compiuti i 18 anni, di ottenere il permesso di soggiorno.
In realtà questo avviene in poche realtà e la via per sopravvivere si apre fuori
dal centro e dalla legalità. L'avvocato Antonello Ciervo, dello studio legale
Pernazza-D'Angelo di Roma, è membro dell'Associazione per gli studi giuridici
sull'immigrazione (Asgi) che recentemente ha vinto due cause con minori
egiziani. Dato che ai minori si applica la legge del paese di provenienza, e in
Egitto la maggiore età si raggiunge a 21 anni, questi ragazzi sarebbero potuti
restare nel centro di accoglienza altri tre anni.
Quale legge tutela i
minori migranti non accompagnati che arrivano in Italia?
"Una legge al momento non
esiste. L'Italia ha aderito a diverse convenzioni per tutelare i minori ma una
norma specifica non c'è, quindi, in via ordinaria, si applica il Codice civile.
Al momento è in discussione alla Camera il progetto di legge Zampa, fortemente
voluto da molte associazioni di tutela, in particolare da Save the Chidren. È
alla Commissione Affari costituzionali. Non affronta tutti i nodi e soprattutto
in generale considera i minori stranieri più stranieri che minori. Così come è
stato presentato il progetto di legge sembrerebbe introdurre una normativa
speciale per minori all'interno di quella per gli stranieri".
I centri di
accoglienza sono tenuti al controllo dei minori durante il giorno? È possibile
che i minori possano girare per la città (e di conseguenza lavorare in
condizioni di sfruttamento)?
"I centri sono tenuti a
controllare gli ospiti all'interno del centro. Ai minori viene affidato come
tutore il sindaco del Comune dove il centro si trova. I ragazzi possono uscire,
c'è un controllo sugli orari, ma tendenzialmente sono liberi di andare in giro.
Se si verificano episodi di lavoro in nero e di sfruttamento e chi gestisce il
centro non se ne accorge, questo significa che c'è scarsa diligenza".
Con l'aumento degli
arrivi appare evidente che mancano le risorse per affrontare la questione.
"I centri idealmente
dovrebbero organizzare un avviamento professionale in modo che i minori una
volta diventati maggiorenni abbiano un punto di riferimento lavorativo e quindi
maggiori possibilità di ottenere un permesso per lavoro. È vero che i fondi
mancano, le strutture sono sempre al limite e si è costretti a ragionare in
termini emergenziali. Ma credo che ci sia anche una scelta politica di fondo,
basti pensare che praticamente non esistono uffici per l'assistenza legale dei
ragazzi".
Dall'Egitto sognando di fare
fortuna, scrive Caterina Grignani. "Fashkara" è il nome che in Egitto usano per
descrivere chi vive in Italia e a casa ci torna solo per le vacanze. Con vestiti
di marca, l'iPhone e soprattutto i racconti. Chi in Egitto ci vive, ascolta e
immaginando quella vita migliore inizia a pensare al viaggio. I giovani egiziani
sono invidiosi di quelle che in realtà sono favole perché i lavori che gli
egiziani svolgono in Italia sono faticosi, malpagati e spesso sconfinano nello
sfruttamento. La voglia di lasciare il proprio Paese passa anche attraverso
l'osservazione delle famiglie di chi è partito: iniziano a stare meglio, a
comprare auto, elettrodomestici e vestiti, a migliorare, con i soldi che gli
vengono inviati, la loro condizione. I social network hanno un forte peso: sono
racconti ancora più credibili perché corredati di fotografie. Scorrendo i
profili si vedono foto di soldi, che magari sono quelli di un affitto in nero da
pagare per una casa strapiena, smartphone, lettori mp3 e computer. E poi scarpe
e tute come quelle dei calciatori. Sulle bacheche di chi parte ci sono le
canzoni dei rapper egiziani ma anche di quelli italiani e le foto dei ragazzi
scimmiottano quelle pose da duro, da chi ce l'ha fatta. "Sono venuto qui per
prendermi tutto", scrive M. su Facebook. Si alimenta così la visione distorta
della vita al di là del mare. Si può migrare regolarmente, ricongiungendosi a un
parente già arrivato in Italia. Oppure si migra irregolarmente. Save The
Children nel dossier "Percorso migratorio e condizioni di vita dei minori non
accompagnati egiziani" frutto del progetto europeo "Providing Alternatives
irregular migration for unaccompanied children in Egypt", spiega come la
decisione della partenza sia spesso appoggiata e condivisa dalla famiglia. Ma
anche nei casi in cui i genitori non approvano, trovare qualcuno che conosca un
B'saffar, un intermediario, è facile. Il B'ssafar ha spesso
accanto a sé un mandoub, un portavoce. Si tratta di micro organizzazioni
composte da circa sei persone che operano nelle città. Il viaggio ha un costo
che varia dai 4.000 ai 10.000 euro. Sono cifre alte e se la famiglia non ha il
denaro si firma un contratto per un finto acquisto di merce o una cambiale. In
questo modo il tribunale potrà far ottenere all'organizzazione il denaro
pattuito in caso di mancato pagamento. L'intermediario indica ai minori dove
recarsi, solitamente nelle città più grandi. Il viaggio può essere autonomo o
organizzato. Prima del 2007 la costa di imbarco era la Libia, ora è più
difficile perché per attraversare la frontiera ci vuole un visto che si ottiene
solo avendo un lavoro nel paese. Le partenze avvengono quindi sempre più spesso
dalle coste egiziane. In attesa del momento giusto per salpare i ragazzi
rimangono in capannoni o in case per un periodo variabile tra le due settimane e
i due mesi. La maggior parte dei minori egiziani arrivati in Italia ha
affrontato il viaggio via mare, sui barconi. Una minoranza ottiene un visto e
arriva via aereo. Si tratta di chi proviene da famiglie con più disponibilità
economica o con parenti già emigrati che li aiutano una volta arrivati. La
partenza via mare avviene da Alessandria, oppure dalle coste tra il Lago di
Burullus e Dumyat e dal Porto di Burg Mghizil. Durante il viaggio non si ha
alcuna possibilità di ribellarsi o di reagire alla violenza degli scafisti,
anche una denuncia in Egitto di queste persone viene percepita dai ragazzi come
un atto inutile. Lo sbarco avviene sulle coste della Sicilia, della Calabria e
della Puglia. I minori egiziani poi si spostano e le città in cui si registra
una presenza maggiore sono Roma, Milano e Torino. Save the Children ha studiato
e approfondito il fenomeno, ha redatto rapporti molto precisi. A Roma inoltre è
attivo il centro Civico Zero che oltre all'accoglienza e a diverse attività,
offre assistenza legale gratuita ai minori. Secondo Viviana Valastro,
responsabile protezione minori per Save the Children, è oggettivamente difficile
credere che a quell'età i giovani egiziani si autorganizzino per lavorare,
sapendo dove andare e a che ora. L'organizzazione ha adottato iniziative formali
per portare le autorità a conoscenza del fenomeno e con il Progetto Egitto ha
cercato di informare i minori sui rischi, non per disincentivarne la partenza,
ma per fa sì che fosse una decisione consapevole, e si è sforzata di creare
alternative in loco. Una delle conclusioni è che i ragazzi hanno una bassissima
percezione dello sfruttamento anche perché sono abituati a lavori pesanti anche
in Egitto, sin da piccoli. E poi perché con il cambio euro lira egiziana gli
sembra comunque di guadagnare una bella somma. Il video cartone "The italianaire"
è stato un altro degli strumenti utilizzati durante il progetto per
sensibilizzare i minori. È stato ideato insieme ai ragazzi stessi. Anche in
questo video il gioco serve a spiegare più chiaramente. E le testimonianze dei
coetanei vogliono essere il punto di partenza per riflettere sulle reali
condizioni che si trovano una volta sbarcati in Italia.
L'economia dello sfruttamento,
scrive Vladimiro Polchi. "Lavoro tutti i giorni, dalle dieci alle dodici ore. A
fine mese il padrone mi paga solo 400 euro. Da due anni è così. Sono stanco, la
schiena mi fa male. Non voglio più vivere da schiavo". Singh è un bracciante
dell'agro pontino: un indiano sikh sfruttato a due passi dalla Capitale. Sì,
perché il nostro è ancora il Paese degli schiavi invisibili. Terra di caporali,
che non si preoccupano neppure dell'età delle loro vittime. È l'Italia dello
sfruttamento: mille norme, qualcuna anche buona, pessime prassi. Si parte dalla
sciagurata Bossi-Fini, che tiene sotto ricatto i lavoratori stranieri facendoli
dipendere dal "padrone" non solo per lo stipendio, ma anche per il permesso di
soggiorno. Perdi il posto? Peggio per te: sei a rischio clandestinità. Una
pessima legge che sta lì da 12 anni, nonostante i continui propositi di riforma.
Il nostro paese però, nel tempo, si è dotato anche di qualche norma più
avanzata. Vediamola. Lo stop al caporalato, innanzitutto, è arrivato col decreto
legge 138/2011, che ha introdotto nel codice penale il reato di intermediazione
illecita e sfruttamento del lavoro. Nel mirino soprattutto agricoltura e
cantieri. Se c'è prova dello sfruttamento del lavoratore con violenza, minaccia
o intimidazione scatta una pena da 5 a 8 anni, oltre alla multa da mille a 2mila
euro per ciascun lavoratore coinvolto. Non solo. Nel luglio 2012 si è aggiunta
la "legge Rosarno": il decreto legislativo che prevede il rilascio del permesso
di soggiorno a chi denuncia il datore di lavoro che lo sfrutta. Le nuove norme
hanno diversi limiti. Difficile applicarle. Qualcosa comincia comunque a
vedersi: dall'introduzione del reato di caporalato sono 355 i caporali arrestati
o denunciati, di cui 281 solo nel 2013 (dati Flai-Cgil). Quanto allo specifico
caso dei minori stranieri non accompagnati (12.300 quelli sbarcati dall'8
ottobre 2013 a oggi), nel nostro paese nero su bianco non c'è ancora niente.
Eppure qualcosa si muove, anche se lentamente: la Commissione Affari
costituzionali della Camera a ottobre ha approvato una proposta di legge (prima
firmataria la deputata Pd, Sandra Zampa) che promette di rafforzarne la
protezione. Vedremo. Intanto lo sfruttamento continua. Stando alla Flai-Cgil,
"sono circa 400mila i lavoratori che trovano un impiego tramite i caporali, di
cui circa 100mila presentano forme di grave assoggettamento, dovuto a condizioni
abitative e ambientali considerate paraschiavistiche". Perché? Forse perché c'è
"un'economia dello sfruttamento". È questo il punto: "I lavoratori impiegati dai
caporali - prosegue la Flai-Cgil - percepiscono un salario giornaliero inferiore
di circa il 50% a quello previsto dai contratti nazionali". E se sono immigrati
le cose vanno anche peggio. A confermarlo è un'indagine curata dall'economista
Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti: gli immigrati, meglio se
irregolari, sono funzionali a molte imprese perché lavorano di più e guadagnano
di meno. Molto di meno. Non solo. Anche dove non si sfrutta illegalmente la
manodopera, i salari vengono comunque ridotti: "Le aziende agricole di piccola
dimensione (entro i 15mila euro di fatturato) - scrive l'ong Crocevia -
confrontano la crisi economica generale con durezza, tagliando all'osso la
remunerazione del lavoro". Insomma, forse non basta il nuovo reato a colpire le
sacche di sfruttamento, ma dovrebbero essere sanzionate anche tutte quelle
aziende, grandi e piccole, che si avvalgono dei caporali. Come? Escludendole dai
fondi europei, per esempio.
RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO
GRAZIE!!!
E' CHIARO CHE LA SINISTRA E' A FAVORE DEI
MAGISTRATI E CONTRO I CITTADINI, LORO VITTIME DESIGNATE. SI APPALESA CHI E’
CONTRO I CITTADINI PER TUTELARE LE TOGHE.
Chi sbaglia paghi:anche i giudici si adeguino, scrive Marco Ventura su “Panorama”.
In tutti i settori della vita pubblica occorre una nuova rivoluzione che metta
al centro il principio della responsabilità e il contrappeso dei poteri.
Chi controlla i controllori? Gli arresti e le inchieste ai vertici della Guardia
di Finanza offrono una risposta semplice: la magistratura. Ma chi controlla i
magistrati? Qui la risposta diventa più complessa, perché non è risolutivo che a
controllare i magistrati siano altri magistrati. Le toghe formano una casta o
corporazione che dietro lo scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e
meccanismi di potere politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia”
hanno poco a che vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a
un emendamento leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità
civile dei magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo di
risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione
manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Una norma che sarebbe di
civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col
referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di
italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i giudici, e
se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso strumentale, politico,
della giustizia. Che il dibattito sia inquinato dall’attualità dello scontro
politico è provato non soltanto dalla ormai pluridecennale querelle
berlusconiana, ma dall’imbarazzo di Matteo Renzi che il 27 ottobre 2013 lanciò
la riforma della giustizia portando a esempio “la storia di Silvio”. Che non era
Silvio Berlusconi ma Silvio Scaglia, patron di Fastweb che noleggiò un aereo
privato per rientrare in Italia e spiegare la propria posizione ai giudici che
lo indagavano, ma finì in carcere innocente per 3 mesi, più 9 ai domiciliari.
Oggi Renzi dissente dalla responsabilità civile per i magistrati, dall’Asia fa
sapere che la norma sarà ribaltata al Senato. Cioè, la riforma può aspettare.
L’eguaglianza fra i cittadini anche. Ma il problema è più vasto di quello che
può sembrare.
Chi controlla
i controllori?
Questo è il punto. Interrogativo che si pone per qualsiasi posizione “di
controllo”. La parola chiave è proprio “controllo”. Nelle società di cultura
anglosassone il metodo applicato alla formazione delle istituzioni e alla
giurisdizione è quello che risale a Montesquieu e va sotto il nome di “checks
and balances”, ossia “controlli e contrappesi”. È il principio per cui il
sistema non riserva a alcun potere una licenza assoluta, incontrollabile e
incontrollata. Il succo della democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli
Stati Uniti, sta proprio nel contrappeso tra poteri che si controllano a
vicenda. In Italia lo sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo
strapotere della magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di
carriera e procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva
indipendenza e credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel
disprezzo delle regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i
controllori siano anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La
politica deve riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi
inattuali e smentiti dai fatti (in ultimo dall’inchiesta sul Mose che ha
coinvolto il sindaco Pd di Venezia) riguardo a una supposta e inesistente
“superiorità morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva
applicazione del principio del “checks and balances” si affermi un altro
principio, quello dell’“accountability”. Cioè della verifica. I controllori sono
gli insegnanti nelle scuole o professori nelle Università? Bene, chi li valuta?
Chi ne controlla i risultati? Chi tiene l’inventario dei risultati concreti e
misurabili? Per esempio, qual è il numero di laureati di quella Università che
trovano lavoro e ottengono un successo? Qual è il numero di diplomati di un
certo istituto che ha conseguito la laurea, e la specializzazione, e il
dottorato? E se i controllori sono i super manager di aziende pubbliche, potrà
mai esserci una relazione diretta tra la carriera e i risultati anche nel loro
caso, o conferme e siluramenti dipenderanno ancora una volta dalla rete di
amicizie e dai clan politici? Nella pubblica amministrazione, quando si passerà
dal concetto dei premi come parte integrante e automatica dello stipendio, a
quello di “premio” realmente selettivo e ponderato, fondato sul conseguimento di
obiettivi verificati? In tutto il mondo, specialmente nelle compagnie private,
vige il principio dei risultati da conseguire. Si fissano gli obiettivi, a
posteriori si valuta se siano stati centrati. Altrimenti non si viene pagati, o
addirittura si viene “fired”, licenziati. Non rinnovati. Forse appartiene a
questa mentalità anche la sanzione che peserebbe di più sui pubblici funzionari
infedeli: la perdita del diritto alla pensione. Se mai il processo sancirà che
un reato è stato commesso, perché i pubblici funzionari dovrebbero conservare il
diritto alla pensione visto che loro per primi hanno tradito il loro ruolo?
Controlli e contrappesi. Verifica dei risultati. Premi e sanzioni. A quando la
rivoluzione culturale? Gli italiani favorevoli alla
responsabilità civile dei giudici.
Un sondaggio rivela come l'87% vuole che
i magistrati paghino per i propri errori, scrive Arnaldo
Ferrari Nasi su “Panorama”.
Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che modifica l'articolo 2
della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle
funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta Legge Vassalli sul
"risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e
responsabilità civile dei magistrati". Comporta che, al pari di altre
professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora
compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità a
tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore è lo
Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne giudicata
troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i risultati del
referendum dell'anno precedente. Referendum che stravinse con l'80% dei "Sì".
Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le opportune norme per
stabilire che ci esistesse una responsabilità civile anche per i giudici. Del
resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di
magistrati si possono contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono
oggi della stessa opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel
frattempo invecchiati, sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più
precisamente il nostro ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87%
degli italiani maggiorenni è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che
sbaglia dovrebbe essere responsabile della propria azione”. Il dato è
perfettamente concorde con la nostra rilevazione precedente del 2010, i cui
risultati davano 86%. Sul tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e
non muta almeno da un quarto di secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un
referendum e non ce l'anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno
oggi?
Sbatti l'azienda in prima pagina.
Troppo spesso la magistratura è entrata a gamba tesa nella
vita delle imprese, lanciando inchieste che poi si sono sgonfiate. Lo dimostrano
le accuse della Procura di Parma sul caso Lactalis-Parmalat. Un copione che
potrebbe ripetersi su Unipol-Sai e Ilva. Come ha chiesto Giorgio Squinzi, è un
problema che va finalmente affrontato, scriveOscar Giannino su
“Panorama”. In nessun paese avanzato asset
industriali restano per anni sotto il pieno controllo della magistratura. Il
tema è stato seccamente posto da Giorgio Squinzi, all’ultima assemblea annuale
di Confindustria. Poiché l’Italia ha tra i suoi numerosi nervi scoperti quello
della legalità, i più hanno finto di non sentire. Ma è un errore di
ipocrisia. Il tema andrebbe invece affrontato. Seriamente. Non è solo una
questione di principio, visto che per dato di fatto i magistrati non hanno la
competenza adeguata per giudicare piani aziendali, esaminati invece da periti
delle Procure "attenti", come ogni perito di parte, ai fini del committente.
Basta esaminare tre casi eclatanti in corso da anni, per capire che il problema
esiste. Parmalat, Ilva e Unipol-Sai. In Parmalat, società quotata e dal luglio
2011 controllata dalla multinazionale francese Lactalis, solo il 26 maggio la
Corte d’Appello di Bologna ha posto fine a un anno e mezzo di reiterate
pronunzie della Procura di Parma volte alla revoca del cda e del consiglio
sindacale, a seguito delle indagini civili e penali per l’acquisto di Lactalis
America nel 2012. I procedimenti civili sono ora estinti, quelli penali no. A
fine 2013 il cda si è dimesso, ad aprile in assemblea ne è stato eletto uno
nuovo. Ma nell’anno e mezzo di scontro giudiziario nessun peso sembravano avere
i risultati che Parmalat accumulava: nuove acquisizioni in Australia e Brasile,
24 prodotti nuovi nei 31 paesi in cui il gruppo opera, crescita del fatturato a
parità di perimetro dai 4,4 miliardi del 2011 ai 5,7 nel 2013, aumento del
margine operativo lordo da 374 a 493 milioni. Per l’Ilva, a luglio saranno due
anni dall’arresto dei Riva. Da allora, una sfilza di provvedimenti giudiziari e
molti divergenti nel merito, due decreti ad hoc dei governi Monti e Letta. Ma
siamo al punto che il commissario straordinario Enrico Bondi ha un piano
industriale che non convince né i privati né il pubblico, visto che il premier
Matteo Renzi ha detto "così non va", promettendo novità a breve. La
sopravvivenza delle produzioni è più che mai in gioco, le bonifiche e i
relativi capitali ancora da vedersi. Per le indagini aperte dalla Procura di
Milano sui concambi tra Unipol e Fonsai, è stato il senatore pd Massimo
Mucchetti, di certo non sospettabile di pregiudizi avversi ai pm e favorevoli
alla Consob di Giuseppe Vegas, a scrivere su Repubblica tutti i suoi dubbi, sul
fatto che il magistrato possa far sicura questione di diritto partendo da
opinabili valutazioni sulle analisi quantitative dei prezzi. Servirebbero
interventi di legge. Volti a porre argini a una deriva cominciata con la legge
231 del 2011, che estende all’impresa, ai suoi manager e controllanti
responsabilità amministrative e penali per reati compiuti da dipendenti. E che
poi via via, con ordinanze e decreti ad hoc sui singoli casi aziendali, ha
esteso le facoltà della magistratura di nominare commissari giudiziali che
diventano capiazienda, e di inibire cda regolarmente nominati. La magistratura
deve fare il suo dovere, non sostituirsi a proprietà e manager. Eppure
in Italia c’è sempre chi, per ideologia o per timore di ritorsioni, è genuflesso
alle toghe. Ue, il governo delle toghe battuto alla Camera sulla responsabilità
civile toghe toghe. Norme più dure per gli errori dei giudici
Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra
indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in Senato", scrive “La
Repubblica”.Il governo e la maggioranza sono stati battuti, in
un voto a scrutinio segreto, nell'esame sulla legge europea 2013-bis alla Camera
sulla responsabilità civile delle toghe. E' infatti passato un emendamento della
Lega, a prima firma di Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato
parere contrario. Riscrive l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei
magistrati, inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti
favorevoli sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza che
pesano, visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio
sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2 della legge dell'88 sul
risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla
responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il presidente
della Repubblica, Giorgio Napolitano,
ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un privilegio. Il premier
Matteo Renzi però, parlando con i suoi da Pechino, del voto con
il quale la maggioranza è stata battuta, minimizza:"E' una tempesta in un
bicchiere d'acqua, il voto segreto è occasione di trappoloni, ma le reazioni che
vedo sono esagerate", dice il premier per il quale la norma sarà modificata a
scrutinio palese al Senato.
Sabelli (Anm): "Fatto grave".
Dura la reazione dell'Associazione nazionale magistrati che ha definito il voto
"un fatto grave". Il presidente
dell'Anm, Rodolfo Sabelli, ha detto che : "in un momento che
vede la magistratura fortemente impegnata sul fronte del contrasto alla
corruzione nelle istituzioni pubbliche, questa norma costituisce un grave
indebolimento della giurisdizione". Con l'emendamento votato oggi "si vorrebbe
reintrodurre ciò che non si riuscì ad approvare nel 2012 - sottolinea Sabelli -
cioè un'introduzione dell'azione diretta di responsabilità civile che non ha
eguale in nessun ordinamento occidentale e che presenta evidenti profili di
incostituzionalità". Parte all'attacco anche il vice presidente del Csm, Michele Vietti che dice:
"E' in gioco non un privilegio, ma l'indipendenza di giudizio del magistrato".
Mentre, secondo l'Associazione magistrati della Corte dei conti "l'emendamento
all'art. 26 della legge comunitaria, che prevede l'azione diretta di
responsabilità civile nei confronti del magistrato, rileva come la stessa, oltre
ad essere non in linea con la legislazione della maggior parte degli Stati
membri dell'Ue, costituisce un gravissimo vulnus all'autonomia e
all'indipendenza dei giudici". Critico anche il legale Gianluigi Pellegrino. "Si
crea un cortocircuito che può bloccare ogni giudizio. Se è giusto, come chiede
l'Europa prevedere sistemi più efficaci di ristoro per gli errori giudiziari, è
assurdo e tribale prevederlo con azioni dirette della parte contro i giudici e
peraltro anche per mero errore di diritto - spiega l'avvocato Pellegrino - .
Piuttosto bisogna proporre un ulteriore rafforzamento del controllo disciplinare
per tutte le giurisdizioni e nel rispetto dei principi di autogoverno".
Nell'emendamento approvato dall'assemblea si legge, che "chi ha subito un danno
ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento
giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o
con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di
giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole
per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non
patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce
dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto".
"La norma è passata con almeno 80 voti del Pd, quindi prima di sfidare la
volontà popolare invito i democratici a sfidarsi internamente, mettendo
d'accordo la parte destra del cervello con quella sinistra, per poi formulare
una proposta alternativa sul tema", ha detto Pini, dopo il voto. Prova a gettare
acqua sul fuoco il Pd: il provvedimento deve "ancora passare al Senato e lì
modificheremo la norma", garantisce in Aula Ettore Rosato. Mentre Roberto
Speranza, presidente dei deputati Pd parla di "un vero e proprio colpo di mano
del centrodestra con la complicità del M5S". "In parlamento esistono proposte
sulla responsabilità civile dei magistrati e ritengo siano maturi i tempi
affinchè la questione venga affrontata in modo serio e rigoroso - aggiunge
Speranza - . Penso sia oltremodo sbagliato trattare tale tema in modo
frettoloso, attraverso un emendamento alla legge comunitaria". Forza Italia,
come del resto la Lega, esulta. "Quando il centrodestra trova i contenuti batte
il parlamento e batte anche Renzi", dice la deputata azzurra Daniela Santanchè,
che aggiunge: "Al bando dunque le poltrone e gli organigrammi della sinistra, la
forza delle nostre idee riflette fedelmente la volontà degli italiani. D'altro
canto, l'astensione del M5S è del tutto vergognosa e ribadisce la natura
giustizialista dei grillini". Anche i 5 Stelle mostrano soddisfazione: "La
nostra decisione di astenerci ha tirato fuori tutta l'ipocrisia del Pd", dice il
grillino Andrea Colletti.
A fine aprile era stato bocciato il disegno di
legge sulla responsabilità civile dei magistrati, voluto dal centrodestra. I
senatori del Pd, i parlamentari grillini e gli ex 5 Stelle avevano approvato, in
commissione Giustizia del Senato, l'emendamento del M5S che cancella l'art.1,
cioè il cuore del testo. Giudici, Giachetti (Pd): "Ho votato sì perché norma
non colpisce magistrati perbene". "Pensiamo ai casi di Tortora e Scaglia",
dice il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, Pd, che oggi ha
contribuito con il suo voto (palese) a far passare l'emendamento leghista sulla
responsabilità civile dei giudici e qiundi a battere il governo, 187 a 180. "Il
tempo per una scelta è maturo anche nel Partito democratico", aggiunge, "non so
perché nel gruppo non ci sia stato un dibattito. Nessuno scambio con il
centrodestra".
E comunque in ogni giornalista c'è il comunista
che è in sè, ed in queste occasioni esce fuori. Camera, passa la
responsabilità civile dei Pm. Il "messaggio" della politica alle inchieste. La
responsabilità civile dei magistrati, contro il parere del Governo, passa a
Montecitorio con 187 sì e le decisive astensioni di M5S e Sel. Il centrodestra
esulta, il Pd annuncia cambiamenti al Senato. Ma già nel 2012, con la
maggioranza di centrodestra, l'emendamento era stato approvato, scrive
Susanna Turco su “L’Espresso””. L’Anm parla di fatto grave, il centrodestra
esulta, il Pd piuttosto imbarazzato fa sapere che al guasto si riparerà al
Senato, senz’altro, mentre il senatore Maurizio Gasparri promette di combattere
“strenuamente” per tenerlo così come è. Pare una giornata d’altra epoca, alla
Camera. Proprio mentre la giunta per le Autorizzazioni, presieduta da Ignazio La
Russa, apre il faldone relativo alla richiesta di arrestare Giancarlo Galan (e
dal sì all’arresto di Francantonio Genovese è passato meno di un mese) in Aula,
contro il parere del governo, i deputati approvano una norma che introduce la
responsabilità diretta dei magistrati. Il principio, cioè, secondo cui se un
magistrato sbaglia ci si può rivalere direttamente su di lui, invece che sullo
Stato come accade ora secondo la procedura (peraltro complessa) della legge
Vassalli. Il magistrato che ha sbagliato paghi: è uno dei caposaldi classici del
berlusconismo che fu, mentre i democratici - pur concordando sulla necessità di
rinnovare la norma del 1988 - hanno tutta un’altra idea su come farlo. A
presentare il testo incriminato, come emendamento alla legge comunitaria in
discussione a Montecitorio, è il leghista Gianluca Pini. Ma la sua approvazione
in Aula, con 187 sì contro 180 no, e l’astensione dichiarata dei Cinque stelle,
suona almeno in parte come una risposta della politica all’accanirsi della
magistratura con inchieste di ogni ordine e grado, dall’Expo e Mose in avanti.
“In questo momento, questa norma costituisce un grave indebolimento della
giurisdizione”, dice il presidente Anm Rodolfo Sabelli. “Un vero e proprio atto
intimidatorio”, aggiunge il presidente Pd in commissione Giustizia Donatella
Ferranti, puntando l`indice contro chi, “proprio ora, cerca di intimorire i
magistrati che con coraggio hanno aperto vari fronti di indagine sui fenomeni
corruttivi dilaganti negli appalti pubblici”. Interpretazione, questa, valida
fino a un certo punto. E’ tragicamente vero, infatti, che lo stesso testo sulla
responsabilità dei magistrati, sempre firmato da Gianluca Pini, sempre come
emendamento alla legge comunitaria, era stato presentato ed approvato poco più
di due anni fa. Era il 2 febbraio 2012, a Palazzo Chigi regnava Monti, e l’Aula
di Montecitorio dava il via libera al testo Pini con 264 sì e 211 no (un solo
astenuto). Allora come ora il voto era segreto. Ma il rapporto di forze tra
centrosinistra e centrodestra era invertito. E i Cinque Stelle, in Parlamento,
nemmeno ci stavano. Dunque se è vero che si tratta di un segnale ai magistrati,
è un segnale più trasversale e meno legato al momento di quanto non paia sulle
prime. Tanto più che, mentre la responsabile giustizia del Pd Alessia Morani
giura che oggi il gruppo è stato compatto nel votare contro, è pur vero che il
vicepresidente democratico della Camera Roberto Giachetti rivendica il suo sì
(quella sulla responsabilità civile è una antica battaglia radicale), e
soprattutto che i deputati del centrodestra presenti in Aula, secondo i calcoli
del forzista Simone Baldelli che è uno preciso, non sono più di ottanta. Per
arrivare a 187 mancano, dunque, un centinaio di voti all’appello: e anche
mettendo un punto interrogativo sui vari gruppi minori, i conti non tornano. La
crepa, comunque, sarà sanata. Al Senato la norma verrà cancellata dalla legge
comunitaria, in attesa che il tema sia affrontato a parte. I numeri ci
dovrebbero essere perché anche i Cinque stelle, tutti contenti per il blitz che
ha “permesso di svelare l’ipocrisia del Pd”, dicono che al Senato torneranno a
votare no alla responsabilità civile diretta dei magistrati, come hanno fatto a
fine aprile a Palazzo Madama, in asse col Pd e contro il centrodestra. Finirà
insomma come due anni fa: anche allora la norma Pini fu cancellata dall’altro
ramo del Parlamento. Resta da capire quando è che Renzi si deciderà a dare il
via libera alla riforma di questo come di altri punti dolenti del capitolo
giustizia. Proprio a fine aprile, a Porta a porta, il premier - pur favorevole a
cambiare la Vassalli - spiegò che “finché c’è un clima da derby” e “finché ci
sarà chi dice che la magistratura è il cancro dello Stato”, “non ci potrà essere
nessun intervento sulla giustizia”. Ecco, insomma, un altro punto sul quale il
rapporto con Berlusconi contiene una pericolosa ambivalenza.
I sinistroidi vogliono tutelare i magistrati
incapaci ed in malafede.
Truffa Carige, indagati per abuso
d'ufficio i magistrati liguri coinvolti. Indaga la
procura di Torino sulle presunte interferenze di pm e giudici di Savona e La
Spezia. Il fascicolo è stato trasmesso dai colleghi genovesi titolari
dell'inchiesta, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica”.
L'ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi (ansa)Sono indagati per
abuso d'ufficio e violazione del segreto i tre magistrati liguri coinvolti
nell'inchiesta sulla maxi inchiesta per truffa a Banca Carige. Maurizio
Caporuscio, pm a La Spezia, Pasqualina Fortunato, giudice del lavoro a La
Spezia, Francantonio Granero procuratore capo di Savona. Sulle presunte
interferenze dei magistrati liguri indaga la procura di Torino che ha ricevuto
il fascicolo dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta su Carige. Lunedì il
pm torinese Marco Gianoglio è stato a Genova per partecipare a una riunione
organizzativa. Da lì era partito un paio di settimane fa il fascicolo sulle
presunte rivelazioni e le interferenze. Già in Liguria la procura aveva iscritto
i tre magistrati accusandoli di abuso e violazione del segreto. Caporuscio è nei
guai per una telefonata tra l'avvocato spezzino Andrea Baldini, ex componente
del Cda di Banca Carige, e Berneschi. Parlando Baldini racconta che il
magistrato fece in modo che fosse fornita al banchiere la copia di una denuncia
'riservata' che l'imprenditore spezzino Gianfranco Poli aveva presentato contro
l'ex numero uno di Carige per truffa. E sempre le dichiarazioni di Baldini
accusano la moglie, Pasqualina Fortunato. L'avvocato ha spiegato infatti a
Berneschi che grazie all'interesse di Lilly (per gli inquirenti è la moglie)
sarebbe stata chiesta l'archiviazione del fascicolo. Berneschi, discutendo con
il manager di Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio che doveva
affrontare nell'autunno scorso a Savona, dove è indagato per la bancarotta del
costruttore Andrea Nucera, dice che il procuratore Ganero gli ha suggerito di
non rispondere e ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi, membro
del cda di Cassa di risparmio di Savona, controllata da Carige e uomo di spicco
delle cooperative. Granero aveva detto "Tutto falso, presenterò querela". E gli
inquirenti sospettano che le frasi di Berneschi siano state pronunciate per
comprometterlo. Non sono stati inviati invece a Torino gli atti che chiamano in
causa il procuratore aggiunto di Genova Vincenzo Scolastico. Il suo nome,
dedotto da alcune conversazioni telefoniche ma mai citato espressamente, era
stato chiamato in causa come un possibile altro sospettato di aver favorito il
gruppo che faceva riferimento a Berneschi. Ferdinando Menconi, ex manager di
Carige Vita Nuova, ne descriveva la figura e diceva presumibilmente di lui "...
carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato". Ma sul suo conto non
sarebbero stati riscontrati comportamenti scorretti e dunque è caduto nei suoi
confronti ogni sospetto.
POTENTE UGUALE IMPUNITO.
In Italia potente è uguale a impunito.
Solo undici persone sono in carcere per corruzione. Perché le inchieste vengono
cancellate in massa dalla prescrizione. E così i colletti bianchi non pagano mai
per i reati che commettono, scrivono Lirio Abbate e
Paolo Biondani su “L’Espresso”. Gong, tempo scaduto: il reato c’è, l’imputato lo
ha commesso, ma il processo è durato troppo, per cui il colpevole ha diritto di
restare impunito. Nel gergo dei tribunali si chiama prescrizione. È il termine
massimo concesso dalla legge per condannare chi ha commesso un reato. In teoria
è una nobile garanzia: serve a evitare che uno Stato autoritario possa riesumare
accuse del lontano passato e perseguitare i cittadini con processi infiniti. Il
guaio è che in tutti i Paesi civili la prescrizione è un evento eccezionale,
mentre in Italia è diventata la regola per intere categorie di reati. Una
scappatoia legale che premia soprattutto gli imputati eccellenti e la
criminalità dei colletti bianchi. E nega giustizia al popolo delle vittime dei
reati. E provoca pure danni alle casse dello Stato: le somme, in molti casi si
parla di decine di milioni di euro, sequestrati agli imputati in fase di
indagine perché ritenute provento della corruzione o concussione, una volta
dichiarato prescritto il reato devono essere restituite agli “illegittimi”
proprietari. E così, grazie alle leggi-vergogna sulla prescrizione, le tante
caste, cricche, logge o lobby della politica e dell’economia possono continuare
a rubare. Mentre restano senza giustizia i cittadini danneggiati da truffe,
raggiri finanziari, evasioni fiscali o previdenziali, corruzioni, appalti
truccati, scandali sanitari, omicidi colposi, traffici di rifiuti pericolosi,
disastri ambientali, morti sul lavoro, violenze in famiglia, perfino abusi sui
bambini. «L’Italia è l’unico Paese del mondo in cui la prescrizione continua a
decorrere per tutti e tre i gradi di giudizio», è la diagnosi tecnica di
Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite che oggi è giudice di Cassazione:
«All’estero di regola il conteggio si ferma con il rinvio a giudizio o al
massimo con la sentenza di primo grado, dopo di che non si prescrive più niente.
Da noi invece il colpevole può farla franca anche se è già stato condannato in
primo e secondo grado e perfino se è l’unico a fare ricorso, quindi è proprio
lui ad allungare la durata del processo. Quando proviamo a spiegarlo ai
magistrati stranieri, non riescono a capacitarsene: “Che senso ha?”». Il senso
di questa anomalia italiana è una massiccia impunità: solo nell’ultimo anno
giudiziario, come ha detto il primo presidente della Cassazione invocando una
«riforma delle riforme», sono stati annientati dalla prescrizione ben 128 mila
processi penali. Come dire che in Italia, ogni giorno, evitano la condanna
almeno 350 colpevoli di altrettanti reati. La prescrizione facile è da decenni
un vizio nazionale: basti pensare che i processi di Mani Pulite, nati dalle
storiche indagini milanesi del 1992-1994, si erano chiusi con un bilancio finale
di 1.233 condanne, 429 assoluzioni e ben 423 prescrizioni. Già ai tempi di
Tangentopoli, insomma, il 20 per cento dei colpevoli riusciva a beffare la
giustizia. Invece di risolvere il problema, le cosiddette riforme dell’ultimo
ventennio lo hanno aggravato. Il tasso di impunità è salito alle stelle, in
particolare, con la legge ex Cirielli, approvata nel 2005 dal centrodestra
berlusconiano, che ha reso ancora più breve la via della prescrizione: termini
dimezzati, applicazione automatica, obbligo per i giudici di concederla per ogni
singolo reato, anche se il colpevole ha continuato a commetterne altri. E così,
mentre la crisi economica spinge molti Stati occidentali a punire severamente i
reati finanziari e il malaffare politico, in Italia i più ricchi e potenti
riescono quasi sempre a sfuggire alla condanna. A documentarlo sono i dati del
Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (aggiornati al novembre 2013),
raccolti in esclusiva da “l’Espresso”: sugli oltre 60 mila detenuti si contano
soltanto 11 accusati per corruzione, 26 per concussione, 46 per peculato (cioè
per furto di denaro pubblico), 27 per abuso d’ufficio aggravato. In Germania per
reati economici finanziari vi sono in cella 8.600 detenuti. Di fronte
all’enormità di un’evasione stimata nel nostro Paese di 180 miliardi di euro
all’anno, in cella per frode fiscale ci sono soltanto 168 persone e appena tre
arrestati per reati societari o falso in bilancio. La prescrizione all’italiana
ha salvato centinaia di imputati eccellenti. L’elenco è interminabile, ma il re
delle prescrizioni è sicuramente Silvio Berlusconi, che i giudici hanno dovuto
dichiarare «non più punibile» prima per le tangenti a Bettino Craxi, per la
corruzione giudiziaria della Mondadori (danni accertati per 494 milioni di euro)
e per i colossali falsi in bilancio della Fininvest (caso All Iberian, fondi
neri per 1.550 miliardi di lire) e poi, proprio grazie alla legge ex Cirielli
approvata dalla sua maggioranza, per le mazzette da 600 mila dollari versate al
testimone inglese David Mills, in cambio del silenzio sui conti offshore del
Cavaliere. Che ora attende che si prescriva in appello anche la condanna per il
caso dell’intercettazione trafugata nel dicembre 2005 per screditare il suo
avversario politico Piero Fassino. Persino la prima condanna definitiva di
Berlusconi per frode fiscale, quella che gli è costata il seggio in parlamento,
è stata ridimensionata dalla prescrizione: le sentenze considerano pienamente
provata un’evasione da 368 milioni di dollari, ma la ex Cirielli ha lasciato
sopravvivere solo l’ultimo pezzetto di reato, per cui l’ex premier ora deve
versare all’Agenzia delle Entrate solo dieci milioni. A sinistra, il miracolato
più in vista è Filippo Penati, ex capo della segreteria del Pd: accusato di aver
intascato tangenti per oltre due milioni di euro, aveva detto di voler
rinunciare alla prescrizione, ma poi non l’ha fatto, e ora resta sotto processo
solo per le accuse più recenti e difficili da dimostrare. Tra i big della
finanza, autostrade e costruzioni, spicca il caso di Fabrizio Palenzona, che si
è visto annullare l’accusa di aver intascato almeno un milione di euro su una
rete di conti di famiglia tra Svizzera e Montecarlo, mai dichiarati al fisco e
scoperti grazie alle indagini sulle scalate bancarie del 2005. Nel mondo della
sanità, la sparizione dei primi reati, provocata dalla solita ex Cirielli, ha
fatto tornare in libertà perfino il chirurgo della “clinica degli orrori”
Pierpaolo Brega Massone, nonostante la condanna a 15 anni e mezzo. Nel pianeta
giustizia, la prescrizione ha salvato l’ex giudice romano arrestato per tangenti
Renato Squillante e altri magistrati con i conti all’estero. Tra i casi più
recenti c’è la prescrizione ottenuta dal costruttore della “cricca” Diego
Anemone per i famosi finanziamenti illeciti versati all’insaputa dell’ex
ministro Claudio Scajola, che a sua volta è stato assolto nonostante siano stati
usati per l’acquisto della sua casa romana. Mentre l’ex governatore del Molise,
Michele Iorio, si è visto cancellare solo in Cassazione la condanna a 18 mesi
per abuso d’ufficio e ora può tornare a fare politica nella sua regione. Verso
la prescrizione si avviano molti altri scandali come le frodi milionarie di
“Lady Asl” alla sanità laziale, le grandi truffe sui farmaci, i danni subiti da
migliaia di risparmiatori con i famigerati bond-spazzatura della Cirio. La
prescrizione facile, in sostanza, costringe la giustizia italiana, già
rallentata da mille cavilli e inefficienze, a una corsa contro il tempo che per
molti reati è perduta in partenza. E a truccare l’orologio a favore dei
colpevoli sono proprio leggi come la ex Cirielli. Per capire quanto siano
ingiusti e spesso drammatici gli effetti della prescrizione all’italiana,
basterebbe che i politici legislatori non ascoltassero solo gli
avvocati-deputati degli inquisiti, ma anche le vittime dei reati. «Mi chiamo
Roberto Bicego, ho 66 anni, sono il primo paziente veneto a cui il luminare
della cardiochirurgia Dino Casarotto aveva impiantato, nel novembre del 2000,
una valvola-killer brasiliana, così chiamata perché scoppiava nel cuore dei
pazienti. Quando si è saputo che aveva preso le tangenti dalle aziende
fornitrici, il professore è stato arrestato e condannato in primo grado, ma non
ha mai confessato niente, non ha chiesto scusa a noi malati, non ha risarcito
nulla e in appello ha ottenuto la prescrizione. Io ho perso il lavoro, la
salute, la tranquillità, ancora oggi ho dolori al torace. Il tribunale aveva
accolto le richieste dei nostri legali, Giovanni e Jacopo Barcati, e ci aveva
concesso un risarcimento provvisorio di 50 mila euro. Ma dopo la sentenza
d’appello la direzione dell’ospedale di Padova ci ha intimato di restituirli
con gli interessi. Adesso siamo noi a dover pagare i danni: roba da matti».
«Sono Giovanni Tomasi, figlio di Clara Agusti, che ha 74 anni e non può muoversi
da casa. I medici dicono che mia madre ha subito troppe operazioni, per cui non
può più sostituire le sue due valvole cardiache, anche se una è difettosa.
Facendosi corrompere, è come se il chirurgo l’avesse condannata a morte. Eppure
anche lei ha ricevuto questo decreto ingiuntivo che le impone di risarcire
l’ospedale. Ma che giustizia è questa?». Condanna a morte non è un modo di dire:
dei 29 malati di cuore che si erano costituiti parte civile nel processo di
Padova, solo uno aveva rifiutato di rioperarsi: «È morto durante il processo,
il giorno dopo una visita di controllo. Gli hanno trovato pezzi della
valvola-killer in tutto il corpo». «Sono Emanuela Varini, la moglie di Annuario
Santi, che era un po’ il simbolo delle tante vittime di quelle valvole perché
era rimasto paralizzato e seguiva tutte le udienze in carrozzella. Mio marito è
morto nel 2008, non ha fatto in tempo a vedere che è finito tutto in
prescrizione. Anche a Torino erano stati corrotti due chirurghi, ma hanno
confessato e sono stati condannati: il professor Di Summa, quando ha visto mio
marito in tribunale, è scoppiato a piangere e gli ha chiesto perdono. Il
chirurgo di Padova invece non ha risarcito nessuno e dopo la prescrizione siamo
ancora in causa con l’ospedale». A Roma sono cadute in prescrizione tutte le
appropriazioni indebite che hanno svuotato le casse di 29 cooperative edilizie
che hanno lasciato senza casa circa 2.500 famiglie. L’ex dominus del “Consorzio
Casa Lazio” e i suoi presunti complici restano sotto accusa soltanto per
bancarotta, ma il processo, lungo e complicato come per tutti i fallimenti a
catena, è ancora in primo grado e i risarcimenti restano un sogno. «Le vittime
sono migliaia di poveracci che hanno pagato gli anticipi e sono rimasti senza
casa», spiega un avvocato di parte civile, Fabio Belloni: «Ci sono molte giovani
coppie che avevano impegnato la liquidazione dei genitori, operai e impiegati
che hanno perso tutti i risparmi: il Comune ha dovuto aiutare gli sfrattati che
erano finiti a dormire per strada. Centinaia di famiglie, dopo aver versato più
di centomila euro ciascuna, ora hanno solo la proprietà di un prato in
periferia, neppure edificabile». A Milano è ancora fermo in appello, dopo le
prime condanne e molte prescrizioni, il processo per le massicce attività di
spionaggio illegale compiute dalla divisione sicurezza del gruppo
Pirelli-Telecom tra il 2001 e il 2007, con la complicità di ufficiali corrotti
anche dei servizi segreti: almeno 550 operazioni di dossieraggio che hanno
colpito 4200 persone e decine di società private o enti pubblici. Lo scandalo
aveva spinto il Parlamento a imporre per legge la distruzione dei dossier
ricattatori: obiettivo raggiunto per i politici spiati, ma non per la massa di
lavoratori e cittadini che avevano già subito i danni. E così, la prima vittima
conclamata della banda dei super-spioni, il signor D.T., ex dirigente licenziato
ingiustamente dalla filiale italiana di una multinazionale americana, non ha mai
avuto giustizia, anche se l’intera maxi-inchiesta era partita proprio dal suo
caso: «Sono stato spiato per mesi da una squadra di poliziotti corrotti, che per
screditarmi non hanno esitato a inventarsi una falsa inchiesta per pedofilia»,
ricorda D.T. con voce disperata. «Sono stato mobbizzato, perseguitato per due
lunghissimi anni: il manager che aveva pagato quel dossier 65 mila euro, ha
diffuso quelle calunnie in tutta l’azienda, quindi i colleghi che mi erano amici
hanno cominciato a chiamarmi “anormale”, a farmi passare per folle... È stato un
inferno, ho avuto un gravissimo esaurimento nervoso, da allora non ho più una
vita normale. Ho saputo di essere stato spiato illegalmente solo quando il pm
Fabio Napoleone ha trovato la mia pratica: ero il dossier numero 323. Dopo
l’arresto, le spie hanno confessato tutto, ma i poliziotti corrotti non sono
stati nemmeno processati: era tutto prescritto già all’udienza preliminare. Ho
perso il lavoro, la fiducia in me stesso, la serenità familiare e nessuno mi ha
risarcito». La legge ex Cirielli favorisce anche i colpevoli di reati odiosi
come le violenze contro i bambini. A Roma sono già caduti in prescrizione tre
dei quattro processi aperti contro R.P., un padre degenere accusato di aver
maltrattato e picchiato la moglie, arrivando a cacciarla da casa di notte con
una neonata, in un drammatico quadro di abusi sessuali sulla figlia minorenne
che lei aveva avuto nel precedente matrimonio. Condannato per tre volte in primo
grado, l’uomo ha sempre ottenuto la prescrizione in appello. Nel quarto
processo, il più grave, ora è imputato di violenza sessuale sulla ragazzina,
nonché di averla sequestrata, alla vigilia della deposizione, per costringerla a
ritrattare: tribunale e corte d’appello lo hanno condannato a quattro anni e
otto mesi, ma l’udienza finale in Cassazione è stata rinviata per un difetto di
notifica al prossimo marzo, quando rischia di essere tutto prescritto. «Al di là
dei risarcimenti, le vittime dei reati hanno soprattutto un desiderio di
giustizia che si vedono negare», spiega l’avvocata Cristina Michetelli. La ex
Cirielli sta cancellando anche reati ambientali che minacciano intere comunità e
compromettono la filiera alimentare. Della prescrizione facile hanno potuto
beneficiare, tra gli altri, i diciannove inquisiti nella maxi-inchiesta sulle
campagne avvelenate in Toscana e Lazio: sono imprenditori dello smaltimento,
procacciatori d’affari e autotrasportatori che raccoglievano masse di rifiuti
pericolosi, truccavano le carte, li riversavano negli impianti di compostaggio
(rovinandoli) e poi li rivendevano come concimi da spargere nei terreni
agricoli, che ora sono contaminati. In primo grado avevano subito condanne fino
a quattro anni, con interdizione dalla professione, ma in appello la
prescrizione ha cancellato anche i reati superstiti: ora sono tutti liberi e
risultano incensurati, per cui possono tornare a fare il loro lavoro nel ciclo
dei rifiuti. A completare il quadro dell’impunità, oltre alla prescrizione
facile, sono le lacune normative che impongono di assolvere l’imputato che abbia
commesso fatti considerati illeciti dai trattati internazionali, ma non dalle
leggi in vigore in Italia. Un esempio per tutti: Francesco Corallo, il re delle
slot machine del gruppo B-Plus-Atlantis, è riuscito a far cadere l’accusa, che
lo aveva costretto alla latitanza, di aver pagato tangenti a un banchiere,
Massimo Ponzellini, in cambio di prestiti per 148 milioni di euro: la Popolare
di Milano infatti ha ritirato la querela, rendendo così impossibile processare
entrambi per quella «corruzione privata». Anche i grandi evasori che nascondono
montagne di soldi all’estero non vengono quasi mai perseguiti dall’Agenzia delle
Entrate, perché le prove raccolte con le indagini penali fuori dai confini
nazionali non possono essere utilizzate dal fisco italiano: tra i beneficiari di
questo divieto, spiccano l’ex ministro Cesare Previti e i suoi colleghi avvocati
condannati per corruzione di giudici. E fino a quando non diventerà reato
l’auto-riciclaggio, non sarà possibile punire neppure i boss mafiosi che hanno
nascosto o reinvestito le ricchezze ricavate con il racket delle estorsioni o i
traffici di droga: il codice attuale infatti permette di incriminare solo
eventuali complici esterni, ma non direttamente i padroni dei tesori criminali.
Benvenuti in Italia, il Paese dell’impunità per i ricchi e potenti.
IL GIORNALISTA, SICURAMENTE FILO TOGHE, OMETTE DI
DIRE CHE LA RESPONSABILITA' DEI TEMPI LUNGHI E' DELLE TOGHE.
E poi, il cittadino, quanto deve aspettare per
avere giustizia e vedersi riconosciuta l'innocenza, sotto la mannaia perdurante
della gogna aizzata da tesi giudiziarie strampalate?
E poi di chi ci dobbiamo fidare?!?
FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO
GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?
Un sistema di alti ufficiali, tutti ai vertici
della Finanza e dei servizi segreti, tutti finiti dentro inchieste giudiziarie,
ciclicamente, nel corso degli anni. Per non parlare, poi, di tutti i loro
sottoposti……
Nicolò Pollari (71 anni), generale della Guardia
di Finanza, capo di Stato maggiore e direttore Sismi 2001-2006.
Roberto Speciale (71 anni), dal 2003 al 2007
comandante generale della Guardia di Finanza, poi deputato (Pdl).
Emilio Spaziante (64 anni), generale ed ex
comandante in seconda della Guardia di Finanza (2013).
Michele Adinolfi (63 anni), generale ed ex capo di
stato maggiore della Guardia di Finanza.
Mario Forchetti (64 anni), generale di corpo
d'armata in congedo della Guardia di Finanza.
Walter Manzon (56 anni), generale ed ex numero uno
della Guardia di Finanza in Puglia.
Marco Milanese (54 anni): dalla Guardia di Finanza
al Pdl, poi consigliere del ministro Tremonti.
Vito Bardi (63 anni) Generale e comandante in
seconda della Guardia di Finanza.
Massimo Mendella Colonnello e comandante
provinciale di Livorno della Guardia di Finanza.
Corruzione
Gdf, Pm: «Nella Finanza sistema di tangenti»,
scrive “Il Messaggero”. Una macchina perfetta lubrificata dalle mazzette e messa
in moto dagli ufficiali della Finanza. L’inchiesta della procura di Napoli, che
due giorni fa ha portato all’arresto del comandante provinciale della Guardia di
Finanza di Livorno, Fabio Massimo Mendella, e all’iscrizione sul registro degli
indagati del vicecomandante generale Vito Bardi, non riguarda un solo episodio
di corruzione. E’ sul sistema che lavorano i pm, «sull’abitudine» con
caratteristiche di «professionalità nel reato»: imprenditori disposti a pagare e
militari, a tutti i livelli e senza soluzione di continuità, propensi a
incassare. Da Emilio Spaziante, comandante in seconda del corpo arrestato per il
Mose di Venezia, al suo successore, Vito Bardi. E a confermarlo ai pm sono anche
alcuni alti ufficiali della Finanza. L’indagine è ancora ”coperta”: agli atti
non ci sono soltanto le testimonianze dei fratelli Pizzicato, che hanno
raccontato di avere pagato Mendella 15mila euro al mese (poi diventati 30) per
evitare che gli accertamenti avessero conseguenze. Altri, come loro, hanno
deciso di parlare. All’esame c’è anche la posizione di Achille D’Avanzo, il
proprietario degli immobili adibiti a caserme, che ogni mese incassava il
massimo dei canoni. La struttura del sistema, del quale Bardi avrebbe fatto
parte, emerge con chiarezza dal decreto di perquisizione a carico di Bardi
firmato dai pm Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli. Si legge nel decreto
che ieri ha portato proprio gli uomini della Finanza a perquisire gli uffici del
capo: «Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine
personale intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme,
illecitamente richieste asseritamente per sé e altri, e il generale Vito Bardi,
attuale comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti
testimoniali - di cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni
di cautela processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da
Bardi essere oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti
di stretta vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di
quest’ultimo con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle
presenti e più ampie investigazioni». E ancora: «Tali ultime circostanze sono
state riferite anche da appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad
alti livelli gerarchici sentiti come persone informate (di cui parimenti si
omette il riferimento nominativo allo stato per le medesime ragioni in
precedenza esposte). Altri soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a
richieste di favori di rilievo economico riguardanti Bardi, oggetto delle
presenti investigazioni». All’esame dei pm sono finiti anche i canoni d’affitto
pagati alla Solido Property dell’imprenditore napoletano Achille D’Avanzo, per
alcuni immobili adibiti a caserme. In base alle risultanze, l’Ufficio tecnico
erariale aveva fissato i canoni più bassi nelle tabelle di locazione ma, proprio
Bardi, contrariamente alle indicazioni dell’Ute, avrebbe dato l’autorizzazione
per pagare il prezzo massimo previsto. Inoltre, la sede della società di
D’Avanzo, esattamente come quella dei fratelli Pizzicato, sarebbe stata spostata
da Napoli a Roma in coincidenza con il trasferimento di Mendella. Gli avvocati
dell’imprenditore, Roberto Guida, Luigi Petrillo e Luigi Pezzullo, precisano che
«le società del gruppo di Achille D'Avanzo hanno sede in Roma dal settembre del
2004, epoca antecedente al trasferimento dell'ufficiale, che sarebbe avvenuto
solo nel 2012». E aggiungono che la vicenda degli affitti era già stata oggetto
di un’indagine chiusa con un’archiviazione. In realtà, l’inchiesta del 2012, poi
archiviata, riguardava alcuni immobili che la società di D’avanzo aveva venduto
a prezzi fuori mercato ai familiari dell'ex capo del Sismi Niccolò Pollari e del
generale della Finanza Walter Cretella Lombardo.
Fiamme Gialle travolte dagli arresti ai
vertici. Riemerge il caso: chi controlla i controllori?
Alti ufficiali della Guardia di Finanza fermati, perquisiti e
indagati che gettano ombre sull'impegno dei militari onesti. E, come venti anni
fa, si ripropone il problema della prevenzione: come impedire che i funzionari
corrotti facciano carriera, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Chi
controlla i controllori? Per la seconda volta in pochi giorni, le istruttoria
coinvolgono ufficiali di alto livello della Guardia di Finanza. Ieri è stato
arrestato per corruzione il colonnello Fabio Massimo Mendella, attualmente
comandante delle Fiamme Gialle a Livorno, ma soprattutto è stato perquisito
l'ufficio del numero due del Corpo, il generale Vito Bardi, anche lui indagato.
Non era mai successo prima. Il comando generale della Finanza non era stato
perquisito nemmeno nella tempesta del 1994, quando Mani Pulite coinvolse decine
di graduati e ufficiali che in Lombardia avevano alimentato un sistema di
bustarelle. La scorsa settimana, la piena del Mose aveva investito con violenza
l'istituzione. L'ex generale Emilio Spaziante è stato arrestato, con un'accusa
ancora più grave delle bustarelle per chiudere un occhio sulle verifiche
fiscali: secondo i magistrati avrebbe ottenuto oltre due milioni di euro per
garantire alla macchina di quattrini veneziana la protezione dalle inchieste
penali. Una circostanza mai accaduta durante la vecchia Tangentopoli. Con lui
sono stati perquisiti Mario Forchetti, ex generale a tre stelle nominato garante
per la trasparenza degli appalti Expo, e il colonnello Walter Manzon, ex
comandante di Venezia: entrambi non risultano indagati. Spaziante è stata fino a
pochi mesi fa una figura di primissimo piano, arrivata fino alla carica di capo
di stato maggiore e comandante dell'Italia Centrale. Un ufficiale a dir poco
discusso. Le intercettazioni del faccendiere Valter Lavitola avevano rivelato le
pressioni nel 2009 su Silvio Berlusconi per farlo arrivare al vertice del Corpo.
«No, non per fare il numero uno. Per fare una mediazione e lui fare il numero
due», diceva Lavitola al premier: «La mediazione la sta facendo il ministro (dell'Economia
Giulio Tremonti, ndr) ed è quasi fatta. Lei mi autorizzò a parlargliene. Lui
mi ha detto che teneva tutto fermo fino a quando lei non si muoveva e noi si
rischia il caso che da persone proprio amiche amiche amiche rischiamo insomma
quanto meno che gli diventiamo antipatici». Il generale Vito Bardi, comandante
in seconda della Guardia di finanza indagato per corruzione, intervistato a Bari
nel 2012 spiega i principi del finanziere modello: ''Un cittadino non avulso dal
contesto che lo circonda, di sani principi e pronto ad affrontare le
difficoltà'' (immagini da AntennaSud). Nonostante questo, Spaziante è riuscito
nel 2013 ad arrivare alla poltrona caldeggiata da Lavitola, grazie agli
automatismi che regolano le carriere. Poco dopo è esplosa un'altra inchiesta,
questa volta della procura antimafia di Roma, che ha registrato gli interventi
sull'ufficiale di un'industriale di Ostia per ottenere un documento, con cui
realizzare un falso e farsi assegnare un bene demaniale. Una vicenda in cui
compariva anche un ruolo dello studio professionale di Giulio Tremonti, chiamato
a mediare su un finanziamento da 100 milioni di euro che doveva essere stanziato
da Unipol. Guarda caso, la stessa società da cui pochi mesi fa Spaziante ha
ottenuto una consulenza dopo avere lasciato l'uniforme. Adesso l'ex generale è
agli arresti. Secondo gli accertamenti, condotti dalle stesse Fiamme Gialle,
Spaziante e la sua convivente hanno complessivamente dichiarato entrate per poco
più di 2 milioni di euro, mentre sono state scoperte uscite pari a quasi 3,8
milioni. Scrivono i pm: «In questo caso emerge inequivocabile l’elevatissimo
tenore di vita. Dalla scheda patrimoniale risultano auto sportive, barche di
lusso, villa con piscina, prestigiosi immobili, nonché la frequentazione di
costosissimi alberghi per i suoi spostamenti in Italia. Soggiorni settimanali a
Milano in hotel da mille euro a notte». E durante le perquisizioni nella
residenza della sua convivente, gli investigatori hanno trovato 200 mila euro
con banconote sporche di terra che sembravano essere state appena dissepolte. La
correttezza dell'istituzione non viene messa in discussione. Sono i militari
delle Fiamme Gialle a condurre le istruttorie più delicate del momento. Ed è
stato proprio un ufficiale, il colonnello Renato Nisi, a impedire che Spaziante
venisse a conoscenza della rete di microspie che hanno smascherato la ragnatela
di tangenti dell'Expo. Anche il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo,
che ha ordinato la perquisizione nel comando generale, ha detto: «Confermiamo
l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai
suoi vertici». Gli ultimi sviluppi mostrano però con chiarezza l'esistenza di un
problema di prevenzione, che riguarda tutta la pubblica amministrazione. Quali
strumenti esistono per impedire che la corruzione dilaghi? La questione era
stata posta venti anni fa, quando Mani Pulite aveva fatto finire in carcere
decine di militari e di funzionari degli uffici fiscali. Allora erano stati
proposti organismi di controllo, banche dati sui beni e altre iniziative,
rimaste lettera morta. E adesso tutto si ripropone. Uno dei punti chiave, che
anche in questo caso riguarda l'intera pubblica amministrazione, è l'assenza di
efficaci meccanismi disciplinari per valutare il comportamento dei funzionari.
Prima delle sentenza definitiva, non vengono quasi mai presi provvedimenti. Ma
il verdetto della Cassazione arriva dopo parecchi anni e la prescrizione
cancella quasi sempre le ipotesi di reato per i colletti bianchi. Come ha
evidenziato due mesi fa un'inchiesta de “l'Espresso”, in Italia l'impunità per
la corruzione è praticamente garantita. E nel frattempo le carriere proseguono,
fino ai piani più alti delle istituzioni. Figure come Spaziante o come Bardi
erano già state segnalate a vario titolo in diverse istruttorie: nell'estate
2011 entrambi erano citati nelle intercettazioni sulla cosiddetta P4. All'epoca
i pm avevano ricostruito una fuga di notizie sulle indagini, che aveva permesso
di mettere in guardia Gianni Bisignani, uomo chiave del potere romano. Ma non
c'erano state ripercussioni. Così come nulla è stato fatto per arginare le
frequentazioni molto interessate tra ufficiali e politici, in quella commistione
tra affari e nomine che è diventata il pilastro della nuova Tangentopoli, da
Milano a Venezia. Ora è necessario che questa nuova lezione si trasformi in
misure concrete, per evitare che accada ancora. E per impedire che la corruzione
di pochi getti ombre sull'attività di centinaia di militari delle Fiamme Gialle,
che tutti i giorni si impegnano con rigore e onestà per difendere quel che resta
della legalità nel nostro Paese.
Gdf, indagato per corruzione il
comandante in seconda Bardi. L’inchiesta della Procura
di Napoli ha portato anche all’arresto del comandante di Livorno Mendella per
presunte verifiche fiscali «pilotate» nel capoluogo partenopeo, scrive Fiorenza
Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Indagato per corruzione il generale Vito
Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Si tratta dell’ultimo
sviluppo dell’inchiesta che ha portato - nella mattinata di mercoledì- anche
all’arresto del colonnello Fabio Massimo Mendella, comandante della Guardia di
Finanza di Livorno accusato di aver percepito un milione di euro per «pilotare»
verifiche fiscali favorendo alcune società di imprenditori «amici» quando era in
servizio a Napoli. Bardi è sospettato di aver ricevuto parte di quella somma
oltre ad alcuni regali e favori. Nell’ambito dell’inchiesta i pm di Napoli
Piscitelli e Woodcock hanno disposto una perquisizione degli uffici di
Bardinella sede del Comando generale della Gdf in viale XXI Aprile a Roma. Il
colonnello Mendella - comandante provinciale della guardia di finanza di Livorno
- è finito in carcere insieme a un commercialista napoletano Pietro de Riu. I
reati ipotizzati dalla Procura di Napoli sono concorso in concussione per
induzione e rivelazione del segreto d’ufficio. In particolare De Riu avrebbe
incassato per conto di Mendella, responsabile del settore verifiche del Comando
provinciale di Napoli dal 2006 al 2012, oltre un milione di euro per evitare
verifiche ed accertamenti fiscali.
Bufera giudiziaria sulla Finanza.
Arrestato per concussione il comandante Gdf di Livorno: tangenti in cambio di
verifiche fiscali addomesticate. Indagato il generale Bardi. Il provvedimento a
carico di Fabio Massimo Mendella nell'ambito di un'inchiesta della Procura di
Napoli. Fermato anche il commercialista napoletano De Riu. Perquisiti gli uffici
romani del numero due della Guardia di Finanza che risulterebbe sotto inchiesta
per corruzione in vicende collaterali, scrivono Dario Del Porto e Conchita
Sannino su “La Repubblica”. Tangenti in cambio di verifiche fiscali
addomesticate. Finiscono in carcere l'attuale comandante provinciale della
Finanza di Livorno, colonnello Fabio Massimo Mendella e il commercialista
napoletano Pietro De Riu. Nell'inchiesta risulta indagato il generale Vito
Bardi, numero due della Guardia di Finanza: i suoi uffici romani sono stati
perquisiti. I pm Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock ipotizzano per gli
arrestati il reato di concorso in concussione per induzione e di rivelazione del
segreto d'ufficio. Per l'accusa, l'importo delle dazioni di denaro e di varie
utilità incassate dagli indagati ammonta, in totale, ad un milione di euro.
Somme che, è scritto in una nota della Procura di Napoli, sarebbero state
"asseritamente richieste ed incassate da De Riu per conto di Mendella". I fatti,
stando alle indagini condotte dalla Digos napoletana con la direzione centrale
della polizia criminale e dai finanzieri del Comando provinciale partenopeo e
della Tributaria di Roma, si riferiscono a rapporti intercorsi negli anni tra il
2006 e il 2012, quando Mendella era responsabile del settore Verifiche al
comando provinciale di Napoli, e successivamente trasferito a Roma. A
beneficiare dei presunti favori della Finanza sarebbero stati due fratelli
imprenditori napoletani della società Gotha. Secondo la tesi accusatoria, il
legame tra quel colonnello e quella società, saldata attraverso l'opera del
commercialista, era così forte che quando il colonnello fu trasferito nella
capitale, anche la Gotha cambiò sede, pur di continuare ad usufruire di quei
vantaggi illeciti. Nell'ambito dell'inchiesta sono stati perquisiti gli uffici
del comandante in seconda della Guardia di Finanza, generale Vito Bardi, che
risulterebbe indagato per corruzione in vicende collaterali. Il generale di
corpo d'armata, in pratica il numero due del corpo, è subentrato al generale
Emilio Spaziante che è andato in pensione ed è stato arrestato con l'accusa
corruzione nell'ambito della maxi inchiesta sulle tangenti del Mose. Bardi, 63
anni, è originario di Potenza. Ha ricoperto, tra l'altro, l'incarico di
comandante interregionale dell'Italia meridionale. Il procuratore capo di
Napoli, Giovanni Colangelo, dopo una lunga telefonata con il comandante generale
della Guardia di Finanza, Saverio Capolupo, tiene a ribadire: "Confermiamo
l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai
suoi vertici, tanto che abbiamo affidato congiuntamente ad essa e alla Digos
l'esecuzione delle misure, e l'attività integrativa continua ad essere svolta
dalle Fiamme Gialle insieme all'ufficio della Digos". Tra gli episodi della
vicenda giudiziaria viene riportata anche una festa in barca con Vip per
Mendella. Il colonnello, nell'estate del 2006 partecipò alla festa di compleanno
dell'imprenditore Paolo Graziano assieme ai calciatori Ciro Ferrara e Fabio
Cannavaro (i tre sono del tutto estranei alla vicenda; il solo Graziano è stato
sentito come persona informata sui fatti). La festa si svolse sulla barca di
Graziano, attuale presidente dell'Unione industriali di Napoli. La circostanza
viene riferita dal gip Dario Gallo solo come elemento di riscontro delle
dichiarazioni accusatorie dell'imprenditore Giovanni Pizzicato, che sarebbe
stato indotto da Mendella a pagare somme di denaro per evitare verifiche ed
accertamenti fiscali. Nell'estate del 2007, invece, sia Mendella, accompagnato
dalla fidanzata, sia il commercialista De Riu avrebbero trascorso le vacanze in
Sardegna a spese di Pizzicato. Trasferito da Napoli a Roma, il colonnello
Mendella - dice l'inchiesta - suggerì agli imprenditori Giovanni e Francesco
Pizzicato di trasferire nella capitale anche la loro società Gotha spa. Dopo
appena due giorni dal trasferimento della società, l'ufficiale propose ai suoi
superiori una nuova verifica fiscale, che necessitava di una specifica
autorizzazione a derogare dagli ordinari criteri di competenza. L'autorizzazione
giunse 24 ore dopo. La tempistica dell'operazione, sottolinea il gip, è un
decisivo elemento di conferma dell'ipotesi accusatoria: in quella circostanza
spuntò il coinvolgimento di "due generali". Anche le modalità di concessione
della deroga appaiono sospette, dal momento che non fu interessato il comando
generale della Guardia di Finanza ma solo quello provinciale, mentre nè nella
richiesta nè nell'autorizzazione erano specificate le circostanze eccezionali
per derogare dai criteri di competenza. Nella sua denuncia, l'imprenditore
Giovanni Pizzicato ha riferito di avere appreso dal commercialista Pietro De
Riu, anche lui arrestato oggi, che la verifica "aveva richiesto una speciale
autorizzazione da parte di due generali, uno dei quali mi fu detto essere il
generale Spaziante". In quella circostanza, De Riu chiese a Pizzicato 150.000
euro "perchè a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria
dell'iniziativa, i generali". Il generale della Gdf Emilio Spaziante, oggi in
pensione, è stato arrestato la settimana scorsa nell'ambito dell'inchiesta sul
Mose.
Terremoto Gdf: arresti, perquisizioni ed
incredulità. Arrestato il comandante della Finanza di
Livorno, Mendella, con l'accusa di concussione ed indagato il comandante in
seconda Bardi a Roma per corruzione. Lo sgomento delle fiamme gialle, scriveNadia Francalacci su “Panorama”. "...è davvero
impossibile". Diverse
telefonate, identico però il tono e quel filo di voce di chi davvero ha preso un
pugno nello stomaco. Sono le reazioni (anonime) dei militari delle Fiamme gialle
di Livorno dopo l'arresto del comandante provinciale della Guardia di Finanza
Fabio Massimo Mendella, accusato di concorso in concussione nell'ambito di
un'inchiesta della Procura di Napoli. Il colpo è davvero tremendo: in caserma,
nella città di Livorno e anche a Roma. In pochi hanno voglia di
parlare. Mendella era arrivato al comando provinciale livornese neanche un anno
fa, nel luglio del 2013, guadagnandosi immediatamente la stima del personale.
Anche alti ufficiali della Finanza, raggiunti telefonicamente da Panorama.it,
manifestano stupore ed incredulità. Oltre ad una profonda tristezza e
smarrimento: E' impossibile per Mendella e ancora di più per il generale
Bardi. Sembra quasi una voglia di colpire il Corpo.. cosa pensano di trovare
all'interno di un ufficio di un comandante in seconda che cambia
continuamente..” Poi qualcuno prosegue: "Mai una voce su Mendella..non è
mai stato un collega chiacchierato come a volte ci può essere". Infatti,
mentre laDigos di Napoli stava arrestando il comandante di Livorno, la
procura di Napoli stava effettuando una perquisizione, sempre nell’ambito della
stessa indagine che ha portato all’arresto del colonnello, nell’ufficio del
generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza presso il
Comando generale in viale XXI Aprile a Roma. Il generale Bardi, al momento,
risulterebbe indagato per corruzione. Ma perché il colonnello Mendella
sarebbe finito in carcere? E perché perquisire le stanze del Comando Generale
di Roma? Secondo i pm napoletani, Piscitelli e Woodcock, gli imprenditori
partenopei avrebbero versato oltre un milione di euro tra il 2006 ed il 2012 al
commercialista Pietro De Riu, anche lui finito in manette questa mattina, che
faceva da tramite con il responsabile verifiche ed accertamenti del Comando
provinciale Guardia di Finanza di Napoli, ovvero il colonnello Fabio Massimo
Mendella. Mendella, dopo sei anni nel capoluogo campano, fu trasferito dal
Comando di Napoli a Roma. E in concomitanza con il suo trasferimento anche la
holding "Gotha s.p.a.", oggetto di una verifica pilotata eseguita dall'ufficio
coordinato dal colonnello, avrebbe trasferito la propria sede legale nella
Capitale. Se l’arresto del comandante di Livorno ha destato non poco stupore,
meno “impatto”, tra alcuni finanzieri, ha avuto la notizia della perquisizione a
carico del generale. Il generale Vito Bardi, infatti, non è nuovo alle vicende
giudiziarie. Nel 2011 era stato indagato con le accuse di favoreggiamento e
rivelazione di segreto nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P4. L'anno
successivo, tuttavia, la sua posizione fu archiviata dal gip su richiesta dello
stesso pm Henry John Woodcock. Al centro dell'inchiesta era l'ex deputato del
Pdl Alfonso Papa, per il quale ora e' in corso il processo. Secondo l'ipotesi
accusatoria, l'ex parlamentare riceveva notizie coperte da segreto su indagini
in corso e se ne serviva per ricattare alcuni imprenditori dai quali riceveva
cosi' denaro o altre utilita'. Nell'inchiesta era coinvolto anche l'uomo
d'affari Luigi Bisignani che ha patteggiato la pena. Ma la tristezza di
moltissimi alti ufficiali della Finanza è dettata anche dal susseguirsi, di
accuse verso gli appartenenti al Corpo o graduati ormai in pensione. E’ il caso
del generale Emilio Spaziante rientrato nella maxi inchiesta, pochi giorni fa,
sulle tangenti del Mose, a Venezia. Emilio Spaziante, in qualità "di Generale di
Corpo d'Armata della Guardia di Finanza" è stato arrestato perché "influiva
in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei
confronti del Consorzio Venezia Nuova" e avrebbe ricevuto dal presidente del
Consorzio Giovanni Mazzacurati, in cambio, la promessa di 2 milioni e 500 mila
euro. E' quanto stato scritto nell'ordinanza del gip dove si precisa anche che
la somma versata fu poi di 500 mila euro divisa anche con Milanese e Meneguzzo.
Le indagini della Procura di Napoli che hanno portato all'arresto di Mendella,
sono state condotte dalla Digos partenopea con il contributo della Direzione
centrale di Polizia criminale e anche del Comando Provinciale e del nucleo di
Polizia tributaria della stessa Guardia di Finanza di Roma.
Ci sono imprenditori che collaborano, ma a parlare
sono soprattutto ufficiali e sottufficiali, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il
Corriere della Sera”. Uomini della Guardia di Finanza che accusano i loro
superiori di aver preso tangenti. E svelano al procuratore aggiunto Vincenzo
Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock l’esistenza di un «sistema» di
corruzione che ha già fatto finire in carcere il colonnello Fabio Massimo
Mendella, mentre sono indagati il comandante in seconda Vito Bardi e il suo
predecessore Emilio Spaziante, tuttora agli arresti per lo scandalo del Mose di
Venezia. Non sono gli unici. Ci sono nomi ancora coperti, componenti di quella
«rete» che avrebbe preteso soldi, vacanze, favori e forse, ma su questo i
controlli sono tuttora in corso, appuntamenti con alcune escort. È l’ordine di
perquisizione notificato ieri al generale a svelare gli elementi raccolti dai
pubblici ministeri facendo emergere un quadro di testimonianze incrociate:
«Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine personale
intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme illecitamente
richieste asseritamente per sé ed altri, ed il generale Vito Bardi, attuale
comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti testimoniali - di
cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni di cautela
processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da Bardi essere
oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti di stretta
vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di quest’ultimo
con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle presenti e più
ampie investigazioni. Tali ultime circostanze sono state riferite anche da
appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici
sentiti come persone informate (di cui parimenti si omette il riferimento
nominativo allo stato per le medesime ragioni in precedenza esposte). Altri
soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a richieste di favori di rilievo
economico riguardanti Bardi, oggetto delle presenti investigazioni». Tra gli
imprenditori interrogati c’è Achille D’Avanzo, in passato legato al generale
Nicolò Pollari e poi molto vicino a Bardi. Sono soprattutto due le circostanze
emerse dagli accertamenti affidati agli investigatori della Digos. Il primo
riguarda l’affitto della caserma di Napoli dove ha sede il Comando provinciale
delle Fiamme Gialle e altri stabili che l’immobiliarista avrebbe concesso
proprio ai finanzieri. I canoni vengono fissati dall’Ufficio tecnico erariale,
ma per questo caso si è deciso di fare un’eccezione. E dunque Bardi avrebbe
stabilito di concedere all’amico il massimo possibile ottenendo una
contropartita che sarebbe già stata svelata e sulla quale sarebbero tuttora in
corso le verifiche. Ma a destare sospetto è anche la decisione presa dallo
stesso D’Avanzo di spostare la sede di una delle sue società da Napoli a Roma
proprio in seguito al trasferimento di Mendella nella capitale. Esattamente come
accaduto per la «Gotha spa» dei fratelli Pizzicato che collaborano con i
magistrati e hanno raccontato di aver ricevuto il suggerimento proprio dal
colonnello. I difensori dell’imprenditore mettono le mani avanti sostenendo che
«le società del gruppo hanno sede nella capitale sin dal 2004». Al fascicolo di
inchiesta è stato allegato il verbale dell’imprenditore Mauro Velocci, già
coinvolto insieme ad Angelo Capriotti nell’inchiesta sugli appalti all’estero
gestiti dal faccendiere Valter Lavitola. Il 23 luglio scorso l’uomo viene
interrogato da Woodcock e dichiara: «Mi chiedete se Capriotti mi abbia mai
riferito di rapporti con ufficiali della Guardia di Finanza e di eventuali
richieste avanzate da questi ultimi. Posso dire che intorno al 2006 Capriotti mi
mandò negli uffici del generale Bardi per consegnargli un esposto denuncia.
Ricordo che io e Capriotti andammo una prima volta insieme dal generale Bardi
nel suo ufficio di Napoli e poi Capriotti mi mandò da solo sempre negli uffici
del Comando regionale. In questa occasione prese una copia del mio esposto e mi
disse che avrebbe seguito lui direttamente la vicenda, tuttavia non abbiamo
saputo più nulla. Credo un anno dopo Capriotti mi disse che il generale Bardi
gli aveva fatto delle richieste “strane” ovvero richieste di utilità, se non
sbaglio riferite all’acquisto o alla locazione di un posto barca ad Ostia». L’8
marzo scorso viene intercettata una telefonata tra Mendella e un amico avvocato,
Marco Campora. Il colonnello dovrebbe aver appreso di avere i telefoni sotto
controllo e dunque usa il legale come tramite per incontrare il commercialista
Pietro De Riu. Per questo i pubblici ministeri vogliono adesso accertare se
l’incontro con la donna sia effettivamente avvenuto o se invece fosse una
«finta» per mascherare invece un appuntamento.
Mendella : ué Marco! Ti chiamo dopo
Campora : no, no Fabio! Perché ti stavano
aspettando
Mendella : ma chi?
Campora : no là ... quella ragazza che ti volevo
presentare a piazza dei Martiri là, quindi ti aspetto un quarto d’ora
Mendella : no e non ce la faccio a venire. Oggi
non ce la faccio
Campora : eh ... ma scusa questo ti ... cioè qua
sta figa qua, ti sta aspettando Fabio
Mendella : non ce la faccio!
Campora : ... una figura di merda. Sta amica di
Cristiana qua devi
Mendella : ma non ce la faccio dai, sto al Vomero!
Campora : e devi venire per forza, che cazzo! Cioè
Mendella : dai, non ce la posso fare. C’ho pure
... adesso è arrivata pure Catia
Campora : eh no e Fabio dai, vieni, vieni! Fammi
sta cortesia perché ... vieni, vieni capisci... Perché questo mò ti vo ... ti
voleva sc.. mò, qua ... se ti dico vieni è perché devi venire, insomma, capito?
Sennò mica ti dicevo cazzate ... hai capito?
I soldi in contanti gli sarebbero stati consegnati
nelle scatole dei telefonini cellulari, continua la Sarzanini. Ma evidentemente
quei 30 mila euro al mese non bastavano. E allora il colonnello della Guardia di
Finanza Fabio Massimo Mendella si faceva pagare anche le vacanze in Sardegna,
oppure le gite in barca a Capri con i calciatori del Napoli. Atteggiamento
spregiudicato che i magistrati di Napoli inseriscono in un vero e proprio
«sistema» di corruzione che avrebbe avuto tra i referenti il generale Vito
Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Il sospetto degli
inquirenti è che proprio a lui possa essere finita una parte dei soldi versati
dai fratelli Pizzicato, amministratori della «Gotha spa» che si occupa di
metalli e gestori di alcuni locali notturni napoletani per evitare le verifiche
fiscali. Non è l’unico. Anche altri alti ufficiali tuttora in servizio - oltre
all’ex numero due delle Fiamme Gialle Emilio Spaziante - potrebbero aver
partecipato alla spartizione delle «mazzette» pagate dagli imprenditori. Un
dubbio alimentato da quanto raccontato al procuratore aggiunto Vincenzo
Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock proprio da Giovanni Pizzicato che
sostiene di aver ricevuto anche notizie sulle indagini in corso, compresa la
decisione «di mettere sotto controllo 42 utenze». «Fondi in Romania e Lituania».
È il 14 novembre scorso quando l’imprenditore decide di collaborare. E dichiara:
«Nel 2005 venni avvicinato da un mio collega Pietro Luigi De Riu e mi disse che
sarebbe stato bene che per la mia attività incontrassi un suo amico, il maggiore
Fabio Massimo Mendella, con il quale fu organizzata una cena presso uno dei
locali che all’epoca gestivamo, “La Scalinatella” di Napoli... De Riu ci propose
di trovare un accordo economico con Mendella, in misura proporzionale al volume
d’affari della società. Mi fu detto che con 15 mila euro al mese avremmo potuto
star tranquilli... Cominciai quindi a pagare, ma poi nel tempo i versamenti sono
cresciuti a 20 mila e poi fino a 30 mila euro. Non abbiamo avuto mai alcun
controllo generale o comunque mirato dalla Guardia di Finanza. Complessivamente
avrò versato oltre l milione di euro. Questi versamenti sono stati tutti quanti
effettuati a Napoli... in qualche circostanza io avevo messo i soldi contanti in
una confezione di un cellulare richiedendo alle mie segretarie di consegnarli al
dottor De Riu. L’ultimo dei pagamenti è avvenuto a settembre, ottobre del 2012.
Il contante lo abbiamo ritirato in banca in Italia fino al 2011 più o meno, poi
ho utilizzato somme che venivano prelevate dai conti presenti in Lituania e
Bulgaria». «Soldi ai due generali». Fila tutto liscio, poi Mendella viene
trasferito a Roma. Ma lì avrebbe trovato la soluzione: trasferire nella capitale
la sede della «Gotha spa» in modo da poter far partire una verifica «pilotata».
Racconta Pizzicato: «De Riu mi aveva detto che questa verifica per poter essere
autorizzata, in quanto di competenza territoriale di altro Comando, aveva
richiesto una speciale autorizzazione concessa da due generali, uno dei quali mi
fu detto essere il generale Spaziante. De Riu mi disse anche che successivamente
c’era stata una segnalazione da parte del colonnello Baldassari di Napoli.
Quest’ultimo, poi trasferito anche lui a Roma, aveva segnalato questa anomalia
richiedendo spiegazioni al Comando generale sul perché la verifica era stata
aperta dal Comando di Roma. In proposito devo aggiungere che il De Riu, in
relazione a questa verifica mi aveva richiesto la somma di euro 150 mila perché
a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria dell’iniziativa,
i generali che avevano autorizzato la stessa. Io anche in questa occasione
ritenni di dover pagare». In barca con i calciatori. Ci sono le «mazzette», ma
anche gli svaghi. L’imprenditore ha svelato di aver «pagato nel 2007 una
settimana di soggiorno al residence “Smeraldina” di Porto Rotondo dove
alloggiarono sia il De Riu che il Mendella, che era con la sua compagna, e io,
che ero presente, pagai tutte le cene della settimana». Ma anche di aver
organizzato nel 2006 una gita «a Capri con il presidente degli industriali
napoletani, Paolo Graziano, amico di Mendella, che festeggiava a bordo della sua
barca il suo compleanno. La barca di Graziano era un Mangusta e a bordo della
stessa c’era l’ex calciatore del Napoli Ciro Ferrara con la famiglia di Fabio
Cannavaro, quest’ultimo a bordo della sua barca. La barca del Graziano fu da noi
raggiunta con un gommone che era di proprietà di mio cugino, Sergio Reale. Noi
partimmo da Ischia dove io ero con la mia barca, a bordo della quale c’era
Mendella con la sua compagna, oltre De Riu con la sua fidanzata dell’epoca».
Nell’ordinanza il giudice elenca gli elementi di riscontro ai viaggi. E poi
allega le intercettazioni di conversazioni durante le quali il colonnello
Mendella fa finta di incontrare «belle donne» quando invece vede il
commercialista De Riu per farsi consegnare le tangenti.
INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA.
LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA
CORRUTTELA. Lo strapotere dei giudici nasce dall'uso
pubblico del bagnasciuga del mare, scrive Transatlantico su “L’Occidentale”.
L’Italia è il paese dove si può finire sotto processo per una denuncia non
circostanziata che la magistratura usa per cercare conferma a un’ipotesi
investigativa; dove si può essere condannati in primo e secondo grado e dopo 15
anni vedere annullata la sentenza in Cassazione per sette capi su otto e per
l’ottavo vederla confermare nonostante una legge in discussione (e approvata
qualche mese dopo) non consideri più il fatto come reato. L’Italia è il Paese
dove i pubblici ministeri che hanno sostenuto quell’accusa e i giudici che hanno
deciso quei processi hanno fatto regolarmente la carriera, uno addirittura
tentando quella politica, un altro divenendo ispettore presso il Ministero di
Grazia e Giustizia. Questo per evitare di ribadire che l’Italia è il Paese dove
il pm e i giudici di Enzo Tortora sono invecchiati solo in preda all’eventuale
ansia per il rimorso delle loro coscienze. Come faranno quelli di Giovanni
Mercadante. Il problema di molti processi italiani è il "libero convincimento
del giudice", insindacabile al punto da non potersi neppure accertare, a
posteriori, se in realtà esso si sia formato sulla base di un giudizio etico
(quando non politico) anziché giuridico. Il "libero convincimento" (implicazione
del monopolio interpretativo della legge da parte della Cassazione) si
accompagna all’obbligatorietà dell’azione penale e al diritto dei magistrati di
essere giudicati per i loro errori da un Organo di rilievo costituzionale nel
quale sono in maggioranza rispetto ai componenti designati dal Capo dello Stato
e dal Parlamento. Nel 1948 furono pensati quali giusti contrappesi per garantire
l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge
stante un Parlamento in grado di incidere sullo status di
magistrati/funzionari dello Stato (stipendi, regole per la carriera, eccetera) e
protetto contro accuse improvvide o pretestuose grazie all’immunità riconosciuta
ai suoi membri. Oggi però sono fonte di squilibrio istituzionale. Negli anni
Ottanta iniziò a diffondersi il sospetto, poi rivelatosi fondato, che molta
classe politica eccedesse nel coltivare interessi propri in nome altrui e che i
partiti di opposizione sapessero. La verità era che tre decenni addietro i
partiti dell’arco costituzionale avevano siglato un "patto" in forza del quale
alla DC competeva l’esclusiva di governare e al PCI di decidere distribuzione
dei costi e vantaggi sociali e ambedue si impegnavano a non fare riforme che
potessero mettere in discussione l’impianto giuridico-ideologico della
Costituzione repubblicana. Coerentemente negli anni Settanta/Ottanta, Centro e
Centrosinistra si erano concentrati sull’occupazione dello Stato e delle sue
articolazioni industriali e finanziarie mentre la Sinistra sulla penetrazione
nei settori dell’istruzione, della giustizia, dei beni culturali e degli enti
locali, finendo per dotarsi, democraticamente e legittimamente, di una
controstrutturapubblica motivata politicamente. La Sinistra aveva
compreso che col tempo la DC si sarebbe compromessa nel tentativo di conciliare
interessi concorrenti che presiedevano altrettante scelte di vita aventi pari
diritto e si stava preparando a sostituirla. Quella intuizione regalò alla
Sinistra il governo del territorio, dell’istruzione (superiore e universitaria)
e... della Giustizia ma non il governo del Paese di cui si sentì scippata da
Silvio Berlusconi nel 1994. La liason tra Sinistra e Magistratura ebbe
inizio, negli anni Settanta, con la decisione del pretore Amendola sull’uso
pubblico del bagnasciuga del mare. La sentenza, nonostante le ricadute sulle
regole di edilizia e urbanistica, sulla proprietà privata e alcune attività
imprenditoriali, fu snobbata dalla DC come atto, politicamente inerte, di un
pretore d’assalto. Alla sinistra non sfuggì invece che offriva la prova della
possibilità della via giudiziaria alla riforma della società italiana. E
soprattutto intuì che indicava come creare fra Magistratura e una parte della
società civile (quella di volta in volta interessata) il feeling
indispensabile per facilitare il suo avvento al potere. Tangentopoli
doveva segnare il punto di svolta ma Berlusconi convinse gli Italiani che alcuni
Magistrati avevano ceduto alle sirene del PDS (ex PCI) pronto a rappresentare i
loro interessi corporativi in cambio del sostegno alla conquistare il potere. La
sentenza di Amendola fu decisiva anche dal punto di vista ideologico perché
affermava il diritto del metro etico/politico per la formazione del "libero
convincimento del giudice". Con quella sentenza l’Ordine giudiziario affermò
inoltre il suo diritto/dovere di far prevalere i principi costituzionali (come
il principio di eguaglianza sostanziale) sulla legge vigente attraverso
l’interpretazione provocatoria (più che creativa) delle norme. Qualche
anno dopo altre sentenze sul rapporto di lavoro dipendente (cui seguì lo Statuto
dei lavoratori) dissolse i residui dubbi sulla praticabilità della via
giudiziaria alle riforme. Da allora molto è cambiato, rimane però intatta la
potestà dei giudici di formare il proprio "libero convincimento" su personali
parametri etico/politici di qualificazione giuridica dei fatti dunque di
compensare i deficit normativi, che ritengono esistenti, ricorrendo a una
giurisprudenza ermeneuticamente progrediente. Ma questa facoltà, in una
Democrazia con sovranità popolare, non può essere riconosciuta a un Ordine
Giudiziario privo di rappresentatività e la cui coscienza democratica e onestà
intellettuale sono valutabili solo attraverso gli atti, non giudicabili e
tantomeno sanzionabili, dei suoi componenti. Se poi il 70% degli Italiani chiede
oggi alla Politica di riequilibrare il rapporto fra potere e responsabilità dei
giudici (inquirenti e decidenti), è della scomparsa di sintonia con i cittadini
che la Magistratura dovrebbe preoccuparsi, non di una legge che nascerà minus
quam perfecta visto che a decidere sulla responsabilità dei giudici saranno
comunque i colleghi.
"Giudici troppo vicini ai pm. È ora di
separare le carriere". Il presidente nazionale delle
Camere penali accusa anche la politica: "Si inseguono gli umori della piazza
invece di fare una vera riforma", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. «Se
fosse lei il difensore di Claudio Scajola si strapperebbe i capelli?», chiedo
all'avvocato Valerio Spigarelli, presidente nazionale delle Camere penali e
massimo esperto degli umori che serpeggiano tra i penalisti italiani. Le Camere
penali sono 120, nelle maggiori città. Volendo parlare di una cosa avvilente
come la giustizia penale in questo Paese, consola avere di fronte uno come
Spigarelli. Ha lo sguardo fermo, folti capelli da strappare in caso di necessità
e la giusta foga per affrontare il pantano. Covava fin da giovanetto la passione
per i diritti dell'imputato. Ora ha 57 anni e un grosso studio nel centro di
Roma, la sua città. «Diciassettenne, digiuno di diritto, già manifestavo contro
la legge Reale (dura legge antiterrorismo del 1975, ndr)», dice, mentre in
cravatta e maniche di camicia cerca di capire con chi ha a che fare prima di
rispondere alla domanda su Scajola. Profitto, per sondarlo anch'io: «La peggiore
malagiustizia in cui si è imbattuto?». «Non una, cento», risponde e si capisce
che considera il mestiere di difensore un campo minato con una trappola al
giorno. Poi, per dire che tipo è Spigarelli, improvvisamente si stufa dei
preamboli e sbotta: «Le dico il punto debole della giurisdizione penale e potrei
anche finire l'intervista. Tutto discende da lì». «Prego», gli dico incuriosito
da questa prodigiosa capacità di sintesi.
«Il sistema giudiziario è squilibrato. Il giudice
non è equidistante tra accusa e difesa».
Il giudice parteggia?
«È più vicino al pm, per ciò che l'accusa
rappresenta: la pretesa punitiva dello Stato; piuttosto che al diritto di
libertà dell'imputato».
Partito preso?
«Dato culturale. Giudice e pm sono contigui e
hanno la stessa formazione. Ecco perché è necessario separare le carriere. I pm
si oppongono, sentendosi sminuiti. La separazione serve ad avere un giudice
libero, non un pm a metà».
Torniamo a Scajola: da difensore tremerebbe?
«Non penso proprio. Poi è ben assistito».
Intanto è in galera e non si intravede la fine.
«La magistratura intende la custodia cautelare,
non come una cautela per ragioni processuali, ma come un'anticipazione di pena».
Maramaldeggiano?
«Temono che l'imputato sfugga alla condanna e
presentano subito il conto: pochi, maledetti e subito. Che però è un detto di
commercianti».
Su Scajola, arrestato per vicinanza a Matacena,
ora piovono accuse su accuse. Dal solito concorso esterno, all'inedito «omicidio
per omissione» di Marco Biagi...
«Un classico per chi è in carcere. Ricordi accuse
e pentiti che si moltiplicarono per l'innocente Enzo Tortora».
Vale ancora il detto «male non fare, paura non
avere»?
«Realisticamente, no. La legge impone al pm di non
portare in giudizio un imputato se non sia convinto che ne otterrà la condanna.
Poiché assoluzioni e condanne in uno stesso processo si accavallano, è chiaro
che la norma è disattesa».
In più, la gogna delle intercettazioni di cui è
vittima anche l'incolpevole.
«Pratica da Stato autoritario. Contraria alla
legge che le regola e alla sentenza della Consulta che, nel '74, fissò i casi in
cui sono ammesse».
Il «reato» di concorso esterno in associazione
mafiosa è illegale.
«Invenzione giurisprudenziale, sconosciuta al
Codice penale».
Ha fondamento questa invenzione per persone
come Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri?
«Questo reato è spesso una forzatura: permette di
criminalizzare i comportamenti più vari. La contiguità con la mafia può andare
da uno a cento e si penalizza uno come cento».
Chi è responsabile di tanta illegalità nella
Giustizia?
«I politici. Hanno l'enorme colpa di non avere
fatto una vera riforma della Giustizia in questi vent'anni, inseguendo invece
gli umori della piazza».
E le toghe sono dilagate.
«Un magistrato che fa un comizio politico contro
il presidente della Repubblica (Ingroia, ndr). Quattro pm che vanno in tv per
ammonire il governo a non fare una legge (pool di Milano ai tempi di Mani
pulite, ndr). Settanta pm che mandano un fax al Parlamento ingiungendogli di
bloccare la riforma della Giustizia (ai tempi della Bicamerale, ndr). Abbastanza
per dire che c'è un enorme problema di separazione dei poteri che la politica
non affronta».
Il Guardasigilli, Orlando, è all'altezza?
«Di buono ha che è un politico. Loro, prima o poi,
capiscono. Se alla Giustizia mettiamo un giurista, è peggio. Il problema è
quello manzoniano (Il coraggio, uno non se lo può dare, ndr).
Il Parlamento autorizza addirittura il carcere
preventivo dei suoi, come con Genovese del Pd.
«Che quattro giorni dopo era ai domiciliari perché
il giudice non ha ritenuto necessario il carcere. Che penseranno di sé i
parlamentari che ce lo hanno spedito?».
Per dire il Paese: la sera delle manette,
Crozza in tv ha fatto il pirla su Genovese (e mesi prima su Cosentino).
«Facile fare dello spirito sulla pelle degli
altri. Ma se tocca a noi, cambiamo registro. Mai visto nessuno con tanta
sfiducia nei giudici, quanto i magistrati che incappano nelle attenzioni dei
colleghi».
Il carcere duro si concilia con lo Stato di
diritto?
«Il 41 bis è una tortura democratica. Un
trattamento disumano vietato dalla Costituzione».
La trattativa Stato-mafia, cara alla Procura di
Palermo, attiene alla sfera giudiziaria o politica?
«Il reato di trattativa non esiste. Ci sono
arrivati anche antimafiosi doc, come Marcelle Padovani, biografa di Falcone, e
Giovanni Fiandaca, studioso pd del fenomeno. Pur di evitare che mettano una
bomba all'Olimpico, io parlo anche con Belzebù».
Come se ne esce?
«Con la ventilazione della magistratura».
Frullarla via?
«Aprire ad altri l'accesso in magistratura:
professori e avvocati. Aria fresca in una corporazione chiusa. E...».
E?
«Dopo la laurea, una Scuola superiore delle tre
professioni giudiziarie per una comune cultura della giurisdizione. Poi si
sceglie: chi avvocato, chi giudice, chi pm. Prima però, quindici giorni di
carcere per tutti. Bugliolo, pane e acqua, ispezioni corporali».
"I magistrati forzano le leggi. Ormai è
scontro con lo Stato".
Giorgio Spangher, esperto di Procedura: "L'esempio di conflitto è il processo a
Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. Non c'è più equilibrio tra le parti,
nei processi i giudici stanno con l'accusa", scrive Giancarlo Perna su “Il
Giornale”. Quando incontri una persona, c'è un prima e un dopo. Il prima è
l'infarinatura che hai di lei senza conoscerla. Il dopo è quando ti sta davanti
agli occhi. Del professor Giorgio Spangher sapevo che è un numero uno della
Procedura penale di cui, dopo averla insegnata a Sassari e Trieste (sua città
natale), è ordinario alla Sapienza di Roma, supremo punto d'arrivo
universitario. Al telefono mi ero fatto anche l'idea che fosse autoritario,
perché di poche parole e ipermattiniero al punto che ho rischiato un
appuntamento alle 7.30, spostato alle 8,30 con abile trattativa. Alla fine mi
sono detto che a settant'anni, tanti ne ha Spangher, ha il diritto di essere
bacchettone. Con questo bagaglio cognitivo, mi sono presentato da lui. Incontro
uno di quei settantenni che madre natura moltiplica ai nostri giorni: dimostra a
stento cinquant'anni. Ha parlantina torrentizia, è caratterialmente cordiale e
propone, da bon vivant, di andare nel giardino a goderci il sole romano anziché
starcene nella hall del suo albergo come due grami mediatori d'affari. Mentre
sediamo, è lui a ricordarmi ciò che ho omesso nella presentazione. Ossia che,
oltre a essere docente, è anche preside della Facoltà di Legge. Però lo dice
solo per pregarmi di non scriverlo - ma come faccio? - perché lui, parlando di
Giustizia, vuole farlo a nome suo, senza le cautele cui una veste istituzionale,
come quella di preside, lo costringerebbe. Insomma, è unicamente il prof che
parla. Stavo per fargli una domanda scemetta, tanto per rompere il ghiaccio,
quando metto meglio a fuoco il suo aspetto. Ha barba nera, occhi vigili e un
paio di jeans. Sembra il personaggio di un western. Così, adattandomi alla
scoperta, ho sparato a bruciapelo una domanda micidiale: «Se fosse incriminato,
direbbe: "Ho la massima fiducia nella magistratura?"». Spangher reagisce con un
sorriso tirato, ci pensa su e dice: «Non mi sbilancerei con una affermazione
così netta». Vuole dire che, se gli capitasse, sarebbe stravolto, conoscendo i
suoi polli. Ma usa garbate circonlocuzioni. Lo farà spesso. È quindi utile che
vi dica subito come ho capito io che la pensa Spangher, anche quando si esprime
in modo cripitico-docenziale. Il professore è più che convinto che la Giustizia
sia malata e i magistrati eccedano. Ma anche che la gente è dalla loro parte e
non accetta distinguo. È furiosa per le ruberie dei politici, tanto più odiose
in tempi di crisi. Invoca la ramazza e osanna chi la usa. Perciò, pensa con
amarezza Spangher, è il momento peggiore per sognare riforme garantiste. Leggete
dunque l'intervista con queste lenti.
Il giudice è più vicino al pm che ai diritti
della difesa?
«Sostanzialmente vero. Il grande problema del
processo è l'equilibrio dei poteri, tra difesa, pm e giudice».
Equilibrio che manca.
«Spesso il giudice si schiera più sulle tesi
accusatorie. Ma c'è anche un altro equilibrio in crisi».
Cioè?
«Quello tra la magistratura e gli altri poteri
dello Stato. Quando nasce un conflitto tra Procura di Palermo e capo dello Stato
(trattativa Stato-mafia, ndr) o tra Procura di Milano e Governo (sul segreto di
Stato nel caso Abu Omar, ndr), significa che il livello di guardia è superato».
C'è abuso del carcere prima del processo?
«Il nuovo codice di procedura aveva sostituito la
carcerazione preventiva, ossia l'anticipo della pena, con la custodia cautelare,
semplice misura di precauzione che non sottintendeva la probabilità della
condanna. Ma le leggi successive ci hanno, di fatto, riportati al carcere
preventivo. La galera non è più l'ultima ratio».
C'è abuso di intercettazioni?
«Spesso non sono rispettati i presupposti di legge
per farle».
I giudici violano le leggi?
«Le forzano. Di fronte alle obiezioni della
difesa, vanno avanti per la loro strada. Se nei codici c'è scritto immediato,
che per me significa subito, il giudice interpreta dieci giorni; se c'è scritto
assolutamente indispensabile, il magistrato interpreta opportuno, utile».
Pura illegalità. Bisognerebbe scendere in
piazza.
«Ci andrebbe da solo. La gente no, perché capisce
che si sta facendo pulizia. Sentito parlare della Rivoluzione francese? Quelli
che andavano a vedere le esecuzioni? Siamo lì. Il processo penale è
sensibilissimo a questi umori».
È tollerabile la legislazione speciale per i
mafiosi, dai processi di massa al carcere duro?
«Il doppio binario è accettabile. Ci ha fatto
uscire dal terrorismo, vincendolo per via giudiziaria, pur piegando le norme con
leggi di emergenza. Ha consentito di restare nella legalità. Altri hanno
impiccato i terroristi in carcere».
Con la scusa dei mafiosi si è finito per
colpire i non mafiosi con il reato inventato del concorso esterno.
Costituzionale?
«Dirmi perplesso è un eufemismo. I poliziotti, per
esempio, per svolgere i loro compiti, devono navigare in una zona grigia: il
caso Contrada».
Cuffaro e Dell'Utri hanno sette anni a testa
per concorso esterno.
«Il diritto penale deve distinguere tra l'illecito
e il grigio. Il cosiddetto concorso esterno non è nella zona illecita, ma in
quella grigia. Come tale, non è sanzionabile».
L'Università come si schiera di fronte a queste
bestiali forzature?
«Salvo eccezioni, sviluppa una linea garantista.
Guarda al sistema, non all'emergenza. Docenti e studenti hanno metabolizzato i
principi di garanzia della Convenzione Ue».
La magistratura dilaga dalla politica
industriale (Ilva) alla camera da letto (Ruby). Perché?
«Vuole moralizzare la società, mentre dovrebbe
solo applicare la legge».
Le colpe della politica per le invasioni di
campo?
«Enormi! Ha delegato alle toghe funzioni proprie.
Ma, soprattutto, con la sua corruzione, fa sempre più emergere la magistratura».
L'ultimo Guardasigilli degno del nome?
«Giuliano Vassalli. Introdusse il nuovo codice di
procedura penale».
Separazione delle carriere tra giudici e pm?
«Certo. Nella logica dell'equilibrio dei poteri.
Oggi, i muscoli sono solo da una parte: quella delle toghe contro i difensori».
Pensiero finale.
«Grande confusione sotto il cielo».
Tanto fanno parte tutti della grande
mangiatoia. Lo scandalo del doppio lavoro: busta più ricca per mille toghe,
scrive Stefano Sansonetti su “Il Giornale”. Un festival di incarichi
extragiudiziari. Per un cospicuo numero di toghe italiane, a quanto pare, la
cuccagna non accenna a finire. Negli ultimi tempi sono letteralmente fioccate le
collaborazioni che i magistrati riescono a ottenere da un'infinita serie di enti
pubblici e privati. Inutile dire che tutti questi lavori extra, svolti cioè al
di fuori della missione tipica di giudici e pubblici ministeri, si portano
appresso un bel corredo di compensi che vanno a cumularsi ai già lauti stipendi.
Il fatto è che l'organo di autogoverno della magistratura, guidato dal
vicepresidente Michele Vietti, ha appena sfornato un «volumone» di 362 pagine
che contiene l'ultimissimo aggiornamento delle attività extragiudiziarie
autorizzate dal 14 novembre 2013 al 13 maggio del 2014. A impressionare è il
loro numero: parliamo di 1.085 incarichi, più che raddoppiati rispetto ai 466
del semestre precedente e comunque in aumento rispetto ai 961 autorizzati nello
stesso semestre di un anno fa (ovvero dal 14 novembre 2012 al 13 maggio 2013).
Molti incarichi vengono assegnati da società private di consulenza e formazione,
per non parlare di veri e propri centri di potere come la Luiss, l'ateneo della
Confindustria guidato dall'ex numero uno degli industriali Emma Marcegaglia, che
per questa via si trova a pagare numerosi giudici. E qui restano di grande
attualità due questioni. Innanzitutto la montagna di incarichi rischia di
sottrarre ore preziose di lavoro a un sistema-giustizia stritolato da pendenze
sempre più difficili da smaltire. E poi la «vitale» questione della terzietà:
siamo sicuri che ricevere compensi da Confindustria e gruppi privati, seppur
autorizzati dal Csm, garantisca l'imparzialità della toga nel momento in cui è
chiamata a svolgere il suo «vero» lavoro? Nelle 362 pagine gli esempi si
sprecano. Si prenda Paolo Sordi, presidente della sezione lavoro del tribunale
di Roma, che per lezioni di diritto del lavoro ha ottenuto la bellezza di 9
incarichi: 4 ore dalla Scuola nazionale dell'amministrazione per complessivi 600
euro, 3 ore dalla Scuole superiore dell'economia e delle finanze per 390 euro, 2
ore dall'Università Roma Tre per 200 euro, 40 ore dalla Lumsa per 4 mila euro,
ancora 4 ore da Roma Tre per 480 euro, un'ora dalla società di formazione Optime
srl per 400 euro, un'ora dalla Synergia Formazione srl per 500 euro, 20 ore
dalla Scuola di specializzazione in professioni legali della Sapienza per 3.600
euro e 6 ore dalla Fondazione dell'avvocatura pontina per 750 euro. Oppure la
situazione di Angelo Spirito, consigliere della Corte di Cassazione che ha
ottenuto 5 incarichi per docenze di procedura civile dal gruppo Altalex: due da
14 ore e 2.600 euro ciascuno, un altro da 14 ore per 2.450 euro e due da 5 ore
ciascuno per complessivi 1.450 euro. Poi c'è il caso della Luiss, l'università
di Confindustria che direttamente o per il tramite della sua Scuola di
specializzazione in professioni legali ha assegnato nel semestre incarichi a 10
magistrati. Tra questi c'è Domenico Carcano, capo dell'ufficio legislativo del
ministero della giustizia, che per 45 ore di lezione di diritto processuale
civile prenderà 6 mila euro. A seguire il sostituto procuratore di Roma Barbara
Sargenti, con 36 ore di lezioni di diritto penale dell'informatica pagate 4.500
euro. Ancora, tra le toghe più dinamiche si segnala Gaetano Ruta, pm di Milano,
il castigatore degli stilisti Dolce e Gabbana. In questo caso parliamo di 5
incarichi per lezioni di diritto penale: 5 ore per 650 euro dalla Scuola
superiore dell'economia e delle finanze, 2 ore per 325 euro dalla Cattolica di
Milano, un'ora per 400 euro da Synergia Formazione srl e 2 ore da 500 euro l'una
da Informa srl. Un altro pm milanese, Carlo Nocerino, sempre per docenze di
diritto penale ha ottenuto 20 ore dall'Università Bicocca per 2.064 euro, un'ora
da Optime srl per 400 euro e un'ora da Paradigma srl per 800 euro. Tra i più
impegnati a livello di ore ci sono anche Bruno Giordano, giudice del tribunale
di Milano, e Marcello Buscema, giudice del tribunale di Roma. Il primo ha
ottenuto dall'università di Milano e dal Consorzio interuniversitario per il
diritto allo studio 50 ore di docenza per complessivi 7 mila euro. Il secondo 42
ore dall'onnipresente Scuola superiore dell'economia e delle finanze per 5.460
euro. Dall'elenco emergono i profili di alcune società private di formazione che
la fanno da padrone. Optime srl, Paradigma srl, Synergia, Wolters Kluwer e
Altalex pagano decine di magistrati. Anche se la maggior parte degli incarichi
arriva dalle Scuole di specializzazione nelle professioni legali delle varie
università italiane. È bene ripetere che si tratta di incarichi regolarmente
autorizzati dal Csm, che però non spazzano via le questioni «tempo» e «terzietà»
del magistrato. Del resto lo stesso Csm è consapevole del problema se solo si
considerano le circolari che si sono succedute sul tema. In sostanza oggi si
individuano tre tipologie di incarichi extra: espletabili senza autorizzazione,
inderogabilmente vietati e soggetti ad autorizzazione. Il fatto è che ogni norma
viene interpretata, ed è soprattutto la linea di confine tra le ultime due
categorie a rischiare di rivelarsi labile.
Ma tutto questo alle toghe di tutti i ranghi non
basta. Mose, politici e magistrati: mazzette per tutti, scrive “L’Unità”.
I conti segreti e criptati all’estero li hanno già trovati nelle prime due
tranche di questa inchiesta (2013). Ora salta fuori «Il fondo Neri», fondo
comune di danaro contante versato pro-quota dalle imprese. Il meccanismo arriva
al punto «di integrare in un'unica società corrotti e corruttori». Di più: «A
volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha
accettato l'incarico e quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello
locale, quale rendita di posizione che prescinde dal singolo atto illecito
commesso e che trova giustificazione solo nel ruolo rivestito dal pubblico
ufficiale e nella possibilità, che egli comunque mantiene, di poter influire
sfruttando le proprie conoscenze e relazioni personali con i funzionari che -
scrive ancora il gip - permangono in servizio». Il sistema L'ex presidente della
Regione Giancarlo Galan e l'ex generale della Gdf Vincenzo Spaziante, i
dirigenti del magistrato delle acque Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva,
l'assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso: «Ciascuno di essi, per
anni e anni, ha asservito totalmente l'ufficio pubblico che avrebbe dovuto
tutelare, agli interessi del gruppo economico criminale, lucrando una serie
impressionate di benefici personali di svariato genere». Scrive il gip che
Giovanni Mazzacurati, il presidente del Consorzio Nuova Venezia (CvN) «dopo aver
concordato» con i principali componenti del Consorzio «la necessità» di pagare
tangenti, dal 2005 al 2011 avrebbe corrisposto - tramite l'assessore Chisso (che
a sua volta riceveva il denaro o direttamente dallo stesso Mazzacurati o dai
collaboratori di quest'ultimo) - a Galan, «non solo lo stipendio annuo di un
milione, ma anche 1 milione e 800 mila per il rilascio di due pareri favorevoli
ai progetti». In particolare 900 mila euro tra il 2007 e il 2008 e altri 900
mila tra il 2006 e il 2007 «per il rilascio del parere favorevole della
Commissione Via della Regione Veneto, sui progetti delle scogliere esterne alle
bocche di porto di Malamocco e Chioggia». La campagna per le comunali Il sindaco
di Venezia Giorgio Orsoni entra nell'inchiesta sui fondi neri delle aziende
legate agli appalti del Mose per aver ricevuto, secondo l'accusa, oltre 110mila
euro in più occasioni a sostegno della campagna elettorale delle comunali nel
2010. Orsoni avrebbe ricevuto i fondi tramite «contributi formali» di aziende
che a loro volta ottenevano il denaro dal Cvn sulla base di false fatturazioni.
Le ditte coinvolte, a vario titolo, sarebbero Mazzi, Grandi Lavori Fincosit,
Mantovani e Covela, Consorzio Italvenezia e Società italiana condotte d'acqua,
Coveco, San Martino e Clodia. Secondo il gip queste società partecipavano al
sistema di false fatturazioni «consapevoli della destinazione a fine di
finanziamento illecito di esponenti politici del denaro sovraffatturato in
favore del Cvn per la realizzazione del Mose». I postini delle somme sarebbero
stati Luciano Neri e Federico Sutto, uomini di fiducia dell'ex presidente del
Cvn, Mazzacurati, entrambi arrestati. I passaggi sono tre: i primi due
riguardano l'emissione di due fatture per 500 mila euro emesse da Coveco e da
San Martino a favore del Cvn. Il terzo passaggio riguarda la dazione vera e
propria, che sarebbe avvenuta con tre consegne a uomini di fiducia di Orsoni,
per un totale di 110 mila euro». La domanda è se Orsoni fosse o meno consapevole
delle provenienza di quel danaro. In una delle intercettazioni, Nicola Falconi
(ai domiciliari), uno degli imprenditori del CvN, riferisce che Orsoni gli ha
detto: «Siete dei veri amici, sono meravigliato dello sforzo addirittura
superiore alle attese e ti ringrazio molto». E quella per la regionali Tra gli
arrestati anche Giampietro Marchese, consigliere regionale veneto del Pd.
Avrebbe ricevuto un finanziamento illecito di 33mila euro per la campagna delle
regionali 2010. Il finanziamento risulterebbe confermato dall’imprenditore Pio
Savioli (già arrestato nel 2013), consigliere del CvN e consulente della
cooperativa Coveco nella cui contabilità è stato rintracciato il passaggio di
denaro. «Finanziamento ufficiale» (con relativa fattura) si difendono gli
indagati. Per l’accusa, invece, «frutto dei pagamenti del CvN sulla base di
false fatturazioni Coveco». Nelle carte dell'inchiesta c’è un appunto scritto a
mano sequestrato a luglio 2013 ad una dipendente del Coveco con le «erogazioni»
effettuate dalla cooperativa fino all'11 ottobre 2011. Ci sono i nomi di
Marchese, del consigliere regionale del Pd Lucio Tiozzo (33mila euro), della
Fondazione Marcianum (100mila euro), il polo pedagogico-accademico dell'allora
patriarca di Venezia Angelo Scola, il Pd provinciale di Venezia (33mila) e il
Premio Galileo a Padova (15mila euro). Il giudice Giuseppone della Corte dei
Conti, prima a Venezia e poi a Roma, «avrebbe percepito uno stipendio annuale
oscillante tra i 300mila e i 400mila euro che gli veniva consegnato con cadenza
semestrale a partire dai primi anni duemila sino al 2008». Tra il 2005 e il 2006
la dazione aumenta: «Non meno di 600mila tra il 2005 e il 2006». I soldi,
afferma ancora il gip, servivano per «accelerare le registrazioni delle
convenzioni presso la Corte dei Conti da cui dipendeva l'erogazione dei
finanziamenti concessi al Mose e al fine di ammorbidire i controlli sui bilanci
e sugli impieghi delle somme erogate al Consorzio Venezia Nuova». Il generale e
le Fiamme Gialle Tra gli arrestati anche l’ex, ormai è in pensione, generale di
corpo d’armata Emilio Spaziante. Secondo il gip, per «influire in senso
favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei
confronti del CvN», avrebbe ricevuto la promessa di 2 milioni e 500 mila euro.
La somma versata poi è solo di 500 mila euro divisa anche con Marco Milanese
(indagato), allora collaboratore politico del ministro Tremonti e parlamentare
della Commissione Bilancio. La cifra sarebbe stata versata tra aprile e giugno
2010, «per influire sulla concessione dei finanziamenti del Mose».
Inchiesta Mose. "Comprati anche giudici
del Consiglio di Stato, fino a 120 mila euro per sbloccare i lavori".
Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan, ha detto ai pm che delle mazzette era
incaricato un avvocato. E ha fatto anche il nome del del presidente del Tar del
Veneto, Bruno Amoroso, scrive Giusepep Caporale su “La Repubblica”. Gli
imprenditori del Mose compravano le sentenze. E per farlo si affidavano ad un
avvocato cassazionista, Corrado Crialese, ex presidente di Fintecna (la
finanziaria pubblica per il settore industriale). Si occupava solo di questo
Crialese, pagare i giudici. Sia quelli del Tribunale amministrativo regionale,
sia quelli del Consiglio di Stato. Agiva per conto delle ditte del Consorzio
Venezia Nuova. È quanto mettono a verbale Claudia Minutillo, ex segretaria di
Giancarlo Galan (onorevole di Forza Italia ed ex governatore del Veneto) e
Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, primo socio del Consorzio
Venezia Nuova. Una sentenza costava tra gli 80 e 120mila euro. Ma non è tutto.
Durante due interrogatori- confessione spunta anche un nome: quello del
presidente del Tribunale amministrativo del Veneto Bruno Amoroso. È la Minutillo
la prima a parlarne, quando i tre magistrati Paola Tonini, Stefano Ancilotto e
Stefano Buccini il 19 marzo 2013 le chiedono conto di una mazzetta di 20mila
euro. "Poi, signora, a un certo punto registriamo all'interno del suo ufficio la
consegna di una somma di denaro che lei dà a un suo dipendente, da portare a
Roma. Siamo nel febbraio del 2013... Insomma, qualche settimana fa, poco prima
del suo arresto" dice il pm Buccini. "Sì lo ricordo - risponde la Minutillo -
quel giorno, venne in ufficio da noi Corrado Crialese che ha una serie di
rapporti importanti, tant'è che lui proprio lui una volta mi disse: sai, forse
adesso viene il mio amico Amato, forse lo fanno Presidente della Repubblica. Fu
il giorno della grandissima nevicata. E io dissi a Piergiorgio Baita: guarda che
forse questo qua viene perché vuole qualcosa. E infatti era così. Bisognava
corrispondergli 20mila euro che lui avrebbe fatto avere, diceva, al suo amico
presidente del Tar del Veneto, Amoroso". Chiede il pm Tonini: "Perché essere
consegnata questa somma?". "Così si poteva influire sui ricorsi - risponde la
Minutillo - su alcuni che erano in atto, in particolare quelli sull'Autostrada
del Mare. E vincemmo noi. Ma ce n'erano stati anche altri. Maltauro aveva fatto
ricorso contro di noi sulla Valsugana, e so che era anche in crisi per questo.
Perché (il giudice, ndr) era amico sia di Mantovani (attraverso Crialese) che di
Maltauro. Alla fine Maltauro ritirò il ricorso e si misero d'accordo Mantovani e
Maltauro. In realtà i ricorsi servivano proprio a questo: un concorrente li fa
per costringerti poi a tirarlo dentro. Funziona quasi sempre". La interrompe il
pm Ancilotto: "Ecco, ma allora perché pagare?". "Perché questo è un sistema
consolidato, nel senso che avviene anche ai più alti livelli oltre che al
Tar..." risponde l'ex segretaria di Galan. "Senta, è l'unico pagamento fatto ad
Amoroso o in passato ne vennero fatti altri dal Baita?" chiede ancora uno dei
tre inquirenti. "Ce ne furono altri, come questo cui ho appena accennato: il
ricorso della Valsugana, che infatti vincemmo". Anche Baita, nell'interrogatorio
del 28 maggio 2013 conferma tutto. E va oltre. "Conosco Crialese quando come
vicepresidente di Fintecna si offre di fare il mediatore nell'acquisto dell'area
ex Alumix, dove avevamo un progetto di piattaforma logistica presso il Porto di
Venezia. Per favorire la vendita lui chiede una parte in nero, credo 160mila
euro. Gli affidiamo poi degli incarichi anche come avvocato per le cause
amministrative e oltre al pagamento della parcella ci chiede sempre una parte in
nero". "E come la giustifica questa parte in nero?" chiedono i magistrati. "Che
lui ha i suoi rapporti da... pagare ". E poi fa la lista delle mazzette per i
giudici: "Abbiamo pagato sia per alcune sentenze del Consiglio di Stato che del
Tar del Veneto. Per la sentenza sulla Pedemontana Veneta 120 mila euro. Per
vincere il ricorso contro Sacyr che poi, però, abbiamo perso, 100mila euro... In
quel caso qualcun altro deve dato di più. Poi anche per un ricorso contro
Maltauro sulla Valsugana. E contro Net Engineering credo altri 80 o 100mila
euro. E ancora per la vicenda Jesolo Mare al Consiglio di Stato. Pagavamo
sempre, perché Crialese diceva che se non glieli davamo avremmo perso...".
Crialese ora per lo scandalo del Mose è agli arresti domiciliari con la sola
accusa di millantato credito.
Sbirri venduti e magistrati corrotti: il
sistema Mose. Il generale Spaziante chiese 2 milioni
di euro per orientare le indagini. La guerra nella Gdf, scrive Alessandro Da
Rold su “L’Inkiesta”. La Guardia di Finanza ha dovuto indagare su se stessa
nell’inchiesta sul Mose di Venezia dove è stato arrestato il generale Emilio
Spaziante. Ma anche nell’indagine sull’Expo 2015 di Milano l’ex Dc Gianstefano
Frigerio, il professore della cupola, millantava rapporti con il capo generale
delle fiamme gialle Saverio Capolupo. Non è un caso che l'operazione veneziana
si chiamasse in codice "Antenora" (come ricordato dal quotidiano
IlPiccolo), seconda "delle zone in cui è distinto il cerchio nono dell'Inferno
dantesco", quello dei traditori. «In essa sono puniti coloro che hanno tradito
la fede spezial (If XI 63) creata dall'appartenenza alla stessa patria o allo
stesso partito politico». Gli scandali che stanno terremotando il Nord Italia in
queste ultime settimane, colpendo esponenti del Pdl o del Pd, tirano in ballo
non solo i ladri, ma anche «le guardie» (copyright Matteo Renzi). E oltre ai
guardiani delle legalità, personaggi spesso impegnati in interviste tese a
condannare la corruzione, a finire in arresto ci sono anche magistrati della
Corte dei Conti, come Vittorio Giuseppone o giudici del consiglio di Stato e del
Tar, persino funzionari come il Magistrato delle Acque di Venezia che dovrebbero
garantire la legalità delle opere pubbliche. Non solo. In entrambe le inchieste
compare l’ombra dei nostri servizi segreti (in particolare in relazione
all'imprenditore Enrico Maltauro, costrutture di caserme e basi militati
statunitensi in Italia ndr), altro tassello funzionale a garantire sicurezze
giuridiche e a far viaggiare spedito il giro di appalti, mazzette e conti
all’estero con l’aiuto di uno come Roberto Meneguzzo, numero della Palladio
Finanziaria, la Mediobanca del Nord-Est. Del resto non è la prima volta che la
nostra Guardia di Finanza viene travolta dalle inchieste della magistratura. Già
nel 2011 il generale Spaziante, insieme con l'ex capo di stato maggiore Michele
Adinolfi comparve per alcune soffiate nell'inchiesta sulla P4 di Luigi
Bisignani. E a ben guardare i protagonisti sono sempre gli stessi e riportano a
galla una guerra che si consumò nel 2008, quando nel cambio della guardia tra il
governo Prodi a quello Berlusconi, l’allora ministro dell’Economia Giulio
Tremonti fece fuori tutti gli uomini dell’ex numero uno di via XX settembre
Vincenzo Visco. Il deus ex machina di quella operazione di spoil system fu Marco
Milanese, ex Gdf, ex braccio destro, indagato nell’inchiesta sul Mose e accusato
di aver intascato una mazzetta da 500mila euro. Ma la vera mente dell’operazione
di occupazione del potere da parte dei tremontiani fu Vincenzo Fortunato, ex
magistrato, potente capo di gabinetto del ministero dell’Economia per quasi
dieci anni, che caso vuole sia stato fino al marzo del 2014 “collaudatore”
proprio del Mose, del sistema di dighe mobili che dovrebbe salvare la laguna
dalle maree. A nominarlo nel 2011 insieme a Pietro Ciucci, presidente di Anas,
fu il Magistrato dell’Acque di Venezia, allora ancora di nomina della cricca del
capo supremo, Giovanni Mazzacurati. Grazie alla Gdf gli indagati sapevano di
essere intercettati. Spaziante, arrestato giovedì scorso all’Hotel Savoia di
Milano, secondo gli inquirenti, è stato un tassello fondamentale per la cricca
bipartisan che gestiva il giro delle tangenti su un’opera faraonica da svariati
miliardi di euro. Perché oltre a collaborare insieme a Milanese per sbloccare i
fondi del Cipe, teneva informati i sodali della cricca sulle indagini della
Guardia di Finanza. Non solo. Consigliò pure a Mazzacurati di acquistare un
blackberry con una nuova scheda telefonica per evitare di essere ascoltato.
Nell’ordinanza di custodia cautelare i magistrati spiegano nel dettaglio le
richieste che i vertici del Consorzio Nuova Venezia volevano sapere sulle
inchieste in corso. E’ l’allora generale della Gdf della provincia di Venezia,
Walter Manzon, perquisito nei giorni scorsi, ad attivarsi. E a chiedere al
colonnello Renzo Nisi, l'ufficiale che per primo ha indagato sul Cvn scoprendo
il marcio delle acque veneziane, di fornirgli le informazioni delle ultime
indagini in corso. Nisi è il cosiddetto «buono» di tutta la vicenda, grazie al
suo operato l'inchiesta non è stata insabbiata. Nel 2013 è stato trasferito a
Roma e prima di andarsene disse: «La pietra ha cominciato a rotolare e presto
diventerà una valanga». Come si legge nei verbali agli atti, Nisi, uomo appunto
integerrimo, non avendo in quel momento «alcun tipo di sospetto trattandosi di
dati richiesti da suo diretto superiore gerarchico» fornì i dati. E’ il 26
ottobre del 2010. Grazie all’intervento di Speziante e Manzon la cricca viene a
sapere tutto. «Il nominativo dei soggetti nei cui confronti sono in corso le
indagini tecniche e la qualifica»; il tipo di intercettazioni in corso, se ci
fossero cimici o fossero solo intercettati i cellulari; le utenze monitorate
dalla fiamme gialle per conto della procura. Per questo motivo Mazzacurati e
Spaziante non parlano mai al telefono, perché sanno di essere intercettati. Ma
il 3 dicembre del 2010 una microspia piazzata nell’ufficio delll’ex presidente
del Cvn svela che il gran burattinaio del Mose conosce la situazione. Ne parla
con un ex diplomatico, Antonino Armellini. E svela: «Mi hanno detto di una
telefonata che hanno registrato con il dottor Letta, una con Matteoli...le hanno
registrate». L'accordo con la Guardia di Finanza trovato nella casa di Baita: 2
milioni di euro per orientare le indagini. Il sodale di Mazzacurati è
Piergiorgio Baita, l’ex top manager della Mantovani costruzioni, Il re del
project financing arrestato lo scorso anno, altra gola profonda
nell’inchiesta. È nella sua casa che gli inquirenti trovano in un'agenda la
conferma dell’accordo con il relativo importo delle spese a «risultato
raggiunto». E nel corso dell'interrogatorio Mazzacurati spiega che non solo
Milanese ringraziò dopo aver ricevuto una tangente di 500mila euro («Io ho un
po’ di ritegno su queste cose, mi colpì» dice ai magistrati), ma che dopo si
trovò a dover fronteggiare le richieste di Spaziante che per «orientare le
indagini» chiedeva una tangente di 2 milioni di euro. Di questi soldi
Mazzacurati ne verserà solo un quarto in due tranche, nel 2011 e 2012. «Mi
rifiutai di corrispondere altro denaro, anche per le difficoltà di reperire una
somma quale quella richiesta» afferma durante l’interrogatorio del 9 ottobre del
2013. Servizi segreti e magistrati. Oltre a Giuseppone della Corte dei Conti,
anche lui arrestato e anche lui addetto, secondo gli inquirenti, a dare una mano
al Consorzio Nuova Venezia, nelle carte dell'inchiesta ci sono pure i magistrati
del Tar. E' soprattutto Claudia Minutillo, ex segretaria del Doge Giancarlo
Galan, a raccontare ai magistrati delle lotte interne alla burocrazia italiana,
alla Gdf e ai Servizi. La Minutillo racconta anche degli intrecci tra Baita,
Corrado Crialese, avvocato cassazionista e numero uno di Adria Infrastrutture
già in Fintecna, e Bruno Amoroso, presidente del Tar di Venezia. Lo stesso Baita
conferma a più riprese di aver pagato giudici del Consiglio di stato fino a 120
mila euro per avere sentenza favorevoli. Se nelle carte dell'Expo 2015 spunta il
nome del numero uno del Dis Giampiero Massolo, in quelle sul Mose è sempre la
Minutillo a raccontare altri dettagli sull'assuzione di una figlia «di uno dei
servizi segreti». Si legge: ««I cognomi di queste due ragazze sono
significativi: una si chiama Splendore, il cui padre è comandante dei Servizi
segreti (si tratta del direttore dell'Aise del Triveneto Paolo Splendore ex
Sisde noto alle cronache per aver lavorato con Bruno Contrada ndr), che
evidentemente si pensava potesse avere un ruolo nell’ambito delle indagini in
corso; e l’altra si chiama A., il cui padre è un importante funzionario della
Regione del Veneto, che ha un ruolo fondamentale in molte attività del Gruppo
Mantovani, come per esempio tutte le opere di bonifica e di salvaguardia della
Laguna. Per esempio: successe che un giorno andai da Chisso per chiedere
chiarimenti su un accordo di programma che non si faceva e A. doveva seguire la
questione. “Ma voi non gli dovevate assumere la figlia? Lui su questa cosa è
molto arrabbiato, tu assumi la figlia e vedrai che le cose si risolvono”, mi
disse».
1. MOSE, LE MAZZETTE-VITALIZIO: “PAGA
FISSA, VIAGGI E HOTEL”, scrive Paolo Berizzi per “La
Repubblica”. Mose ha aperto le acque, sotto c’è il baratro di Venezia. Un
fondale melmoso dove hanno strisciato per dieci anni politici squali affamati di
tangenti «anche dopo il pensionamento», tipo vitalizio, «pacchetti e
pacchettini» per «ristrutturare la villa» come è riuscito a Giancarlo Galan al
quale, bontà sua, non bastassero i muratori pagati dalla Mantovani spa,
casualmente nella torta Mose, era assicurato «uno stipendio annuo di 900mila
euro». Più morigerato, ma forse è solo questione di ruoli e di tempi, il sindaco
Giorgio Orsoni: 560 mila. Una tantum anzi no, a rate. «In tre mesi ho portato i
soldi a casa sua», confessa Giovanni Mazzacurati. Il «capo supremo», il «re», il
«monarca», l’«imperatore», il «doge». Lo chiamano così i sottoposti, le iperboli
che si addicono a chi presiede il consorzio a cui è stata affidata un’opera da
5miliardi, «il progetto più grande del mondo». «Il capo supremo era
scoglionato... ma poi è diventato tutto arzillo dopo la cena con il mio amico di
Padova » (il sindaco di Padova Zanonato, ndr), dice del suo dominus uno dei più
fidati collaboratori. Avevano addosso gli occhi dei sindacati: «C’è uno che al
Tg3 ha detto: “È ora di finirla, questi qua fanno soldi con il Mose, poi vengono
qua e si comprano la sanità pubblica”».Questi qua sono loro, il branco
di piranha che s’addensava intorno agli squali. I «loro» imprenditori. Quelli
che «prima li paghiamo — i politici — e poi andiamo a batter cassa». Dice ancora
l’ingegnere Mazzacurati: «Adesso con i tagli grossi vengono pacchetti piccoli...
». Glieli portava direttamente lui i soldi al consigliere regionale Pd Giampiero
Marchese, invero non il più ingordo giacché il «meccanismo », come lo chiamano i
magistrati nelle 710 pagine di ordinanza del gip Alberto Sacaramuzza, si
accontentava di piccole tranches «da 15 mila euro a volta». Più che un’idrovora
una cerniera, Marchese. «Era il collettore di soldi del Consorzio Venezia Nuova
(Cvn) per la sinistra. Galan e Chisso (Renato Chisso, assessore regionale
forzista alle Infrastrutture, ndr) lo erano per la destra». C’è un codice più o
meno sofisticato che i mazzettari della Laguna osservavano per tessere la loro
rete. È fatto di «dazioni obbligate», «rendite di posizione», «fondi neri» che
qui, splendido anagramma della corruzione, diventano «fondo Neri» (dal nome di
Luciano Neri, il “cassiere” di Mazzacurati” del Cvn). Bisogna leggere
attentamente le parole del gip. «Il meccanismo — annota — arrivava al punto di
integrare in un’unica società corrotti e corruttori». Un abisso «talmente
profondo che non sempre è stato possibile individuare il singolo atto specifico
contrario ai doveri d’ufficio». Eccoli gli ingranaggi del meccanismo. C’è un
sindaco che nella sua bella casa di San Silvestro, due passi dal ponte di
Rialto, riceve il corruttore: il «grande amico» Mazzacurati. Un caffè veloce?
«Ho saturato la cifra richiesta», ammette il costruttore. «Anche tranches da 150
mila euro». Non è uno che va per il sottile il «doge». «Tutti i nostri amici
gonfiano», ammonisce al telefono. Fatturazioni off shore, «esterovestizione» per
dirla con l’economichese della polizia tributaria. Ma anche di carta igienica si
parla. Racconto di Pio Savioli, responsabile del Consorzio per i rapporti con le
cooperative: «Il magistrato alle Acque era in subordine al Consorzio Venezia
Nuova... cioè Venezia Nuova li comprava... sudditanza psicologica e anche
operativa... Cioè gli comprava anche la carta igienica, è vero, non è una
battuta».Tutto nello stesso contenitore che tiene dentro squali, piranha
e pesci piccoli. «Le nomine del Magistrato delle Acque da sempre le ha fatte
l’ingegnere Mazzacurati — dice Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan e
imprenditrice del cemento — Cioè faceva in modo che venisse nominata una persona
a lui gradita, gradita al Consorzio». Non manca nessuno nel canovaccio di questa
commedia dell’arte (di rubare). Il sindaco (Orsoni). L’assessore (Chisso). Il
“governatore” (Galan). Gli altri politici da oliare (Marchese, Lia Sartori
eurodeputata Pdl non rieletta). Poteva mancare il generale della Guardia di
Finanza in pensione? No, infatti è spuntato lui, Emilo Speziante. «Con
Mazzacurati si incontrano nella residenza romana dell’imprenditore ». Residence
Ripetta, via di Ripetta. Il doge gli chiede un occhio di favore. E qualche
soffiata. Speziale è richiesto di «influire in senso favorevole sulle verifiche
fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Cvn». Tutto bene
oliato con «la promessa di 2,5 milioni di euro». Il sistema Mose sapeva essere
riconoscente. Anche quando uno lasciava il suo incarico. Anche dopo la pensione.
«A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha
cessato l’incarico o quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello
locale», recita l’ordinanza del gip. Si chiama «rendita di posizione». Un
«conguaglio», o «stipendio fisso» che «prescinde dal singolo atto illecito
commesso». Così ingrossava il conto Vittorio Giuseppone, ex magistrato della
Corte dei conti. Così Orsoni e Chisso e Lia Sartori potevano farsi le campagne
elettorali ma non solo. «Orsoni prima ha fatto una cifra e poi l’ha aumentata»,
dice Mazzacurati che del primo cittadino veneziano ricorda, in alcune occasioni,
la prudenza. «Chiedeva di consegnare denaro a qualcuno che lo copriva». I
«pacchettini» sono scivolati di mano in mano dal 2003 a oggi.Ognuno
riceveva in base a quanto era in grado di dare. Ecco, se esiste un asso
pigliatutto quello potrebbe rispondere al nome di Giancarlo Galan. «Era a libro
paga dei costruttori del Mose», scrive il gip. Tra 2005 e 2008 l’ex governatore
e fedelissimo berlusconiano si è messo in tasca emolumenti per 900 mila euro
l’anno. Un affarista il Galan che esce dalle carte. Tra conti a San Marino e
pacchetti azionari nelle società coinvolte negli affari della Regione, con il
suo fidato assessore Chisso faceva lavorare «imprese con le quali era in
debito». «Galan ha continuato a chiedermi denaro anche dopo la scadenza del suo
mandato in Regione», dice l’ad della Mantovani spa Piergiorgio Baita. VERA E
PROPRIA LOBBY. Questo era il Consorzio Venezia Nuova. «Un gruppo di
pressione per ottenere le modifiche normative d’interesse», scrive il gip.
«Buste bianche» e «bigliettoni». E poi viaggi. Viaggi per agganciare i big della
politica. Come Tremonti, allora superministro, a cui Mazzacurati prova a
arrivare attraverso il suo braccio destro Marco Milanese oliato con 500mila
euro. «Prenotami una stanza al Grand Hotel», chiede il “Doge” alla sua
segretaria. «Sì, che in quei due giorni c’è Matteoli che parla». Non gli è
andata giù, a Mazzacurati, che il governo abbia nominato Ciriaco D’Alessio
presidente del Magistrato alle Acque. «Oggi vedo il Dottore», promette sior
Giovanni. Il Dottore è Gianni Letta. Lo riceva a Roma il 23 settembre 2011. Ma
forse Letta non basta. «Lì ci vuole un atto di imperio di Berlusconi». Così
parlo l’uomo del Mose prima che le acque si aprissero.
2. IL MANAGER REO CONFESSO “AL GENERALE
SPAZIANTE TRECENTOMILA EURO” - MAGISTRATI E 007 A LIBRO PAGA PER SPIARE LE
INDAGINI, scrive Paolo Colonnello per “La Stampa”.
«Questo incontro che Mazzacurati aveva fatto con Meneguzzo avrebbe comportato il
pagamento di due milioni e mezzo alla Guardia di Finanza, di cui 300 mila subito
e il conferimento a Meneguzzo (ad di Palladio Holding, ndr) di 300 mila euro
all’anno, più 400 mila euro di fee… Seppi poi che la Guardia di Finanza a cui si
riferiva era il generale Emilio Spaziante e, oltre ai 300 mila euro, ne furono
richiesti altri 200 mila…». Parola di Piergiorgio Baita, ex presidente della
Mantovani Costruzioni, grande reo confesso di questa vicenda. Per esempio: «Se
il presidente della Regione mi dice: “Mi dai una mano?”, lei gliela dà, non si
chiede perché». Chiede il pm: quindi lui chiedeva e voi davate? «Per forza, come
fai a dire di no?… Sì ma, voglio dire, Galan non era più governatore, era
ministro, eh!…». Non c’è scampo: un milione all’anno «di stipendio», più lavori
in villa pagati. Ricatti, intrighi, spionaggio, tangenti: c’è di tutto in questa
marea di schifezze che sta sommergendo Venezia. Confronto alla cricca maneggiona
e un po’ millantatrice che ruotava intorno all’Expo, questi del Mose sono
un’organizzazione di geometrica potenza il cui fine «era quello di una
sistematica e continuativa condotta corruttiva di pubblici ufficiali, sia in
qualità di funzionari che di politici… essendo la corruzione finalizzata
all’ottenimento di finanziamenti e di lavori da parte delle società consorziate
rientranti nel gruppo Mantovani». Un gruppo che, a partire dall’ingegner Baita,
finito nel mirino anche nelle inchieste milanesi di Expo, per arrivare al
«Grande Vecchio» del Consorzio Venezia Nuova, l’ingegner Giovanni Mazzacurati,
(liquidato l’anno scorso dalla società pubblica con 7 milioni di euro) si era
strutturato perfino con un servizio di «controspionaggio» per intercettare le
inchieste che li riguardavano. Ed è questo, forse, il dato più inquietante che
emerge dall’indagine e che si riassume nel nome del generale di corpo d’armata
Emilio Spaziante, un passato nei Servizi Segreti, fino a due mesi fa numero due
della Guardia di Finanza, che ieri gli ha messo le manette. Al generale, per
«influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali
aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova», vengono promessi da
Mazzacurati 2 milioni e mezzo di euro, di cui 500 mila versati e spartiti con
Marco Milanese, altro personaggio plurinquisito (è indagato nell’inchiesta Bpm),
ex braccio destro del ministro delle Finanze Giulio Tremonti, e con Roberto
Meneguzzo, Ad di Palladio Holding, gruppo finanziario vicentino molto noto.
D’altronde la torta da spartire era quasi illimitata: 5 miliardi di euro per
salvare Venezia dalle sue acque ma non dagli squali, e avere in concessione la
quasi totalità degli appalti senza gara, senza concorrenza, senza alcun
confronto tra costi e progetti alternativi. Nelle carte è documentato un
incontro tra il generale e Meneguzzo nella sede di Palladio a Milano l’8
settembre 2010 per ricevere una parte dei soldi. Scrivono i giudici: «Ecco che
proprio nel momento in cui riceve i soldi, Spaziante chiama per 4 volte il
comandante del Nucleo della Gdf di Venezia che stava svolgendo attività di
verifica, per dimostrare… di essere in grado di acquisire notizie riservate
sulle indagini». Del resto, i benefici effetti del rapporto tra il presidente
del Consorzio Mazzacurati e Spaziante, mediato da Meneguzzo, si vedono in
fretta: «Sei mesi di registrazioni… il mio telefonino, mi hanno detto è ancora
sotto controllo fino alla fine dell’anno», spiega Mazzacurati all’ex diplomatico
Antonio Armellini. «Mi hanno detto, che mi hanno registrato una telefonata con
Matteoli (l’ex ministro di An finito sotto inchiesta, ndr) e col dottor Letta…
pensi che la telefonata che mi hanno raccontato io me la ricordavo benissimo…».
Secondo i magistrati la rete di spionaggio comprendeva di tutto: da magistrati
contabili, a poliziotti, a funzionari dei Servizi. L’acqua marcia di Venezia.
3. MOSE, LA SEGRETARIA DI GALAN AI PM:
“PER LUI UNO STIPENDIO DALLE AZIENDE”, scrive Mario
Portanova per "Il Fatto Quotidiano". “La cosa era molto variabile, si può
considerare un milione l’anno”. Così, agli atti dell’inchiesta della Procura di
Venezia sul Mose, che ha portato all’arresto di 25 persone, tra le quali il
sindaco Giorgio Orsoni, è descritta la retribuzione di Giancarlo Galan, già
presidente della Regione Veneto e attuale deputato di Forza Italia, da parte
delle aziende che si sono aggiudicati i lavori del sistema di dighe mobili
destinato a proteggere la città lagunare dall’acqua alta. Un affare da oltre 5
miliardi di euro. A raccontarlo ai pm, nell’interrogatorio del 31 luglio 2013, è
Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, che raccoglie
appunto quelle imprese. Una conferma arriva ai magistrati da Claudia Minutillo,
segretaria di Galan all’epoca dei fatti, poi passata alla Mantovani costruzioni,
grande protagonista dei lavori del Mose: ”Era un sistema, cioè ogni tot quando
loro potevano gli davano dei soldi”. Dall’ordine di custodia – che per quanto
riguarda l’onorevole Galan dovrà essere esaminato dalla Camera – emergono tanti
altri pagamenti. Un milione e 100mila euro per ristrutturare la villa sui Colli
Euganei; 200mila euro consegnati nel 2005 all’Hotel Santa Chiara di Venezia da
Piergiorgio Baita, allora presidente della Mantovani Costruzioni, diventato la
gola profonda dell’inchiesta con ampie confessioni, per finanziare la sua
campagna elettorale. E ancora: 50mila euro, nello stesso anno, versati in un
conto corrente presso S.M. International Bank Spa di San Marino. Più altri
finanziamenti per altre campagne elettorali consegnati sempre da Baita alla
Minutillo. Ed è ancora la segretaria a raccontare ai pm che un’ulteriore
ricompensa consisteva nell’”intestare quote di società che avrebbero poi
guadagnato ingenti somme dal project financing a prestanome dei politici di
riferimento”, Galan in primis. Qual era, secondo l’indagine, la contropartita di
retribuzioni così sostanziose? Dalla Regione, per procedere con i lavori, il
Consorzio Venezia Nuova doveva ottenere essenzialmente la Valutazione d’impatto
ambientale e la salvaguardia per la realizzazione delle dighe in sasso. Da qui,
secondo l’accusa, la necessità di ungere abbondantemente le ruote. In
interrogatorio, a proposito dei soldi versati a Galan e all’assessore regionale
alle infrastrutture Renato Chisso (Forza Italia), Baita parla di “fabbisogno
sistemico” e afferma: “Credo che noi abbiamo pagato tra Adria e Mantovani 12
milioni di euro. Penso che ne siano stati retrocessi sei”. Galan ha un ruolo
fondamentale: è lui ad accompagnare Mazzacurati, presidente del Consorzio, al
cospetto di Gianni Letta, quando quest’ultimo è sottosegretario alla presidenza
del Consiglio nel governo di Silvio Berlusconi. Nel 2006, ricostruisce il gip
Alberto Scaramuzza, “la giunta regionale - presidente Giancarlo Galan, relatore
Renato Chisso – individuava nel segretario alle Infrastrutture Silvano Vernizzi
il ruolo del presidente della Commissione di valutazione di’impatto ambientale.
In violazione della legge regionale 10/1999″, che assegna il compito “al
segretario regionale competente in materia ambientale”. Passo successivo,
“l’estromissione” di un ente di controllo terzo, l’Ispra, emanazione del
ministero dell’Ambiente, sostituito dalla Regione medesima per iniziativa,
ancora, di Chisso. Dice Baita nell’interrogatorio del 28 maggio 2013: per
“l’approvazione da parte della Commissione Via della regione Veneto delle dighe
in sasso, Mazzacurati mi disse che gli era stato richiesto dall’assessore Chisso
a nome di Galan il riconoscimento di 900mila euro. Altro episodio specifico è
stata l’approvazione in Commissione di salvaguardia del progetto definitivo del
sistema Mose per il quale, sempre attraverso l’assessore Chisso, ma a nome del
presidente Galan, fu richiesta la somma di ulteriori 900mila euro”. Era Chisso a
farsi portavoce delle richieste, “perché Galan lo pressava”. E ancora Baita, il
27 settembre 2013, a precisare ai pm che le somme non erano per il partito, ma
“per il singolo lucro del singolo destinatario”. Da qui l’accusa di corruzione,
e non di finanziamento illecito. Il comportamento del presidente della Regione,
scrive il gip, ha “particolannente danneggiato l’interesse pubblico alla tutela
ambientale“. Secondo Baita, i versamenti a Galan sono continuati anche quando il
politico padovano non era già più presidente del Veneto. Lo conferma in
interrogatorio, il 19 marzo 2013, l’ex segretaria dello stesso Galan, Claudia
Minutillo, secondo la quale i pagamenti non erano finalizzati a ricompensare i
singoli passaggi amministrativi del Mose. “Le procedure andavano avanti (…), ma
era un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano dei soldi”. “Come
fosse uno stipendio“, chiede il pm? “Sì, di fatto”. Tanto che “Baita a volte si
lamentava di quanto veniva a costare Galan”. Soldi comunque ben spesi, a quanto
spiega ancora Minutillo: “A fronte dei pagamenti, il governatore e l’assessore
Chisso agevolavano il Gruppo Mantovani nella presentazione e nell’iter
burocratico relativo al project financing che le società del gruppo Serenissima
Holding presentavano in Regione. Quasi sempre era la Mantovani a presentare il
progetto, ma i tempi di presentazione, i lavori in relazione ai quali
presentarli erano concordati con il Galan e il Chisso da parte del Baita”.Tale era poi il controllo di Galan su “commissioni e assessorati”, che
qualunque progetto passava senza “alcun tipo di intoppo o di obiezione”. E’
Mazzacurati a ricordare, per esempio, quella volta che Galan tornò
precipitosamente in sede per far approvare un’opera in laguna, funzionale al
cantiere Mose, “contrastata dai Verdi”. Fra le contestazioni a Galan c’è quella
di aver ottenuto il pagamento della ristrutturazione della propria villa di
Cinto Euganeo, nel padovano. Nel 2007/2008 venne ristrutturato il corpo
principale del casale e nel 2011 la “barchessa”. Per portarli a termine, la
Tecnostudio Srl “sovrafatturava alla Mantovani alcune prestazioni effettuate
presso la sede e per il Mercato Ortofrutticolo di Mestre”. La ristrutturazione
della villa quindi a Galan non costò nulla: con le fatture false a pagare era la
Mantovani Costruzioni. Il politico di Forza Italia, più volte ministro e attuale
parlamentare, si dichiara estraneo a tutta la vicenda. “Dalle prime informazioni
che ho assunto e da quanto leggo sui mezzi d’informazione, mi dichiaro
totalmente estraneo alle accuse che mi sono mosse, accuse che si appalesano del
tutto generiche e inverosimili, per di più, provenienti da persone che hanno già
goduto di miti trattamenti giudiziari e che hanno chiaramente evitato una nuova
custodia cautelare”.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI
CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di
cronaca nera. Quello che non si deve dire. Quando gli autori scomodi sono
censurati ed emarginati. Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per
sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la
storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo. “Sarah
Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi.
Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”.
Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale.
In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in
prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli
incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per
entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce
la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende
similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si
continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca
recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e
interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un
viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia
del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è
un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire
cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate,
cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal
confronto ne esci più sapiente. Antonio Giangrande, noto autore di saggi
pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta
di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che
egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o
premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li
scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per
forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno
strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa
proprio il web per raccontarsi. «Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo
caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi
sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla
rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o
perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che
cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla
parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini
che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi,
ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli
che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con
verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea,
rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi
errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio
i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché
non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai
nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere
diverso!» Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di
chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori
stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una
volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è
assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e
che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e
scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile
poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in
generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere.
Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori
ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista
mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro,
inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie
traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che
l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di
Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola,
la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà
son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri
compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva
censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai
pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per
far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere
già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un
e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un
territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non
si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della
domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti
sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di
raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma
nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la
colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.» “L’Italia del Trucco,
l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da
Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da
leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro
di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.
FINANZA E GIUSTIZIA.
«L’archiviazione, falla al più presto per il mio
amico Berneschi». Anche l’avvocato Andrea Baldini nelle intercettazioni della
maxitruffa: il banchiere lo pressava perché facesse chiudere il caso, scrive
Cristina Lorenzi su “La Nazione”. Un
pasticciaccio brutto che ha coinvolto banchieri, magistrati, avvocati,
professionisti. L’arresto di Giovanni
Berneschi, ex presidente di Carige e vice della Cassa di risparmio di Carrara, e
di altre sei persone per una presunta truffa ai danni della banca ha avuto come effetto domino una ricaduta su procuratori e avvocati
della nostra zona coinvolti dalle intercettazioni telefoniche a ambientali.
Nello specifico Berneschi avrebbe avuto
un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio,
attraverso la gentile intercessione dell’avvocato di Pontremoli Andrea Baldini e
della moglie di quest’ultimo Pasqualina Fortunato, detta Lilly,
giudice del lavoro alla Spezia. Casus belli il nostro articolo sulla cronaca di Carrara della Nazione
attraverso cui lo stesso Berneschi sarebbe venuto a sapere di essere indagato
in seguito a una denuncia di Gianfranco
Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella
produzione di abrasivi. Poli denunciò alla Procura, e sul nostro giornale, di essere stato
rovinato, fino al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia,
circa 2 miliardi di lire, dallo stesso
Berneschi, da Araldo Michelini, funzionario di Carige, e dal figlio di
quest’ultimo il commercialista Enrico, adesso irraggiungibile.
Dalle intercettazioni emerge che Baldini sarebbe stato incaricato da Berneschi
di informasi a che punto era in Procura la denuncia di Poli. In
una conversazione registrata i finanzieri annotano: «Sono andato a parlare con
Caporuscio...il quale procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e
gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è
Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali...
in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer sì... sì la
pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l’ha
data solo perchè son io eh!...».
Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi.
«Grazie all’intervento di Lilly (sua moglie, ndr) è stata inoltrata una
richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi». Non si sa se le
dichiarazioni di Baldini abbiano riscontri di verità o se, come riferisce di
lato lo stesso avvocato, abbia «raccontato un sacco di balle per rassicurare una
persona depressa, agitata e instabile», di fatto sulla denuncia per truffa di
Poli dalla Procura della Spezia era già partita la tanto attesa richiesta di
archiviazione. Richiesta che non
avrebbe nemmeno avuto bisogno di tante spinte dal momento che Poli riferisce di
fatti avvenuti 20 anni fa e quindi facilmente soggetti a prescrizione. Tuttavia
la denuncia sembra bruciasse particolarmente a Berneschi visto che lo stesso
Baldini si prende la briga di rassicurarlo: «E’ il più bel
giudice che c’è a Spezia... intelligente e buona. Vado da lei a parlarle e le
dico Oriana... il mio amico Berneschi... C’è l’archiviazione, falla al più
presto possibile. Lei lo archivia e a questo punto siamo liberi di fare tutto
quello che vuoi». E Berneschi risposte: «Il giornalista che scriva quattro
righe. Sulla diffamazione gli voglio far paura eh». Con Berneschi, 77 anni, sono finiti nei guai
anche l’ex numero uno di Carige Vita, Ferdinando Menconi, 67 anni,
l’imprenditore immobiliare Ernesto Cavallini, 66, sono tutti e
tre ai domiciliari. L’avvocato svizzero
Davide Enderlin, 42 anni, l’imprenditore Sandro Calloni (61), il commercialista
Andrea Vallebuona (51) e la nuora di Berneschi Francesca Amisano (48) sono
invece in carcere. Le ipotesi di reato vanno dalla truffa al
riciclaggio.
Carige - Indagine su 4 magistrati talpe di
Berneschi: nomi e dettagli, scrive “Oggi Notizie”. Se nei giorni scorsi si
diceva che era partita la caccia alla cosiddetta talpa in Procura che avrebbe
aiutato Giovanni Berneschi, quando era presidente del Cda di Carige Spa a
portare a termine la truffa e il riciclaggio ai danni della stessa banca, ora,
mentre le indagini procedono serrate, ecco che si scopre come le talpe, in
realtà, sarebbero state almeno quattro, e le procure coinvolte tre. La Procura
di Torino ha infatti ricevuto da quella di Genova gli atti relativi a sospetti
contatti tra magistrati vicini a Berneschi. Le procure interessate sono quella
di La Spezia, Savona e Milano. Nello specifico Berneschi, secondo quanto emerge
dalle indagini della Guardia di finanza di Genova nel merito della presunta
truffa a Carige e Carige Vita Nuova, attraverso l'avvocato di Pontermoli Andrea
Baldini e la moglie di quest'ultimo, Pasqualina Fortunato, detta Lilly,
magistrato del lavoro a Spezia, avrebbe avuto un trattamento di favore dal
procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio. A Savona il procuratore
Francantonio Granero, procuratore capo, il cui figlio Gianluigi Granero è
consigliere del Cda di Carisa, avrebbe offerto suggerimenti processuali a
Berneschi nell'ambito del crack Geo Costruzioni in cui risulta indagato. A
Genova l'ex vice presidente di Carige Vita Nuova Ferdinando Menconi avrebbe
assunto informazioni da un "vice procuratore" sull'indagine sulla Carige. Tutto
ciò si evince dalle intercettazioni telefoniche e ambientali sviluppate dalla
Finanza (coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Piacente e dal sostituto
Silvio Franz). A La Spezia Berneschi aveva appreso il primo marzo del 2013 da un
articolo della Nazione di essere indagato in seguito ad una denuncia di
Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella
produzione di abrasivi. Un funzionario di Carige lo avrebbe portato alla rovina,
giungendo al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia. E lui, ad un passo
dal tracollo, aveva denunciato tutti, anche Berneschi. Baldini era stato
incaricato di informarsi sul caso. In una conversazione registrata i finanzieri
annotano: "Sono andato a parlare con Caporuscio... procuratore... al consiglio
al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per
un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e
rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha
aperto il computer si... si la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu
quindi è riservatissima... me l'ha data solo perchè son io eh!... Cossu... mi
son consultato con lui dico... inc.le... io mi appoggio a Gianardi... va
benissimo?". Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi.
"Grazie all'intervento di Lilly (sua moglie) - dice - è stata inoltrata una
richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi". A Savona, Berneschi è
coindagato nell'ambito del crack della Geo Costruzioni. Convocato per un
interrogatorio e si era avvalso della facoltà di non rispondere. Dell'episodio
l'11 novembre 2013 Berneschi riferisce a Baldini, i finanzieri annotano: "Sono
andato a Savona e il giudice mi dice: ma... non risponda per favore (si sente
Berneschi ridere) si avvalga della facoltà di non... solo per far casini... e
gli ho detto giudice lo dice lei, però se permette le dico anche fuori verbale
dico due tre cose... quindi, non ho risposto però però gli ho già detto
tutto...". Il giudice è il procuratore Francantonio Granero titolare
dell'inchiesta sul crack Geo Costruzioni con Ubaldo Pelosi. Poi Genova.
Ferdinando Menconi il 13 febbraio del 2014 dice al telefono: "Il vice
procuratore di Genova... mio carissimo amico mi ha detto te non sei... stattene
fuori" invitandolo a discostarsi dagli affari in e con Carige. Qualche giorno
prima, in un'altra conversazione, Menconi dice: "Ma comunque io credo che a
Genova sorprese... c'è il procuratore capo... già procuratore capo
momentaneamente... di Di Lecce... che tra l'altro lui mi ha detto che è di
sinistra, di magistratura democratica... aver fatto una domanda, allora fra un
anno e mezzo va in pensione... chiedo a lui... quello che lo è già stato due
anni adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè e tutto... non
credo... non credo... poi tutto può.. in quest'Italia, figurati...". Il
procuratore di Genova Michele Di Lecce ha affermato di avere inviato questi atti
a Torino, procura competente su presunti reati commessi da magistrati liguri.
Carige e lo scandalo talpe, indagine su 4 giudici,
scrive "Il Secolo XIX". L’inchiesta sulla maxi-truffa a Carige si trasforma in
uno tsunami per pezzi da Novanta della magistratura ligure. La Procura di Genova
invia infatti a Torino tutte le intercettazioni nelle quali banchieri,
immobiliaristi e prestanome arrestati giovedì scorso, chiamano in causa almeno
quattro fra giudici e pm quali presunte “sponde” nella loro ricerca di
protezioni e informazioni segrete. È un passaggio cruciale, che si consuma
mentre vengono depositate nuove carte nel fascicolo che ha portato ai
domiciliari in particolare l’ex presidente di Carige Giovanni Berneschi, l’ex
numero uno del comparto assicurativo Carige Vita Ferdinando Menconi e
l’immobiliarista Ernesto Cavallini. I primi due, secondo l’accusa, erano soci
occulti dell’imprenditore, e facevano comprare a Carige Vita immobili e società
di Cavallini a prezzi spropositati; poi si dividevano la “cresta”, che
nascondevano all’estero tramite vari prestanome. Dai nuovi documenti si capisce
meglio quali erano, potenzialmente, «le inquietanti entrature» di Berneschi e
Menconi «in ambienti giudiziari in tutta la Liguria». Partendo da Genova, il
primo magistrato su cui si concentrano gli accertamenti è l’attuale procuratore
aggiunto Vincenzo Scolastico. È Menconi a circoscriverne la figura parlando con
Walter Malavasi, che di Carige Assicurazioni è stato condirettore generale. Non
lo nomina direttamente, ma definisce «carissimo amico con cui prendo il caffè
ogni sabato» il magistrato che ha retto la Procura genovese prima
dell’insediamento di Michele di Lecce, e che attualmente gli fa da vice. Solo
Scolastico corrisponde a quel ritratto e al Secolo XIX risponde: «Non si
fa mai il mio nome; inoltre, io ho la scorta e si potranno facilmente verificare
i miei movimenti. Conoscere Menconi? In Liguria si può sapere chi sono i massimi
dirigenti di una banca, ma escluso un rapporto di frequentazione come quello
descritto in quelle conversazioni». «Situazione delicatissima», per sua stessa
ammissione, è quella dell’attuale procuratore capo della Spezia Maurizio
Caporuscio. Un colloquio telefonico fra l’avvocato spezzino Andrea Baldini (ex
componente cda Carige) e Berneschi rivelerebbe come proprio Caporuscio fece in
modo che fosse fornita all’ex numero uno dell’istituto genovese la copia d’una
denuncia «riservata», che l’imprenditore Gianfranco Poli sporse contro lo stesso
Berneschi per truffa. Non solo. Sempre Baldini spiega a Berneschi che grazie
all’intercessione «della Lilly» (per i finanzieri si tratta di sua moglie
Pasqualina Fortunato, magistrato del lavoro di nuovo alla Spezia) la Procura
chiederà l’archiviazione del fascicolo. «Al momento non voglio aggiungere altro
- conclude Caporuscio - risponderò a chi mi verrà a chiedere conto». Baldini
rifiuta invece commenti su di lui e la moglie: «Siete molto cari - dice al
telefono - arrivederci e tante grazie». In un altro stralcio si fa riferimento a
un terzo magistrato spezzino, una donna dal nome forse travisato nelle
registrazioni, che avrebbe favorito l’archiviazione. L’ultimo capitolo preso in
esame sul fronte toghe chiama in causa capo dei pm savonesi Francantonio
Granero. Berneschi, discutendo con il manager Carige Antonio Cipollina di un
interrogatorio cui doveva essere sottoposto a Savona, dov’è indagato per la
bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che Granero gli avrebbe suggerito
di non rispondere. E ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi
Granero, membro del cda della Cassa di risparmio di Savona (controllata da
Carige). «Tutto falso - replica Francantonio Granero - e sporgerò querela
semplicemente perché non l’ho mai incontrato».
Talpa in Procura anche Torino indaga su Carige.
Si cerca chi anticipava le mosse degli inquirenti. Nelle carte sequestrate il
piano “Mungi la mucca”. Teodoro Chiarelli su “La Stampa”. La caccia alla talpa
può partire. Gli atti sull’informatore all’interno della procura di Genova sul
quale potevano contare l’ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi, e
l’ex boss della controllata Carige Vita Nuova, Ferdinando Menconi, arrestati con
altre 5 persone per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e al
riciclaggio, sono in partenza per la procura di Torino, competente sui
magistrati del capoluogo ligure. Lo conferma il procuratore capo, Michele Di
Lecce, che ha affidato il coordinamento delle indagini dalla Guardia di Finanza
all’aggiunto Nicola Piacente e al pm Silvio Franz. «Devo uscirne perché sento
odore di procure - dice, intercettato, Menconi -. Ho delle previsioni... il
viceprocuratore di Genova, mio carissimo amico, mi ha detto... stattene fuori».
Menconi però si sente le spalle coperte e qualche tempo dopo parlerà dei
magistrati che hanno in mano l’inchiesta Carige: «Quello lì - dice riferendosi
al pm Silvio Franz - sogna di risolvere un problema che non ha risolto in sette
anni, in realtà non risolve un cazzo». Previsione errata: passa qualche mese,
Menconi viene arrestato. Nelle 122 pagine dell’ordinanza del gip Adriana Petri
ci sono anche altri riferimenti. Primo novembre 2013, Berneschi dice
all’avvocato toscano Andrea B.: «Devi farmi un piacere, devi vedere se a Genova
c’è qualche contenitore a nome mio, mi segui? Mi hai capito?». Risponde il
legale: «No, per ora mi risulta che è tutto contro ignoti». Ed ecco la
telefonata fra Menconi e Sandro Maria Calloni, prestanome di Berneschi: «Lo
trasmettono due miei amici che son venuti qua due volte... il capo della sala
operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi... gli dai un nome e un numero,
data di nascita, nome e cognome ti leggono la vita e tutto... Prima avevo anche
la Legione Carabinieri, l’Investigativa qui di via... dove c’è la Questura... Il
numero uno... a prendere il cappuccino più volte... poi lo abbiamo aiutato...
andato ai Servizi... Ma quello là, l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e
gli dico chi è questo testa di cazzo, sai quello che minacciava... l’han buttato
fuori». La gestione disinvolta e truffaldina ha finito per creare una voragine
nei conti, mentre il titolo in Borsa è crollato nel giro di due anni, bruciando
i risparmi di migliaia di piccoli azionisti. Duecento di questi hanno promosso
una class action e si sono affidati all’avvocato Mirella Viale dello studio
legale bolognese Galgano. Ieri la sesta sezione del tribunale civile di Genova
avrebbe dovuto decidere sull’ammissibilità dell’iniziativa: si è invece
dichiarata incompetente, rimandando la questione alla prima sezione. Se ne
riparla fra una decina di giorni. Sempre ieri la nuora di Berneschi, Francesca
Amisano, è stata interrogata per due ore in carcere dal Gip. «Ha risposto a
tutte le domande - dice il suo avvocato, Enrico Scopesi - Ha detto di non sapere
nulla della provenienza del denaro. E di essersi limitata a eseguire regolari
operazioni di compravendita». Il lavoro degli inquirenti, intanto, si allarga.
Durante le ultime perquisizioni nelle case degli indagati sono stati trovati
appunti, accordi e anche il business plan dell’operazione “Mungi la Mucca”,
quella che secondo gli inquirenti ha portato Banca Carige, guidata dall’ex
padre-padrone Berneschi, a ripianare i debiti del ramo assicurativo, nominare ad
Menconi e farlo diventare filtro di acquisizioni supervalutate. L’operazione
serviva per costituire le plusvalenze che, tramite la società
dell’immobiliarista Ernesto Cavallini, finivano in Svizzera. “Mungi la Mucca”,
appunto. Ossia Carige Vita Nuova che comprava alberghi, quote societarie,
società intere, proprietà immobiliari che venivano stimate da un commercialista
che era anche consulente di Carige (Andrea Vallebuona, arrestato) che provvedeva
a gonfiarne il prezzo. Nell’inchiesta ci sono altri quattro indagati per
riciclaggio in concorso: le mogli di Menconi (Adriana Westerweel) e Calloni
(Maria Imelda Bellini Dominguez), il commercialista Alfredo Averna, collega di
Vallebuona (arrestato) e l’avvocato Ippolito Giorgi di Vistarino. Nell’inchiesta
“madre” su Carige, nata dalla relazione di Bankitalia, ci sono invece una decina
di indagati: ostacolo alla vigilanza e falso in bilancio.
Carige, nel 2002 inchieste archiviate. Il
gruppo era sponsor della squadra del GIP.
Dall'ordinanza che ha portato all'arresto dell'ex
presidente Berneschi emergono rapporti strettissimi con giudici e forze
dell'ordine. Entrature grazie alle quali poteva verificare l'esistenza di
procedimenti a suo carico e addirittura condizionarne l'andamento. E sui
dipendenti a rischio diceva: "Quelli si mandano via", scriveFerruccio Sansada
Il Fatto Quotidiano di sabato 24 maggio
2014. “Sento odore di Procure… io c’ho delle previsioni… il vice
procuratore di Genova… mio carissimo amico… mi ha detto che non sei… stattene
fuori…”, così dice al telefono
Ferdinando Menconi, ex numero uno di
Carige Vita Nuova e braccio destro di Giovanni Berneschi indicato dai
suoi amici come il “Magro”. A Genova vacilla anche il Palazzo di Giustizia. Si
apre il capitolo sui rapporti della magistratura con un potere per anni
risparmiato dalle inchieste. E la Liguria si scopre malata fino al midollo. Sono
finiti in manette gli uomini che hanno dominato la regione, quelli cui tutti – a
destra e a sinistra – baciavano la pantofola. Prima Claudio Scajola, re del
Ponente. Poi Luigi Grillo, che dominava a Levante. Quindi Giovanni Berneschi,
che con la sua Carige (dove sedevano mezza famiglia Scajola, amici del
centrosinistra e uomini della Curia) teneva i cordoni della borsa e distribuiva
centinaia di milioni di finanziamenti (come all’operazione
immobiliare degli Erzelli, voluta dal centrosinistra e
sponsorizzata da Giorgio Napolitano). Intanto l’amico Ior comprava – e rivendeva
– cento milioni di bond Carige. Liguria, primatista di scandali. Qui sono in
ginocchio la Lega di
Francesco Belsito e l’Idv
di Giovanni Paladini e
Marylin Fusco. Quasi mezzo consiglio regionale è nei guai per i
rimborsi. Le “entrature” negli ambienti giudiziari – Ora tocca
alla magistratura. Come mostra l’ordinanza che ha portato all’arresto di
Berneschi, Menconi e altre cinque persone (ci sono dieci nuovi indagati). Così
il gip Adriana Petri motiva l’arresto di Berneschi: “Il pericolo di inquinamento
probatorio è testimoniato da intercettazioni che hanno evidenziato presunte
entrature negli ambienti giudiziari di Genova e di La Spezia per tramite
dell’avvocato Andrea Baldini
(originario di Pontremoli, marito di magistrato e considerato vicino alla
famiglia del suo concittadino, il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, ndr), al
quale egli avrebbe ripetutamente chiesto di verificare se vi sono procedimenti
giudiziari a suo carico”. Il gip parla di “inquietante scenario… del legale che
apprende da personale addetto agli uffici giudiziari e che ha accesso ai
terminali riservati della Procura”. Il 28 ottobre 2013 Berneschi chiama Baldini:
“Devi vedere se a Genova ci sono contenitori (fascicoli, ndr) a nome mio”. E
Baldini: “Qui non c’è ancora aperto niente!… No, per ora non c’è… Da quello che
mi risulta dalla persona che si è mossa, è tutto contro ignoti”. Interpol, carabinieri, servizi: solo
millanterie? – Ce n’è anche per carabinieri, Interpol e servizi.
“Menconi – annota il gip – cita le sue numerose conoscenze presso esponenti di
vertice delle varie forze pubbliche”. Ecco l’intercettazione: “…se poi ricade
nel penale… gli viene trascritto all’Interpol e lo ricevono anche là! Lo
trasmettono due miei amici… son venuti qua due volte… il Capo della Sala
Operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi… prima c’avevo anche la Legione
Carabinieri… c’è l’Investigativa dei carabinieri, il numero uno… a prendere il
cappuccino più volte… poi lo abbiamo aiutato… andato ai Servizi… ma quello là
che fa l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico…”. Millanterie? I
magistrati sono convinti di no. Scrive il gip: “Per ragioni diverse i
procedimenti penali che si sono occupati di tale fenomeno si sono chiusi senza
che fosse esercitata l’azione penale”. Quali sono le “ragioni diverse”? In
Tribunale c’è chi ricorda che proprio la società assicuratrice della Carige,
guidata da Menconi e Berneschi, era
sponsor della squadra di volley dell’allora capo dell’ufficio gip Roberto
Fucigna. Lo stesso, ma è certo un caso, che nel 2002 – dopo un
lavoro immane del Gico – archiviò inchieste a carico dei vertici della banca su
false fatturazioni e affari immobiliari. Fucigna oggi è in pensione, indagato a
Torino per presunte false sponsorizzazioni della sua squadra. Tra i cronisti c’è
chi ricorda le reprimende di passati vertici della Procura in occasione di
inchieste giornalistiche su imprenditori legati al centrosinistra e soci di
Carige, che erano sponsor della squadra di Fucigna oltre ad avere legami di
amicizia con gli allora vertici della Procura e della Corte d’Appello. I vertici
del Palazzo di Giustizia ora sono cambiati.
I 140 dipendenti? “Quelli si mandano via” – Ma le carte genovesi
contengono altro. A cominciare dalle operazioni che avrebbero provocato a Carige
un danno di 34 milioni. Con il padre padrone della banca che, secondo le accuse,
spenna la sua creatura come un pollo: “Vengano a far tutte le indagini che
vogliono… non mi possono accusare di riciclaggio, perché è una vita, da 35 anni
che accumulo”. Così ecco, a sentire la Finanza e i pm Nicola Piacente e Silvio
Franz, il tentativo di Berneschi di
ripescare il consuocero morto per usarlo come prestanome quando
scopre di essere indagato per altri 13 milioni scudati: “Va bene, io
approfitterò del tuo cognome”. La donna (arrestata) si allarma: “Nonno, per
favore, qualsiasi cosa ne parliamo un attimino”. Intanto, sostiene l’accusa, la
“banda del magro” avrebbe investito dalle Canarie alla Cina, soprattutto nei
porti. Fino al progetto di trasferirsi a Panama. Pagine che faranno rabbrividire
i dipendenti Carige. Mentre la “banda del magro”, incassati 34 milioni, si
scanna per consulenze da 200mila euro, la Carige Vita Nuova rischiava di licenziare:
“L’ideale… è che società così… vadano in commissariamento, il commissario manda
via i dipendenti… mi preoccupa il fatto c’ha 140 persone…”, dice Menconi.
Berneschi, annota il gip, non sembra preoccuparsi: “Quabielli si mandano via”.
Il commercialista Vallebuona: “Io i milioni in tasca li ho infilati” -
Ecco in 127 pagine il ritratto dell’Italia delle banche, della Liguria del
potere. Con frasi inconsapevolmente geniali, come quando Berneschi definisce
Menconi “testa di pera”. Come quando parla dei milioni come di “ragazze” e poi
di “vecchie un po’ rincoglionite”. Come la “banda del magro”. O quella breve
autobiografia stile Blade Runner del commercialista Andrea Vallebuona: “Io qualche
cazzatina nella mia vita l’ho fatta… passare un confine con duecentomila…
milioni in tasca infilati, io l’ho fatto, morendo di paura… ho capito che poi
certe cose era meglio non farle, però le ho imparate sulla mia pelle”. O forse
su quella dei dipendenti Carige.
Carige e i regali allo Ior, "Anche il Papa chiamò
per avere spiegazioni". Dalle intercettazioni spuntano gli affari con la banca
vaticana Il manager: "Assunte 28 persone tra parenti o amanti di giudici",
scrivono Giuseppe Filetto e Marco Preve su
“La Repubblica”. Anche papa Francesco ha "indagato" su Carige e lo
Ior. Le intercettazioni dell'inchiesta che ha portato agli arresti l'ex
presidente della banca genovese, confermano l'esistenza di quell'asse bancario
Genova-Vaticano che nasconde ancora segreti. Rivelano un inquietante intreccio
di rapporti tra l'istituto diretto dal vicepresidente nazionale dell'Abi
Giovanni Berneschi e la magistratura ligure: "C'avevamo dipendenti dentro 28
persone, figli, fratelli, padri o amanti di magistrati liguri " dice Ferdinando
Menconi ex ad del comparto assicurativo anche lui ai domiciliari.In
un'intercettazione dell'11 novembre del 2013, racconta il verbale dei finanzieri
della tributaria che "Berneschi parla di papa Francesco che avrebbe chiamato i
tre vescovi del ponente ligure a Roma per chiarire la faccenda legata allo Ior.
Due giorni fa Berneschi dice di aver ricevuto monsignor Luigi Molinari il quale
per conto di Bagnasco (Angelo, cardinale di Genova e presidente Cei, ndr)
voleva sapere cosa era successo tra la Fondazione e lo Ior". Si tratta
dell'operazione del 2010 voluta dal presidente di Fondazione Carige Flavio
Repetto (nemico giurato di Berneschi). In pratica 100 milioni di euro di
obbligazioni acquistate dallo Ior che però non si trasformarono in azioni come
preventivato e vennero poco dopo rilevate dalla Fondazione la quale, peraltro,
non incassò i diritti visto che "aveva deliberato di metterli a disposizione
dello Ior". Berneschi si confida con l'attuale vicepresidente della Fondazione
Roberto Rommelli: "Lo Ior, non puoi regalare da 7 a 9 milioni al... Papa, no,
non c'entra il Papa.. a Bertone, mi segui?". Sull'operazione il ministero delle
Finanze ha chiesto chiarimenti, anche alla luce delle elargizioni, 2008 e 2010,
della Fondazione ad ambienti vicini al cardinale Tarcisio Bertone: 300mila euro
alla Lux Vide per i dvd della fiction La Bibbia e 90mila euro per le stole dei
vescovi.Dal sacro al profano, ossia le relazioni "proibite" tra il
potente banchiere e i magistrati. L'episodio più inquietante è quello che
riguarda La Spezia. Berneschi utilizza l'avvocato Andrea Baldini, ex consigliere
Carige, affinché si interessi della querela presentata contro di lui da un
imprenditore della Val di Magra, Gian Paolo Poli. Il legale lo aggiorna: "Sono
andato a parlare con Caporuscio (Maurizio, procuratore capo, ndr) e gli ho
detto... ehm ... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni
Berneschi vediamo subito! ... ha aperto il computer sì ... sì la pratica è qua,
è nelle mani di (segue nome di un pm, ndr) quindi è riservatissima...
me l'ha data solo perché son io eh!". Baldini informerà successivamente
Berneschi che è stata chiesta l'archiviazione e lui andrà dalla gip che "tra
l'altro è una f...". La moglie, il giudice Pasqualina Fortunato, interviene nel
colloquio spiegando che non è riuscita a convincere una segretaria ad ottenere
informazioni e allora ha detto al marito: "Andrè, va a parlà tu cò Maurizio
direttamente". Altro fronte imbarazzante quello genovese dove Menconi al
telefono con un amico spera che l'attuale procuratore capo Michele Di Lecce vada
presto in pensione e spiega che gli è stato detto da "quello che (procuratore)
lo è già stato due anni e adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un
caffè". Il riferimento sembra essere a Vincenzo Scolastico, unico ad aver
ricoperto la funzione, che però nega categoricamente tale frequentazione. Sembra
invece pura millanteria il riferimento ad un colloquio che Berneschi dice di
aver avuto con il procuratore di Savona Francantonio Granero (il figlio
Gianluigi è consigliere della controllata Carisa) quando il banchiere venne
indagato per la prima volta. Granero nega di aver mai incontrato Berneschi.Parlando della polemica tra la Coop e Esselunga che a Genova incontrò grandi
difficoltà ad aprire un punto vendita, Menconi dice "l'artefice del rinvio è
stato Berneschi... la sinistra, c'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli,
fratelli, padri, amanti di magistrati liguri". Berneschi racconta invece di
quando fu processato e assolto per la scalata alla Bnl: "Sulla pratica Bnl...
non ho sbindato di una virgola, però ... se avessi avuto paura e dicevo "eh si
quelli dell'Unipol mi hanno fatto delle pressioni" il signor Cimbri (Carlo,
ad Unipol, ndr) era morto".
Anche l’Ing De Benedetti è intoccabile,
scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Anche mia nonna invecchiando si fece un
po’ più dura. Ma mai quanto Carlo De Benedetti. La sua è una parabola micidiale.
Sembra quel cartone animato, Cattivissimo me. Nella fiction il cattivone è un
buono, ha solo l’aria dello spregiudicato delinquente. Deb, l’Ing, Cdb, insomma
il Nostro, invece sta diventando proprio cattivello. Proviamo a citare i suoi
ultimi bersagli. «A Marchionne darei un voto 4 in sincerità, a Romiti zero, a
Elkann il voto dei nipoti. Colaninno? Un poveraccio. Agnelli? Un pessimo
imprenditore. Il Vaticano una fogna. Tronchetti? Un incapace». E poi ancora
sulla gestione Telecom da parte di Mtp: «La comunicazione è fatta bene, la
rapina ancora meglio». Ma guai a replicare. Ci ha provato, incautamente,
Tronchetti e si è beccato una querela e un’inchiesta da parte della Procura di
Milano per diffamazione a mezzo stampa, con annessa aggravante della continuità
del reato. Insomma Mtp rischia il carcere perchè Carletto non tollera la
seguente frase: «Se anche io raccontassi – si legge nell’avviso di conclusioni
indagini, in riferimento ad una dichiarazione rilasciata all’Ansa da Tronchetti
– la storia delle persone attraverso i luoghi comuni e gli slogan, potrei dire
che l’ingegner De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci Olivetti,
per lo scandalo legato alla vicenda di apparecchiature alle Poste italiane, che
fu allontanato dalla Fiat, coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, che
finì dentro per le vicende di Tangentopoli…». Abbiamo cercato di ricostruire
punto per punto i casi citati da Tronchetti per capire dove ci fosse la
diffamazione o il sanguinario insulto da dover lavare con una pena massima,
comprese le aggravanti, di sette anni.
LO SCANDALO LEGATO ALLE POSTE.
Se c’è una cosa sicura come il sole sono le tangenti pagate dalla Olivetti,
guidata da De Benedetti, per fornire apparecchiature alle Poste. Non è un luogo
comune, è una certezza. E a confessarlo, assumendosene la responsabilità, è lo
stesso De Benedetti. In questo senso Tronchetti è fin troppo generoso. Una
domenica mattina, in piena bufera Tangentopoli, Deb si presenta in una caserma
dei carabinieri (è il 16 maggio del 1993) e ammette davanti a Di Pietro di aver
pagato stecche per una ventina di miliardi di lire, di cui solo 10 per forniture
alle Poste. Presenta un memoriale in cui racconta la rava e la fava. Repubblica,
di sua proprietà, in un famoso titolo detta la linea della casa: «Era un clima
da racket, o pagavi o non lavoravi». De Benedetti pagò. Eccome. Solo dopo un
paio di giorni rilascia un’intervista al Wall Street Journal, sperando, forse,
che De Pietro non avesse il tempo di leggerla, o non capisse l’inglese. La
reporter, Lisa Bannon, nota: «De Benedetti non chiede scusa per le tangenti
pagate e dice che lo rifarebbe, perchè queste erano le regole del gioco negli
anni 80». Cdb, tra le virgolette, dichiara: «Lo rifarei con lo stesso disgusto
con cui l’ho fatto negli anni passati». Insomma è il contesto che gli fa fare
quelle cose brutte. Ohibò. Chissà se oggi, per fare un esempio, l’Expo può
ispirare medesime giustificazioni. Il filo tra concussione e corruzione è sempre
sottile. Come quello che c’è tra dichiarazione spontanee e paracule. Cdb
all’epoca disse di essersi liberato da un macigno nel fornire il suo dossier a
Di Pietro. Eppure nel medesimo documento scrive, riguardo alle tangenti alle
Poste: «Ho visto che è circolato il nome Olivetti». Inoltre avevano già
pizzicato tal Lo Moro, il grande collettore delle mazzette Olivetti. Insomma il
cerchio si stava chiudendo. La dichiarazione è spontanea, ma giusto un attimo
prima…Quanto è valso all’Olivetti di De Benedetti sottoporsi a questo racket? In
cinque anni circa 600 miliardi di lire. Nel 1987 Ivrea fatturava 2 miliardi con
le Poste, l’anno dopo 205 miliardi. Già nel 1983 Olivetti aveva predisposto una
bella voce di bilancio per l’abbisogna. La dicitura era: spese non documentate.
Insomma si erano preparati contabilmente a subire quei mascalzoni dei politici.
Indro Montanelli su questo giornale scrisse: «Forse i piccoli e indifesi devono
subire, ma per i grandi che avrebbero avuto tutti i mezzi – compresi i più
autorevoli organi di stampa – per resistervi, la corsa al Principe era non solo
voluttuaria, ma anche voluttuosa». Tronchetti non si preoccupi, la memoria sulle
tangenti viene e va all’Ing. Due settimane prima della consegna del memoriale a
Di Pietro, lo stesso Ingegnere davanti all’assemblea degli azionisti e in
conferenza stampa giurava: «Non ho mai pagato tangenti». Dopo due settimane mise
nero su bianco il contrario. In seguito Cdb provò a difendersi: queste cose «si
dicono prima ai magistrati e poi alla stampa». Ahi ahi ahi, non ci siamo anche
con questa. Circa dieci anni prima, il 16 giugno del 1985, lo stesso Ingegnere,
meno rispettoso evidentemente delle prerogative della magistratura, urlò al
mondo intero: «Per l’affare Sme mi hanno chiesto tangenti». Dopo qualche
settimana fu ovviamente convocato dal magistrato Pasquale Lapadura all’oscuro di
tutto, che dopo poco archiviò. Come la mettiamo con la storiella delle tangenti
che prima si raccontano ai magistrati e poi alla stampa? Qualcuno può forse
contestare che «la vicenda di apparecchiature alle Poste» non sia stata
scandalosa? E soprattutto qualcuno ha il coraggio di slegarla da Carlo De
Benedetti, dopo che proprio lui ammise tutto con un memoriale e un’intervista
cazzuta al Wall Strett Journal?
L’INGEGNERE FINÌ DENTRO PER
TANGENTOPOLI. Anche questa affermazione è vera.
Della tangentopoli postale abbiamo abbondantemente parlato. Sergio Luciano, in
un’intervista per la Stampa, il 18 maggio del 1993 chiese al Nostro: «Oltre che
fornire prodotti alle Poste, l’Olivetti ha avuto molti altri rapporti con la
pubblica amministrazione. Ha dovuto pagare anche per questo? Risposta di Cdb:
«Non posso rispondere, c’è il segreto istruttorio». Bene così. Poche settimane
prima uno dei manager di punta delle sue aziende (la Sasib) aveva ammesso di
aver pagato due miliardi estero su estero a Dc e Psi, relativamente ad alcuni
appalti per la metro milanese. Si parlò di stecche per i pc dei magistrati e del
sistema informatico dell’Inps. Ma il punto fondamentale è: l’Ingegnere finì o
non finì in galera? Per una giornata, per una benedetta giornata, la risposta è
sì. A Roma, a Regina Coeli. Dal memoriale, cosiddetto spontaneo, sono passati
solo sei mesi. Il 31 ottobre del 1993 due magistrati romani, Maria Cordova e il
gip Augusta Iannini, spiccano un mandato di cattura. A Milano l’Ing è indagato;
a Roma temono che possa inquinare le prove o reiterare il reato. La Repubblica
ci dice che entra in carcere con doppiopetto grigio e camicia celeste e che,
dopo le formalità del caso e l’ufficio matricola, gli verrà consentito di
mantenere la fede al dito. Il cronista, con enorme sprezzo del pericolo, nota
come lo psicologo di Regina Coeli «sia rimasto colpito dalla chiacchierata con
De Benedetti e che alla fine i due si sono salutati come vecchi amici». Più dura
la Iannini che spiega i motivi del provvedimento per la «pericolosità sociale» e
il rischio di reiterazione del reato. Il pm lamenta che ci sono fatti nuovi:
macchinari scadenti accatastati al ministero. Gli arresti si tramutano dopo poco
in domiciliari. Il processo finirà con assoluzioni e prescrizioni. Ma una cosa è
certa: l’Ing tecnicamente dentro c’è finito. E lo diciamo senza alcun
compiacimento. La Iannini recentemente alla nostra Anna Maria Greco ha detto:
«L’ordinanza di custodia cautelare emessa su richiesta della Procura nel
confronti dell’Ingenger De Benedetti è abbondantemente motivata, mettendo in
luce una serie di elementi esistenti a carico dell’indagato» che
nell’interrogatorio di garanzia aveva ammesso di aver pagato «alcuni miliardi
per corrompere al ministero delle Poste chi aveva garantito all’Olivetti
l’acquisto di telescriventi obsolete». Comprendiamo sia duro ricordare
l’episodio alla ex tessera numero uno del Pd, come all’epoca fu duro per Eugenio
Scalfari ammettere che De Benedetti non fosse quel «cavaliere solitario non
intaccato da nessuna macchia e nessun compromesso» che il direttorone sperava.
DE BENEDETTI È STATO DISCUSSO PER
MOLTI BILANCI OLIVETTI. La parola discusso è il
minimo che si possa dire. L’ingegnere De Benedetti è stato indagato per false
comunicazioni sociali, falso in bilancio e insider trading. E se non fosse stato
per le cosiddette (proprio dal gruppo De Benedetti) leggi ad personam fatte da
Silvio Berlusconi, oggi probabilmente avrebbe la fedina penale meno linda. Un
po’ di discussione la concediamo dunque? Sarebbe erroneo dire che l’Olivetti sia
tecnicamente fallita. Ma che i suoi bilanci siano stati un colabrodo questo è
provato. Nell’estate del ’96 succede il patatrac. Negli ultimi tre anni Ivrea
aveva perso ai livelli di un ubriaco al tavolo della roulette: 3mila miliardi di
lire. Nel settembre del 1995, l’ubriaco aveva chiesto ai soci risorse fresche
per 2.250 miliardi. A luglio del 1996 l’Ingegnere si dimette da amministratore
delegato per lasciare il posto a Francesco Caio che si porta con sè come capo
della finanza Renzo Francesconi. Dopo poche settimane di lavoro i due capiscono
che le cose sono peggio del previsto, l’azienda è in coma etilico, e vogliono
nuovi quattrini e un piano di salvataggio da parte di Mediobanca. Caio mette
nero su bianco le sue considerazioni pessime sui conti. Il titolo crolla. La
semestrale post aumento di capitale brucia 440 miliardi. L’uomo dei numeri
sbatte la porta e dice: «Sul piano strategico si possono fare mediazioni, sui
numeri e la cassa, no». La Procura di Ivrea e la Consob iniziano ad indagare.
Che sta succedendo nei bilanci di Olivetti? Passa qualche settimana e i giudici
di Torino aprono un fascicolo per insider trading. L’Ing. avrebbe venduto allo
scoperto titoli Olivetti prima della semestrale, per poi ricomprarli a valori
più bassi dopo la stessa. Giulio Anselmi sulla prima del Corriere della Sera il
18 settembre di quell’anno scrive: «Tutti ricordano nel caso Olivetti quattro
bilanci consecutivi accompagnati da promesse di pareggio. C’è da stupirsi se
diffidando della trasparenza contabile delle aziende italiane si dà credito ai
giudici». E ancora «il dato più grave e sconcertante è il fatto che l’ipotesi di
enormi perdite occulte nei conti del gruppo di Ivrea non sia apparsa
immediatamente inverosimile, ma sia stata considerata da tutti, analisti
finanziari, banchieri, gestori di patrimoni tristemente possibile fino a prova
contraria». La storia finisce con un patteggiamento per l’insider trading che
gli costerà 50 milioni. Anche la partita del falso in bilancio si conclude con
un patteggiamento. Ma la sentenza nel 2003 viene revocata. Sapete perchè? Grazie
alla revisione del reato di falso in bilancio introdotta nel 2002 da Berlusconi.
E non diteci che sui bilanci di Deb e sui falsi non ci sia stata alcuna
discussione. Tronchetti, se proprio vogliamo, si è dimenticato il caso di
insider. Su cui la discussione si è chiusa con un patteggiamento.
DE BENEDETTI COINVOLTO NELLA
BANCAROTTA DEL BANCO AMBROSIANO. Vi diciamo
subito che questa vicenda è davvero intricata. E a beneficio degli avvocati
dell’Ingegnere che, come si è capito, sono dal grilletto facile, bisogna dire
che il Nostro alla fine ne è uscito pulito. Chiaro? Pulito. Assolto dalla
Cassazione. Ma il punto resta. Tutto si può dire tranne che l’Ing. non sia stato
coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano. Se non si può dire neanche
questo, bisognerebbe fare una legge speciale per la quale appena si nomina
l’Ing. si inizi a cospargere di petali il suolo e si declami: bello, bravo e
buono. Vi risparmiamo i dettagli. Ma la cosa è semplice. De Benedetti fa un
passaggio veloce nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Ci rimane, come
vicepresidente e azionista, per una sessantina di giorni. Lui sostiene di
esserne uscito senza una lira di plusvalenza. L’universo mondo pensa che abbia
realizzato un guadagno di 30 miliardi. Peppino Turani dalla Repubblica
sintetizzò: «Calvi si è dichiarato pronto a riacquistare le sue azioni (51,5
miliardi più gli interessi) e a comprare le azioni Brioschi, di futura
emissione, per 32 miliardi. De Benedetti non ha potuto rifiutare l’affare». I
magistrati di Milano prima ipotizzano l’estorsione: Deb sapeva dei conti in
profondo rosso del Banco e per il suo silenzio e uscita di scena, si è fatto
profumatamente liquidare. La tesi viene respinta dal Tribunale. Ma si insinua un
nuovo reato: la bancarotta fraudolenta. L’Ing. si fa liquidare sapendo del
prossimo fallimento della banca. Viene condannato in primo grado a sei anni, in
secondo ridotti a quattro. La Cassazione casserà per una illogicità procedurale.
Ma è netta, poichè neanche rinvia ad un possibile riesame. De Benedetti ne esce
pulito. Per scappare dal Banco ci mette 65 giorni, per liberarsi da questo gorgo
giudiziario nove anni. Vi risparmiamo le dure critiche ai giudici che lo hanno
condannato, alle insinuazioni e alle ispezioni che sono state fatte ai
magistrati dell’accusa. Tutto troppo simile al caso Berlusconi, con la
drammatica differenza del diverso esito in Cassazione. E allora si può dire che
l’Ingegnere sia stato coinvolto nella bancarotta dell’Ambrosiano? Decidete voi.
Con una postilla d’obbligo (prima di sparare, avvocati dell’Ing., leggete): e
cioè De Benedetti è stato alla fine assolto. Buon per lui.
DE BENEDETTI FU ALLONTANATO DA FIAT.
Un signore che conosce bene la Fiat di quegli anni, per averci lavorato, mi
dice: «nel 1976, quando De Benedetti diventa amministratore delegato della Fiat
e azionista al 5%, i soci erano debolissimi. Io non so se l’Ingegnere avesse in
mano le carte per una scalata, di cui pure molto si parlò. In molti, all’epoca,
pensavano che un golpe in Fiat si potesse fare. Anzi si può dire che ci furono
solo due grandi manager Fiat che non ebbero questa ambizione: Romiti e Valletta.
D’altronde De Benedetti poi, in Société Générale de Belgique, una scalata dalle
modalità simili la mise in piedi». l nostro resterà al Lingotto per una
centinaio di giorni e ne uscirà con un bel gruzzoletto. Appena arrivato non
perde tempo, va dall’Avvocato, allora presidente del gruppo, e gli dice:
«Bisogna mandare via 20mila persone e 500-700 dirigenti». L’avvocato fece un
rapido passaggio per i palazzi romani tornò a Torino e replicò: «Non se ne parla
proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile un’operazione del
genere». Chi allontana chi, allora? Cesare Romiti, l’uomo di Mediobanca in Fiat
e anch’egli amministratore delegato del gruppo in quegli anni (due galli in un
pollaio, che sciocchezza) in un’intervista rilasciata nel 2013 dice: «De
Benedetti piaceva all’Avvocato, ma cominciò presto ad assumere atteggiamenti
antipatici: diceva in giro di essere il primo azionista individuale di Fiat.
Cosa vera perchè gli Agnelli erano tanti e lui era entrato vendendoci molto bene
la sua azienda, la Gilardini. Quando poi mi disse che bisognava cacciare via i
dirigenti a lasciare a casa 50mila persone, l’Avvocato rispose: «Mi spiace non
si può fare». «Allora me ne vado». «Va bene se ne vada» fu la risposta». E sulla
possibile scalata, Romiti dice: «Non escludo che ci pensasse». Scalata o non
scalata, anche in questo caso, come in quello del Banco Ambrosiano, è sempre
difficile stabilire la verità. Ci sono sfumature che si giocano e nascondono in
conversazioni che rimarranno sempre private. Ma pensare che De Benedetti, con le
sue idee, potesse essere accettato e anestetizzato in azienda dall’Avvocato è
davvero difficile.
LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO.
La sinistra e le toghe d'assalto: la vera storia
del patto di ferro.La ricostruzione nel saggio di Cerasa: dalla nascita
di Magistratura democratica a Mani pulite, gli eredi del Pci hanno reclutato le
Procure. Diventandone succubi, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Ha
cominciato a chiamarmi l'Anm. «Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore,
abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia». E io ho risposto obbedisco ai
magistrati, mica al Pd». La richiesta dell'Associazione nazionale magistrati,
rivelata (e poi smentita, come da prassi) dal catto-dem Beppe Fioroni nei primi
giorni del governo Letta, è stata accontentata. Alla presidenza della
commissione Giustizia della Camera siede proprio lei, Donatella Ferranti, ex
magistrato, e di una corrente non a caso, Md (Magistratura democratica), le
toghe di sinistra. L'interlocutore più gradito all'Anm, a costo di un'invasione
di campo plateale. Che però non sorprende perché conferma un dato storico,
l'alleanza tra sinistra e magistratura italiana. Un «ammanettamento» che ha
radici lontane, dalla nascita di Md - nel clima del '68 - che nella sua
assemblea nazionale si assegna il compito di «costruire un rapporto costante e
articolato con le forze politiche di sinistra», alla «questione morale» come
bandiera del Pci di Berlinguer (delegata poi alle Procure), al pool di Mani
pulite che opera già come un'unità politica. Un processo ricostruito da Claudio
Cerasa nel suo Le catene della sinistra, facendo parlare i testimoni di questa
mutazione genetica (doppia: dei giudici e della sinistra). Racconta Sergio
D'Angelo, ex magistrato schierato con Pci e poi Ds, a lungo in Md da cui poi ha
preso le distanze: «Dopo Tangentopoli la politica ha iniziato a guardare al
magistrato come ad una guida spirituale. E i magistrati di sinistra, che
esercitano un'egemonia culturale nel mondo delle procure, hanno sposato la causa
della rivoluzione politica». Una minoranza («un settimo sui 9mila magistrati in
servizio», dice D'Angelo) diventata maggioranza culturale dentro la
corporazione, al punto da dominarla e influenzarne anche le sentenze. Ammette un
altro magistrato, Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni
da giudice non abbia influito, e molto, la mia ideologia». Ma quando scatta l'ammanettamento
tra sinistra e toghe? Cerasa lo domanda a due magistrati di un'importante
Procura, che per riservatezza non si svelano. Ma rispondono e indicano due
tappe. La prima, Tangentopoli: «Lì molti di noi si sono convinti di avere una
missione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma di redimere
l'Italia. E la sinistra si illude di poter prendere il potere con la
magistratura». Il secondo, Berlusconi: «Assegnare alla magistratura il compito
di eliminare Berlusconi - racconta uno dei due pm - ha dato alla magistratura un
potere enorme che forse neanche la magistratura intendeva ottenere. Ma di fatto,
da quando Berlusconi è in campo, bisogna riconoscere che la magistratura di
sinistra è diventata un azionista importante, per non dire prioritario,
dell'universo del centrosinistra». La saldatura è visibile dappertutto. Nelle
carriere politiche di molti pm d'assalto, a cominciare da quelli del famoso
pool. Di Pietro ministro del governo Prodi, Gerardo D'Ambrosio senatore del Pd,
Borrelli supporter della segreteria Veltroni. «Ma il mondo di centrosinistra è
pieno di magistrati che una volta poggiata la toga all'attaccapanni si sono
buttati in politica» ricorda Cerasa. I nomi più noti: Anna Finocchiaro, Luciano
Violante, Michele Emiliano, Pietro Grasso, ma pure i senatori Casson, Carofiglio
e Maritati, la deputata Pd Lo Moro e poi la Ferranti. Magistrato è anche un
consigliere Rai indicato dal Pd, Gherardo Colombo, anche lui ex pool. Proprio il
Colombo che anni fa sulla rivista Questione Giustizia teorizzò la missione
politica della magistratura. «Ritengo - scriveva l'ex pm - impraticabile una
prospettiva di ritorno alla terzietà (per la magistratura, ndr), che
risulterebbe soltanto apparente». Il giudice insomma, riassume Cerasa «ha il
compito, quando necessario, di sostituirsi all'opposizione parlamentare». Il
magistrato diventa militante, e la sinistra si consegna - manette ai polsi -
alla sudditanza verso le Procure. Chi ha analizzato a fondo questo fenomeno è
Violante, che da ex magistrato ha conosciuto entrambi i percorsi e il loro
intreccio pericoloso. Il margine di libertà che i pm più schierati politicamente
hanno per orientare un'inchiesta è enorme, dice Violante intervistato nel libro.
I cardini sono due: l'obbligatorietà dell'azione penale (che diventa «uno scudo
per giustificare indagini spericolate, fragili, ma efficaci sul piano politico»)
e poi «il controllo di legalità», cioè la funzione di ricerca del reato, di
controllo della legalità, che spetta «alla polizia, allo Stato, alla politica».
L'effetto è la sinistra che si ammanetta da sola al giustizialismo, la politica
che si consegna alle Procure. Ai magistrati, aggiunge l'ex presidente della
Camera, che «non ne rispondono a nessuno».
ITALIA, CULLA DEL DIRITTO
NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.
Con questa importante ed
approfondita inchiesta, prende il via la nuova rubrica su la ”INGIUSTIZIA
ITALIANA”, che metterà a nudo le disfunzioni, l’inefficienza e l’ingiustizia che
caratterizzano lo Stato italiano, i suoi apparati, la sua burocrazia. Un sistema
di ingiustizie utile solo a vessare i cittadini, scrive James Condor su “L’Indipendenza”.
LA
PALUDE DEI FALLIMENTI.
Un Paese dove i processi non finiscono mai. E che in compenso sono fatti
malissimo. Un Paese dove la proprietà privata non conta niente, dove lo Stato
sottrae illecitamente un minore alle famiglie senza farsi troppi scrupoli, dove
la vita delle famiglie è presa a calci. E dove nessuno, per questi abusi, paga
mai. Non si tratta di critiche feroci o di sfumature politiche, che anzi
attaccano o difendono la giustizia a seconda dello schieramento, ma della
fotografia scattata all’Italia dalla Corte per i diritti dell’uomo. Strasburgo
ha infatti pubblicato i numeri sulle sanzioni in materia di giustizia inflitte
ai Paesi della Convenzione dal 1959 al 2010 dal tribunale per i diritti umani,
mostrando al mondo cosa sia davvero quella che ancora alcuni fingono di
considerare la culla del diritto pur di non cambiare una macchina che miete
vittime a ripetizione: la nostra giustizia. Che miete vittime, ma che costa pure
tantissimo sotto il profilo economico: in particolare, ed è paradossale, costa
eccezionalmente proprio grazie all’artifizio che lo Stato aveva inventato per
rimediare ai propri errori rispetto alla Convenzione, la legge Pinto, che ha
fatto molto più che decuplicare i costi senza nemmeno riuscire a individuare le
cause del “male”. E aggiungendone dell’altro: ulteriori cause a Strasburgo e
ulteriori indennizzi. Giusto per farsi un’idea dei dati di Strasburgo, la Spagna
in 41 anni ha subito al tribunale per i diritti dell’uomo 91 sentenze, la
Germania 193, il Regno Unito 443, la Grecia 613. L’Italia invece ne ha
nientemeno che 2121: una valanga, addirittura il doppio della Russia, superata
solo dalla Turchia. Ciò che più conta è che in 1617 casi è stata riconosciuta
almeno una violazione della Convenzione per i diritti umani e che solo in 51
casi non sono state riscontrate violazioni. La gran parte delle decisioni
riguarda, com’è noto, la lentezza dei processi, specie in materia civile, con
1139 condanne. Sotto di noi, l’abisso, con la Turchia al secondo posto con 440
condanne, quasi un terzo, e sotto un nuovo baratro. Meno noto il fatto che 238
nostre violazioni riguardino l’equo processo, sempre all’articolo 6 della
Convenzione, ma diretto alle violazioni del diritto ad una giusta difesa. Ossia:
è vero che ci mettiamo tanto a fare un processo, però, alla fine, possiamo dire
che è stato pure ingiusto. Quanto al diritto alla vita privata e famigliare, in
cui l’Italia vanta plurime condanne per sottrazione illecita di minori alle
famiglie da parte dello Stato, non abbiamo eguali: 131 condanne, l’unico Paese
con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia,
Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente
noti come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 15
sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una
sfilza di 0 violazioni) e ben 297 sentenze sulla protezione della proprietà
privata. Tra i Paesi dell’Ue sotto di noi c’è l’abisso, dato che al secondo
posto c’è la Grecia con 62 violazioni, quasi un quinto delle nostre, che per
contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina.
L’aspetto più importante è che 2121 sentenze per violazione dei diritti umani
nei processi non significano 2121 casi, perché ogni sentenza può radunarne a
gruppi, perfino di centinaia. È questo che può dare l’idea di un fenomeno
mostruoso, una metastasi del sistema che continua a divorarlo.
NUOVI RECORD NEL 2011.
Dal 31 dicembre 2010 al 30 novembre 2011 la situazione è infatti ulteriormente
peggiorata: l’Italia ha continuato imperterrita a rosicchiare percentuali sulla
torta dei ricorsi dei cittadini dei Paesi membri, passando dai 10200 ricorsi
della fine del 2010, ai 13400 ricorsi di fine novembre, passando così dal 7,5%
all’8,8% della torta. Da notare l’assenza dei grandi Paesi occidentali nella
torta – se escludiamo un piccolissimo 2,4% del Regno Unito -, tutti sotto la
voce “altri 37 Stati”. E che superiamo Romania, Ucraina, doppiamo Polonia e
Serbia, quadruplichiamo o quasi la Bulgaria.
LA
LEGGE FALLIMENTARE. L’INFAMIA DEL REGIO DECRETO.
Ci sono processi e processi. Per comprendere come l’Italia non rispetti affatto
le Convenzioni che firma, c’è un processo italiano in particolare che ha
comportato negli anni, e in parte ancora comporta, una sfilza infinita, in una
volta sola, di una lunga serie di violazioni agli articoli della Convenzione di
Strasburgo, e ai suoi successivi protocolli, sui diritti dell’uomo: si va dalla
libera circolazione al diritto alla corrispondenza, dal diritto di voto al
diritto ai propri beni, dall’accesso al processo al diritto alla vita privata e
famigliare. A comportare tutte queste violazioni è il nostro processo sui
fallimenti, uno dei più grandi scandali italiani passati sotto silenzio per
decenni. E di cui si fa ancora fatica a parlare. Eppure si tratta quasi sempre
di un labirinto dal quale, chi ci finisce dentro, non esce più. Ci sono diverse
ragioni per le quali si può incappare in un fallimento, specie in uno Stato che
ha la pressione fiscale più alta d’Europa e pretende taluni fondamentali
pagamenti, come l’iva, anche prima che uno l’abbia incassata. E che chiede tasse
in anticipo sulla presunzione di un volume d’affari, come se gli imprenditori
avessero la sfera di cristallo. Di certo in questa maglia finisce spesso brava
gente, anche per poche migliaia di euro, gente con una faccia e una casa. E
quasi mai, invece, chi fa dell’attività societaria un’arma per delinquere,
troppo accorto per non sfruttare prestanome o, per usare una frase in gergo, le
cosiddette teste di legno. Troppo astuto per avere intestato qualcosa. Ci
vorrebbe dunque una legislazione molto accorta, in grado di stabilire con equità
caso per caso. Ma in una Repubblica fondata sul lavoro e che fa dunque
dell’impresa del lavoro la sua base, la legge fallimentare è regolata unicamente
da una legge del Regno: il Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942. Una legge
rimasta sostanzialmente immutata per 60 anni.
LA
SPIRALE DEL FALLIMENTO.
Gianna Sammicheli vive a La Spezia. Si è occupata di cause per i diritti umani
in Germania, Spagna e in Inghilterra e da qualche tempo si sta confrontando con
il sistema giuridico italiano. «La legge 80/2005 e il decreto legislativo 5/2006
hanno dovuto recepire molte delle indicazioni date dalla Corte Europea, per
modificare la legge, dopo diverse condanne subite dall’Italia a Strasburgo. Le
nuove norme tuttavia hanno finito per applicarsi solo alle procedure iniziate
dopo la data di entrata in vigore della legge. Il fatto è che per tutte le
procedure che erano in corso in quel momento le violazioni ci sono già state e
quindi restano lamentabili nei sei mesi dalla chiusura dal fallimento,
nonostante l’abrogazione delle norme». Quali sono le leggi del nostro codice che
per 60 anni hanno violato la Convenzione di Strasburgo? «Sono stati abrogati in
particolare gli articoli 48, 49, 50 sulla corrispondenza, la libertà di
circolazione, l’iscrizione nel registro dei falliti, dalla quale partivano
automaticamente le “incapacità” previste dal codice civile e dalle leggi
speciali. Molte erano “incapacità” relative ai diritti civili o politici. Come
la perdita del diritto di voto per cinque anni, l’impossibilità di iscrizione
agli albi per esempio o di amministrare società. In realtà, già aprire un conto
corrente per molti è stato un problema. La corrispondenza del fallito, tutta,
andava direttamente al curatore; il fallito non poteva muoversi liberamente e
doveva restare sempre a disposizione del curatore. Queste limitazioni
persistevano fino alla sentenza di riabilitazione, che poteva essere chiesta
dopo cinque anni dalla chiusura del fallimento. Il che, spesso, avveniva dopo
vent’anni dall’inizio del fallimento». Una vita. Vent’anni senza disporre dei
propri beni, senza poter verificare che vengano venduti e non svenduti, senza
poter avere un fido o accendere un mutuo, spesso senza nemmeno avere un conto
corrente. Vent’anni di segnalazioni alle centrali rischi, un marchio d’infamia
che ha ottenuto un rimedio. Forse. «La Corte Costituzionale,- prosegue
Sammicheli - con la sentenza n. 39/2008, ha dichiarato l’incostituzionalità
degli articoli 50 e 142 per il testo anteriore all’entrata in vigore della
riforma, nella parte in cui si stabiliva che le “incapacità personali”
derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurassero oltre la
chiusura della procedura concorsuale. Questo proprio per chiarire che se anche
la riforma non si applica alle procedure vecchie, le “incapacità” di questi
vecchi fallimenti cessano con la chiusura. Però…». Però?
IL
RIMEDIO É PEGGIO DELLA CURA.
«Il problema è che la riforma ha eliminato il Registro dei Falliti e le norme
sulla riabilitazione, ma all’eliminazione non è seguita alcuna modifica di legge
che permetta di eliminare di fatto tutte le “incapacità” in modo automatico alla
chiusura del fallimento». Si spieghi. «In sostanza, abrogando l’istituto della
riabilitazione, paradossalmente non si possono più eliminare tutte le
conseguenze che derivavano dalla riabilitazione. Con questa si aveva anche
l’estinzione degli effetti dell’eventuale condanna penale che talvolta si
accompagna alla dichiarazione di fallimento. Il fallito quindi, oggi, chiuso il
fallimento, non può semplicemente chiedere ad esempio l’iscrizione al registro
delle imprese per l’inizio di nuova attività commerciale, perché non ha alcun
documento che attesti il riacquisto delle capacità, né può ottenere direttamente
il certificato del casellario che non menzioni i provvedimenti giudiziari
relativi al fallimento. L’articolo 24 T.U. 313/2002 infatti lo rende formalmente
possibile solo se c’è stata una sentenza di riabilitazione. Di fatto si lascia
che i falliti si arrangino da soli, specie se il fallimento è già chiuso». E
cioè questo significa che chi ha visto chiuso il proprio fallimento dopo
vent’anni deve fare una nuova causa davanti ad un giudice perché una nuova
sentenza ne cancelli il nome dal casellario penale. E sembra in effetti dire lo
stesso anche la circolare del Ministero della Giustizia del 22 settembre 2008. E
che cosa accade in questi casi? Accade che il giudice interpreta. E non è
affatto detto che disponga la cancellazione. Una situazione kafkiana.
CHI
CONTROLLA I CONTROLLORI? IL CONTRIBUENTE PAGA.
Sicchè anche chi è fallito vent’anni fa e il suo fallimento è stato chiuso da
tempo immemore, rischia ancora di trovarsi tracce che gli impediscano una nuova
vita, anche solo l’accesso ad una banca. Di più. Nonostante le modifiche,
prosegue Sammicheli, «il fallito oggi è tuttora privato dell’amministrazione e
della disponibilità dei propri beni a partire dalla dichiarazione di fallimento,
beni che vengono gestiti esclusivamente dagli organi preposti. È poi il curatore
a stare in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti di
diritto patrimoniale. Inoltre, il fallito non ha né ha mai avuto libero accesso
al proprio fascicolo, il che gli impedisce di verificare l’operato degli organi
fallimentari. Se è vero che devono essere i creditori ad interessarsene, è anche
vero che non se questi lo fanno e il curatore agisce ai danni del fallimento
stesso, come è anche successo, difficilmente il fallito potrà saperlo, pur
subendone le conseguenze». Nella zona grigia dei fallimenti emergono così storie
come quella di un giudice del tribunale fallimentare di Firenze, Sebastiano
Puliga, condannato in primo grado, lo scorso novembre 2012, a quindici anni, tre
dei quali condonati. Accusato di corruzione, abuso d’ufficio, peculato, falso,
interesse privato in procedure concorsuali e concorso in bancarotta, è stato
condannato insieme ad una trentina di persone, tra avvocati, commercialisti,
architetti e ingegneri, tutti con pene dai 3 anni e 2 mesi ai 9 anni e 9 mesi.
Cuore della vicenda un presunto comitato d’affari per pilotare l’affidamento di
perizie e curatele. Il fatto è che le indagini su di lui sono cominciate nel
2002 e la prima sentenza è giunta nove anni più tardi. E riguardava vicende
ovviamente precedenti, anni ’90. Significa che, se davvero Puliga è colpevole,
ci sono falliti che aspettano giustizia da una vita. «Qualsiasi sia l’esito
processuale- dice ancora Sammicheli – è evidente che vicende come queste forse
risentono proprio di una eccessiva fiducia accordata originariamente dalla legge
agli organi fallimentari. Prima della riforma non c’era alcuna espressa
incompatibilità tra i magistrati fallimentari e quelli, ad esempio, incaricati
dell’esecuzione sui beni dei falliti. In pratica il giudice del fallimento
poteva anche essere giudice delle cause che autorizzava ed in cui stava in
giudizio il curatore. La riforma ha cercato quindi di diminuire i poteri del
giudice, a favore del comitato dei creditori, aumentando anche i requisiti per
essere nominati curatori». Situazione risolta? A sentire il legale no.«Il
fallito resta nella situazione precedente. Per ottenere i documenti, in modo da
controllare la gestione dei beni, al fallito occorre infatti fare istanza al
giudice, che può anche non accoglierla o accoglierla solo in parte. Per esempio
le relazioni del curatore anche ora possono non essere date e gli altri
documenti dati attraverso il curatore. Il fallito cioè può tuttora non vedere
mai il proprio fascicolo e spesso non ha idea di quello che viene fatto».
SUICIDARSI PER NON FALLIRE.
E se nessuno vede, e nessuno può controllare, ecco la zona grigia. Dove tutto
può succedere, in silenzio. E per anni, tanti anni. Anni in cui il fallito non
sa se una sua casa, ad esempio, sia stata venduta a prezzi tali da coprire il
debito. Non sa nulla. Solo che pagherà a vita. Con mezzi, beni. E infamia. Di
più. «Non solo un fallimento medio anteriore alla riforma è durato almeno dieci
anni – conclude il legale -, molti dei quali passati ad aspettare che i beni
immobili del fallimento venissero venduti o svenduti, con tutte le conseguenze
sulle sue “incapacità”. Ma il fallito, ai sensi dell’art. 120 LF , una volta
chiuso il fallimento, ritorna esattamente nella posizione di partenza, ovvero
con tutti i debiti non pagati sulle spalle ed è, anche solo teoricamente,
di nuovo aggredibile». Punto e a capo. E in una macchina come questa, ecco
perché tanti falliti si suicidano. Ed ecco perché in tanti si tolgono la vita
piuttosto che fallire.
MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA
ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.
Ci sono processi che non
cominciano, scrive “Fronte
del Blog”. Processi iniqui e processi che non finiscono mai. E che spesso,
quando finiscono, risultano pure fatti male. La fotografia di mezzo secolo di
giustizia italiana a Strasburgo mette in luce però molto di più: intrusione
illecita nella vita privata da parte dello Stato, negazione del diritto di
proprietà, violazioni dell’equo processo. Soluzioni? Vediamole.
LEGGE PINTO. Nel 2001 prese
forma la legge Pinto, voluta per arginare gli infiniti procedimenti di
risarcimento dell’Italia, togliendoli alla Corte Europea per affidarli alle
Corti d’Appello. Il risultato non è mai stato brillante ed è emerso in tutta la
sua forza nel 2010: le Corti d’Appello risarcivano un’inezia. Il ministero, che
aveva visto lievitare gli indennizzi dai 4 milioni di euro del 2002 agli
stratosferici 81 del 2008, pagava a rilento (36,5 milioni non risultavano ancora
versati alla fine del 2010). E mille persone erano così tornate a Strasburgo,
contestando il ritardo nel pagamento della somma già liquidata dalla sentenza:
la “mora” della mora. Si trattava della punta dell’iceberg: perché una sentenza
non corrisponde ad un caso, ma può radunare anche centinaia di casi. Il ricorso
principale, come si sa, nelle cause contro lo Stato a Strasburgo, riguarda la
lunghezza dei processi. I responsabili dei ritardi non si sa mai chi siano, se
non una generica burocrazia. Nella relazione annuale 2010 al Parlamento il
Governo aveva infatti ammesso che la Legge Pinto non riusciva a “fronteggiare
efficacemente eventuali condotte negligenti di singoli magistrati, causative
dell’irragionevole ritardo processuale, ovvero a vigilare sull’obbligo dei
dirigenti degli uffici giudiziari di realizzare un’efficiente organizzazione del
lavoro”.
DI CHI È LA COLPA? Eppure i
processi non vanno piano perché i magistrati sono pochi: ne abbiamo una media di
1,39 ogni diecimila abitanti a fronte di uno 0,91 dei Paesi dell’Ue, oltre a
quasi mille rincalzi entrati negli ultimi tre anni. E allora? Il Governo Monti
ha provato a riformare la legge Pinto con il decreto legge dello scorso giugno,
che snellisce la procedura. Con quali effetti, avremo modo di raccontarvelo più
avanti, perché una riforma strutturale necessita di tempi medi. Di certo, stando
ai numeri di Strasburgo, il problema della giustizia in Italia non riguarda
soltanto la lunghezza dei processi, civili in particolar modo. Riguarda anche
altro. Pure se, di questo “altro” che stiamo per vedere, se ne parla assai poco.
Forse perché non pesa economicamente come la lentezza processuale, calcolata
pari ad un punto del Pil. Forse. Di sicuro, in uno Stato di diritto, questo
“altro” dovrebbe avere un peso addirittura superiore.
EQUO PROCESSO. La Corte per i
diritti dell’Uomo ha pubblicato le statistiche sulle sentenze europee emesse dal
1959 al 2011: e l’Italia, oltre a risultare di gran lunga il più condannato tra
gli Stati dell’Ue nel totale delle violazioni (quasi il triplo della Francia, 10
volte la Germania, oltre 20 volte la Spagna), alla voce “diritto al giusto
processo” presenta 245 condanne. Si tratta sempre dell’articolo 6 della
Convenzione per i diritti dell’Uomo, come per la lentezza processuale, ma
riguarda stavolta le violazioni del diritto ad una giusta difesa. Materia
penale, per intenderci. Tra i Paesi occidentali, ne ha sei in più unicamente la
Francia, dove, in compenso, i processi sono molto più rapidi. Il resto della
compagnia è formato da Turchia, Romania, Ucraina e Russia. Sotto, il baratro.
Ciò significa che da noi non solo i processi durano una vita. Ma in linea di
massima sono fatti pure male. Il che, quando di mezzo c’è il penale, comincia a
far nascere angoscia. Perché sui dati non ha pesato affatto solo la nostra
normativa sulla contumacia, no. «Sono diverse le condanne in materia di giusto
processo: per impossibilità di interrogare i testimoni, le vittime e gli
accusatori. Per assenza di difesa effettiva e incapacità dell’avvocato
d’ufficio, o per processi conclusi solo per via della testimonianza delle
vittime o ancora per assenza di imparzialità negli organi giudicanti o nella
pubblica accusa». Sono le parole di Gianna Sammicheli. Formazione giuridica in
Germania, Spagna e in una ONG di Londra che porta avanti cause per violazione
dei diritti dell’uomo di fronte a tutte le Corti internazionali; si è occupata
di diritto nei paesi dell’Est, ma è rimasta sgomenta quando si è confrontata con
il sistema italiano, non appena è tornata a lavorare nel Belpaese, La Spezia,
esattamente. In Italia infatti, spiega: «si assiste ad interpretazioni della
giurisprudenza di Strasburgo inspiegabilmente diverse da quelle che
deriverebbero da una traduzione letterale della stessa, tanto che la Corte è di
nuovo subissata da ricorsi come prima della Legge Pinto». Snocciola sei sentenze
contro l’Italia per ingiusta detenzione: doveva riparare lo Stato, ma la
magistratura negava gli indennizzi, dando sostanzialmente la colpa dell’arresto
all’arrestato.
SOTTRAZIONE DI MINORI,
PROPRIETÀ PRIVATA E DIRITTO DI VOTO. «Moltissime – prosegue la Sammicheli –
anche le condanne al nostro Paese in materia di minori, dove i giudici italiani
hanno tolto i figli ingiustamente alle famiglie». Nella fotografia della tabella
di Strasburgo, tutto questo va alla voce “diritto alla vita privata e
famigliare”. E qui non abbiamo davvero eguali: 133 condanne, l’unico Paese con
numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia,
Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti
come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 16 sentenze sul
diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0
violazioni) e ben 310 sentenze sulla protezione della proprietà privata.
L’Occidente, in questo, è lontano da noi anni luce: al secondo posto dell’Ue c’è
infatti la Grecia con “appena” 62 violazioni, un quinto delle nostre, che per
contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina.
COME STANNO LE COSE. I nostri
dati della giustizia, visti con l’occhio europeo, sono devastanti. Ma non basta.
Perché peggiorano ancora se mettiamo a fuoco alcuni archivi. Secondo uno storico
dell’Eurispes, infatti, dal dopoguerra al 2003 oltre quattro milioni di italiani
furono “vittime” della giustizia e i prosciolti nei processi tra il 1980 e il
1994 erano addirittura il 43,94%. Quasi la metà. E allora la domanda è: chi ha
mai pagato per questi errori e per le tantissime violazioni dei diritti
dell’Uomo commesse dalla nostra giustizia? Chi ha pagato per le ingiuste
detenzioni comminate, per le violazioni dell’equo processo, per aver sottratto
un bambino illegittimamente ad una famiglia, una volta che tutto questo è stato
acclarato? È difficile fare nomi. Ma chi non paga quasi mai pare siano proprio i
protagonisti della giustizia, e cioè i magistrati, neppure in sede disciplinare.
Almeno secondo i dati emersi in “La legge siamo noi” (Piemme, 2009) di Stefano
Zurlo, che prendeva in esame svariati procedimenti disciplinari del Csm e
raccontava di toghe trattate a buffetti o addirittura assolte per le vicende più
assurde, o ancora di toghe non espulse neanche quando avevano chiesto l’aiuto di
un boss. Il tutto mettendo sul piatto numeri pesanti: tra il 1999 e il 2006, su
1010 procedimenti disciplinari, 812 sono finiti con l’assoluzione o il
proscioglimento; 126 con l’ammonimento, 38 le censure. Ma solo 22 volte c’è
stato un vero provvedimento minimo (rallentamento di carriera) e 6 volte
l’espulsione. Ventotto provvedimenti concreti su 1010. Non sarà un po’ poco?
QUARTO GRADO DI GIUDIZIO. In
nome dell’indipendenza della magistratura non si è mai voluto mettere mano ad
una strutturale riforma della giustizia. E si è lasciato che quello che è un
problema serio, diventasse un mero “equivoco” politico: chi voleva la riforma
s’intendeva fosse schierato da una parte, chi non la voleva, s’intendeva
schierato dall’altra. Facile. Ma l’indipendenza della magistratura in Italia non
è solo quella che stabilisce l’autonomia dalla politica e l’essere soggetta solo
alla legge. No. L’indipendenza della magistratura in Italia è quella che
consente ad un giudice l’interpretazione della legge, perché possa decidere in
libera coscienza. Un principio nobile, che tuttavia può portare, ad esempio, un
giudice di secondo grado a condannare un imputato con gli stessi, precisi
elementi, con cui questi era stato assolto in primo grado. A fargli decidere di
non sentire alcuni testimoni che la difesa ritiene cruciali. E a non fargli
rispettare i dettami chiari e netti stabiliti dalla Convenzione per i diritti
dell’Uomo, che pure l’Italia ha sottoscritto. Senza, nemmeno in questo caso,
stando ai dati pubblicati da Zurlo, subire alcuna seria conseguenza nemmeno in
sede disciplinare. Non a caso, per mettere una pezza alle continue condanne
della Corte di Strasburgo all’Italia per le violazioni dell’equo processo, la
Corte Costituzionale ha emanato ad aprile 2011 una clamorosa sentenza: la numero
113. Trattava il caso di Paolo Dorigo, condannato a tredici anni e sei mesi con
l’unica prova fornita da due testimoni che però non furono mai controinterrogati
in un confronto diretto. Già nel 1998 Strasburgo definì quel processo “iniquo”,
ma Dorigo uscì di prigione dopo aver scontato quasi tutta la pena. La Corte
Costituzionale, partendo proprio dalla sua lunga vicenda, ha stabilito che se
Strasburgo dichiara il processo “iniquo”, è illegittimo non prevederne la
revisione: e ha in pratica introdotto un possibile quarto grado di giudizio.
Sostanzialmente, in caso di condanna dell’Italia a Strasburgo, il processo
potrebbe essere rifatto. Ma forse è tempo che oggi si superi l’equivoco
politico. E che qualcuno metta finalmente mano ad una riforma della giustizia
capace di risolvere tutte queste contraddizioni: premiando finalmente i
magistrati che non sbagliano. E rallentando davvero chi sbaglia troppo.
LO STATO
DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.
Lo stato della giustizia in
Italia: intervista al giudice fatta da Stefano Lorenzetto e pubblicata su "Il
Giornale". Questa sconvolgente intervista è un clamoroso atto di denuncia
del sistema giudiziario italiano, fatto da chi, Edoardo Mori, magistrato lo è
stato in modo instancabile e apprezzatissimo per 42 anni. Quello che racconta è
lo sfacelo totale. Una delle sue dichiarazioni..«Il sistema di polizia, il
trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono
ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli
indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli
interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si
preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo
dovere sostenere l’azione del Pm». Ed eccone un’altra…«La categoria s’è
autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È
facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio
superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo
Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi
per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un
innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte
a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». E
ancora un’altra...."i periti offrono ai Pm le risposte desiderate, gli
forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi preconcette. I Pm non
tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a sostenere l’accusa a
occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contenti i
Pm, si adeguano".
Edoardo Mori, uno di quegli
uomini precisi, scrupolosi e dallo stile impeccabile che sembrano appartenere a
un secolo precedente, se ne è andato dalla magistratura con un senso di
disgusto. Racconta di come troppe volte si è fatto e viene fatto totalmente
carta straccia del diritto. E’ davvero estremamente raro che un Magistrato,
specie se ha svolto ruoli importanti, faccia dichiarazioni di questo livello.
Ecco perché crediamo che questa intervista vada letta.
Magistrati, alzatevi! Stavolta
gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo
Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la
toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di
giustizia. «Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a
reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il
volto della magistratura. Meglio la pensione». Per 42 anni il giudice Mori ha
servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in
cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore
a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le
indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il
ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a
Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi,
ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute
sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a
esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una
competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se
n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri,
in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne
antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a
liberare l’Italia. Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il
giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato
e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le
forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono
trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in
violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i
diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del
Pm». Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è
probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università
si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi
(1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire
di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali
utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi,
interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che
sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di
pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle
armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi
latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero
tre dei 73 libri della Bibbia. Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga
carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la
soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del
5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare
la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni
sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta,
causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno
dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di
controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue
mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono
state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno
gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere
le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione
totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo
stesso, tanto – ragiona – provvederà semmai il collega in secondo grado a
metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per
prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate
commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40
anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione:
leggo sentenze scritte da analfabeti». Soprattutto, se il giudice sbaglia, non
paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita
all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”.
Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i
giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi,
sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore
giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In
compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le
manchevolezze delle Procure». Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha
dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato
l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione
scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto
condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di
scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo
a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento
disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita
testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche
contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E
ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a
prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver
offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era
stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché,
quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho
stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne
fregava più nulla».
–Perché ha fatto il
magistrato?
«Per laurearmi in fretta,
visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in
tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze
naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo
sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva.
Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».
–Il magistrato trucidato con
la moglie e la scorta a Capaci.
«Mi portò al Csm a parlare di
armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti
dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani.
Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i
risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm:
ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è
riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico
non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto
in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».
–Per quale motivo i pubblici
ministeri scambiano i periti per oracoli?
«Ma è evidente! Perché ».
–Ci sarà ben un organo che
vigila sull’operato dei periti.
«Nient’affatto, in Italia
manca totalmente un sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel
1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato
un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra
mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale
basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è
sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di
pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione,
ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello
vanno a far danni nelle aule di giustizia».
–Sono sconcertato.
«Anche lei può diventare
perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali
rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi
materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una
laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia
dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha
commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie
precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia
periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm
recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».
–Può fare qualche caso
concreto?
«Negli accertamenti
sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro – con costi
miliardari, parlo di lire – i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare
in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire
a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È
chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili.
Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver
costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto
recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto
costruito oltre vent’anni prima. Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel
caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici
volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di
circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali
in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però
in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un
sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive
pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una
bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».
–Prego. Sono rassegnato a
tutto.
«Per anni fior di magistrati
hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi
attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido
904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da
un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco,
militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per
la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti
s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che
provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai
terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88
millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’
dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».
–Ormai non ci si può più
fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli
inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher.
«Si dice che questo esame
presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta
su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate
fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui
uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima
per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra
distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava
i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I
guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per
manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già
inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e
monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal
primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che
sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla
Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le
eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata
meglio a Cogne».
–Cioè?
«In altri tempi l’indagine
sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza
giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti
non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non
consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il
meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce
qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato
nel caso Marta Russo».
–Si riferisce alle prove
balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università
La Sapienza di Roma?
«E non solo. S’è preteso di
ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il
foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi
poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di
geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette?
Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e
hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato
che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria
della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è
stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver
visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno
che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per
violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica
sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un
ex poliziotto».
–Un sistema che ha fatto
scuola.
«La galera come mezzo di
pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un
moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a
parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».
–Che cosa pensa delle
intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali?
«Non serve una nuova legge per
vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è
perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine
e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da
omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una
sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In
Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo
stravolgimento del diritto da parte del giudice».
–Come mai la giustizia s’è
ridotta così?
«Perché, anziché cercare la
prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche
dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è
assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro
il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».
–In un ragionamento tagliare
tutto ciò che è inutile.
«Appunto. Le regole logiche da
allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è
semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva
interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato
l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato
dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri,
ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi
sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza
schiaffando in prigione i sospettati».
–Ma perché si commettono tanti
errori nelle indagini?
«I giudici si affidano ai
laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari
casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza
dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li
nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di
Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la
moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e
ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».
–E si ritorna alla conclamata
inettitudine dei periti.
«L’indagato innocente avrebbe
più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base
a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».
–No, no, non mi risparmi
nulla.
«Vengono pagati per ogni
singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000
cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente
umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di
compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho
visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi,
ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I
700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti.
Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima
del pagamento».
–In che modo se ne esce?
«Nel Regno Unito vi è il
Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i
maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a
oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e
impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta
autorità a livello mondiale».
–E per le altre magagne?
«In Italia non esiste un testo
che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi
interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino
intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato
dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui
l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di
questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo
interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco
perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli
scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci
sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».
–Ci provi.
«È ormai routine leggere che
dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si
riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il
primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli
esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre
l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai
visto un cadavere in vita loro».
–Ma in mezzo a questo mare di
fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi?
«Mi consideri un pentito. E un
corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho
fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un
cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo
perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto
riconoscerlo».
–Non è stato roso dal dubbio
d’aver condannato un innocente?
«Una volta sì. Mi ero convinto
che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai
troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu
prosciolto dal tribunale».
–Gli chiese scusa?
«Non lo rividi più, sennò
l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».
Intervistato sul Corriere
della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in
pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre
dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un
giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza,
studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una
dichiarazione d’incompetenza». «In Germania o in Francia non si parla mai di
giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari
dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i
loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia». Si dice che il giudice non dev’essere
solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega
che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa
testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato. «Ho
smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si
presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi
di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».
–Quanti sono i giudici
italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente?
«Non più del 20 per cento. Il
che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano
almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo
saggio Il potere della stupidità».
–Perché ha aspettato il
collocamento a riposo per denunciare tutto questo?
«A dire il vero l’ho sempre
denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente
sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».
OBBLIGATORIETA' DELL'AZIONE PENALE: UNA BUFALA. L’ITALIA DELLE DENUNCE
INSABBIATE.
Ve lo spiego io in maniera
molto semplice. Leggete
la nota e capirete il perchè tante persone appartenenti alle varie caste,
pur essendo denunciate da semplici cittadini, non subiranno mai un processo o
una condanna.
Cari amici, quando un semplice
cittadino denuncia persone intoccabili appartenenti a certe caste, si aziona un
meccanismo massonico per fare in modo che le denunce siano pilotate e poste in
mano a Magistrati che fanno parte della casta massonica e in base al giuramento
fatto alla fratellanza massonica, sanno bene come fare ad insabbiare e sabotare
le denunce sicuri di essere intoccabili in quanto non giudicabili penalmente dai
colleghi appartenenti alla stessa Loggia. Ora vi spiego come fanno.
I magistrati quando ricevono
una denuncia penale inseriscono la denuncia in un fascicolo rubricandolo con uno
dei 4 codici che vi spiegherò velocemente e che possono essere verificati con un
documento ufficiale del Csm che dà le direttive ai Magistrati su come operare.
I modelli dove vengono
rubricate le denunce sono:
21 notizia di reato commessa
da persona nota cioè identificata
44 notizia di reato commessa
da persona ignota quindi non c'è nessuno da condannare
45 fatti non costituenti
notizie di reato
46 notizia di reato commessa
da persona nota cioè identificata e i fatti sono denunciati da persone anonime.
Nel mio caso e nel caso di
altri colleghi che denunciano i Poteri Forti, tutte le denunce sono state
rubricate a mod 44 e mod 45 e sono state archiviate o perchè viene dichiarato
dai Magistrati che ci sono i reati, ma non hanno messo nessuno come imputato pur
facendo nomi e cognomi o direttamente hanno definito le denunce come fatti non
contenenti reato.
E ciò accade anche se
inizialmente le denunce vengono poste a Mod 21.
In questo modo le denunce non
arrivano a un dibattimento e non vengo, io o altri, denunciato per calunnia o
false informazioni.
Inoltre non mandando avvisi di
garanzia a nessuno delle persone che ho denunciato, nessuno può
controdenunciarmi per calunnia.
Per quanto riguarda le verità
che scrivo sui miei libri contro i criminali in giacca e cravatta, che vanno
oltre le ovvietà di pennivendoli di quattro soldi, e per questo censurate
omertosamente da media prezzolati o ideologicizzati, i bravi magistrati mi
perseguitano con processi farsa. E questo nonostante l'art 596 del c.p.
dice che non è diffamazione rendere noti dei fatti penali veri commessi da
pubblici ufficiali nell'ambito della loro funzione.
Per quanto riguarda gli
avvocati essi non mi difendono, non per soldi ma per paura, in quanto ho
denunciato un intero Sistema Criminale che opera solo a Taranto,
Questo è un
documento ufficiale
del Csm dove sono inserite le direttive alle quali si devono attenere i
magistrati nel momento in cui ricevono una denuncia.
A) PROCEDIMENTI ISCRITTI A
MODELLO 21
Si tratta di procedimenti già
“attivati” dal collega precedente assegnatario del “ruolo” in cui si subentra e
per i quali si rende necessaria una “scelta” di priorità nella trattazione.
E’ opportuno ricordare che in
ciascun ufficio giudiziario esistono delle “priorità”: è, pertanto,
indispensabile la preventiva consultazione con il Procuratore della Repubblica
per avere le necessarie indicazioni al riguardo.
E’, inoltre, opportuno avere
un “cambio di consegne” con il collega precedente assegnatario del ruolo in modo
che si possano ricevere le segnalazioni sui fascicoli di maggior rilievo da
attivare con immediatezza.
La gestione dei fascicoli
iscritti a modello 21 avviene secondo un modello organizzativo di tipo
cronologico e logico che è possibile riassumere come segue:
1) sistemare i fascicoli
secondo la data di iscrizione: in tal modo si ha un’idea più precisa della
consistenza del ruolo e si consente alla Segreteria ed alla Polizia Giudiziaria
di poter procedere all’inserimento dei “seguiti” con maggiore speditezza
2) visionare i singoli
fascicoli partendo contemporaneamente dal faldone più antico e da quello più
recente: in tal modo in un tempo ragionevolmente breve si realizza l’obiettivo
di “conoscere” per grosse linee il ruolo e di stabilire le priorità nella
trattazione
3) estrapolare dai faldoni,
per formare un “ruolo in evidenza”, i fascicoli riguardanti:
a) i procedimenti con indagati
sottoposti a misura cautelare
b) i procedimenti relativi a
decessi (omicidi dolosi, preterintenzionali, colposi, suicidi)
c) i procedimenti con
richieste di applicazione di misura cautelare in attesa del provvedimento del
G.I.P.
d) i procedimenti di allarme
sociale (rapine, estorsioni, usura, reati contro la P.A., art. 372 ed art. 368
c.p., art. 378 c.p., art. 476-480 c.p., art. 570-572 c.p., art. 583, 56-575
c.p., art. 608 c.p., tutti i reati sessuali)
e) i procedimenti in tema di
reati ambientali
f) i procedimenti relativi
agli infortuni sul lavoro di particolare gravità
g) i procedimenti con indagini
disposte dal G.I.P. ex art. 409 c.p.p.
h) i procedimenti con reperti
sottoposti a sequestro in custodia onerosa
i) i fascicoli per i quali vi
è la richiesta di “riferire” del Procuratore
g) i fascicoli per i quali vi
sono stati “solleciti alla definizione” dalle parti private
4) i fascicoli per i quali è
decorso il termine di scadenza delle indagini preliminari richiedono una
valutazione “allo stato degli atti” piuttosto rapida (o si esercita l’azione
penale e, quindi, si procede con l’emissione dell’avviso ex art. 415 bis c.p.p.
o si richiede l’archiviazione, con la possibilità che il G.I.P., non accogliendo
la richiesta, indichi nuove indagini che saranno utilizzabili in dibattimento)
5) i fascicoli per i quali è
prossima la scadenza del termine delle indagini preliminari: è opportuno che si
proceda alla richiesta di proroga solo se ad una prima analisi ci si rende conto
che è opportuno “andare avanti” per evitare di “ingolfare” la segreteria con
decine e decine di richieste di proroga
6) i fascicoli con avvisi ex
art. 415 bis c.p.p. già notificati devono essere attivati con rapidità
procedendo all’interrogatorio eventualmente richiesto dal difensore oppure
all’esercizio dell’azione penale
7) i fascicoli con termine di
prescrizione in scadenza costituiscono il problema di maggior rilievo da
affrontare: in questa sede deve richiamarsi l’attenzione sulla necessità, almeno
per quei procedimenti di particolare rilievo ed importanza, di interrompere con
immediatezza il temine di prescrizione procedendo all’emissione dell’invito a
comparire dell’indagato innanzi al P.M. per rendere l’interrogatorio
B) PROCEDIMENTI ISCRITTI A
MODELLO 44
Si tratta dei procedimenti a
carico di “ignoti” per i quali deve supporsi che il collega precedente
assegnatario abbia attivato le indagini in quanto in caso contrario in assenza
di concreti spunti investigativi si procederà con immediatezza alla richiesta di
archiviazione ai sensi dell’art. 415 c.p.p.
La gestione dei fascicoli
iscritti a mod. 44 avviene, schematicamente, come segue:
1) fascicoli a carico di
“ignoti” per i quali sono state attivate indagini con il termine di scadenza ex
art. 415 co. 1 c.p.p. ormai decorso: tali procedimenti richiedono una
valutazione “allo stato degli atti” piuttosto rapida (o è stato identificato
l’autore del reato e si procede all’iscrizione a modello 21 oppure si richiede
l’archiviazione, con la possibilità che il G.I.P., non accogliendo la richiesta,
ordini che il nominativo del soggetto al quale attribuire il reato sia iscritto
a modello 21)
2) fascicoli a carico di
“ignoti” per i quali sono state attivate le indagini con il termine di scadenza
prossimo: in tali procedimenti occorre è opportuno che si proceda alla richiesta
di proroga ai sensi dell’art. 415 c.p.p. solo se ad una prima analisi ci si
rende conto che è opportuno “andare avanti” per evitare di “ingolfare” la
segreteria con decine e decine di richieste di proroga (il problema di maggior
rilievo riguarda i procedimenti relativi al reato di ricettazione di assegni
bancari, solitamente iscritti a mod. 44 per l’art. 648 c.p. e le cui indagini
richiedono solitamente molto tempo)
C) PROCEDIMENTI ISCRITTI A
MODELLO 45 (F.N.C.R.)
Il tema della gestione dei
fascicoli iscritti a modello 45 deve essere affrontato con il tema
dell’iscrizione della notizia di reato. I “fatti non costituenti notizie di
reato” sono le cosiddette “pseudo-notizie di reato” ossia di quei fatti che
neppure astrattamente possono essere qualificati come “notizia di reato”. In
ogni ufficio giudiziario i “fatti non costituenti notizie di reato” sono gestiti
secondo prassi talvolta molto differenti: si immagini, a titolo di esempio, la
notizia relativa ad un suicidio, che può essere iscritta a modello 45 ed
autoarchiviata oppure a mod. 44 ipotizzando il reato di cui all’art. 580 c.p.
(istigazione al suicidio) a carico di ignoti e, quindi, inviata al G.I.P. con
richiesta di archiviazione. In estrema sintesi, deve ricordarsi che i“fatti non
costituenti notizie di reato” sono quelle querele, denunzie, esposti, missive
varie, trasmissione di referti medici dai quali non è neppure astrattamente
ipotizzabile (ossia neanche “nelle intenzioni” del soggetto che ha inviato la
denunzia) che si sia innanzi ad un fatto costituente reato. In tali ipotesi il
procedimento sarà “autoarchiviato agli atti dell’Ufficio” senza che venga
trasmesso al G.I.P. (e solitamente l’autoarchiviazione è sottoposta al “visto”
del Procuratore della Repubblica oppure del Procuratore Aggiunto).
Le ipotesi di “autoarchiviazione”,
quindi, sono le seguenti:
1) perquisizioni domiciliari
con esito negativo eseguite dalla Polizia Giudiziaria per la ricerca di armi
2) lesioni dovute a cadute
accidentali
3) lesioni dovute ad
ingestione accidentale di farmaci in dose superiore a quella terapeutica
4) decesso per cause naturali
(si pensi al decesso di una persona per una grave malattia terminale)
5) suicidio (quando non sono
ipotizzabili, neppure in via astratta, responsabilità di terzi, altrimenti è
necessaria l’iscrizione a modello 44 o modello 21 per l’art. 580 c.p. anche
perché in tali casi si deve procedere all’autopsia e solitamente
all’accertamento tossicologico)
E’ evidente che in presenza
delle suddette “pseudo-notizie di reato”:
- il P.M. potrà svolgere
limitate indagini al solo ed esclusivo fine di verificare se, appunto, si sia
effettivamente innanzi ad “fatto non costituente notizia di reato” (ad esempio:
escutere il soggetto che ha riportato le lesioni per accertare che esse sono
dovute ad una caduta accidentale oppure ad una ingestione accidentale di
farmaci; escutere i familiari od il medico del deceduto per accertare che la
causa del decesso è stata, appunto, la grave patologìa di cui il paziente era
affetto)
- il P.M. non può, invece,
compiere atti di indagine più “invasivi” (ad esempio una perquisizione, un
sequestro, un’articolata delega d’indagini alla P.G. che preveda l’escussione di
molti soggetti) dovendosi ritenere in tale ipotesi che si sia al di fuori delle
ristrette ipotesi di “pseudo-notizie” sopra indicate
Volendo, invece, schematizzare
le ipotesi in cui non deve procedersi all’iscrizione a modello 45 possono
ricordarsi i seguenti “casi problematici”, ossia quelli in cui ci si trovi
innanzi:
- ad una “querela
incomprensibile” nella quale, comunque, può desumersi che “nelle intenzioni” del
querelante si richiede la punizione di un soggetto per aver “fatto qualcosa di
illecito”: in tali casi dovrà iscriversi a modello 21 oppure 44 (ad esempio per
il reato di cui all’art. 640 c.p.) e richiedere al G.I.P. l’archiviazione per
infondatezza della notizia di reato
- ad un esposto nel quale si
lamentano “comportamenti scorretti” di pubblici amministratori, omissioni,
ritardi, abusi e così via: in tali casi dovrà iscriversi a modello 21 oppure 44
(ad esempio per l’art. 323 c.p. oppure 328 c.p.) e richiedere al G.I.P.
l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato
- ad un “referto medico” nel
quale non si comprende con immediatezza se, ad esempio, la ferita riportata dal
lavoratore è dovuta a violazione della normativa antinfortunistica oppure ad una
mera distrazione (ad esempio, il soggetto si è tagliato il dito mentre sbucciava
una mela durante la pausa pranzo): in tali casi dovrà iscriversi a modello 21
oppure 44 (ad esempio per l’art. 590 c.p.) e richiedere al G.I.P.
l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato
- a “missive inviate per
conoscenza” relative a vertenze sindacali, a segnalazioni nei confronti della
P.A., a missive di “messe in mora” di amministratori pubblici e così via: in
tali casi occorrerà preferire la via dell’iscrizione a modello 21 oppure 44
(ipotizzandosi nelle intenzioni di chi ha inviato l’atto un comportamento
“truffaldino” od “omissivo”) e richiedere al G.I.P. l’archiviazione per
infondatezza della notizia di reato
- ad informative di reato con
le quali la P.G. comunica che un soggetto non ha rispettato l’obbligo di
presentazione quotidiano alla Polizia Giudiziaria, oppure di aver citato un
soggetto per procedere all’escussione e questi non si è presentato: in tali casi
la segnalazione avviene, almeno “nelle intenzioni” della Polizia Giudiziaria,
ipotizzandosi a carico del soggetto comportamenti “omissivi” nei confronti
dell’obbligo di comparizione ricevuto e dovrà, quindi, iscriversi a modello 21
(ad esempio per l’art. 650 c.p.) e richiedere al G.I.P. l’archiviazione per
infondatezza della notizia di reato
- a querele di privati nei
confronti di agenzie di pratiche auto, di concessionarie, di altri soggetti
privati che non hanno proceduto al trasferimento della proprietà di un veicolo
oppure, più in generale, di "casi di inadempimento contrattuale": in tali
ipotesi la denunzia-querela viene presentata, almeno “nelle intenzioni” del
denunziante, ritenendosi configurabile a carico del querelato condotte
“truffaldine” e dovrà, quindi, iscriversi a modello 21 oppure 44 (per l’art. 640
c.p.) e richiedere al G.I.P. l’archiviazione per infondatezza della notizia di
reato
In nessun caso, comunque, deve
procedersi all’iscrizione a modello 45 di una querela, una denunzia, un esposto,
una missiva del contenuto più vario possibile quando il denunziante ha richiesto
di essere avvisato della richiesta di archiviazione ai sensi dell’art. 408 c.p.p..
Ed infatti in tali ipotesi non
può procedersi all’autoarchiviazione del procedimento “agli atti dell’Ufficio”
in quanto vi è la necessità di inviare gli atti al G.I.P. per la deliberazione
sulla richiesta di archiviazione ed il G.I.P., in caso di opposizione della
persona offesa, deve fissare l’udienza camerale dando avviso alla p.o. ed al
soggetto indagato (se identificato).
La gestione dei fascicoli
iscritti a mod. 45 avviene, schematicamente, come segue:
1) fascicoli registrati a
modello 45 contenenti le “psuedo-notizie di reato” sopra elencate: si procede
alla “autoarchiviazione agli atti dell’ufficio” con il “visto” del Procuratore
della Repubblica oppure del Procuratore Aggiunto
2) fascicoli registrati a
modello 45 ma che, in seguito alla limitate indagini esperite si verifica che,
appunto, non si sia innanzi ad un mero “fatto non costituente notizia di reato”:
si procede al “passaggio” di modello disponendo l’iscrizione del fascicolo a
modello 21 oppure 44 per il reato che è emerso (si pensi ad una caduta
accidentale che si accerta essere, in realtà, un’aggressione effettuata con
un’arma; oppure ad una ingestione accidentale di farmaci che si accerta essere,
in realtà, un tentativo di omicidio)
3) fascicoli registrati a
modello 45 da altro collega di cui, però, non se ne condivide l’iscrizione
perché, ad esempio, si ritiene essere innanzi ad una delle ipotesi sopra
ricordate di fatti che sia pure astrattamente possono considerarsi “notizia di
reato”: si procede al “passaggio” di modello disponendo l’iscrizione del
fascicolo a modello 21 oppure 44 per il reato astrattamente ipotizzabile ed a
formulare, quindi, al G.I.P. la richiesta di archiviazione per infondatezza
della notizia di reato
4) fascicoli registrati a
modello 45 ma contenenti una querela, una denunzia, un esposto, una missiva con
la richiesta di essere avvisato in caso di archiviazione ai sensi dell’art. 408
c.p.p.: si procede al “passaggio” di modello disponendo l’iscrizione del
fascicolo a modello 21 oppure 44 per il reato astrattamente ipotizzabile ed a
formulare, quindi, al G.I.P. la richiesta di archiviazione per infondatezza
della notizia di reato dando avviso alla p.o. ai sensi dell’art. 408 c.p.p.
In definitiva la presenza in
un “ruolo” di numerosi fascicoli iscritti a modello 45 appare senza dubbio
superabile e la definizione di tali procedimenti può avvenire, seguendo il
semplice modello organizzativo sopra indicato, in tempi molto rapidi.
D) PROCEDIMENTI ISCRITTI A
MODELLO 46 (ANONIMI)
Si tratta dei procedimenti
iscritti in seguito alla ricezione di un esposto “anonimo” ossia di uno scritto
la cui fonte non è stata possibile identificare.
Si tratta solitamente di
lettere pervenute a mezzo posta senza l’indicazione del mittente o che recano
come mittente un nome di fantasia.
L’art. 333 co. 3 c.p.p. e
l’art. 240 c.p.p. prevedono che tali scritti non possono essere acquisiti né
utilizzati salvo che:
- costituiscano il corpo del
reato
- provengano comunque
dall’imputato
La gestione dei fascicoli
iscritti a mod. 46 avviene, schematicamente, come segue:
1) occorre in via preliminare
verificare se sia possibile identificare il soggetto che ha redatto la missiva
“anonima” pervenuta: in altri termini la prima delega d’indagine avrà ad oggetto
solo ed esclusivamente l’eventuale “rintraccio” del soggetto che potrebbe aver
scritto la missiva sulla scorta dei dati che emergono dal documento (ad esempio,
l’indicazione del “mittente” che compare sulla busta, il nominativo che compare
sul documento, il nominativo che compare sulla “carta intestata” e così via)
2) se l’autore dello scritto
“anonimo” viene identificato dalla Polizia Giudiziaria delegata la denunzia sarà
“trattata” come se si trattasse di una normale denunzia depositata da un
soggetto privato e, quindi, si procederà al “passaggio” di modello disponendo
l’iscrizione del fascicolo a modello 21 oppure modello 44 per il reato
astrattamente configurabile [sono molto rari i casi di “passaggio” di modello ed
iscrizione dell’anonimo a modello 45]
3) se l’autore dello scritto
“anonimo” non viene identificato dalla Polizia Giudiziaria delegata e non
emergono concreti “spunti investigativi” il fascicolo registrato a modello 46
sarà “autoarchiviato agli atti dell’Ufficio, in quanto la genericità di quanto
indicato nell’esposto “anonimo” non consente alcun utile esperimento di
investigazioni”
4) se l’autore dello scritto
“anonimo” non viene identificato dalla Polizia Giudiziaria delegata ma emergono
concreti “spunti investigativi” dovrà procedersi:
a) a formare un autonomo
procedimento, da iscrivere a modello 44 per il reato astrattamente
configurabile, utilizzando lo “spunto investigativo” fornito dall’anonimo [sono
molto rari i casi di iscrizione a modello 21 e modello 45]
b) ad “autoarchiviare” il
fascicolo iscritto a mod. 46 ed alla trasmissione in archivio “per la definitiva
conservazione”
Il sistema appare piuttosto
complesso ma così non è: si allegano, al riguardo, alcuni “modelli” dai quali
può rilevarsi che la gestione di tali procedimenti è in realtà molto semplice e
schematica.
In definitiva la presenza in
un “ruolo” di numerosi fascicoli iscritti a modello 46 appare senza dubbio
superabile e la definizione di tali procedimenti può avvenire, seguendo il
semplice modello organizzativo sopra indicato, in tempi molto rapidi.
Ma l’esercizio dell’azione
penale è veramente obbligatoria? Si chiede
Alessio Anceschi.
I penalisti lo sanno ... non è così. A quanti cittadini (ed avvocati) capita, e
capita sempre più spesso, di vedersi archiviare denunce e querela con le
motivazioni più assurde, semplicemente perché, nella pratica (è inutile girarci
intorno), i Pubblici ministeri non hanno il tempo, le forze o talvolta "la
voglia" di procedere per reati tutto sommato "bagatellari", ancorché (ma questa
è una mio opinione) i reati bagatellari non esistono (si suole spesso definire "bagatellari"
i reati che capitano "agli altri", fino a quando non coinvolgono NOI). Eppure il
dato è allarmante, viene oramai archiviato qualsiasi tipo di denuncia o querela
che non rivesta una particolare gravità, con una serialità quasi da "addetti
postali al timbraggio". Poi si ci lamenta che tanti reati non vengano neppure
più denunciati, soprattutto quando, per sporgere una denuncia, molto spesso
bisogna tornare nelle varie caserme almeno 3 o 4 volte di seguito perché una
volta manca il maresciallo, un'altra volta ha da fare e la terza non ha la biro.
Le motivazioni apposte sono poi le più incredibili e se fossero "serie" allora
ci sarebbe ancora più da preoccuparsi. Eppure ... leggo nientemeno che la
Costituzione, con la C maiuscola nella quale è scritto che "il Pubblico
ministero HA l'OBBLIGO di esercitare l'azione penale"!! Ma si sà, è un obbligo
"vuoto", privo di effettiva sanzione. Si ci provi pure a fare opposizione
all'archiviazione, con l'obbligo di allegare nuove fonti di prova quando già le
prime sono state ignorate. Si aggiungerà una perdita di tempo ad una precedente
perdita di tempo (quella di recarsi a far denuncia). Ma si sà, così và il mondo
... quello che finirà presto. Rimane il rammarico, il rammarico di chi crede
nella Giustizia (questa sì, con la G maiuscola) e crede che questa serve a
difendere il giusto e l'onesto dalle prevaricazioni e dagli abusi altrui, o che
i cattivi debbano scontare una qualche tipo di pena. oramai è come credere a
babbo Natale!! C'era un tipo, nell'antichità, che si presentò ad un esercito
invasore con un libro di leggi in mano. Non vi dico la fine che fece. Speriamo
di non fare la stessa !!!
A fronte dell’accoglimento di
denunce stupide, si riscontra il fenomeno delle denunce insabbiate. Tralasciando
la vicenda del dr Antonio Giangrande, che denunciando dei casi di illegalità
territoriale, andando su su in ordine di competenza funzionale giudiziaria, si
è scontrato con il fenomeno dell’insabbiamento delle denunce contro i poteri
forti: abusi ed omissioni. Questa attività di ribellione lo ha portato sì
inascoltato fin alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma gli ha procurato
parecchie ritorsioni da parte delle toghe. Esperienza raccontata nei suoi libri.
Ma esemplare è il caso del Maresciallo contro i giudici: «Dieci anni di pratiche
insabbiate», scrive “Il
Giornale”. Ha scritto al presidente Giorgio Napolitano, è andato a parlare
con i funzionari del Quirinale, è stato indirizzato al Consiglio superiore della
magistratura e si è presentato anche lì. Ma non è servito a nulla. Fabrizio
Adornato, maresciallo dei carabinieri e padre separato da dieci anni, non riesce
a ottenere che la magistratura gli dia una risposta. Da anni è ormai vittima di
una separazione dolorosa dalla moglie e, come tanti altri genitori, vive con
incredibili difficoltà quanto imposto dalla sentenza civile. Sia dal punto di
vista economico, sia da quello affettivo nei confronti della figlioletta. Ma
soprattutto, Fabrizio Adornato in quasi dieci anni di separazione, ha vissuto
lunghe battaglie con la ex moglie e la ex suocera, ha sempre provato a
rivolgersi ai magistrati, ma non ha trovato soddisfazione. Da uomo di legge qual
è, si è affidato alle denunce, alle segnalazioni. Ha denunciato assistenti
sociali e psicologi con nomi precisi e registrazioni di colloqui, ma si è visto
archiviare l'indagine
peraltro avviata contro «ignoti». Non si è spaventato quando ha trovato porte
sbarrate. Certo dell'autonomia
dei magistrati, si è anche rivolto ad altri magistrati quando riteneva di aver
subito torti. In altre parole, Adornato ha denunciato anche sei magistrati,
sempre portando a sostegno delle sue tesi tutte le documentazioni che poteva. Le
sue vicissitudini le ha raccontate su un blog senza timore di scrivere anche
tutti i nomi dei giudici con i quali si è scontrato. Ma per l'appunto,
non ha ancora avuto risposte alle sue richieste di giustizia. Tuttora non riesce
a sapere che fine hanno fatto le sue denunce contro i magistrati. Sente dire che
gli stessi non sono al di sopra della legge e che anche loro possono essere
perseguiti dai colleghi se sbagliano, ma non è ancora riuscito neppure a farsi
dire se esiste un procedimento a carico di quei magistrati che lui ha
denunciato. Nel novembre scorso ha scritto a Napolitano e un funzionario del
Quirinale spiegandoli che colui che presiede il Csm non ha titolo per
intervenire, ma che ha girato la pratica all'organo
di autogoverno dei giudici. Lì Adornato è andato e si è sentito rispondere che
«ci vorrà del tempo» per capire che fine hanno fatto le sue denunce, per
verificare se per caso ci siano state omissioni da parte di magistrati. Da mesi
aspetta anche questa risposta e ora ha deciso di mettere in atto proteste anche
clamorose. «Farò uno sciopero della fame a Roma - spiega il maresciallo dei
carabinieri - Qualcuno dovrà almeno chiedersi perché sto protestando. Resto
convinto che la magistratura sia in larga parte sana, ma sono preoccupato se
nessuno interviene quando ci sono violazioni. Il cittadino si trova a sbattere
contro un muro di gomma quando prova a contrastare con i mezzi che gli offre la
legge questo potere». Dopo dieci anni, solo silenzi.
Ma la realtà taciuta va oltre
ogni ordinaria immaginazione. Ogni giorno a Milano quattro donne denunciano di
essere vittima di maltrattamento, scrive Paola D’Amico su “Il
Corriere della Sera”. Un numero
piccolo, sottostimato, se lo analizziamo dalla prospettiva delle operatrici dei
centri antiviolenza, secondo le quali è solo la punta dell’iceberg di un
fenomeno tanto diffuso quanto sottaciuto, trattenuto come
un segreto di cui vergognarsi o una verità che
non si vuole accettareda molte donne,
giovani e meno giovani, italiane e straniere, povere e ricche. Un
numero che, invece, s’ingigantisce enormemente se pensiamo, poi, al ruolo che
ciascuna donna ha nella società, come figlia, madre, nonna, come lavoratrice,
calata nella sua rete amicale, che può come può non essere coinvolta
nell’intimità di un tale dramma domestico.
Ma le cifre della violenza sulle donne sono anche quelle delle denunce che si
chiudono troppo in fretta con richieste di archiviazione dalle Procure, quella
di Milano in testa. I dati diffusi dalle volontarie della Casa di accoglienza
delle donne maltrattate (Cadmi) di Milano suonano come un grido d’allarme:
nell’ultimo anno 945 uomini sono stati indagati
per stalking, 1.545 per maltrattamenti in famiglia, 920 per violazione degli
obblighi di assistenza familiare. L’elemento più
preoccupante «è che nella maggior parte di questi casi le denunce, già in sé non
corrispondenti alla totalità “vera” degli episodi, restano senza seguito». Molto
spesso, infatti, ha segnalato l’avvocato Francesca Garisto, le indagini
si concludono con richieste di archiviazione formulate dalla stessa Procura:
512 su 945 per quanto riguarda lo stalking e addirittura 1.032 su 1.545 per i
maltrattamenti in famiglia. «A volte — ha spiegato il legale — la Procura non
ritiene sufficiente un solo certificato medico o ritiene le denunce
pretestuose». Altre volte è il contesto circostante, a cominciare da amici e
parenti, che induce le stesse vittime a minimizzare: «Ma ridurre questi episodi
alla semplice conflittualità familiare è sbagliato e tale definizione — insiste
l’avvocato Garisto — non fa che occultare il reale fenomeno della violenza
familiare, sottovalutando la credibilità di chi denuncia i maltrattamenti
subiti». Critiche le esperte anche sul ricorso alla mediazione (l’ufficio è
gestito dalla Polizia Locale), con vittima e carnefice che vengono «messe sullo
stesso piano», pratica definita «poco virtuosa» da chi opera sul campo.
Troppo poche anche le misure cautelari
richieste dai pm (in un caso ogni otto), considerato che la nostra
regione ha il primato nazionale dei femminicidi.Tanto più grave è ritenuto tutto
ciò, se si analizza come sta crescendo la consapevolezza delle donne: lo scorso
anno le denunce per stalking sono state 945; nel 2009 erano state meno della
metà (per l’esattezza 430). Eppure ancora oggi più del 67 per cento delle donne
che bussano alla Cadmi in cerca di aiuto finisce comunque per non rivolgersi
anche alla magistratura. La presidente Manuela Ulivi ha aggiunto:
«La denuncia ancora non appare alle donne uno
strumento utile di uscita dalla violenza e di tutela: anzi proprio in
seguito alla presentazione della denuncia, purtroppo, spesso si vive il momento
di rischio maggiore». Lasciando l’ultima parola ai numeri: tra tutte le
telefonate ricevute dalla Casa di accoglienza, la percentuale dei casi di
violenza psicologica o fisica oscilla tra il 70 e l’87 per cento, un quarto del
totale riguarda situazioni di violenza economica, il 15 per cento è stalking e
il 13 per cento violenza sessuale: percentuali che talora si sovrappongono,
perché un fatto non esclude gli altri. Ed è un dato di fatto ormai consolidato
che i contesti più «pericolosi» sono quelli teoricamente più sicuri: l’86 per
cento delle violenze sessuali viene subita da persone che si conoscono, 67 volte
su cento tra le mura domestiche. E ancora: il
46 per cento dei maltrattamenti avviene a opera dei mariti, 52 per cento se al
conto si aggiungono gli ex mariti. Quanto alle vittime, quasi
sette su dieci di quante presentano una
denuncia sono italiane e poco più della metà ha un’età compresa tra i
28 e i 47 anni: sei su dieci hanno un lavoro e un livello culturale elevato. Tra
le straniere le più colpite risultano essere le romene e le peruviane: ma anche
questo dato, naturalmente, è riferito solo a quante denunciano i fatti.
Duro atto d'accusa di avvocate
e operatrici della Casa di accoglienza delle maltrattate (Cadmi) nei confronti
di tribunale e magistrati del capoluogo lombardo "colpevoli" di ricondurre a
manifestazioni di 'conflittualità familiare' i racconti delle maltrattate
sottovalutando la credibilità di chi si rivolge alla giustizia, scrive
Stefania Prandi
su “Il
Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è
giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa
sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di
Milano (Cadmi) che puntano il dito
contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul
serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati presentati il 14
maggio, durante la conferenza stampa alla
Libreria delle donne, su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia
(articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal
Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842
sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che
più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma
costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state
1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce,
542 sono state archiviate. “La tendenza è di archiviare, spesso ‘de plano’,
cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce
manifestazioni di ‘conflittualità familiare’ – spiega Francesca Garisto,
avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico,
che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione
della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento
grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di
Milano”. Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i
casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: “Dopo una
denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il
pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come
espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come
possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio”. Scarsa anche la presa
in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del
codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta
l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che
impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono
aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era
migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel
2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel
2010. I numeri forniti dalla Cadmi sono consultabili sul sito della procura di
Milano, nel rapporto “Bilancio di
responsabilità sociale 2011-2012”. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca
fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi
ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza
denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di
separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a
vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata
dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite
dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori,
per un totale di 259 bambini. “Nonostante le forti critiche, il nostro confronto
con le autorità competenti resta aperto – sottolinea Ulivi – Anche perché la
sottovalutazione della gravità delle denunce è solo uno dei problemi che ci
troviamo ad affrontare quando parliamo di violenza contro le donne. Non
dimentichiamo, infatti, che mancano i fondi per le case di accoglienza, che
quando ci sono vengono distribuiti a casaccio e che quindi la maggior parte del
nostro lavoro resta basato sul volontariato”.
E poi il paradosso. L’assalto
degli abusivi, l’inutile denuncia alle forze dell’ordine, la beffa di dover
fornire i documenti, mentre loro, i tassisti fuori legge, si allontanano tra la
folla, scrive “Il
Messggero”. E’ la disavventura capitata alla senatrice radicale Donatella
Poretti e alla deputata Pd Paola Concia. «In quel suk della Stazione Termini
siamo state trattate come delinquenti dalle forze dell’ordine, solo per aver
indicato dei tassisti abusivi. Ci è mancato poco che finissimo in caserma». Il
treno che portava le due parlamentari a Roma è arrivato a Termini alle 10.45:
Poretti e Concia escono su piazza Cinquecento e si accodano alla lunga fila in
attesa dei taxi. Lì vengono «assalite» dai tassisti abusivi, che cercano di
convincerle a salire a bordo. «Alle prime - raccontano - abbiamo intimato loro
un attenti che vi denunciamo. Poi ci siamo dirette da un carabiniere che era lì
e lo abbiamo invitato a intervenire». Le due restano allibite dalla risposta:
«Io non vedo niente ci ha detto andate in caserma e sporgete denuncia se
credete». Intanto gli abusivi si allontanano, Poretti e Concia si accalorano per
la reazione del carabiniere. A quel punto, l'uomo chiede loro i documenti,
Poretti e Concia mostrano le tessere parlamentari. «Il carabiniere
- racconta Concia - si rende conto di avere tra le mani due tessere
parlamentari, prende gli estremi e chiama altri uomini dell'Arma. Ci hanno
tenute lì diverso tempo, se fossimo state due semplici cittadine ci avrebbero
portate in caserma. Trattate, di fatto, come delinquenti per aver tentato di
denunciare dei tassisti abusivi». Non è finita qui. Nel mirino degli uomini
dell'Arma, a quanto raccontano Concia e Poretti, finisce anche il ruolo delle
due. «Davanti al tesserino da parlamentari - racconta Poretti - un carabiniere
ci ha apostrofato: Eccola qua, la solita casta». «Eppure - sottolinea Concia -
noi ci siamo rivolte alle forze dell'ordine anche per il ruolo che rivestiamo,
non potevamo chiudere gli occhi e far finta di nulla». Più tardi Poretti si è
rivolta alla polizia del Senato, da qui la decisione di presentare - come è
stato fatto - un’interpellanza al ministro della difesa nella quale si chiede un
atto di sindacato ispettivo interno all’Arma ai fini di accertare l’operato del
carabiniere, identifiandolo e più in generale delle caserma dei carabinieri
della stazione Termini. I carabinieri hanno fatto sapere che dopo l’indagine
interna risponderanno all’interrogazione.
MORIRE DI
BOTTE.
Poliziotti indagati: Sconfitta l'omertà.
Il caso Aldrovandi di Milano
si chiama Michele Ferrulli, morto durante un controllo di polizia
il 30 giugno 2011. La figlia
di Ferrulli a Simone Bianchini su “La
Repubblica” : “Non mi
sono mai arresa, mio papà avrà giustizia”.
Michele è stato
ammazzato, racconta “MilanoX”
in quel quadrilatero di case popolari a ridosso dell’Ortomercato di Milano, tra
via del Turchino e via Varsavia. “Hanno paura della polizia” ci aveva detto la
figlia di Michele, Domenica Ferrulli. E infatti da quel giorno il quartiere
piombò nella più totale omertà, quando non addirittura ostilità nei confronti di
Domenica. “Gente che prima dell’uccisione di mio padre mi salutava, dopo si
girava dall’altra parte facendo finta di non conoscermi” aveva raccontato
Domenica. Il pm della Procura Gaetano Ruta, nella chiusura delle indagini, ha
usato parole impietose: Michele Ferrulli venne percosso “ripetutamente” anche
“con l’uso di corpi contundenti” quando era già “immobilizzato a terra, non era
in grado di reagire e invocava aiuto”. Gli agenti indagati sono quattro, due del
commissariato di Mecenate e due della Questura di via Fatebenefratelli:
Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo.
E’ stato un anno di indagini difficili, rese ancor più complicate da Prefettura
e Questura che hanno fino all’ultimo cercato di coprire gli agenti, gettando
fango su Michele (le solite cose, era ubriaco, aggressivo, aveva precedenti
penali…). Non solo, questa è anche una vicenda di
indagati non intercettati e testimoni chiave spariti.
Indagati non
intercettati e un testimone chiave sparito dice "E-Il Mensile". Domenica
Ferrulli ha potuto leggere nei fascicoli d’indagine sulla morte di suo padre
Michele soltanto le parole che lei stessa ha pronunciato al telefono, oltre
quelle dei due testimoni rumeni, dei quali, tra l’altro, uno ha fatto perdere le
proprie tracce. Nessun accenno, dunque, a quello che si sono detti i quattro
agenti intervenuti la sera del 30 giugno scorso in via Varsavia, a Milano,
quando il 51enne è morto davanti agli uomini in divisa. Niente di niente. Cosa
insolita: di solito le intercettazioni telefoniche e ambientali degli indagati
abbondano nei fascicoli d’inchiesta dei casi di omicidio. Basti pensare alle
principali storie di cronaca nera degli ultimi anni: giornali, televisioni,
radio e siti internet hanno pubblicato e ripubblicato le frasi dei vari
coinvolti, spesso buttando via inchiostro per conversazioni che nulla hanno a
che fare con le varie vicende. Questa volta non è andata così, le parole dei
poliziotti sono ormai disperse nell’etere. Oltre all’assenza di intercettazioni
tra le divise, però, c’è un altro particolare che getta un – inquietante – alone
di mistero sulla vicenda: la scomparsa di un amico rumeno di Ferrulli, presente
anche lui in via Varsavia quella maledetta serata di fine giugno.
“Lo hanno picchiato in tanti, e alla fine Michele è caduto a terra…”, con queste
parole Emilan Nicolae, 45 anni, anche lui testimone dei fatti, ha descritto gli
eventi al pm, aggiungendo di aver sentito il suo amico gridare aiuto. La
testimonianza, però, non arrivò immediatamente, ci volle qualche giorno perché
l’uomo si recasse in procura per parlare di quello che aveva visto. Perché non
lo disse subito? “Mi sentivo confuso”, così rispose agli investigatori l’amico
della vittima. L’altro testimone, però, ha fatto perdere le sue tracce. Pare sia
tornato in Romania, non vuole sapere più nulla di questa storia. Ma le sue
parole potrebbero rivelarsi fondamentali per risolvere il mistero. Al momento,
né il pm né la famiglia Ferrulli (le cui istanze sono portate avanti
dall’avvocato Fabio Anselmo) hanno sue notizie. Ad ogni modo, i fascicoli
dell’indagine aiutano a ricostruire la vicenda, grazie alla combinazione delle
immagini fornite da un telefonino e da una telecamera di sorveglianza della
farmacia. Sono le 22 e 07 quando in via Varsavia arriva una volante: un
residente della zona aveva chiamato il 113, lamentandosi per alcuni rumori
molesti. Ferrulli è lì, “si pone davanti al poliziotto”, l’agente sembra non
scomporsi e “si allontana dalla zona di contatto, Ferrulli lo segue e una volta
fermato si mette davanti a lui”. Si avvicina un altro uomo in divisa e colpisce
l’uomo con uno schiaffo. A questo punto arriva una seconda volante. Alle 23 e
30, Ferrulli è immobilizzato a terra, chiede aiuto. I poliziotti, però, non
sembrano preoccupati: lo colpiscono “ripetutamente” infatti, mentre lui non
aveva più alcuna possibilità di opporre resistenza. Non ci sarà più nulla da
fare, l’uomo cede, inutili i tentativi di rianimazione. Quel 30 giugno, Michele
Ferrulli era uscito con gli amici, ha bevuto qualche birra, ha incontrato la
polizia ed è morto. L’indagine – al solito complicatissima, quando ci si imbatte
in casi del genere – è condotta dal pm Gaetano Ruta che ha indagato quattro
agenti (due del commissariato di Mecenate e due della Questura di via
Fatebenefratelli); Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e
Sebastiano Cannizzo, per omicidio colposo e falso ideologico, per aver artefatto
il rapporto su quanto accaduto. Secondo l’accusa, gli agenti avrebbero ecceduto
“i limiti del legittimo intervento”. Ma non sono solo i filmati a puntare il
dito contro i poliziotti, c’è anche una perizia – eseguita da Gaetano Thiene
dell’Università di Padova – che parla di un decesso improvviso, avvenuto
“durante un’azione di contenimento e accompagnato da percosse di agenti della
polizia”. A causare la morte, per Thiene, è stato “un violento attacco
ipertensivo, verosimilmente precipitato dallo stress emotivo del contenimento,
dall’eccitazione da intossicazione da alcool e dalle percosse con tempesta
emotiva e iperattivazione adrenergica”. Ferrulli era alto un metro e ottanta,
pesava 147 chili e aveva un cuore piccolo per la sua mole, appena 700 grammi.
Particolari che hanno concorso ad ucciderlo.
«Per me è un grande giorno, le indagini sulla
morte di mio papà sono terminate e ci sono quattro agenti di polizia indagati
per omicidio colposo e falsità ideologica». La linea del pm Gaetano Ruta premia
la volontà della figlia di Michele Ferrulli - Domenica, 26 anni, un marito e 2
figli - che dalla sera del 30 giugno dell' anno scorso, quando è morto suo
padre, ha cominciato e portato avanti, caparbiamente con speranza e fiducia, una
lotta serrata perché si stabilisca e si accerti la verità di quanto avvenuto
quella sera. Il pm ha comunicato la chiusura delle indagini formalizzando le
accuse ai quattro agenti. «Un passo davvero grande che arriva al termine di un
percorso lungo e difficile - racconta Domenica - se io mi fossi arresa non
saremmo arrivati a questo. Mi sono scontrata con l'omertà, la paura delle
persone. Tanto silenzio, c' erano dei testimoni oculari che sono scappati, erano
persone che pensavamo fossero nostri amici e che quella sera ci avevano
sostenuto». Invece poi è successo qualcosa: «Hanno minacciato me e la mia
famiglia dicendoci che loro non volevano essere interrogati, non volevano dire
la verità, avevano paura della polizia e mi chiesero di tenerli fuori da questa
vicenda. Io non mi sono fermata, ho raccontato al pm tutto quello che loro mi
avevano raccontato. E poi sono arrivate le minacce a mio fratello: gli stessi
testimoni, forse a loro volta minacciati da qualcuno, gli dicevano di riferirmi
che col tempo l' avrei pagata e che non avrei dovuto dire nulla». I familiari di Ferrulli non si sono fermati, sono andati avanti, Domenica ha trovato l'aiuto
della mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti, della sorella di Stefano
Cucchi, Ilaria, e della sorella di Giuseppe Uva, Lucia. Parenti di supposte
vittime delle forze dell' ordine: «Mie compagne di battaglia. A loro, che devono
combattere anche contro i pm, va un grazie speciale perché mi hanno indirizzato
verso la strada giusta». «Fondamentale» l'arrivo dell' avvocato Fabio Anselmo,
già difensore proprio dei parenti di Cucchi e Uva: «Ci era stato detto, dalla
procura, che stavamo andando incontro ad una archiviazione sicura del caso -
spiega Domenica Ferrulli - . Il rischio era che non si parlasse più di mio
padre, che tutto venisse sepolto con lui. Ma dentro di me gli avevo fatto una
promessa, ancora accesa: che avrei fatto luce su quel che gli è successo. Era un
padre, un marito e un grandissimo nonno che mi manca moltissimo». Le indagini
difensive hanno portato alla luce nuove prove: «Le testimonianze, i video, tutto
quello che siamo riusciti a raccogliere ha convinto il pubblico ministero a non
archiviare ma a studiare i fatti. Così è stata rintracciata e interrogata l'
autrice del video girato quella sera in via Varsavia, in cui si vedono i
poliziotti che picchiano mio padre a terra, ammanettato e mentre chiede aiuto.
Facendo questo ne hanno provocato la morte: io sono convinta che se loro non lo
avessero picchiato, mio padre quella sera sarebbe tornato a casa. Non sarebbe
morto». Per l' avvocato Anselmo, «indagare gli agenti è una decisione molto
importante. Significa riuscire a portare il caso in un processo e rendere
giustizia a un uomo che non era violento ma ha subito violenza dagli agenti».
Quello che resta, nel cuore di Domenica e di sua mamma Caterina, è un altro
dispiacere: «Il fango su mio papà. Dissero che mio padre era un pregiudicato
aggressivo, un delinquente. Bugie e cattiverie, adesso avrà giustizia».
Alle 9.30 del 20 luglio 2012 -
scrive Claudia su “Abuso
di Polizia” - si è tenuta l'udienza preliminare per il
processo di Michele Ferrulli. Di fronte al tribunale di Milano in via Manara
erano presenti la figlia della vittima, Domenica Ferrulli, il fratello Francesco
e la Signora Ferrulli; nei loro volti era assolutamente palpabile la tensione,
occhi lucidi, ma con il cuore fermo e deciso a volere e gridare giustizia. Al
loro fianco, come una vera grande famiglia allargata Lucia Uva, sorella
di Giuseppe Uva pestato a morte in caserma; Massimo Uccheddu, figlio di
Carrus Maria Rosanna, Luigi Vittorino Morneghini l'uomo di 63 anni
aggredito il 20 maggio 2011 nella periferia di Milano da due poliziotti in
borghese e Luciano isidro Diaz, massacrato di botte da degli agenti di
polizia. A pochi metri di distanza dal tribunale un presidio di persone ha
manifestato per chiedere giustizia per Michele, un vero atto di solidarietà
civile da parte dei vicini di Michele, gli amici, ma anche gente normale,
sensibile alla vicenda, scesa in piazza perchè sdegnata dall'ingiustizia subita
da Michele Ferrulli; molte persone hanno parlato, ricordando che oggi è anche
l'anniversario della morte di Carlo Giuliani, ragazzo ucciso dall'agente di
polizia Mario Placanica nei tragici giorni del G8 di Genova nel 2001. Prima di
entrare in aula riusciamo a cogliere una battuta carica di speranza
dell'avvocato della famiglia Ferrulli, Fabio Anselmo, noto per aver assistito
altri familiari di vittime dello stato come Aldrovandi e Cucchi; l'avvocato ha
dichiarato
"oggi è un giorno importante",
e lo è stato. Gli avvocati dell'accusa e della difesa hanno parlato davanti ai
microfoni del tribunale di Milano. L'accusa ha chiesto e ottenuto dal Gip il
rinvio a giudizio dei i quattro agenti per "omicidio colposo" e "falso
ideologico". E' stato anche presentato il video che mostra con sconcertante
evidenza il pestaggio dell'uomo, che subisce almeno nove manganellate sul corpo,
ormai riverso a terra; il video è stato rielaborato dalla procura di Milano
rendendolo ancora più chiaro e nitido rispetto alla versione originale, anche se
pure in quella era comunque cristallino l'abuso realizzato dagli agenti e
perpetrato nei confronti di Michele Ferrulli. La difesa di tutta risposta
controbatte che il video in realtà non mostra niente di assolutamente evidente,
che i familiari della vittima si sono lasciati suggestionare dalle immagini,
vedendo cose che non in realtà non c'erano. Il video parla chiaro: "Hai visto il
cazzotto in bocca che gli danno?", dice la voce fuori campo, mentre a pochi
metri Michelle Ferrulli giace sotto i colpi delle forze dell'ordine. Il video
era noto, ora si conosce anche il proprietario. La figlia di Michele, Domenica
Ferrulli, ha fatto tradurre le parole dei testimoni rom.
Ed alla fine la caparbietà ed
il coraggio delle vittime ha trovato riscontro e ristoro, quindi corrispondenza,
nel buon cuore ed illibata coscienza di un magistrato fuori dal coro. “Il
Corriere della Sera” e “La
Repubblica” raccontano che Il gup milanese Alfonsa
Ferraro ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio preterintenzionale i
quattro poliziotti che avrebbero percosso nel corso di un arresto
Michele Ferrulli, il 30 giugno 2011 a Milano,
quando era già "immobilizzato a terra". I poliziotti sono Francesco Ercoli,
Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo. Secondo la
Procura, quando l'uomo "si trovava a terra in posizione prona, era immobilizzato
e invocava aiuto",
i quattro lo avrebbero
colpito "ripetutamente
anche con l'uso di corpi contundenti". L'uomo, un facchino, di 51 anni, quella
sera morì per arresto cardiaco. Il giudice ha riqualificato l'ipotesi di reato
da cooperazione in omicidio colposo a omicidio preterintenzionale, rinviando
direttamente gli agenti davanti alla Corte d'assise. Il processo per loro
inizierà il prossimo 4 dicembre 2012. "E' un ottimo inizio", ha commentato
Domenica Ferrulli, figlia di Michele. "Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna
abbiamo avuto la fortuna di trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza
voler nascondere nulla a nessuno". Già però il PM ha tentato di affibbiare un
reato meno grave di quello che in effetti il GUP ha disposto. Magagne
giudiziarie per rendere l’impunità? A richiedere il processo per gli agenti era
stato il pubblico ministero Gaetano Ruta, che da un'iniziale ipotesi di omicidio
preterintenzionale aveva poi chiuso le indagini nei confronti dei quattro con
l'ipotesi di cooperazione in omicidio colposo. Secondo l'accusa, gli agenti
avrebbero "ecceduto i limiti del legittimo intervento", concorrendo "a
determinare il decesso" dell'uomo, dovuto fra le altre cose "alle percosse". Ferrulli si trovava in via Varsavia, alla periferia sud-est di Milano, vicino a
un bar, dove una volante della polizia intervenne perché da una casa vicina
erano arrivate lamentele per i continui schiamazzi in strada. L'uomo, con
precedenti penali per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, stando a quanto
era stato riferito in questura, quella sera era ubriaco, "aggressivo e ostile".
I poliziotti, secondo il pm, avrebbero agito "con negligenza, imprudenza e
imperizia, consistite nell'ingaggiare una colluttazione eccedendo i limiti del
legittimo intervento, percuotendo ripetutamente la persona offesa in diverse
parti del corpo (pur essendo in evidente superiorità numerica) e continuando a
colpirlo anche attraverso l'uso di corpi contundenti". Il gup di Milano Alfonsa
Ferraro ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio preterintenzionale i 4
poliziotti che avrebbero percosso «ripetutamente» nel corso di un arresto a
Milano il 30 giugno 2011 Michele Ferrulli, quando era già «immobilizzato a
terra». L'uomo, manovale, di 51 anni, quella sera morì per arresto cardiaco. Il
giudice ha riqualificato l'ipotesi di reato da cooperazione in omicidio colposo
ad omicidio preterintenzionale, rinviando direttamente gli agenti davanti alla
corte d'assise. Il processo per loro inizierà il 4 dicembre 2012. «È un ottimo
inizio. Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di
trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza voler nascondere nulla a
nessuno». Così Domenica Ferrulli, la figlia del 51enne morto durante un
controllo di polizia in via Ferraro, ha commentato la decisione del giudice per
l’udienza preliminare non solo di rinviare a giudizio i 4 poliziotti accusati di
aver pestato a morte Michele Ferrulli, ma di riqualificare l’imputazione da
«cooperazione in omicidio colposo per eccesso colposo dell’adempimento del
dovere» nella più grave di «omicidio preterintenzionale». Luigi Manconi,
presidente dell'associazione A Buon Diritto, giudica «estremamente importante»
la notizia della riqualificazione del reato: « Più volte abbiamo denunciato la
scarsa corrispondenza tra un atto di fermo che avviene con modalità
evidentemente abnormi, tali da non escludere conseguenze mortali, e un titolo di
reato palesemente inadeguato. La verità è che, anche di recente, tra Milano e
Roma, si sono verificati numerosi casi di "omicidio preterintenzionale" nel
corso di fermi. Nella maggior parte di queste vicende - conclude Manconi - il
nesso di causalità tra violenza dell'azione di fermo e morte del fermato è stato
ignorato. Questa volta, grazie alla tenacia di Domenica Ferrulli, figlia della
vittima, e dell'avvocato Fabio Anselmo, si è aperto uno spiraglio di verità».
Michele il gigante e quegli
scontri per le cosa occupate, scrive Gianni Santucci su "Il
Corriere della Sera".
Lotte e denunce per aggressione. La rabbia. La scritta Ferrulli "un mese fa
aveva aggredito il prete di zona per strada accusandolo di aiutare solo gli
extracomunitari". Aveva occupato un appartamento vent'anni prima. Ora lì resta
una scritta: «Sanatoria a chi occupa per necessità».
«Ci hanno chiamato dal bar e siamo scesi di corsa, è proprio dietro casa».
Domenica Ferrulli parla dall'ospedale, è la mezzanotte di giovedì, ha seguito
l'ambulanza che dopo l'arresto ha portato il padre Michele al pronto soccorso,
l'uomo è già morto. La ragazza, 25 anni, dice che farà «denuncia». È scossa, la
voce rotta, passa il cellulare a un familiare che racconta: «Ci siamo avvicinati
e Michele era a terra. Abbiamo chiesto cosa stesse succedendo. I poliziotti ci
hanno detto che aveva cercato di aggredirli e avevano dovuto immobilizzarlo».
Continua la ragazza: «Ma non è andata così, l'hanno picchiato. Una donna è
uscita dal bar e ha urlato "raccontate la verità"». E ancora: «Ci sono i
testimoni e il video. Mio padre ha segni sui polsi a causa delle manette e altri
lividi dietro l'orecchio» (nei referti dell' ospedale di San Donato, di questi
segni vicino alla testa non c'è traccia). Inizia così, con questa telefonata al
Corriere, la storia di una serata balorda fuori da un bar alla periferia sud-est
di Milano, di fronte ai mercati generali della città. È qui che Michele Ferrulli
aveva occupato un appartamento, vent'anni fa. Sul caseggiato ora campeggia una
scritta: «Sanatoria a chi occupa per necessità». Lo striscione, lassù
all'ingresso, l'aveva appeso lui. È firmato: «Comitato Turchino». Turchino è la
via, e il comitato è uno tra i più attivi, in difesa degli abusivi storici delle
case popolari milanesi. Di quel gruppo Ferrulli era un pezzo storico, un
sostenitore. «Era un figlio del popolo», dicono qui. E una sorta di avvocato
difensore un po' per tutti, in questo quartiere complicato. Aggiungono due
particolari, i conoscenti, che sono forse utili per capire cosa è accaduto
l'altra notte durante l'arresto. «Appena c'era una discussione, lui si metteva
comunque in mezzo. Per aiutare, per difendere». La domanda è: difendere da chi?
Da una pattuglia che sta facendo un controllo? Per qualcuno, in queste strade,
il poliziotto o il carabiniere sono sempre e comunque intrusi, «rompiballe»,
anche se a chiamare il 113 per schiamazzi è un altro abitante. Qui molti
ragazzotti dicono sbirro, e lo fanno con disprezzo. L'uomo morto dopo l'arresto
di mercoledì sera era una montagna, molti chili di troppo accumulati negli
ultimi anni, gli occhi chiari, origini pugliesi. Aveva avuto una piccola impresa
di idraulica e riparazioni di caldaie, chiusa l'anno scorso. Teneva però ancora
il furgone, con cui si arrangiava per piccoli lavoretti, edilizia e traslochi.
Ma chi voleva «difendere» Ferrulli l'altra sera? E soprattutto, da cosa? In
realtà gli agenti della Volante, chiamati per schiamazzi, stavano solo
identificando i due uomini romeni che erano in strada vicino a lui, con la birra
in mano e la musica dell'autoradio troppo alta. Di certo, non c'era niente da
cui «difendersi». Era un controllo di routine, una cosa da niente, un intervento
che di solito si risolve con quattro parole e nessuna conseguenza. Un controllo
che però, adesso, qualcosa rivela: con uno dei due romeni, Ferrulli era stato
controllato nell'ottobre dell'anno prima. Erano insieme in un bar, non volevano
pagare, erano molesti e la titolare chiamò la polizia. Non è il solo precedente
che aveva, negli archivi delle forze dell'ordine ce ne sono per lesioni,
danneggiamento, «insolvenza fraudolenta». L'ultimo episodio è del 18 maggio: un
parroco della zona ha chiamato i carabinieri denunciando di essere stato
aggredito. Ai militari del Nucleo radiomobile il sacerdote ha raccontato che,
mentre camminava per strada, ha incrociato Ferrulli che passava col furgone e
l'ha salutato. Lui però si è fermato e, ha denunciato il parroco, «mi si è
avvicinato e mi ha tirato uno schiaffo, poi mi ha detto una frase del tipo "voi
preti siete delle merde, aiutate solo gli extracomunitari", alla fine mi ha
colpito altre due volte». L' uomo e la sua famiglia erano entrati da anni in una
sorta di spirale abbastanza comune nelle case popolari di Milano: una vecchia
occupazione (auto)giustificata «per necessità»; la denuncia che pregiudica una
successiva assegnazione regolare; una sorta di limbo per cui si rimane
nell'appartamento anche per decenni, ma sempre col rischio di uno sgombero. In
quella casa di via del Turchino, Ferrulli era entrato nel 1991 con la moglie e
la figlia piccola, poi era arrivato un altro figlio, infine cinque anni fa anche
un nipote. Aveva ristrutturato l'appartamento e pagava una sorta di «indennità
d'occupazione». Nel 2007 aveva resistito a uno sgombero. Si era rivolto al
Comitato inquilini «Molise-Calvairate-Ponti», storica associazione di cittadini
che da decenni aiuta questa parte dolente di città, spesso dimenticata dalle
istituzioni. Prima e dopo quello sgombero, Ferrulli aveva però difeso tante
altre famiglie, come la sua «occupanti per necessità». L'aveva fatto con le
manifestazioni e le mobilitazioni. Quella era la sua «battaglia giusta».
Morti di botte, il filo
rosso, scrive Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”.
Da Stefano Cucchi a Giuseppe
Uva, fino ad Aldo Bianzino: le difficilissime inchieste per stabilire la verità
sulle persone che in Italia vengono arrestate e non escono vive dagli
interrogatori.
Luigi Manconi insegna
sociologia dei fenomeni politici presso l'Università Iulm di Milano. E' stato
senatore e sottosegretario alla giustizia e garante per i diritti delle persone
private della libertà per il Comune di Roma. E' presidente dell'associazione 'A
Buon Diritto'. Ha scritto, con Valentina Calderone, 'Quando hanno aperto la
cella. Stefano Cucchi e gli altri' (Il Saggiatore 2011). Cucchi, lo ricordiamo
tutti, era un ragazzo romano morto il 22 ottobre del 2009, dopo essere finito in
carcere per alcuni grammi di hashish. Ma il suo, purtroppo, non è stato un caso
isolato. Manconi si occupa anche della vicenda di Giuseppe Uva, deceduto nel
2008 dopo essere stato fermato e interrogato dai carabinieri a Varese; e di Aldo
Bianzino, falegname di 44 anni, trovato morto il 14 ottobre in una cella di
isolamento del carcere di Perugia.
Cucchi, Uva,
Bianzino. Tre morti misteriose accomunate dal fatto di essere avvenute in
seguito ad arresti da parte delle forze dell'ordine, tre vicende ancora non
chiarite. Ci sono novità?
«Ce ne sono, di positive e di
negative, in tutti e tre i casi».
Da dove cominciamo?
«Cominciamo da una notizia
positiva in relazione alla vicenda di Giuseppe Uva, morto a giugno del 2008 nel
reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato in stato
di ebbrezza dai carabinieri. Lo scorso 23 aprile il Tribunale di Varese ha
assolto il medico che fino a oggi era l'unico incriminato per la morte di Uva».
Perché questa è una novità
positiva?
«Il pubblico ministero aveva
accusato due medici del reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese di aver
somministrato ad Uva degli psicofarmaci incompatibili con il suo stato etilico:
il primo era stato prosciolto, e con l'assoluzione del secondo il giudice ha
disposto l'invio degli atti alla Procura affinché le responsabilità di quella
morte vengano cercate altrove».
Dove, precisamente?
«Nella caserma dei
carabinieri, nel corso di quella notte, nel tempo intercorso tra il fermo e il
trasferimento al pronto soccorso dell'ospedale. In quella caserma, dalle tre del
mattino fino all'alba, erano presenti non solo i carabinieri, ma anche alcuni
appartenenti alla Polizia di Stato lì convenuti».
Necessità di
ulteriori approfondimenti, insomma.
«Assolutamente sì. Del resto
secondo i familiari e secondo noi non ha avuto luogo alcuna indagine seria, al
punto che Alberto Biggiogero, l'altro fermato insieme a Uva che afferma di aver
sentito dalla sala d'attesa in cui si trovava le urla strazianti dell'amico, e
che presentò a tale proposito un circostanziato esposto in Procura, non è mai
stato sentito in quattro anni».
Mai?
«Neanche una volta. Si tratta
quindi di una novità positiva, perché l'invio degli atti alla Procura affinché
svolga le opportune indagini vale a sancire - secondo il mio punto di vista - il
fatto che fino a ora quelle indagini non sono state svolte, e che il fascicolo
contro ignoti aperto all'epoca dei fatti non è stato seguito in alcun modo».
Con quale caso andiamo
avanti?
«Con quello di Stefano Cucchi,
per cui la Corte d'Assise di Roma ha chiesto una nuova perizia».
Per
stabilire cosa?
«Per rispondere
all'interrogativo che, da parte dei familiari di Stefano e da parte nostra, si
continua a porre e al quale finora la Procura ha dato risposta negativa: c'è una
relazione tra le lesioni per cui sono stati imputati tre agenti della Polizia
Penitenziaria e la morte di Stefano? Perché fino ad oggi ci si è occupati
soltanto delle circostanze immediatamente precedenti il decesso: l'abbandono, la
mancata assistenza, l'insufficienza delle terapie? Ma è di tutta evidenza che
senza le percosse Stefano Cucchi non sarebbe stato trasferito all'ospedale
Sandro Pertini, non si sarebbe trovato in quello stato di prostrazione fisica e
psichica e non sarebbe stato sottoposto all'isolamento che ha dovuto subire».
La richiesta di nuova
perizia, quindi, è senz'altro una novità positiva.
«Sì, ma ce n'è anche un'altra
di segno opposto. Il funzionario responsabile del trasferimento di Stefano
Cucchi al Sandro Pertini, che aveva scelto il rito abbreviato e che era stato
condannato in primo grado per abuso d'ufficio e favoreggiamento, è stato assolto
in appello perché il fatto non sussiste».
E questo cosa significa?
«Significa che a vari livelli
viene smontato il circuito che noi avevamo pazientemente ricostruito: avvenuto
il pestaggio e constatata la grave condizione fisica di Cucchi, scatta un
meccanismo finalizzato ad allontanarlo ed isolarlo attraverso una serie di mosse
convergenti. Lo spostamento al Sandro Pertini, l'isolamento dai familiari che
cercano per sei giorni di vederlo e di parlare con lui senza riuscirci: vengono
rinviati di ufficio in ufficio, finché il padre ottiene il permesso di accedere
al Pertini quando Stefano è già morto da qualche ora».
Uno scenario
agghiacciante...
«Che si protrae anche nelle
ore successive: basti dire che la prima informazione sulla morte di Cucchi
giunta alla famiglia consiste in una visita dei carabinieri alla madre: la
invitano a porre nel girello la nipotina che ha in braccio, la fanno sedere e le
chiedono di firmare dei fogli su cui c'è la comunicazione dell'orario in cui
avverrà l'autopsia. L'autopsia di una persona, il figlio, che fino a quel
momento lei riteneva ancora viva».
E sulla vicenda di
Aldo Bianzino?
«Solo novità negative,
purtroppo. Anche se, nonostante la totale iniquità dell'esito finale, dalle
udienze a cui è seguita la condanna di un agente della Polizia Penitenziaria per
omesso soccorso emerge che certamente quella notte le cose andarono in modo
contrario alla legge. Con particolari addirittura inquietanti».
Ad esempio?
«In una delle ultime udienze
un consulente di parte ha dimostrato che per anni nell'attribuire la morte di
Bianzino a cause naturali si è partiti da un falso: l'aneurisma cui è stata
attribuita la causa del decesso è stato evidenziato, per tutto questo tempo, da
un cerchio rosso tracciato su una foto della lastra del cervello di Bianzino. In
quella lastra, però, non c'era alcuna traccia dell'aneurisma».
Sembra incredibile.
«Eppure è documentato in modo
incontrovertibile, ma non ha cambiato l'iter del processo perché in quella sede
si giudicava solo l'omissione di soccorso».
Facendo un passo
indietro, cosa unisce queste tre storie, al di là dei particolari che
caratterizzano ognuna di esse?
«Certamente il fatto che
uomini e apparati dello Stato che avevano in custodia dei cittadini, e che
avrebbero dovuto considerare sacra la loro incolumità, hanno violato l'habeas
corpus e il principio fondamentale della tutela dell'integrità fisica
dell'individuo nelle loro mani. Come del resto avviene per altre decine, per non
dire centinaia, di casi dei quali si parla molto poco».
Uno per tutti?
«La vicenda di Luciano Isidoro
Diaz, che nel 2009 viene fermato per un controllo stradale e, a seguito del
pestaggio subito, perde la vista totalmente ad un occhio e parzialmente
all'altro. Un mese fa un carabiniere viene condannato a due anni e tre mesi per
lesioni gravi, con l'aggravante di averle commesse nella sua qualità di
esponente delle forze dell'ordine: ma altri carabinieri sono sotto processo con
l'accusa di aver falsificato atti e verbali per insabbiare la vicenda. Inoltre
la Cassazione ha annullato il non luogo a procedere per altri militari, che
dunque dovranno rispondere delle violenze di quella notte».
Anche in questo caso
le violenza sarebbero avvenute in caserma?
«Sia in caserma che fuori.
Diaz ha avuto la forza di denunciare l'accaduto e di andare avanti, anche lui
con il sostegno dell'associazione 'A buon diritto' e degli avvocati Fabio
Anselmo e Alessandra Pisa».
Un percorso difficile?
«Sì, perché c'è sempre una
spessa cortina di nebbia che si oppone all'accertamento della verità quando in
fatti del genere sono coinvolti rappresentanti delle forze dell'ordine: mentre
sarebbe interesse di tutti mettere in luce quei comportamenti e sanzionarli.
Perché il disonore di un certo numero di elementi, non così irrisorio, non
finisca per ricadere in modo indiscriminato sull'intera categoria».
Cucchi, gli agenti non
pagano, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”.
Secondo i giudici non c'è stato alcun nesso tra le botte prese dal ragazzo e la
sua morte. Condannati solo i medici. L'ultimo caso di una storia infinita:
quella dei poliziotti che, in Italia, non vengono mai sanzionati.
Il 15 ottobre 2009 Stefano
Cucchi, geometra romano, viene sorpreso con alcuni grammi di hashish, cocaina e
antiepilettici e recluso a Regina Coeli. Quel giorno, hanno detto i suoi
familiari, non aveva alcun trauma fisico e pesava solo 43 chili. Già durante il
processo ha difficoltà a camminare, gli occhi sono cerchiati da lividi neri e ha
lesioni ovunque. Dopo la condanna per direttissima torna in carcere, le sue
condizioni peggiorano e viene ricoverato. Il 22 ottobre 2009 muore in ospedale.
Da allora comincia una sfida a colpi di referti, perizie, ipotesi investigative
che si è provvisoriamente conclusa con la sentenza di primo grado: condannati
per omiicidio colposo i medici, assolti i tre agenti di custodia. «Ci devono
ancora spiegare chi ha provocato a Stefano quelle lesioni alle vertebre, al
torace, alla schiena, alla mandibola. Vogliono farci credere che se l'è fatte da
solo, cadendo. E quante volte sarebbe caduto?», tuona l'avvocato della famiglia
Cucchi, Fabio Anselmo, lo stesso che assiste anche la mamma di Federico
Aldrovandi. La sentenza è stata accolta con urla e lacrime (il
video). Ilaria Cucchi, la
sorella di Stefano, ha detto piangendo: "Io non mi arrendo. Questa è una
giustizia ingiusta. I medici dovranno fare i conti con la loro coscienza, ma mio
fratello non sarebbe morto senza quel pestaggio. Sapevamo che nessuna sentenza
ci avrebbe dato soddisfazione e restituito Stefano ma calpestare mio fratello e
la verità così.non me l'aspettavo". Ha aggiunto la madre, Rita Calore: "Me
l'hanno ucciso un'altra volta. Andremo avanti fino in fondo, troveremo la
verità, chi è stato un fantasma a farlo morire?"
Per gli agenti di custodia appena assolti non risultano esserci mai state
sospensioni e sono attualmente in servizio. «Ma non più a diretto contatto con i
detenuti», precisa il loro avvocato Diego Perugini. Ma il caso Cucchi è solo la
punta di un iceberg. "L'Espresso" ha esaminato una lunga serie di procedimenti
contro uomini delle forze dell'ordine che non sono stati radiati, nonostante
fossero imputati o condannati per episodi gravissimi: vicende da prima pagina,
come il G8 di Genova, o storie dimenticate, come la persona con problemi
psichici picchiata a morte a Trieste. Mancano statistiche ufficiali, ma gli
unici dati disponibili permettono di capire l'importanza della questione: solo
negli ultimi dieci mesi 228 tra agenti, carabinieri, finanzieri e guardie
penitenziarie sono finiti sotto inchiesta. Per l'esattezza 105 sono stati
indagati, 73 arrestati e 42 a giudizio nei tribunali. Sul loro destino pesa la
lentezza dei processi, che spesso determina la prescrizione dei reati senza che
le commissioni interne dei corpi intervengano per punire i fatti comunque
accertati. E, d'altro canto, brucia vita e carriere di chi attende la sentenza
per anni e anni. Ma in tantissime situazioni, i protagonisti vengono sospesi per
periodi minimi oppure sono i tribunali amministrativi a revocare i
provvedimenti. Certo, la legge è uguale per tutti e la presunzione di innocenza
non è in discussione. Proprio l'importanza dei compiti affidati alle forze
dell'ordine però richiede norme più chiare di quelle attuali per tutelare la
fiducia nelle istituzioni e il lavoro di chi mette a repentaglio la propria vita
per difendere la legge. E rischia invece di trovarsi schierato al fianco di chi
l'ha violata.
G8 SENZA CONSEGUENZE. Il blitz
nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel luglio del 2001 resta una pagina
nera nella storia della Repubblica. Il verdetto della Cassazione per il massacro
di oltre sessanta manifestanti inermi è arrivato dopo 12 anni. Venticinque
condanne hanno decapitato i vertici della polizia, prevedendo però
l'interdizione dai pubblici uffici solo per i prossimi cinque anni. Altri nove
dirigenti sono stati riconosciuti responsabili di lesioni personali continuate
ma il reato è stato dichiarato prescritto. E restano in servizio. Sono quelli
che nella notte della Diaz comandavano i celerini del primo reparto mobile di
Roma. Il vicequestore aggiunto Michelangelo Fournier, che definì il blitz nella
scuola una «macelleria messicana», oggi lavora al vertice della Direzione
centrale antidroga: la condanna a due anni in primo grado nel suo caso si è
prescritta già in appello. Gli altri otto sono stati trasferiti in uffici o
commissariati di zona: a nove mesi dalla sentenza definitiva, la commissione
interna non ha ancora valutato le loro responsabilità disciplinari.
PESTAGGIO CANCELLATO. Nel
marzo 2001 gli scontri del Global Forum di Napoli si sono trasformati nella
prova generale delle violenze genovesi. Dieci poliziotti sono stati accusati di
avere selvaggiamente picchiato e sequestrato 85 manifestanti, rinchiusi nella
caserma Raniero. Quando la magistratura ordinò di arrestare gli agenti accusati
per le brutalità, una catena umana formata dai loro colleghi sbarrò l'accesso
alla questura. Oggi c'è una sola certezza: nessuno è stato punito. Merito della
lentezza della giustizia e dell'inerzia delle commissioni disciplinari. I reati
di violenza privata, lesioni, falso e abuso d'ufficio sono stati prescritti in
primo grado. Il tempo ha cancellato anche l'imputazione più grave di sequestro:
lo ha stabilito la Corte d'appello, che si è pronunciata solo nello scorso
gennaio dopo ben dodici anni. Un pessimo esempio per tutte le istituzioni.
MORTE A TRIESTE. Ci sono
agenti che però restano in servizio anche quando condannati in via definitiva
per omicidio. Lo dimostra il caso di Riccardo Rasman, 34 anni. Figlio di
istriani di lingua slava, l'uomo aveva subito feroci atti di nonnismo durante la
leva militare, che avevano acuito la sua sindrome schizofrenica paranoide: era
terrorizzato dalle divise. In una sera dell'ottobre 2006 Rasman ha festeggiato
l'assunzione come netturbino lanciando petardi sul pianerottolo del condominio.
Quando ha visto arrivare gli agenti si è rannicchiato sul letto, senza aprirgli.
I poliziotti hanno sfondato la porta e si sono lanciati su di lui, un colosso
pesante 120 chili e alto un metro e 85. I paramedici del 118 lo troveranno con
le manette ai polsi, le mani dietro la schiena, fil di ferro alle caviglie,
ferite e segni di «imbavagliamento con blocco totale o parziale della bocca».
Proprio questo imbavagliamento, unito alla pressione con la quale gli agenti,
per immobilizzarlo, gli premono con le ginocchia sul tronco, gli provoca una
veloce asfissia e la morte. «Era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto
lo zigomo, aveva sangue che usciva dalle orecchie, dal naso, dalla bocca»,
ricorda oggi la sorella Giuliana Rasman.
All'epoca dei fatti vennero
sospesi per un solo mese, poi sono tornati in servizio e ancora oggi indossano
l'uniforme. I genitori del ragazzo, assistiti dall'avvocato Monica Mandico,
continuano ad aspettare il risarcimento stabilito dai giudici. Finora dal
ministero dell'Interno hanno ricevuto solo il conto da pagare per la rottura del
finestrino di una delle volanti su cui fu caricato a forza loro figlio.
TORTURATORI AD ASTI. Un verdetto
paradossale nel gennaio 2012 ha salvato dalla condanna quattro guardie
carcerarie del penitenziario di Asti. Erano accusate di aver trattato quattro
detenuti come prigionieri di un lager, picchiandoli, privandoli di cibo e acqua,
lasciandoli nudi per giorni interi in pieno inverno in celle senza vetri e
finestre, arrivando persino a strappare di netto il codino di capelli a uno di
loro. I fatti risalgono al 2004, ma sono emersi solo sette anni dopo. Una
"piccola Abu Ghraib italiana", come è stata definita durante il processo:
«Entravano nelle nostre celle dopo le dieci di sera», raccontano a verbale i
detenuti «ci prendevano a botte continuamente per non farci addormentare. Io mi
chiudevo come un riccio, ma loro continuavano, puntuali, ogni notte». I giudici
del Tribunale di Asti ritengono che si tratti di tortura, un reato che non
esiste nel nostro codice penale. E quindi sono state inflitte solo pene esigue,
per abuso di autorità e lesioni personali: oggi sono già prescritte. Due degli
agenti, responsabili dei fatti più gravi, sono stati radiati lo scorso gennaio.
Per gli altri due sono arrivate sospensioni di 4 e 6 mesi. Dopodiché torneranno
in servizio.
Ci sono voluti sei anni per
accertare la verità. La Cassazione ha condannato a sei mesi per omicidio colposo
tre agenti della volante. Secondo i giudici, i poliziotti sapevano che Rasman
era in cura in un centro psichiatrico e per questo avrebbero dovuto chiamare
subito un'ambulanza. Oggi, liberi con la condizionale, vestono ancora la divisa.
«Sono tutti in servizio, ci mancherebbe altro», conferma a "l'Espresso" il loro
avvocato, Paolo Pacileo. La famiglia Rasman, attraverso il legale Claudio
Defilippi, ha chiesto le scuse ufficiali del ministero dell'Interno. Mai
arrivate.
ARRESTO LETALE. Ci sono
decessi drammatici che si assomigliano. E fanno emergere tutta l'inadeguatezza
delle forze dell'ordine nel gestire l'arresto di persone in stato di alterazione
mentale: una situazione frequente quando bisogna avere a che fare con ubriachi,
drogati o disabili psichici. Lo sottolinea la sentenza d'Appello che condanna
per omicidio colposo nove agenti di Napoli che nel 2003 hanno provocato la morte
per asfissia di Sandro Esposito, 26 anni. Esposito era un parà della Folgore,
veterano delle missioni all'estero: durante una licenza, sotto l'effetto della
cocaina sale su un capannone e urla. Intervengono diverse volanti e i poliziotti
lo immobilizzano.
Ma mentre tentano di caricarlo
in auto, il parà scappa. Così lo colpiscono con calci e pugni alla testa,
utilizzando anche un oggetto contundente, e lo stendono a terra sull'asfalto
premendogli le ginocchia contro il petto fino a farlo morire asfissiato. In
primo grado i poliziotti vengono condannati per omicidio preterintenzionale. In
appello il reato si trasforma in omicidio colposo, e le parole dei giudici, pur
riconoscendo la volontà di non uccidere, sono impietose verso l'intero corpo di
polizia: «Ci troviamo di fronte a un difetto di addestramento, non risulta
infatti che il ministero dell'Interno abbia mai compilato, come invece è
avvenuto con il Dipartimento della Giustizia negli Stati Uniti, un protocollo
per il trattamento dei soggetti in stato di delirio cocainico». Due dei nove
agenti sono stati espulsi dalla polizia, gli altri non hanno avuto conseguenze.
Per sei di loro, la pena a 4 anni di carcere è stata ridotta dalla Cassazione a
un anno e sei mesi, con immediata libertà condizionale. Per un altro è scattata
la prescrizione.
Come si muore nelle celle
di Stato, scrive Alfonso Contrera su “L’Espresso”.
L'inchiesta sulla fine di Stefano Cucchi riapre i dubbi sulla situazione di
Milano. Dove tre fermati sono stati lasciati morire in questura. Senza aiuto. Se
le foto di Stefano Cucchi, morto in stato di arresto dopo sei giorni di agonia,
fossero state pubblicate senza didascalia, si sarebbe potuto pensare ad una
vittima del braccio violento di qualche regime dittatoriale lontano secoli
culturali dal nostro mondo. Invece Stefano Cucchi è morto nonostante il ricovero
all'ospedale Pertini di Roma dove, risulta evidente anche senza aspettare gli
esiti dell'inchiesta, non gli sono state prestate le cure necessarie per
salvargli la vita. La tragedia del piccolo spacciatore trentunenne è stata
quella di restare imprigionato per troppo tempo nel limbo che divide il
cittadino libero dal detenuto, rimpallato tra troppe competenze, ognuna senza
responsabilità. La stessa zona grigia in cui a Milano, in soli 15 mesi, hanno
perso la vita uno spacciatore marocchino, un pregiudicato italiano e un
ladruncolo georgiano. Morti in quello che dovrebbe essere uno dei luoghi più
sicuri d'Italia, le camere di sicurezza di una questura, a poche centinaia di
metri da un grande ospedale. Tre decessi con tre spiegazioni ufficiali, su cui
hanno indagato pubblici ministeri e medici legali, decidendo per tre decreti di
archiviazione. Non tutte però sono state 'morti naturali'. Georgi Bacrationi,
georgiano clandestino di 25 anni, l'8 ottobre 2008 aveva rubato un lettore Mp3
dalla Feltrinelli di corso Buenos Aires e venne fermato dagli uomini dell'Unità
operativa contro la criminalità diffusa (Uocd), la squadra celebrata dal film di
Raoul Bova 'Sbirri'. Forse quegli 'sbirri' non avevano perquisito bene Georgi, o
peggio, qualcun altro non aveva bonificato la camera di sicurezza nel sottosuolo
della questura di via Fatebenefratelli. Fatto sta che il clandestino georgiano
muore per overdose da metadone, così come recita il referto dell'autopsia.
All'udienza del processo per direttissima che si stava svolgendo in quelle ore a
carico dei suoi due complici il cancelliere si presenta dal presidente con un
fax appena ricevuto: poche righe per informare che 'Alle 10.15 il medico legale
Claudia Locatelli ha constatato la morte, per probabili cause naturali,
dell'imputato Georgi Bacatrioni'. Ma il pubblico ministero di turno, incaricato
dell'indagine, Giulio Benedetti, scrupoloso fino alla pignoleria, trovandosi di
fronte al terzo caso di decesso in quelle stesse celle, volle vederci chiaro. E
fece prelevare ogni tipo di campione da quella stanzetta disadorna con la porta
blindata, la branda e un lavandino. Trovandoci 'evidenti tracce di metadone'.
Georgi Bacrationi, insomma, era morto di overdose dopo aver assunto la droga
proprio in questura. Quanto basta per ipotizzare l'omicidio colposo. Ma la
mancanza di un nesso provato tra la presenza dello stupefacente e la morte del
georgiano, portarono all'archiviazione. Inevitabili le polemiche che divamparono
per poi spegnersi in poche ore. Una morte per overdose, infatti, è relativamente
lenta, ben riconoscibile e basta un'iniezione di Narcam effettuata da un
paramedico per salvare la vita del tossicodipendente. Il comunicato diramato dai
vertici della questura era ricco fino all'assurdo dei dettagli su come Georgi e
i suo due complici avevano rubato un lettore musicale; troppo pochi invece su
come era morto. Nessuno, nella notte di quell'8 ottobre, si accorse di niente.
Finché la mattina seguente, quando i poliziotti del turno successivo sono andati
a prenderlo per portarlo alla direttissima, lo hanno trovato senza vita.
Stessa sorte toccata, il 4
settembre 2007, al pregiudicato sorvegliato speciale Antonio D'Apote,
tossicodipendente di 49 anni. Fermato dalle Volanti in evidente stato di
agitazione, probabilmente dovuta all'assunzione di droga, D'Apote venne portato
in questura non senza difficoltà. I verbali di arresto parlano di 'resistenza e
minacce a pubblico ufficiale', e di gravi atti di autolesionismo. Chi c'era
quella sera racconta di un uomo scatenato, impossibile da trattenere con le
buone, che sbatte più volte la testa contro il muro fino a procurarsi lividi e
bernoccoli. Poi finalmente si calma. Per sempre. Anche lui, la mattina dopo
l'arresto, viene scoperto cadavere dagli uomini della questura che lo dovevano
condurre al processo per direttissima. Alle 6.15 viene chiamato una prima volta
per firmare dei verbali. Ma non risponde. Poi un secondo appello, finché al
terzo silenzio l'agente di guardia si decide ad andare a vedere e lo trova steso
per terra cianotico e rantolante. La chiamata al 118 è stata registrata alle
6.35. Ma all'arrivo dell'ambulanza D'Apote era già morto. Il pubblico ministero
Laura Pedio non volle che i poliziotti partecipassero all'autopsia. Il referto
parla di 'decesso per infarto del miocardio' e probabili cause naturali e il
caso fu archiviato. D'Apote i poliziotti lo conoscevano bene. Piccolo criminale
del Corvetto, quartiere problematico a sud di Milano, era già stato arrestato
nel '92 perché, grazie alla complicità di alcuni secondini di San Vittore,
riusciva a fare entrare grandi quantità di droga in carcere, dove i fratelli,
già detenuti, provvedevano a spacciarla con grossi profitti. Gli stessi
fratelli, malati, disoccupati e pregiudicati, che, 15 anni dopo, avevano ancora
fin troppi motivi per non voler chiedere un'inchiesta vera e propria sulla morte
di Antonio, pur sapendo che da un infarto, se si interviene in tempo, ci si può
salvare. Anche in questo caso, in consiglio comunale, ci fu chi propose di
dotare la questura di un'infermeria o di piazzare delle telecamere a circuito
chiuso nelle celle. Proposte fatte rispettivamente dal centrodestra e dal
centrosinistra, e subito dimenticate. Entrambi i provvedimenti furono scartati,
anche per il rispetto della privacy del fermato. D'altronde, si affrettò a
spiegare il questore, quelle celle erano state ristrutturate da poco e ognuna
aveva un campanello con cui chiamare il piantone di turno. Ma né Georgi
Bacrationi né Antonio D'Apote seppero o vollero premere quel bottone.
Come non riuscì a fare
Mohammed Darid, marocchino clandestino di 32 anni, fermato dagli agenti della
Polizia Ferroviaria il 10 luglio 2007 mentre spacciava alla stazione centrale.
Dopo un breve passaggio negli stessi uffici della polizia giudiziaria dove
Giuseppe Turrisi, clochard di 58 anni, il 6 settembre 2008 sarà massacrato di
botte e ucciso da due poliziotti ora agli arresti in attesa della sentenza.
Darid viene portato in questura. Nei mille verbali che hanno accompagnato le sue
ultime ore di vita (di arresto, di perquisizione, di sequestro di droga, di
accompagnamento in questura, di presa in consegna dalla questura) non compare
alcun cenno a eventuali ferite, lesioni o malesseri del marocchino. Che però
viene trovato morto alle 6 del mattino, ancora una volta quando i poliziotti lo
vanno a carcere per portarlo alle direttissime in tribunale. Come per gli altri
casi, l'autopsia stabilì che non c'erano segni di violenza sul corpo e che la
morte era stata causata da un arresto cardiocircolatorio. I parenti, che vivono
a Casablanca, sono stati informati molti giorni dopo il decesso e anche loro,
tanto lontani da via Fatebenefratelli, non hanno presentato alcuna richiesta di
indagine ulteriore. Le disposizioni della Procura di Milano prevedono da anni
che i fermati, circa trenta al giorno, che presentino segni di malattia o che
dichiarino di soffrire di patologie incompatibili con la detenzione in una cella
di sicurezza, vengano dirottati, pur in attesa del processo per direttissima,
all'infermeria del carcere di San Vittore. Se così fosse stato anche per
Bacrationi, D'Apote e Darid, forse sarebbero ancora vivi.
CONFLITTI
INVESTIGATIVI OCCULTI. LE INDAGINI IN MANO A CHI?
Dal segreto del
confessionale a quello investigativo: una "ordalia nei secoli fedele". La
soluzione suggerita da Giovanni Falcone si chiama Direzione Investigativa
Antimafia, spiega
Cleto Iafratein tre paragrafi. 1. Il segreto dell’ordalia – 2. Dal
segreto istruttorio al segreto investigativo – 3. La Direzione Investigativa
Antimafia.
1. Il segreto
dell’ordalia.
Lo storico Tucidide già nel 450 A.C. sosteneva che per capire il presente è
necessario guardare al passato. Pertanto, parto da molto lontano. Il
progenitore del nostro codice di procedura penale è il “Tractatus de maleficiis”,
scritto nel 1286 da Alberto Gandino da Crema, capo di una potente famiglia, di
professione giudice itinerante. All’epoca, infatti, i Comuni concedevano in
appalto la giustizia a nobili stranieri. Nel “Tractatus de maleficiis” uno
spazio importante era occupato dall’antichissima pratica dell’ordalia. Si parla
dell’ordalia del dio fiume addirittura nel Codice sumero di Ur-Nammu (2112 -
2095 a.C.). Alla pratica si ricorreva per dirimere le vertenze giuridiche che
non si potevano, o non si volevano, regolare con mezzi umani. Ordalia, infatti,
significa "giudizio di Dio" ed era una procedura basata sulla premessa che Dio
avrebbe aiutato l'innocente. Infatti, l'innocenza o la colpevolezza
dell'accusato venivano determinate sottoponendolo ad una prova molto dolorosa.
L’esito della prova era ritenuto come la diretta conseguenza dell’intervento di
Dio. In Europa le più utilizzate erano "l’ordalia del fuoco" e "l’ordalia
dell'acqua”. Nel primo caso l’accusato doveva fare un certo numero di passi
(solitamente nove) tenendo tra le mani una barra di ferro rovente. Nel secondo
caso doveva togliere una pietra da un pentolone di acqua bollente. L'innocenza
era dimostrata dall’assenza di ustioni, ovvero, dalla trascurabilità delle
stesse. Se le lesioni erano ritenute guaribili, l'accusato era giudicato
innocente. L’elemento fuoco, utilizzato per arroventare il metallo o per
riscaldare l’acqua era preparato sotto il controllo e la supervisione del clero
locale. Solitamente erano sottoposte alla pratica dell’ordalia le donne
sospettate di stregoneria e quelle accusate d’infedeltà coniugale. Le
registrazioni giudiziarie indicano che un discreto numero di donne accusate
siano state ritenute innocenti e scagionate dalla prova dell'ordalia. Si
sospetta fortemente che l'ordalia venisse in qualche modo “aggiustata”, agendo
sull’elemento fuoco, per ottenere un verdetto che il sacerdote riteneva giusto.
I sacerdoti, in effetti, conoscevano bene le loro “pecorelle” giacché
ascoltavano le confessioni. Pur essendo obbligati al segreto confessionale,
nulla vietava loro di aggiungere altra legna al fuoco, ovvero di astenersi dal
farlo. In questa fase storica, quindi l’unico segreto che tiene banco nella
procedura penale sembrerebbe il segreto del confessionale. I ministri del culto,
dal canto loro, non erano disposti a sottoporsi ai rischi dell'ordalia
dell'acqua o del fuoco. Per loro, infatti, era prevista “l'ordalia del pane”. Un
pezzo di pane (chiamato "boccone maledetto") era posto sull'altare della chiesa.
Si portava l’accusato di fronte all’altare e, dopo aver recitato una preghiera
d’invocazione, gli si offriva il “boccone maledetto”. L’accusato, se colpevole,
sarebbe soffocato. Poiché le dimensioni del boccone erano decise
dall'inquisitore, non è improbabile che qualche boccone sia andato di traverso,
si consideri che all’epoca non si panificava ogni giorno. E’ evidente che
l’ordalia fosse un imbroglio ideato dagli uomini, alcuni dei quali avranno agito
pure in buona fede. D’altronde Dio, ben dodici secoli prima, attraverso suo
figlio Gesù Cristo, aveva messo in chiaro la sua scelta di rimanere estraneo
alle nostre vertenze giudiziarie: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o
mediatore sopra di voi?” (Lc 12,14). Pur tuttavia credo che in relazione alla
pratica delle ordalie, Dio sia intervenuto una sola volta: nell’anno domini
1215, durante il quarto Concilio Laterano, all’esito del quale è stato imposto
al clero cattolico il divieto assoluto di amministrare le ordalie. La pratica
delle ordalie continuò anche in assenza del clero ancora per qualche secolo,
prima di scomparire definitivamente. L’ordalia più che giudizio di Dio,
sembrerebbe quindi “manipolazione della procedura” da parte degli uomini, al
fine di stabilire un controllo sull’azione penale, sicché le condanne potessero
colpire solo i malvisti da chi comandava.
2. Dal
segreto istruttorio al segreto investigativo.
Nel 1808 il diritto processuale penale è disciplinato dal Code d'instruction
criminelle. In esso si prevede un processo cosiddetto bifasico. A tenere banco
adesso non è più il segreto del confessionale, ma il segreto istruttorio.
L'istruttore, investito dal procuratore del Re, lavora in segreto, raccoglie
segretamente le prove e passa gli atti al pubblico ministero. La bilancia, però,
pende sempre dalla parte dell'istruttore, che dipende dal re, poiché i suoi
verbali si abbattono come una mannaia su imputato e testimone durante la fase
del dibattimento, cogliendoli spesso di sorpresa. D’altronde, nella monarchia
ogni giurisdizione promana dal re, il quale interviene dove, quando e come
vuole, anche attraverso la nomina di suoi commissari. Nel codice del 1913,
Giolitti crea qualche piccolo varco al segreto istruttorio. Ammette la
partecipazione dei difensori ad alcuni atti: esperimenti, ricognizioni, perizie,
perquisizioni domiciliari. Il pubblico ministero, però, rimane sempre di parte,
in quanto istruisce con i poteri del giudice; ad esempio, interroga i testimoni
ed usa nel dibattimento le prove che ha formato quasi in completa autonomia.
Siamo ancora lontani dalla struttura processuale odierna che richiede tre
protagonisti: accusa, difesa e organo giudicante. «Il terzo codice (r.d. 19
ottobre 1930), ideologicamente fascista, squadra una procedura ad hoc:
l'istruzione ridiventa segreta; resta il pubblico ministero istruttore, enfant
gâté del governo; il contraddittorio perde fiato; svanisce ogni nullità non
dedotta entro dati termini da chi vi abbia interesse. Era un ordigno così
efferato da richiedere sommessi interventi correttivi nella prassi: e caduto il
regime politico del quale è figlio, sopravvive sotto lune politiche diverse;
fenomeno curioso; l'inerzia dura dieci anni pieni.» (in “Miserie della procedura
penale” di Franco CORDERO). Dopo il periodo fascista, il segreto istruttorio
viene man mano demolito da diversi interventi legislativi e da alcuni
pronunciamenti della Corte costituzionale. Con la legge 190/1970 il difensore
viene finalmente ammesso anche all’interrogatorio. Rimane, però, ancora escluso
dagli esami testimoniali e dai confronti e lo resterà fino alla fine degli anni
ottanta. Siamo, finalmente, giunti al codice vigente, che vede la luce dopo un
lungo e travagliato iter. Il suo varo è preceduto da una serie di cautele; non
può essere diversamente, poiché il diritto processuale penale tutela interessi
molto importanti, oltre ad incidere su diritti soggettivi. Il segreto
istruttorio nel nuovo codice si contrae e si trasforma in segreto investigativo.
Il progetto preliminare fu approntato da una Commissione ministeriale (istituita
nel marzo 1987) e inviato al ministro Guardasigilli, Giuliano Vassalli. Pochi
giorni dopo, il testo fu trasmesso ai presidenti di Camera e Senato, che ne
affidarono l’esame a una Commissione interparlamentare presieduta da Marcello
Gallo. Nello stesso tempo, il progetto venne anche sottoposto all’esame del CSM,
dei più alti magistrati, delle associazioni forensi e del mondo universitario.
Il 20 maggio 1988 il parere della commissione Gallo fu fatto pervenire al
Guardasigilli: questi sottopose il testo delle modifiche e osservazioni al
Consiglio dei Ministri, che autorizzò la trasmissione alle Camere. La
commissione Gallo espresse il proprio parere definitivo e lo inoltrò al
Guardasigilli Vassalli. La redazione del testo definitivo, con le necessarie
rifiniture, fu affidata alla commissione ministeriale presieduta da Gian
Domenico Pisapia: il Ministro poté sottoporre al Consiglio dei Ministri il testo
del nuovo Codice di procedura penale, successivamente emanato il 22 settembre
1988. Nel codice vigente spariscono l’istruzione formale e quella sommaria. Il
processo nasce dalla richiesta di un rinvio a giudizio. L'udienza preliminare
stabilisce se debba, o no, esservi un dibattimento. Se l'ordinanza è
affermativa, si enuncia l'accusa; in caso contrario una sentenza dichiara il non
luogo a procedere. Nella fase delle indagini preliminari si acquisiscono gli
elementi di prova, al solo fine di valutare l'esercizio o meno dell'azione
penale. Il segreto investigativo permane in tutta la fase delle indagini
preliminari. Infatti, a mente dell’art. 329, I comma, c.p.p.: “Gli atti di
indagine compiuti dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a
quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la
chiusura delle indagini preliminari”. La previsione di compiere in segreto
determinati atti in questa fase, risponde alla logica di evitare la
compromissione delle indagini. La violazione del segreto provocherebbe
un’alterazione dell’equilibrio dei poteri. Apro una breve parentesi.
Nell'ordinamento giuridico le fonti di produzione sono disposte secondo una
scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto
con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). Utilizzando una
metafora, si può dire che il c.p.p. sta a un DPR come un colonnello sta a un
sergente. Il sergente potrà dare ai suoi sottoposti delle disposizioni di
dettaglio, ma non potrà mai contraddire ciò che un colonnello ha disposto: nella
catena gerarchica il colonnello si trova più vicino all’autorità governativa da
cui riceve le linee guida, rispetto a un sergente. Abbiamo visto quali garanzie
e cautele abbiano accompagnato la fase di emanazione del c.p.p.. Le cautele
utilizzate per emanare norme di rango regolamentare sono notevolmente ridotte.
Per esempio il DPR 90/2010 (Testo unico delle disposizioni regolamentari in
materia di Ordinamento militare) occupa un posto inferiore nella gerarchia delle
fonti, giacché disciplina (ovvero dovrebbe disciplinare) solo aspetti di
dettaglio; infatti l’art. 145 disciplina le modalità d’impiego delle bande
musicali militari e il successivo art. 146 distribuisce gli strumenti musicali
all’interno delle stesse. Quest’ultimo stabilisce che il numero degli strumenti
di ciascuna banda militare debba essere così ripartito: 3 flauti, 1 ottavino, 3
oboi, 1 corno inglese, 23 clarinetti di diversa tonalità, 11 saxofoni di diversa
tonalità, 2 contrabbassi ad ancia, 5 corni, 8 trombe, 5 tromboni, 20 flicorni di
diverse tipologie, 1 timpano, 2 tamburi, 2 piatti, 1 gran cassa. Com’è evidente
gli interessi in gioco sono poco rilevanti. Se la norma avesse mal distribuito
gli strumenti, la banda potrebbe stonare e il pubblico, eventualmente, non
applaudire. Tali decisioni si possono certamente affidare a un atto di rango
inferiore poiché non incidono sui poteri dello Stato, non ne provocano uno
sbilanciamento. Non vale, però, lo stesso discorso per il successivo art. 237
(DPR 90/2010) dal titolo “Obblighi di polizia giudiziaria e doveri connessi con
la dipendenza gerarchica”. Il cui primo comma afferma: “Indipendentemente dagli
obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi
dell’arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato
all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della
trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del
Comandante generale dell’Arma dei carabinieri”. Faccio presente che tale norma è
stata solo riordinata all’interno del DPR 90/2010, la sua datazione è anteriore
alla legge 400/1988 sull'Ordinamento del Governo, pertanto si tratta di un atto
formalmente presidenziale, ma sostanzialmente governativo. Sembrerebbe che i
doveri connessi alla dipendenza gerarchica, imposti dall’ordinamento speciale,
siano distinti e separati dagli obblighi di polizia giudiziaria stabiliti
dall’ordinamento statuale. Ed in caso di conflitti? Non entro nel merito delle
“modalità stabilite”, essendo le “istruzioni” norme esecutive interne emanate da
un’autorità amministrativa, non vengono pubblicate in Gazzetta Ufficiale. Pur
tuttavia, mi chiedo: può una norma di rango infimo, che distribuisce pifferi a
pifferai, disporre indipendentemente dagli obblighi prescritti dal c.p.p.? Si
tenga a mente che la fase d’inoltro delle informative di reato precede quella
delle indagini preliminari, che devono rimanere segrete. Il vocabolo “segreto”
deriva dal verbo “seiungo” ossia, “secerno”, “separo”; rispetto a un dato fatto
il segreto separa chi è tenuto a sapere, da tutti gli altri che non devono
sapere. E’ di tutta evidenza che le possibilità che un fatto rimanga segreto
diminuiscano all'aumentare del numero delle persone che ne vengono a conoscenza.
Si tratta di discorsi elementari, sui quali l'espositore educato non insiste,
temendo di offendere il lettore. E forse sbaglia! E se la notizia che deve
rimanere segreta fosse conosciuta da chi non deve sapere? E se l’informativa di
reato riguardasse esponenti delle istituzioni, o dei poteri forti in generale?
Guardiamo la questione da un altro punto di vista. Nel caso fosse impartita
dall’autorità politica una linea guida (disposizione) non concordata,
l’ordinamento militare avrebbe gli anticorpi per contrastarla? A parere dello
scrivente, la risposta è negativa. La legge 382/78, voluta anche dall’allora
Presidente Pertini, prevede che un ordine non sia eseguito se illecito, ma il
relativo regolamento (DPR 545/86) – che era atteso entro i successivi sei mesi,
ma venne emanato a distanza di ben otto anni (cioè dopo dodici mesi che il
presidente-partigiano era cessato dal mandato) - ha reso la previsione di
difficile attuazione: L’illiceità andrebbe fatta presente non a un’autorità
esterna e terza, bensì all’interno della stessa autorità militare. La
rappresentanza militare, oltre ad essere gerarchizzata, può solo avanzare
proposte, tra l’altro non vincolanti, limitatamente a determinati argomenti che
attengono alle mense e ai servizi igienici Le note premiali, i giudizi annuali
caratteristici e le speculari sanzioni disciplinari, sono svincolate dal
principio di legalità e di tassatività, nonostante incidano, attraverso gli
avanzamenti, sul diritto soggettivo alla giusta retribuzione; le sanzioni
disciplinari di Corpo incidono addirittura sulla libertà personale. Ma com’è
riuscito l’ordinamento militare a derogare ai principi costituzionali e, in
particolare, a rimanere impermeabile al principio di legalità? L’ordinamento
speciale si distingue da quello statuale per la presenza al suo interno di norme
che si basano sulla regola dell’onore militare. Quando si parla di onore
militare ci si riferisce a tutte quelle qualità etico-psicologiche, espressione
di purezza d’animo - quali onestà, lealtà, rettitudine, fedeltà, giustizia,
imparzialità - che procurano la stima altrui e che sono dal militare gelosamente
detenute e custodite, nell’intimo convincimento della necessità di mantenerle
integre. Le origini dell’onore militare si perdono nella notte dei tempi e vanno
fatte risalire alla cosiddetta “ordalia del giuramento”, cui accenna Tito Livio
in un suo scritto che risale al 293 avanti Cristo. Il giuramento militare si
prestava di fronte all’altare e si chiamava “sacramentum militiae”. Esso aveva
una funzione propriamente sacramentale: era il momento nel quale gli dei si
chinavano sul miles romano e ne modificavano lo stato personale. Dopo il
giuramento i milites romani, infatti, potevano chiamarsi “sacrati”, poiché si
riteneva che, durante il rito, ricevessero un supplemento di purezza, oltre che
di forza e di coraggio. Da quest’atmosfera di ritrovata purezza, trovò facile
accoglimento la regola dell’onore militare, su cui si fonda il principio di
supremazia speciale, che ancora oggi sopravvive nelle norme regolamentari che
derogano ai principi costituzionali. Il legislatore regolamentare ha ritenuto
che il presunto onore del superiore sia sufficiente a compensare le limitazioni
dei diritti costituzionali del sottoposto; in particolare, vi è la convinzione
che la completa attuazione dell’art. 52 Cost., III comma, possa nuocere alla
“massima coesione interna” del comparto militare (Cort. Cost. 449/99). Però, non
ci si è mai chiesti a cosa potrebbe nuocere, in tempo di pace, una totale ed
ermetica coesione interna della polizia giudiziaria militarmente organizzata nel
caso dovesse ricevere delle “linee guida” errate da parte dell’autorità
politica. Quali le conseguenze sull’obbedienza militare? E quali i contraccolpi
sulla procedura penale?
3. La
Direzione Investigativa Antimafia.
Nel 1991, in un contesto di grave emergenza mafiosa, con L. n. 410/1991 è stata
istituita la Direzione Investigativa Antimafia (DIA), la Direzione nazionale
antimafia (DNA) e la figura del Procuratore nazionale antimafia. La DIA è
l’unico organismo investigativo interforze con competenza monofunzionale di
contrasto alle organizzazioni mafiose. La DIA, infatti, senza alcun vincolo
territoriale, svolge attività d’investigazione preventiva; per di più, coprendo
l'intero territorio nazionale e internazionale, esegue indagini di polizia
giudiziaria relative a delitti di associazione mafiosa o comunque ricollegabili
a tali attività. La legge istitutiva fu ideata proprio da Giovanni Falcone. Il
magistrato ne avvertì la necessità mentre cercava di fare luce sulle
infiltrazioni mafiose all’interno delle istituzioni. Falcone, presumibilmente,
ritenne che lo strumento investigativo di cui disponeva, nonostante fosse molto
efficiente contro la manovalanza mafiosa, andasse rafforzato per combattere la
mafia oltre un certo livello. Il magistrato perciò intervenne sulla linea
gerarchica e sulla dipendenza funzionale. Intrecciò e confuse nella struttura
interforze uomini appartenenti a tre differenti linee gerarchiche (Interno,
Difesa, Finanze), che fino ad allora erano state separate e alle dipendenze dei
rispettivi Ministeri. Sicché nella DIA, poliziotti, carabinieri e finanzieri
sono inseriti, secondo il loro grado, in un’unica gerarchia che è posta alle
dipendenze di una struttura centrale. Il magistrato, attraverso l’intreccio
delle tre linee gerarchiche, preservò la “polizia giudiziaria interforze” da
eventuali conseguenze sull’obbedienza militare dovute alla mancata attuazione
dell’art. 52 Cost.. Inoltre, per meglio custodire l’autonomia del nuovo
strumento investigativo, lo pose al di fuori delle articolazioni gerarchiche e
strutturali del Dipartimento, probabilmente, al fine di non indurre in
tentazione la parte malata della politica o, semplicemente, perché non credeva
fino in fondo all’ordalia del giuramento militare. Il geniale magistrato, con la
L. 410/1991, “squadrò una procedura ad hoc, … un ordigno così efferato da
richiedere sommessi interventi correttivi nella prassi”. La prima fase di
operatività della DIA fu, però, segnata da una serie di notevoli difficoltà di
carattere organizzativo, che rischiarono di minarne fortemente la sua autonomia
e incisività. Tra le difficoltà ci furono quelle relative al reperimento delle
risorse umane perché nessuno degli organi di polizia che allora svolgevano
attività specifica era disponibile a cedere il personale, soprattutto se questo
era qualificato. Le difficoltà sono state costantemente evidenziate sin
dall’istituzione della DIA. Si riporta uno stralcio degli interventi di Giuseppe
Tavormina, primo Direttore della Dia, e di Luciano Violante, rispettivamente
nelle audizioni in Commissione antimafia del 16 marzo 2011 e del 29 marzo 2011.
Da queste
storture nascono i casi di conflitto.
Il maresciallo
capo dei Carabinieri Saverio MASI ha presentato una denuncia con la quale espone
in modo circostanziato la possibile storia della mancata cattura di Bernardo
Provenzano, prima, e di Matteo Messina Denaro, poi. E’ il racconto di una serie
sconcertante di ostacoli che sarebbero stati interposti dai superiori alla
cattura dei due boss di Cosa Nostra. Il resoconto del maresciallo Saverio Masi -
già sentito come teste nell’ambito al processo contro il generale Mario Mori -
ricorda quello del colonnello Michele Riccio che parimenti denunciò di essere
stato ostruito dai superiori nella cattura di Provenzano. Il maresciallo Masi è
oggi il capo scorta del Pubblico Ministero Nino Di Matteo e condivide con lui
quotidianamente il rischio attentati, di recente rilanciato da fonti anonime.
Negli anni dal 2001 al 2008, il militare aveva costituito una propria squadra e
aveva imboccato la pista di un casolare nei pressi di Ciminna, probabile covo di
Provenzano, allora latitante da decenni. Secondo quanto esposto nella denuncia,
il sottufficiale sarebbe stato bloccato nelle indagini e poi obbligato a
coordinarsi con uomini del ROS che, con vari stratagemmi, gli avrebbero impedito
ogni tipo di indagine e di pedinamento del boss. Il maresciallo ha denunciato le
forti pressioni ed i continui cambi di incarico cui sarebbe stato sottoposto al
fine di abbandonare la caccia dei boss latitanti, fino al punto di essere
investito da un ufficiale suo superiore con la frase: «Noi non abbiamo nessuna
intenzione di prendere Provenzano! Non hai capito niente allora? Lo vuoi capire
o no che ti devi fermare? Hai finito di fare il finto coglione? Dicci cosa vuoi
che te lo diamo. Ti serve il posto di lavoro per tua sorella? Te lo diamo in
tempi rapidi!». Lo stesso dicasi per la cattura di Matteo Messina Denaro che il
sottufficiale sarebbe riuscito addirittura ad incrociare per strada, in
incognito, ad un metro di distanza. Anche stavolta egli avrebbe chiesto senza
esito di essere approvvigionato di uomini e mezzi necessari per sottoporre a
verifica persone, vetture ed abitazioni vicine o di pertinenza del boss.
Paradossalmente, oggi il sottufficiale è lui sotto processo per falso ideologico
e materiale e tentata truffa, per aver chiesto l’annullamento di una sanzione
del codice della strada subita con un'auto privata durante un servizio di
polizia giudiziaria. «Usavamo sempre macchine di amici e parenti per fare i
pedinamenti - aveva spiegato Masi nell’ambito del processo Mori - in quanto i
fiancheggiatori conoscevano ed annotavano le targhe delle auto di servizio che
usavamo. Così, ad esempio, se dovevamo entrare a Bagheria, ricorrevamo ad auto
intestate a nostri conoscenti del posto, in modo da non destare alcun sospetto,
e di multe ne abbiamo ricevute diverse. Era una procedura che i miei superiori
conoscevano». I superiori del militare, sentiti nel processo a suo carico, lo
hanno però smentito, affermando di non avere mai autorizzato l’uso di mezzi
privati per attività di polizia giudiziaria. Il sottufficiale è difeso dagli
avvocati Giorgio Carta - ex ufficiale dei Carabinieri - e Francesco Desideri.
«La denuncia del nostro assistito - dichiara l’avvocato Giorgio Carta - descrive
una pagina buia della storia d’Italia e dell’Arma dei Carabinieri. Ci auguriamo,
pertanto, che i fatti riportati siano oggetto di un accertamento approfondito e
scevro da condizionamenti che faccia emergere la verità, qualunque essa sia.
Certo, lascia sgomenti che un militare che ha dato tanto allo Stato, sia oggi
sotto processo con l’accusa di aver falsificato un atto al solo fine di far
annullare un verbale del codice della strada. In tal modo, il militare rischia
la destituzione che, certamente, costituirebbe un sinistro monito a tutti i
carabinieri che intendano impegnarsi come lui nel contrasto alla mafia».
Aggiunge l’avvocato Francesco Desideri che «il maresciallo Masi avrebbe dovuto
trovare appoggio, sostegno e credito già nel corso del primo grado di giudizio,
cosa che non è occorsa. Un servitore dello Stato che oltre ogni immaginabile
sforzo, dovere ed obbligo si è profuso nella lotta contro la malavita
organizzata ed in particolare contro la mafia, non può essere ritenuto un
mistificatore ed un truffatore. Ciò non perché debba essere ritenuto scevro da
censure stante la sua posizione, ma perché ha semplicemente svolto il suo
dovere, anche con grande sacrificio personale ed economico. Faremo ogni
possibile sforzo affinché dinanzi la Corte di Appello Penale di Palermo emerga
la verità dei fatti, utile a scagionare definitivamente il maresciallo Masi".
Come rivelato da GrNet.it
e dal Corriere della Sera, il maresciallo capo dei Carabinieri Saverio Masi, che
ha denunciato i superiori per averlo ostacolato nella ricerca di Bernardo
Provenzano e Matteo Messina Denaro, è oggi sotto processo per i reati di falso e
di tentata truffa. Secondo l’accusa, al fine di farsi annullare una sanzione del
codice della strada, egli avrebbe falsificato un atto, al fine di attestare
l’utilizzo per motivi di servizio di un’autovettura privata. Il militare è stato
condannato in primo grado dal tribunale di Palermo alla pena sospesa di 8 mesi
di reclusione, nonostante abbia cercato di dimostrare che era una prassi
consolidata l’utilizzo di vetture private per svolgere attività di polizia
giudiziaria, "in quanto i fiancheggiatori conoscevano ed annotavano le targhe
delle auto di servizio che usavamo". I superiori chiamati a deporre nel
processo, però, lo hanno smentito, affermando che l’utilizzo delle vetture
private "doveva essere preventivamente autorizzato dall’ufficiale" e che "anche
il comandante della sezione doveva mettere immediatamente a conoscenza il
superiore gerarchico, quindi il comandante del nucleo investigativo che, in
qualità di responsabile del servizio di polizia giudiziaria … doveva autorizzare
l’impiego", "però non un servizio prettamente operativo come poteva essere
insomma un pedinamento o un servizio di osservazione". Il tribunale di Palermo
ha fatto proprie queste testimonianze ed ha ritenuto che, nel caso di specie,
Saverio Masi avesse utilizzato il mezzo provato senza esserne autorizzato,
perciò condannandolo. I nuovi difensori del sottufficiale - gli avvocati Giorgio
Carta e Francesco Desideri – stanno cercando di ribaltare la decisione di primo
grado e intenderebbero far accertare se, contrariamente a quanto statuito dalla
sentenza di primo grado, la prassi invalsa nell’Arma dei carabinieri e nelle
altre forze di Polizia fosse, invece, quella del libero utilizzo delle vetture
private anche per attività operative, senza necessità di una specifica
autorizzazione dei superiori, precedente o postuma. Dopo aver appreso della
denuncia del maresciallo capo dei Carabinieri
Saverio Masi,
un altro militare dell’Arma rende noto di essere stato anch'egli ostacolato dai
propri superiori nella ricerca di Bernardo Provenzano, scrive GrNet.it.
Il carabiniere ha preso contatto con i legali del maresciallo Masi – gli
avvocati Giorgio Carta e Francesco Desideri– e, dopo un lungo incontro svoltosi
a Palermo, ha deciso di presentare una denuncia circostanziata sui fatti
occorsigli. Si parla degli anni dal 2001 al 2004 e di fatti diversi da quelli
denunciati da Saverio Masi, ma riguardanti sempre la ricerca di latitanti, ed in
particolare di Bernardo Provenzano. Il militare, all’epoca in servizio presso il
Comando Provinciale Carabinieri di Palermo, riferisce di avere ricevuto
inspiegabili ordini di non proseguire le indagini ed di aver subito lo stesso
tipo di ostacoli denunciati dal Maresciallo Masi.
Ordini militari e disordini normativi.Il
militare tedesco ha imparato dalla storia a legare l'asino dove vuole la legge,
quello italiano continua a legarlo dove vuole il padrone, scrive di Cleto Iafrate.
Non c’è conversazione tra colleghi, avente ad oggetto l’esecuzione degli ordini
ricevuti, che non si concluda con la seguente frase: “… e che vuoi fare, bisogna
legare l’asino dove vuole il padrone”. Molti ritengono addirittura che questa
frase, ispirata da rassegnazione mista ad opportunismo, contenga una specie di
“elisir di lunga vita”; cioè, sono convinti che il segreto per non avere alcun
problema in servizio consista nell’eseguire alla lettera qualsiasi ordine
ricevuto, anche quelli di dubbia legittimità. Pur comprendendo appieno e
giustificando le ragioni poste a fondamento di questa convinzione, essa da
sempre ha destato in me parecchie perplessità. Sotto il profilo formale, non mi
è mai piaciuta in quanto presuppone l’esistenza di uno stalliere, di un asino e
del suo padrone: chi la pronuncia si vede nel ruolo di stalliere, al servizio di
un padrone ed a guardia di un asino, e già questo è tutto dire. Nella sostanza,
invece, ritengo che il convincimento sotteso a quell’affermazione sia
addirittura rischioso per chi ne fa una regola di comportamento. Per chiarire il
concetto intendo ricordare quanto accaduto qualche anno fa ad un agente di
polizia, al quale mi riferirò utilizzando un nome di fantasia: lo chiamerò “Unodinoi”.
Era una giornata piovosa ed un convoglio di auto di servizio, proveniente da
Salerno, procedeva in direzione Reggio Calabria; faceva rientro al Reparto, dopo
aver espletato il servizio di ordine pubblico in occasione dello svolgimento di
una partita di calcio. Il funzionario che conduceva l’auto alla testa del
convoglio, che era anche il più alto in grado, ordinava alle auto che lo
seguivano di aumentare la velocità oltre i limiti consentiti per ridurre la
distanza tra le vetture. A causa dell’intensa pioggia e della scivolosità del
fondo stradale, che incidevano sulla stabilità delle automobili, l’ordine non
veniva prontamente eseguito. Il funzionario ribadiva ripetutamente, via radio,
l'ordine perentorio di accelerare l'andatura; in particolare, rivolgendosi ad
Unodinoi, che conduceva l’auto che lo seguiva, gli intimava “di procedere
attaccato alla sua vettura". Costui - proprio come avrebbe fatto la maggior
parte di noi, per timore di essere sottoposto ad un procedimento disciplinare o
di ripercussioni in sede di redazione della documentazione caratteristica –
obbediva all’ordine ricevuto (e confermato) ed aumentava, quindi, la velocità
oltre i limiti consentiti. Improvvisamente, il funzionario che guidava l’auto
alla testa del convoglio e che aveva impartito l’ordine frenò bruscamente.
Nonostante Unodinoi avesse provato ad effettuare una manovra di emergenza di
sterzata e controsterzata, la sua auto si ribaltò rovinosamente, causando il
decesso del collega che viaggiava con lui. Da quel momento per Unodinoi è
iniziato un lungo e travagliato calvario giudiziario. Il giudice di prime cure
lo condanna per concorso in omicidio colposo. Il giudice d’appello, con sentenza
emessa in data 28 settembre 2006, lo assolve perché “il fatto non sussiste”. Il
Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Catanzaro, inoltre, propone
ricorso per Cassazione avverso la sentenza ritenendo che "i reiterati ordini di
accelerare, impartiti dal (funzionario) potevano essere sindacati e disattesi
perché illegittimi, … tanto più che non vi era alcuna urgenza o necessità palese
né rappresentata”. La Suprema Corte, infine, ritenuti fondati i motivi addotti
dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello, riconosce la responsabilità
penale di Unodinoi e lo condanna per omicidio colposo in concorso con il datore
dell’ordine. La condanna viene decisa sulla base del seguente ragionamento:
“qualificato l'ordine come illegittimo ma sindacabile, il subordinato avrebbe
dovuto disattenderlo e non dare ad esso attuazione. Avendo scelto, al contrario,
di adempiervi, ha violato, così, norme del codice della strada, rivelatesi
causali rispetto al fatto di reato poi verificatosi” (Cass. Pen. Sez. IV, 05
dicembre 2007, n. 888). Faccio una precisazione. Se al posto dell’agente di
polizia ci fosse stato un militare, non sarebbe cambiato nulla. Ciò in quanto le
norme di riferimento prese in esame dai giudici si applicano sia ai militari che
agli appartenenti alla smilitarizzata polizia. Su entrambi, infatti, grava un
dovere di obbedienza allorché, dopo che l’inferiore ha esposto al superiore le
proprie perplessità, l’ordine viene confermato. L’unica differenza consiste nel
fatto che per il militare la conferma dell’ordine può avvenire anche
verbalmente, invece, nel caso dell’appartenente alla P.S., è richiesta la forma
scritta. Tale lieve differenza normativa, però, nel caso di specie, non ha avuto
alcun rilievo ai fini processuali. Per un approfondimento, in merito alle norme
che regolano l’esecuzione degli ordini militari, si veda anche qui.
Riflettendo sulla travagliata vicenda giudiziaria subita da Unodinoi, mi è
venuta in mente la legge processuale che aveva istituito il Pascià turco Alì di
Tepeleni: il giudice al servizio del Pascià lanciava in aria una moneta, se
veniva testa, assolveva l’imputato, se veniva croce, lo condannava. E siccome
una volta gli vennero tre teste di seguito, per le successive tre volte abolì la
testa in modo da ristabilire quella perfetta parità quantitativa di assoluzioni
e di condanne in cui egli vedeva l’optimum dell’umana giustizia. Alla luce dei
fatti, la legge processuale stabilita dal Pascià non sembra meno garantista di
quella applicata ad Unodinoi, se non altro, in fatto di percentuale di
probabilità di venir assolti o condannati; con la differenza che all’epoca di
Alì di Tepelani, i tempi della giustizia erano molto più brevi, duravano il
lancio di una moneta, mentre nel caso in esame ci sono voluti diversi lunghi
anni. Dall’esito di tutta la vicenda, sembrerebbe che, pur legando l’asino dove
vuole il padrone, comunque non si è esenti da responsabilità in concorso con il
padrone. Si spera di avere presto regole più chiare da parte del legislatore
ordinario; in attesa, si continui pure a legare l’asino dove vuole il padrone,
ma con le dovute cautele e le necessarie precauzioni, coscienti che, nel caso in
cui le cose non dovessero andare nel verso giusto, eventuali responsabilità
potrebbero venir condivise con il padrone. Cercherò, a questo punto, di spiegare
i motivi per cui ho affermato di comprendere e giustificare le ragioni poste a
fondamento della suddetta convinzione. Esiste una regola generale comune a tutti
gli Stati di diritto, secondo la quale qualsiasi autorità è subordinata alla
legge e l’obbedienza è subordinata all'autorità. In altre parole, essendo gli
organi dello Stato subordinati alla legge, l'ordine di commettere un fatto
contrario ad una norma di legge non è vincolante e, di conseguenza, il
subordinato che lo esegue non è esente da responsabilità. Ogni Stato, inoltre,
ha previsto gli opportuni rimedi per i casi di violazione di questa regola
generale, in ragione della filosofia giuridica che ha ispirato le sue scelte
politiche. Analizziamo i rimedi italiani e quelli che ha previsto la Germania.
Per farlo, poniamo in relazione l’articolo 47 del Codice Militare tedesco con
l'articolo 51 del Codice Penale italiano, che, in virtù della Legge di Principio
sulla Disciplina Militare, si applica anche ai militari. Il rimedio offerto
dall’ordinamento giuridico italiano è stato elaborato nel clima che si respirava
in Italia nel 1930, anno di emanazione del Codice Penale vigente; mentre la
Germania ha scritto la sua norma dopo i processi di Norimberga, nei quali la
difesa più ricorrente utilizzata dai collegi difensivi degli accusati era basata
sulla seguente frase: “ordini superiori”. L'art. 51 del codice penale italiano,
con un cerchiobottismo da manuale, prevede che:
"1. L'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma
giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la
punibilità.
2. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell'Autorità, del reato
risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l'ordine.
3. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l'ordine, salvo che, per errore di
fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo.
4. Non è punibile chi esegue l'ordine illegittimo, quando la legge non gli
consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine".
Diversamente,
l’art. 47 del codice militare tedesco prevede che: "Se l'esecuzione di un ordine
militare porta alla violazione della legge criminale il superiore che ha
impartito l'ordine sarà il solo responsabile. Comunque il subordinato che
obbedisce condividerà la punizione se ha ecceduto l'ordine impartitogli o se
avrebbe potuto rendersi conto che l'ordine concerneva un atto costituente reato
civile o militare". Sembrerebbe che la norma tedesca si sia completamente
ispirata al pensiero di John Locke, mentre quella italiana da una parte tende la
mano alla filosofia giuridica di John Locke e dall’altra strizza l’occhio al
pensiero di Thomas Hobbes. In buona sostanza, in Germania il militare che riceve
un ordine “dubbio” deve semplicemente chiedersi: l’ordine che ho ricevuto viola
qualche legge civile o militare? Se la risposta è affermativa non lo deve
eseguire, in caso contrario, vi darà attuazione. Parimenti, il giudice tedesco,
chiamato a giudicare chi ha eseguito un ordine concernente un atto costituente
reato, dovrà chiedersi: l’esecutore dell’ordine poteva rendersi conto, con la
diligenza dell’uomo medio, che quell’ordine configurava un reato civile o
militare? Se la risposta è affermativa lo condannerà, in caso contrario, lo
assolverà. In Italia, invece, il militare che riceve un ordine “dubbio” deve
porsi le domande che seguono.
Si tratta di un
ordine lecito, di un ordine illecito (criminoso) oppure di un ordine
illegittimo?
Qui subentra un
primo problema in quanto, se è vero che ogni ordine criminoso (illecito) è anche
illegittimo, non vale l'inverso, non essendo ogni ordine illegittimo di per sé
anche criminoso. Ammettiamo che il militare ritenga l’ordine, semplicemente,
illegittimo, ma non già criminoso (illecito); in questo caso, il militare si
dovrà, ulteriormente, chiedere: Si tratta di un ordine illegittimo sindacabile
oppure di un ordine illegittimo insindacabile? (come quello impartito ad
Unodinoi). La dottrina più attenta ha introdotto l’ulteriore quesito che
dovrebbe porsi l’esecutore italiano: Si tratta di illegittimità formale oppure
di illegittimità sostanziale? Per semplicità d’esposizione intendo tralasciare
questa ulteriore classificazione degli ordini, si sappia però che essa può
essere rilevante ai fini di un eventuale processo. Per far comprendere le
difficoltà che incontra colui che deve eseguire l’ordine, faccio un esempio:
l’ordine ricevuto dal superiore di punire un proprio inferiore, che tipo di
ordine deve considerarsi? E’ un ordine illecito, legittimo o illegittimo?
Se illegittimo, si tratta di illegittimità formale oppure sostanziale? E’ un
ordine illegittimo insindacabile oppure illegittimo sindacabile? Se sindacabile,
quando diventa insindacabile? Non finisce qui. Qualora, malauguratamente, il
militare dovesse essere sottoposto ad un giudizio per aver eseguito l’ordine
(dubbio), dovrà sperare che tutti i giudici chiamati a giudicarlo, ponendosi le
stesse domande, rispondano allo stesso modo, il che non è scontato. Nel nostro
caso, infatti, il secondo giudice ha dato alle domande una risposta che concorda
con quella fornita da Unodinoi, mentre il primo ed il terzo giudice hanno dato
risposte contrarie.
L’ordinamento
italiano, a differenza di quello tedesco, prevede un’eccezione alla regola
secondo cui tutti gli organi dello Stato sono subordinati alla legge. Essa è
contenuta nell'ultimo comma dell'art. 51 C.P., che prevede il caso in cui la
legge non consenta al subordinato di sindacare la legittimità dell'ordine
ricevuto. Ma in quali casi la legge non consente di sindacare la legittimità
degli ordini? Cioè quali sono gli ordini illegittimi insindacabili? La legge
succitata nulla dice sul punto della sindacabilità. Altra fonte normativa di
rango inferiore si limita a dire che gli ordini che vengono confermati vanno
eseguiti. Quindi nel caso in cui venga confermato un ordine che viola una norma
di legge non penale, secondo l’ordinamento italiano va eseguito, secondo quello
tedesco no. Ritengo che Unodinoi abbia agito correttamente e che il giudice nel
condannarlo non abbia considerato il fatto che l’ordine illegittimo, se
confermato, diventa un ordine insindacabile, pertanto, deve essere eseguito. Il
fatto che la conferma non sia avvenuta per iscritto non ha alcuna importanza, in
quanto la conferma via radio ha lo stesso valore probatorio di una conferma
scritta. Ma allora se Unodinoi ha agito correttamente, perché è stato
condannato? Complice la poca chiarezza della norma, che presta il fianco ad
equivoci e ad interpretazioni di vario genere. Ecco spiegati i motivi per cui ho
affermato di comprendere e giustificare le ragioni poste a fondamento della
convinzione in esame: l’ambiguità normativa determina nell’esecutore, che
normalmente non è un giurista esperto, una tale incertezza da indurlo a
scegliere sempre la strada più semplice e meno rischiosa, cioè quella di “legare
l’asino dove vuole il padrone”. Tale convinzione si fonda sì sull’incertezza
normativa, ma è sostenuta e rafforzata anche da altri elementi sinergicamente
combinati tra di loro.
Voglio così sintetizzarli:
a. il divieto
imposto ai militari di riunirsi liberamente e di costituire associazioni
professionali;
b. le
limitazioni imposte alla libera manifestazione del loro pensiero;
c.
l’impossibilità di accedere agli atti amministrativi in caso di violazione di
interessi legittimi (la normativa vuole che i trasferimenti di reparto siano
assimilati agli ordini militari, quindi possono avvenire per non meglio
specificate esigenze di servizio);
d. le sanzioni
degli “arresti semplici” svincolate dal principio di legalità e di tassatività
degli illeciti;
e. la normativa
che regola gli avanzamenti, soprattutto degli ufficiali;
f. la normativa
che regola i giudizi annuali caratteristici (che incidono pesantemente sulla
progressione di carriera con ovvie ripercussioni stipendiali);
g. gli organismi
di rappresentanza che, oltre a non poter parlare di alcuni argomenti, non sono a
base democratica in quanto presieduti dal più alto in grado.
La convergenza
di tutti questi elementi ha l’effetto di infiacchire la volontà di tutto il
comparto che detiene il monopolio della forza e gestisce l’ordine pubblico e la
sicurezza nazionale. Vi è da precisare che le problematiche esposte non
riguardano solo la base, ma attraversano trasversalmente tutta la catena
gerarchica. In tempo di guerra la convinzione che attiene al “quadrupede
slegato”, certamente, è una formula vincente perché fa degli uomini armati un
corpo unico con una volontà affievolita al fine di attuare le disposizioni
ricevute da chi assume le decisioni strategiche. Ma in tempo di pace, quando i
militari, deposte le armi, sono dei pubblici ufficiali (i cui atti fanno fede
fino a querela di falso), possono rimanere con una volontà limitata o,
quantomeno, condizionata se non addirittura intimidita? E se la militarizzata
polizia giudiziaria, a seguito di una riforma della giustizia, subisse una
maggiore influenza del potere politico, quali potrebbero essere le possibili
ripercussioni sulla democrazia? Gli atti pubblici che verrebbero redatti da chi
ha una volontà appesantita da simili condizionamenti conserverebbero tutti i
loro requisiti sostanziali? Li conserverebbero anche nel caso riguardassero
fatti che creano imbarazzo ai “poteri forti” Quando le domande sono difficili,
le risposte vanno ricercate nei Sacri Testi che, oltre a contenere parole di
vita eterna, offrono anche utili spunti di riflessione per regolare la vita di
quaggiù. Si legge che quando i militari posti a guardia del Santo Sepolcro si
recarono dai capi giudei a riferire ciò che, nell’adempimento delle loro
consegne di servizio, avevano visto con i loro occhi, cioè che Gesù era risorto,
i capi giudei, che rappresentavano il potere politico di allora, dissero ai
militari: <<DICHIARATE: i suoi discepoli sono venuti di notte e l'hanno rubato,
mentre noi dormivamo. E se mai la cosa venisse all'orecchio del Governatore, noi
lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione>>. (Mt 28, 13 – 14). A
quell’epoca, i capi giudei erano interessati, principalmente, a difendere e
consolidare il loro potere. Oggi, però, sono altri tempi. Scarica la sentenza nr. 888 del 05 dicembre
2007 - Cass. Pen. Sez. IV
Il Militare e la Politica. Scelta d’amore
oppure matrimonio combinato? GrNet.it
pubblica un'interessante analisi di Cleto Iafrate, anche di tipo storico, sui
rapporti tra cittadino militare, società civile e politica. 1. Il Fatto - 2.
Cornice storica pre-repubblicana - 3. I lavori dell’Assemblea costituente e le
norme costituzionali – 4. Le norme ordinarie attuative dell’art. 98 della
Costituzione - 5. Il carattere educativo della disciplina militare – 6.
L’obbedienza militare - 7. La regola dell’onore militare - 8. Considerazioni
conclusive
1. Il Fatto. Un
giovane carabiniere – in possesso di una laurea in giurisprudenza e in procinto
di conseguirne una seconda in scienze politiche - nell’agosto del 2010 s'iscrive
ad un partito, allo scopo di partecipare attivamente alla vita politica del
nostro Paese. Si tratta di un partito che, all’epoca dei fatti, poteva definirsi
d’opposizione, oggi non saprei. Una formazione politica, quindi, che
intercettava il dissenso dei cittadini nei confronti delle scelte politiche
dell’allora maggioranza di governo; soprattutto in tema di giustizia e fisco. In
materia di giustizia, per esempio, il programma di quella formazione politica
prevede la rivisitazione dei termini di prescrizione dei processi, in modo da
ridurre al minimo i casi d’impunità. In tema fiscale, oltre ad esprimere
assoluta contrarietà ai condoni, propone:
- la detrazione
del maggior numero possibile di spese, in modo da far emergere il sommerso e
ridurre così l’evasione fiscale;
- l’eliminazione
degli studi di settore, ritenendo che costituiscano un incentivo all’evasione;
- l’innalzamento
fino al 20% della tassazione sulle rendite finanziarie;
- la
reintroduzione del falso in bilancio e pene più severe per chi commette reati di
tipo finanziario o societario.
Il militare
all’interno del partito assume anche un incarico di responsabilità; ma in una
regione diversa (Piemonte) rispetto a quella in cui presta servizio (Umbria).
Quando il carabiniere notizia i suoi superiori dell’impegno politico assunto,
questi aprono nei suoi confronti un procedimento disciplinare. Al militare viene
contestata la “lesione del principio di estraneità delle forze armate alle
competizioni politiche”e viene aperto nei suoi confronti un procedimento
disciplinare. Il carabiniere, allo scopo di evitare ulteriori e più gravi
conseguenze disciplinari, presenta un ricorso gerarchico nel quale ipotizza di
essere vittima di un’arbitraria e ingiustificata disparità di trattamento. Fa
presente che l’Amministrazione ha tollerato e consentito ad altri militari di
svolgere attività politica, presumibilmente perché iscritti ad un altro partito.
Negli atti del ricorso segnala almeno cinque nomi di altrettanti militari in
servizio attivo nell’Arma che militano tra le file di un opposto schieramento
politico, i quali, tra l’altro, sono stati anche eletti consiglieri ed assessori
in diversi comuni laziali. Il militare rileva che in nessuno di questi casi
l’Amministrazione ha avviato dei procedimenti sanzionatori, come se l'esercizio
dei diritti politici fosse legittimo soltanto se attuato nei confronti di
determinate formazioni politiche. Il carabiniere non riesce, però, con queste
argomentazioni ad evitare la sanzione disciplinare, che puntualmente arriva. Il
procedimento disciplinare, infatti, si conclude con l'irrogazione di 5 giorni di
consegna di rigore. Si tratta della più grave delle sanzioni disciplinari,
assimilabile all’espiazione carceraria prevista per i più gravi reati penali con
l'obbligo di scontare la "pena" nel proprio alloggio in caserma (l'equivalente
degli arresti domiciliari per un comune cittadino). Ne parlerò nel quinto
paragrafo. A quel punto, il cittadino militare, dopo aver scontato la pena,
decide di invocare il Tribunale amministrativo regionale competente per
difendere i suoi diritti costituzionali. Il TAR per l'Umbria nel dicembre 2011
non solo dà ragione al carabiniere ma addirittura condanna l'Amministrazione al pagamento di tutte
le spese legali e processuali.
Di seguito la sentenza NR. 146/2011.
Questi sono i fatti. La vicenda mi offre lo spunto per proporre una riflessione
sul valore educativo della disciplina militare ed i suoi riflessi
sull’obbedienza del militare. Partirò da lontano.
2. Cornice
storica pre-repubblicana. Il ruolo svolto dalle Forze armate, dalla
proclamazione del Regno d’Italia in poi, è stato, oltre a quello di difesa dei
confini, anche, e a volte soprattutto, di repressione delle istanze democratiche
che si ponevano, di volta in volta, in conflitto con gli orientamenti del
governo centrale. Si consideri che nel Regolamento di disciplina militare,
entrato in vigore l’1 gennaio 1860 (approvato con R.D. 30 ottobre 1859), per la
prima volta nella storia dei regolamenti militari, viene inserita una premessa
introduttiva. In essa si afferma che l’esercito è istituito prima “per
sorreggere il trono” e poi per “tutelare le leggi e le istituzioni
nazionali”(una copia dell’edizione originale è reperibile presso la biblioteca
dell’istituto geografico militare di Firenze). All’indomani dell’unità d’Italia,
le truppe garibaldine, composte prevalentemente da contadini del sud, non furono
accettate nei quadri dell’esercito regolare (a causa, probabilmente, del
ragionamento alla base di quella premessa). Si preferì, piuttosto, recuperare i
quadri del vecchio esercito borbonico sconfitto; ciò fu possibile grazie anche
all’influenza di una classe di ufficiali che proveniva dalla vecchia nobiltà
terriera o dall’alta borghesia. Delle truppe garibaldine, entrarono a far parte
dell’esercito regolare solamente gli ufficiali, che, tra l’altro, furono posti,
per la massima parte, in disponibilità o in aspettativa. Per queste e altre
ragioni il popolo sentiva l’esercito staccato dalla vita civile e l’esercito
stesso si sentiva escluso e separato da questa. La frattura diventò ancor più
evidente tra il 1861 e il 1865, quando l’esercito fu impiegato per reprimere le
istanze dei contadini contro il governo. I più determinati erano i contadini
siciliani che parteciparono alle proteste armati di forconi. Si consideri che la
ricchezza, all’epoca, era iniquamente distribuita; essa era detenuta quasi
esclusivamente da un ristrettissimo numero di latifondisti mentre la massa di
braccianti agricoli era ridotta alla fame e viveva in uno stato di miseria e
sfruttamento. Sempre a quel tempo, non esisteva ancora lo stato sociale e i
lavoratori erano totalmente privi di tutele. Il lavoro era, per così dire,
totalmente flessibile, ciò determinava l’accettazione di condizioni lavorative
ai limiti della schiavitù da parte di un sempre crescente numero di disperati.
L’azione di repressione dei contadini fu favorita anche da una disciplina
militare rigida e improntata all’obbedir pronto e assoluto. Giolitti, in un
discorso tenuto nel settembre del 1900, affermò che le questioni sociali erano
più importanti di quelle politiche e che sarebbero state esse in avvenire a
differenziare i vari gruppi politici gli uni dagli altri. Egli precisò
chiaramente la sua posizione, nei seguenti termini: "Il paese, dice l'On.le
Sonnino, è ammalato politicamente e moralmente, ed è vero; ma la causa più grave
di tale malattia è il fatto che le classi dirigenti spesero enormi somme a
beneficio proprio, quasi esclusivo, e vi fecero fronte con imposte, il peso
delle quali cade in gran parte sulle classi più povere. Noi abbiamo un gran
numero di imposte sulla miseria: il sale, il lotto, la tassa sul grano, sul
petrolio, il dazio di consumo ecc.; perfino le tasse sugli affari e le tasse
giudiziarie sono progressive a rovescio. Quando nel 1893, per stringenti
necessità finanziarie, io dovetti chiedere alle classi più ricche un lieve
sacrificio, sorse da una parte delle medesime una ribellione assai più efficace
contro il governo che quella dei poveri contadini siciliani; e l’On.le Sonnino,
andato al governo dopo di me, dovette provvedere alle finanze rialzando ancora
il prezzo del sale e il dazio sui cereali. Io deploro quanti altri mai la lotta
di classe; ma, siamo giusti, chi l'ha iniziata?". La frattura tra i militari e
la società civile raggiunse il suo apice nell’agosto del 1917. Mentre gli operai
protestavano a Torino contro la mancanza di pane, intervenne l’esercito con le
autoblindo. La rivolta, durata tre soli giorni, costò ai dimostranti ben 35
morti. Fu questo progressivo e sempre più accentuato distacco dalla società
civile che consentì al fascismo di trovare facile esca nei quadri medio-alti
dell’esercito. I quali svolsero un ruolo decisivo nella presa del potere da
parte di Mussolini. Furono proprio i capi delle forze armate, chiamati a
consulto, a sconsigliare al re l’intervento. Alla richiesta del re sulla
convenienza di affidare all’esercito la difesa del governo liberale decretando
lo stato di assedio, Diaz e Pecoro Giraldi diedero la famosa risposta:
“L’esercito farà il suo dovere, ma è bene non metterlo alla prova”. Durante il
fascismo, i tre capi di stato maggiore trovavano un limite al loro potere
soltanto nella persona del ministro da cui ciascuno dipendeva, cioè nella
persona di Mussolini che era ministro della guerra, della marina e
dell’aeronautica e manteneva separate le tre amministrazioni.
3. I lavori
dell’Assemblea costituente e le norme costituzionale. All’Assemblea costituente
si chiedeva, innanzitutto, di ricucire la frattura tra l’esercito e la società
civile e di creare i presupposti affinché non si realizzassero mai più le
condizioni per una così rischiosa separazione. Il dibattito si concentrò tutto
intorno al cuore del problema: come armonizzare l’ordinamento speciale
(esistente) delle Forze armate con l’ordinamento democratico nascente.
Ripercorro alcuni punti salienti dei lavori della Costituente, utili per la
bisogna.
a) Venne subito
ritenuta primaria l’esigenza che l’esercito dovesse “perseguire le sue altissime
finalità senza l’influenza di orientamenti politici.” Si sottolineò che
“L’esercito è fatto per difendere la patria: la patria si difende sotto
qualsiasi regime e con qualsiasi orientamento politico. L’educazione dei
giovani, che devono essere portati anche al sacrificio estremo della vita, deve
essere lasciata nelle mani di persone le quali non soffrano, in alcun modo, né
l’influenza né il timore degli atteggiamenti politici” (Mastroijanni, Prima
sottocommissione, 15 novembre 1946).
b) Giolitti
dichiarò: “l’adozione del termine “spirito democratico” dimostra che si vuole
avere semplicemente questa garanzia: la garanzia di quello che è il denominatore
comune di tutti i partiti che hanno diritto di parlare e di fare sentire la loro
voce in una libera assemblea, in un’assemblea democratica come questa”(Ass.
cost., 20 maggio 1947).
c) Azzi fece
presente che sarebbe stata necessaria una “modifica della vita dell’esercito
(modificando) la mentalità degli ufficiali e modificando anche il regolamento di
disciplina”(Ass. cost., 21 maggio 1947).
Come noto, il
dibattito culminò con la stesura dell’ultimo comma dell’art. 52 Cost., il quale
sancì che “L’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico
della repubblica”. E’ utile ripercorrere brevemente anche il dibattito che ruotò
intorno alla stesura dell’articolo 98 della Costituzione, a mente del quale “Si
possono con legge stabilire limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti
politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i
funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari
all’estero”. Durante i lavori preparatori che portarono alla stesura
dell’articolo, si affermò: “se dicessimo nulla in proposito e, ferma restando la
norma generale della libertà del cittadino, per cui ciascuno può iscriversi a
qualsiasi partito, domani potrebbe ritenersi illegittima e anticostituzionale
qualsiasi legge che stabilisce questo divieto per i carabinieri e le guardie di
questura”(Clerici, Ass. cost., 05 dicembre 1947). Illuminante ai nostri fini fu
l’intervento di Nobile: “non conviene a nessuno che i quadri delle forze armate
si mescolino alla politica (in quanto) esse devono servire a presidiare lo stato
e pertanto debbono essere mantenute fuori e al di spora dei partiti
politici”(Nobile, Ass. cost., 05 dicembre 1947). In sintesi, si decise che
eventuali limitazioni al diritto dei militari di iscriversi ai partiti politici
avrebbero dovuto essere stabilite con legge ordinaria e che questo rinvio doveva
essere necessariamente previsto dalla stessa Costituzione.
4. Le norme
ordinarie attuative dell’art. 98 della Costituzione. E' utile, a questo punto,
richiamare le norme ordinarie che regolano i rapporti tra i militari e la
politica, al fine di chiarire se sono state stabilite con legge limitazioni, ed
in che misura, al diritto dei militari di iscriversi ai partiti politici. Esse
sono contenute nella Legge di principio nr. 382/78, la quale nel 2010 è stata
“riordinata” all’interno del Codice dell’Ordinamento militare. La normativa è
molto chiara. Innanzitutto rileva l’art. 6 della Legge di principio, il quale al
primo comma stabilisce che "Le Forze armate debbono in ogni circostanza
mantenersi al di fuori delle competizioni politiche". Dal tenore letterale di
tale disposizione emerge chiaramente l’autonomia concettuale e giuridica tra le
“Forze armate” ed i “militari”che le compongono; nel senso che la prima
locuzione indica l’istituzione e non anche i dipendenti della stessa. Infatti,
quando il legislatore ha inteso riferirsi ai singolari militari, quali persone
fisiche, l’ha fatto espressamente, così come accaduto nell’art. 98 della
Costituzione.
Ci si chiede: in
quali occasioni il militare rappresenta le Forze armate?
Lo stabilisce il
successivo comma 2, secondo cui “Ai militari che si trovano nelle condizioni
previste dal terzo comma dell’art. 5 è fatto divieto di partecipare a riunioni e
manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché di
svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni
politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative”.
Il terzo comma
dell’art. 5 della medesima legge, stabilisce che le evocate limitazioni
riguardano esclusivamente i militari che si trovano nelle seguenti condizioni:
“a) svolgono
attività di servizio;
b) sono in
luoghi militari o comunque destinati al servizio;
c) indossano
l’uniforme;
d) si
qualificano, in relazione a compiti di servizio, come militari o si rivolgono ad
altri militari in divisa o che si qualificano come tali”.
Pertanto, alla
luce delle norme esaminate, i militari che non si trovino nelle elencate
(tassative) situazioni d’impiego ben possono “partecipare a riunioni e
manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche, nonché …
svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni
politiche o candidati ad elezioni politiche ed amministrative”. Tali
comportamenti devono ritenersi del tutto leciti e legittimi, almeno fino a
quando il Parlamento, e non l’esecutivo o gli stati maggiori, non varerà una
norma che imponga espressamente ai militari il divieto di iscrizione ai partiti
e/o di partecipazione alla vita interna delle formazioni politiche. Quando, e
se, ciò accadrà, il divieto d’iscrizione dovrà valere nei confronti di tutti i
partiti, altrimenti verrebbero meno gli architravi su cui poggia la nostra
democrazia.
5. Il carattere
educativo della disciplina militare. La gestione amministrativa dello strumento
militare (il cosiddetto impiego e gestione del personale) prima che fossero
istituiti gli Stati Maggiori era accentrata nelle strutture ministeriali ed era
una prerogativa dell’autorità politica; la quale realizzava efficacemente i suoi
scopi attraverso lo strumento della disciplina militare. La disciplina militare
può essere definita il codice di comportamento del militare. In caso di
violazione delle norme della disciplina, il militare incorre nelle sanzioni
disciplinari. Storicamente le sanzioni disciplinari, oltre ad avere la finalità
(retributiva) di repressione degli illeciti, avevano uno scopo, per così dire,
educativo. All’interno di una concezione paternalistica della disciplina
militare, il superiore utilizzava lo strumento disciplinare per correggere ed
educare il sottoposto. Il primo regolamento di disciplina dell’Arma dei
Carabinieri sembrerebbe sia stato scritto da un padre gesuita (probabilmente il
fratello di Silvio Pellico) ed è stato definito una sorta di "catechismo dei
buoni sentimenti”. A tal proposito, si consideri che il regolamento di
disciplina del 1964 (abrogato nel 1978) comprendeva delle norme che imponevano
al militare “di non contrarre debiti” e “di avere cura nella scelta della
propria sposa”. Ricordo una vignetta pubblicata tanti anni fa da un giornale
specializzato: due s’incontrano, uno dice all’altro: “come mai i militari
detengono il primato dei matrimoni falliti?” L’altro risponde: “semplice, loro
la moglie mica la scelgono, la propongono”. Scherzi a parte, quel primato,
effettivamente detenuto, è riconducibile, a mio avviso, ad una normativa sulla
mobilità dei militari (in particolare degli ufficiali) dai profili di dubbia
costituzionalità, che provoca tanta sofferenza all’interno delle famiglie. La
disciplina militare ha subito nel corso della storia profonde innovazioni,
l’ultima nel 1978 con il varo della Legge di Principio sulla disciplina militare
(L. 382/78). Tale legge - fortemente voluta da Sandro Pertini, eletto Presidente
poco prima della sua entrata in vigore - innovò profondamente il concetto di
obbedienza militare, stabilendo, per la prima volta, che l’obbedienza del
militare dovesse essere non più “assoluta” ma “leale e consapevole”. La legge di
principio, però, rimandava a un Regolamento, da emanare entro i successivi sei
mesi, che avrebbe dovuto recepire quei principi e disciplinarne solamente gli
aspetti di dettaglio. Il Regolamento attuativo giunse ben 8 anni più tardi (DPR
545/86), cioè giunse l’anno successivo alla scadenza del mandato del
Presidente-partigiano. Il Regolamento, a parere dello scrivente, scardinò i
principi consacrati nella legge 382/78 in tema di obbedienza del militare. Lo
fece, però, in maniera indiretta attraverso la regolamentazione degli aspetti
attuativi delle sanzioni di Corpo e dell’istituto della rappresentanza militare.
La rappresentanza militare ne uscì sterilizzata a causa della gerarchizzazione
degli organismi di rappresentanza e della limitazione dei loro poteri (per un
approfondimento sulla rappresentanza militare, si veda “Diritti dei militari: sillogismi entimematici ed
inaccettabili separatezze”).
D'altronde
quando si vuole eliminare un pesce dall’acquario, lo si può fare in due modi: o
togliendogli l’acqua, oppure inquinandogliela; poiché l’acqua non si poteva
eliminare perché voluta dal Parlamento, allora è stata inquinata. Per dirla con
una frase ad effetto: “Un concetto è proclamare un diritto, altro è goderne.
Problema urgente non è il fondamento, ma sono le garanzie”(De Tilla Maurizio).
Vediamo in che
modo è stata inquinata “l’acqua” dell’obbedienza leale e consapevole. Le
sanzioni militari si distinguono in sanzioni di Stato e sanzioni di Corpo. Le
sanzioni di Stato non si differenziano, sostanzialmente, dalle corrispondenti
sanzioni previste nel campo del pubblico impiego. Le sanzioni di Corpo, invece,
sono tipicamente militari e la podestà punitiva è attribuita, esclusivamente, ai
superiori gerarchici. Esse consistono nel richiamo, nel rimprovero, nella
consegna semplice e nella consegna di rigore. La sanzione della consegna
semplice consiste nel privare il militare della libera uscita fino ad un periodo
massimo di sette giorni consecutivi (art. 1358, comma 4, D. Lgs. 66/2010). E’
evidente che la violazione del precetto ha conseguenze che intaccano i diritti
soggettivi di tutti i militari che fruiscono della libera uscita (identificati
dall’art. 741 del DPR 90/2010). Per essi la sanzione si ritiene penalmente
rilevante, poiché l’afflittività della stessa (pena) è tale da ricomprendere il
precetto violato tra le infrazioni aventi connotazioni penali. Ciò in quanto non
è certo facile dimostrare che l’atteggiamento psicologico e lo stato d’animo del
militare consegnato (privato della libera uscita) siano molto diversi da quelli
di qualsiasi altro detenuto comune posto agli arresti domiciliari per essersi
reso colpevole di reati ben più gravi. La legge, nel prevedere la sanzione di
Corpo della consegna semplice, però, non tipizza gli specifici comportamenti a
causa dei quali la sanzione può essere inflitta. Il legislatore, cioè, ha
tipizzato i tipi di sanzione, ma ha omesso di tipizzare le violazioni che le
stesse censurano. Il tenore dell’art. 1352 del D.Lgs. 66/2010 appare
estremamente generico, potendosi riferire a tutte le mancanze previste dal
codice di disciplina: la norma, infatti, afferma che “costituisce illecito
disciplinare ogni violazione dei doveri del servizio e della disciplina militare
sanciti dal presente codice, dal regolamento, o conseguenti all'emanazione di un
ordine. La violazione dei doveri indicati nel comma 1 comporta sanzioni
disciplinari di stato o sanzioni disciplinari di corpo”. Non c’è dubbio che la
scelta della locuzione linguistica “violazione dei doveri”si presta, a causa
della sua indeterminatezza, alle più disparate elusioni dei fondamentali diritti
del militare. Per avere un’idea circa la genericità della norma, si consideri
che tra i doveri del militare v’è anche quello di “avere cura particolare
dell'uniforme e indossarla con decoro” (Art. 720 comma 4 del DPR 15 marzo 2010,
n. 90 - Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento
militare); di curare il suo aspetto esteriore, che “deve essere decoroso come
richiede la dignità della sua condizione” (art. 721 del DPR citato); di “tenere
in ogni circostanza condotta esemplare”; di “improntare il proprio contegno al
rispetto delle norme che regolano la civile convivenza”; di “astenersi dal
compiere azioni e dal pronunciare imprecazioni, parole e discorsi non confacenti
alla dignità e al decoro” (art. 732). Le norme di tratto prevedono che “la
correttezza nel tratto costituisce preciso dovere del militare” (Art. 733). Le
norme denominate “senso dell'ordine” impongono al militare di “compiere ogni
operazione con le prescritte modalità, assegnare un posto per ogni oggetto,
tenere ogni cosa nel luogo stabilito”(Art. 734). E’ a tutti evidente che
chiunque può violare una norma di tratto o del senso dell’ordine, se il
superiore lo decide. La consegna di rigore, con cui è stato punito il
protagonista del fatto, invece, si realizza con l’obbligare il militare a
restare, per un determinato periodo non superiore a quindici giorni, in un
apposito spazio della caserma. Il legislatore regolamentare ha provato a
tipizzare ben 55 precetti la cui violazione è punita con la sanzione della
consegna di rigore (art. 751 DPR 90/2010 - già allegato C al RDM). Alcune delle
prescrizioni, però, eludono l’esigenza di specificità e tassatività richiesta
dalla legge, descrivendo condotte del tutto generiche, mediante l’uso di forme
elastiche ed onnicomprensive. Si consideri che viene contemplata tra le ipotesi
di reato punibile con la consegna degli arresti di rigore un non meglio
specificato “comportamento gravemente lesivo del prestigio o della reputazione
del corpo di appartenenza”(punto 17). Ci si chiede, quali sono tali
comportamenti? Tutto è lasciato alla “valutazione” delle autorità militari.
Ma qual è la
linea di demarcazione tra autorità militari ed autorità politiche? Sono
ipotizzabili reciproche interferenze? Stante la connotazione penale della
consegna semplice e di rigore, ritengo che esse, oltre a violare il principio di
legalità e di tassatività degli illeciti, contrastino con l’art. 13 (libertà
personale) e con l’art. 16 (libertà di circolazione) della nostra Carta
costituzionale. Tali vulnus costituzionali si ripercuotono negativamente sul
principio d’imparzialità e buon andamento di così delicati e vitali apparati
della pubblica amministrazione. Sembrerebbe che le norme che prevedono le
infrazioni punibili con le sanzioni degli arresti semplici e di rigore si
atteggino come un contenitore all’interno del quale ci può rientrare di tutto;
ma proprio tutto. Stando così le cose, il militare non è posto in grado di
conoscere preventivamente i comportamenti punibili con la sanzione della
consegna. All'Amministrazione, invece, è attribuita la più ampia discrezionalità
nello stabilire in relazione a quali illeciti infliggere le sanzioni. A ciò si
aggiunga che la finalità “retributiva” sia delle sanzioni che delle speculari
concessioni premiali (elogi, encomi e giudizi annuali caratteristici) è solo
tendenziale (un’idea guida per l’autorità titolare della potestà); nel senso che
non v’è un obbligo assoluto di “retribuire” ogni mancanza disciplinare con la
stessa sanzione. L’autorità esercita un potere discrezionale che può portare a
valutazioni che non conducono, necessariamente, alla stessa decisione (sanzione)
se ritenuta inopportuna o sconveniente per quella circostanza o per quel
manchevole. Mi spiego. Se due militari compiono entrambi una medesima azione,
censurabile o lodevole, l’uno può venir, legittimamente, sanzionato o premiato e
l’altro no. Ciò è ammissibile in quanto alla base dell’ordinamento militare v’è
la regola dell’onore. Si comprende quanto sia illusorio il mito dell’obbedienza
consapevole, giacché l’ordinamento militare è munito di potenti anticorpi per
immunizzare ogni infedeltà alla volontà del Capo. Cioè l’ordinamento è concepito
per piegare l’inferiore alla volontà del superiore, più che al disposto
normativo, e per ricompensare chi è servizievole. Attraverso tali vulnus
costituzionali ben si potrebbero insinuare dei pericolosi comportamenti
discriminatori nei confronti dei sottoposti per motivi ideologici e/o politici.
Al fine di rendere l’idea circa la sconfinata discrezionalità di cui dispone
l’Amministrazione, riporto due casi veramente accaduti. Da fonte ANSA ed APCOM,
datate 17 novembre 2010, si è appreso che un militare italiano, impegnato in
Afghanistan, è stato sanzionato con sette giorni di consegna “per aver lasciato
il suo posto branda in disordine”. In data 06 giugno 2011, si è appreso (da
fonte Grnet.it) che un sottufficiale è stato sanzionato disciplinarmente con la
consegna “per aver intrattenuto un rapporto sessuale con la propria fidanzata”.
Qualche giorno prima si era sottoposto a visita medica e l’ufficiale medico gli
aveva prescritto una cura, nonché la raccomandazione di astenersi da “attività
traumatiche di qualsiasi genere”. Alla visita di controllo successiva, il
militare avrebbe ammesso di aver avuto, durante la degenza, un rapporto sessuale
con la fidanzata, perciò è stato punito. Pare proprio che la sconfinata
discrezionalità dell’Amministrazione militare non si limiti solo ad accertare
come sono ripiegate le lenzuola, ma, addirittura, pretenda di controllare anche
cosa vi accade sotto! La sanzione della consegna non ha una esclusiva rilevanza
interna, come alcuni sostengono, è giusto il caso di ricordare che essa viene
annotata nella documentazione personale; pertanto ha devastanti effetti sulla
carriera del militare ed incide negativamente sull’assegnazione degli incarichi,
sui trasferimenti, sull’esito dei concorsi interni, sulla concessione delle
ricompense, sull’autorizzazione al NOS. La sanzione coinvolge anche la sfera
personale del militare: ha effetti sulla sua autostima e sui suoi rapporti con
gli altri militari. Si tenga a mente, inoltre, che ai sensi dell’art. 751 punto
33) del DPR 90/2010 “l’inosservanza ripetuta delle norme attinenti all'aspetto
esteriore o al corretto uso dell'uniforme” (articoli 720 e 721) sono valutate
per la comminazione della consegna di rigore. Inoltre, tra le cause di
cessazione dal servizio permanente, si annoverano “le gravi e reiterati mancanze
disciplinari che siano state oggetto di consegna di rigore (art. 12, 2° comma,
lettera c L. 1168/1961)”. Pertanto nel caso si venga ripetutamente colti in
flagranza di uniforme in disordine oppure di collo peloso (magari a causa di un
livello di testosterone troppo alto), si rischia la risoluzione del rapporto di
lavoro oltre che pesanti conseguenze sulla carriera. Si ritiene, visto che in
gioco vi sono dei diritti soggettivi, che debbano essere meglio tipizzate le
infrazioni punibili con la sanzione della consegna. A tal proposito, sono
scarsamente condivisibili e destituite di ogni fondamento le osservazioni di
chi, soprattutto in ambienti interni all’Amministrazione militare, ritiene che
sia impossibile tipizzare tutto. Basti solo considerare che esistono, perfino,
delle leggi specifiche (ad hoc) che disciplinano la tipologia dei vini d.o.c., a
presidio della loro qualità.
E’ vigente un
regolamento europeo che tipizza, addirittura, le dimensioni dei cetrioli e vieta
la commercializzazione in area euro di quelli troppo sviluppati (cfr.
Regolamento dei cetrioli).
Non si comprende per quale motivo in Italia si dovrebbero lasciare vaganti
“cetrioli”di simili dimensioni? (Si ribadisce che la consegna, oltre ad incidere
in modo devastante sulla carriera del militare, può determinare la sua
cessazione dal servizio). E’ a tutti evidente l’incommensurabilità dei due
interessi tutelati: cioè la protezione di beni alimentari e commerciali
(cetrioli e vino) e la tutela di beni personali ed intrasmissibili (libertà
personale e tutela del posto di lavoro e della giusta retribuzione). I secondi
esigono il rispetto della riserva assoluta di legge, del principio di legalità e
di tassatività dell’illecito.
6. L’obbedienza
militare. E’ evidente che una disciplina svincolata dal principio di legalità
provochi una mutazione genetica del concetto di obbedienza militare, che il
legislatore ordinario vuole che sia “leale e consapevole”. Il
poliziotto-militare, infatti, qualora dovesse ricevere un ordine irregolare,
sarà indotto (dalle norme dell’Ordinamento speciale) a fare sempre la cosa
giusta per tutelare se stesso, il suo posto di lavoro, la sua carriera e la sua
serenità. Non rassicura e non convince il rimedio, basato sull’onore militare,
che l’ordinamento (speciale) offre al sottoposto si trovi in tali circostanze.
Il militare, nel caso riceva “un ordine … la cui esecuzione costituisce
manifestatamente reato, ha il dovere di non eseguire l’ordine ed informare al
più presto i superiori”(art. 729, comma 2, D.P.R. 90/2010); piuttosto che
rivolgersi ad un sindacato esterno ed imparziale. (E’ come dire a cappuccetto
rosso di rivolgersi a un altro lupo più saggio e più canuto, piuttosto che al
cacciatore. – Come potrebbe continuare a vivere felice e contenta?). Mi spiego.
Se, per ipotesi, un militare decidesse (oggi) di non eseguire un ordine
costituente reato, che garanzie avrebbe il militare (domani) che quel superiore
non lo sorprenda in flagranza di reato di “collo peloso” oppure di “branda in
disordine”? Non lo valuti negativamente in occasione della redazione dei giudizi
annuali caratteristici, compromettendo, così, la sua carriera? Non lo avvicendi
nell’incarico, oppure non lo trasferisca, con una formula di stile?
Sinceramente, l’ipotesi di un senso dell’onore ad intermittenza (rispetto al
momento in cui si impartisce l’ordine ed a quello in cui si gestisce il
personale) è poco plausibile. Giunti a questo punto, ci si chiede: Una polizia
militare, separata dallo Stato democratico e posta al di fuori della sua logica,
può garantire il libero articolarsi della dialettica democratica, attraverso cui
si stabiliscono i fini dello Stato? Stante l’enorme discrezionalità detenuta
dalla gerarchia, la democrazia è esente da rischi e minacce? Si consideri che i
350 mila militari, tra cui i 180 mila poliziotti militarmente organizzati, oltre
a detenere il monopolio della forza armata, ddispongono di enormi poteri
investigativi, possono accedere a dati sensibili e gestiscono strumenti
d’indagine sofisticati. Hanno il potere di imprimere direzione e verso alle
indagini che consentono di individuare le piste che portano alla verità dei
fatti, allo scopo di ridurre al minimo lo scarto tra verità storiche e verità
processuali. La sconfinata discrezionalità esercitata dai quadri sulla polizia
militarmente organizzata potrebbe avere una qualche incidenza su quello scarto?
Si pensi ai casi in cui l’obbedienza militare entra in conflitto con le norme
statuali. In questo caso, quale ordinamento prevale, quello statuale informato
ai principi costituzionali oppure quello speciale che deroga ad essi e pretende
di imporsi sul primo in virtù di una pretesa supremazia speciale basata sulla
regola dell’onore? Bel dilemma!
7. La regola
dell’onore militare. L’ordinamento militare è riuscito fino ad oggi a rimanere
impermeabile al principio di legalità in virtù della regola dell’onore posta
alla base di alcune essenziali norme regolamentari. E’ proprio la regola
dell’onore a giustificare le deroghe ai principi costituzionali su cui è basato
l’ordinamento statuale. L’onore militare può definirsi una qualità
etico-psicologica, espressione di tutte quelle virtù caratteriali - quali
onestà, lealtà, rettitudine, fedeltà, giustizia, imparzialità - che procurano la
stima altrui e che sono dal militare gelosamente detenute e custodite,
nell’intimo convincimento della necessità di mantenerle integre. Le origini
della regola dell’onore si perdono nella notte dei tempi e sono riconducibili al
particolare significato che anticamente era attribuito al giuramento militare.
Il primo giuramento militare di cui si ha memoria, è raccontato da Tito Livio in
un suo scritto, si tratta di un antico giuramento sannita, che risale al 293
avanti Cristo (per un approfondimento cfr. “Alle origini del giuramento militare”).
Ai tempi dell’impero romano il giuramento militare si chiamava sacramentum
militiae, poiché era il mezzo mediante il quale veniva creato, con il favore
degli dei, un nuovo stato personale: lo status militis. Il giuramento aveva una
funzione propriamente sacramentale. I milites romani, infatti, erano chiamati
anche “sacrati”. Essi, a seguito del rito sacro, ricevevano dagli dei un
supplemento di forza, di coraggio e, soprattutto, di purezza. Da quest’
atmosfera, ammantata di sacralità e di rinnovata purezza ricevuta con il favore
degli dei, trovò facile accoglienza la regola dell’onore militare, su cui si
fonda il principio di supremazia speciale, che ancora oggi, anacronisticamente,
sopravvive nelle norme regolamentari che derogano ai principi costituzionali,
quali, per esempio, le sanzioni di corpo e la disciplina della rappresentanza
militare. In altre parole, il principio di supremazia speciale si fonda su un
ragionamento molto semplice: “Poiché io sono depositario di senso dell’onore, la
mia volontà costituisce principio di legalità (all’interno del comparto
militare); quindi posso decidere, di volta in volta, quali sono le infrazioni
che danno luogo alle punizioni; posso decidere chi trasferire, chi punire e chi
ricompensare. All’interno di questa “insula felix” il principio di legalità non
può e non deve approdare”. Dalla regola dell’onore, per esempio, deriva anche la
consuetudine secondo la quale nei rapporti epistolari tra ufficiali di grado
elevato si antepone al nome il titolo di “N.H. il” (in cui N.H. non è il gruppo
sanguigno ma l’abbreviazione di Nobil Homo). Non voglio essere frainteso, si
tratta di una qualità effettivamente meritata dalla maggior parte degli
appartenenti alla categoria, ma non può essere la prerogativa di tutti gli
appartenenti a quella categoria.
8.
Considerazioni conclusive. Ritengo che i fatti descritti nel primo paragrafo
costituiscano effettivamente una lesione del principio di estraneità delle Forze
armate dalle competizioni politiche e spero che non si tratti della punta di un
iceberg. L’irrogazione della sanzione disciplinare ha fatto passare il messaggio
secondo cui, per esercitare liberamente i propri diritti politici occorre
appartenere ad una determinata formazione politica, poiché altrimenti s’incorre
in sanzioni disciplinari gravissime. In questo modo si ottiene il risultato di
orientare le coscienze politiche dei propri sottoposti, costringendoli, con
l’utilizzo dello strumento disciplinare, ad astenersi dall’aderire ad alcune
formazioni politiche ovvero ad aderire ad una formazione piuttosto che ad
un'altra. Stando così le cose, il mito della necessità di difendere
l’apoliticità e la coesione interna delle Forze armate e di polizia militarmente
organizzate - com’è stato tradizionalmente impostato - appare una semplice
illusione e nasconde delle chiare scelte politiche che si sostanziano nella
necessità di subordinare la polizia militare, non tanto alla difesa dei valori
costituzionali, quanto piuttosto alle esigenze perseguite, attraverso l’apparato
esecutivo, dai gruppi più forti presenti nella realtà civile e sociale del
Paese. La tutela della coesione della compagine militare e della sua apoliticità
deve avvenire all’interno dei principi di garanzia stabiliti dalla Costituzione
e non al di fuori di questi. Altrimenti la disciplina, da semplice strumento di
salvaguardia degli interessi dello Stato, diventa essa stessa un valore da
difendere, cioè diventa il fine, rischiando, così, di compromettere proprio
quegli interessi dello Stato che bisogna difendere. Probabilmente, molti dei
tentativi di limitare, in tempo di pace, i diritti costituzionali dei militari,
in nome della tutela della compagine interna, dell’efficienza e dell’apoliticità
delle Forze Armate e di polizia, sono poco sinceri e, a volte, ispirati a
secondi fini. E’ innegabile che la vita militare e il particolare addestramento
che esalta il coraggio e l’amor di Patria sviluppino effettivamente tutte quelle
virtù (onestà, lealtà, rettitudine, fedeltà, giustizia, imparzialità),
altrimenti definite “senso dell’onore”; tali virtù, però, vanno custodite con
delle leggi ad hoc che rafforzino la volontà di chi le detiene, altrimenti
rischiano di frantumarsi sotto l’incidenza di un potere politico sempre più
intrusivo, che seduce e si lascia sedurre. I militari sono anche uomini con
tutte le loro debolezze umane. Con il giuramento certamente s’impegnano, ma dal
giuramento non ricevono dagli dei alcun supplemento di purezza. S’impone,
pertanto, un esame di coscienza e un ripensamento dell’intero Ordinamento
militare. E’ necessario distinguere il tempo di guerra, in cui si fronteggiano
due eserciti appartenenti a due distinte Nazioni, dal tempo di pace in cui a
fronteggiarsi, spesso, sono diverse coalizioni politiche, che appartengono alla
stessa Nazione. E’ necessario che l’ordinamento militare sia informato al
principio di legalità e alla riserva di legge, come prevede l’art. 52 della
Costituzione, e, soprattutto, che il cittadino militare sia messo nella
condizione di dire “signornò” in difesa dei valori costituzionali e per il bene
del Paese. Termino con un riferimento al Vangelo che ritengo attuale in ogni
tempo e fonte di verità ancora tutte da scoprire. La vicenda offre, a mio
avviso, un’utile chiave di lettura dei fatti descritti. Essa vede protagonisti
da una parte i militari posti a guardia del Sepolcro e dall’altra i capi giudei,
preoccupati per la stabilità del loro potere. “Dichiarate: i suoi discepoli sono
venuti di notte e l'hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa venisse
all'orecchio del Governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni
preoccupazione” (Mt 28, 13 – 14).
“L'assolutismo
muove sempre i primi passi contro la democrazia cercando di isolare i militari
dalla società civile”, scrive Cleto Iafrate.
Esiste un rapporto inverso tra il livello di democrazia e di civiltà raggiunto
da uno Stato ed il numero dei suoi cittadini esclusi dalla partecipazione alla
vita ed al dibattito politico. Lo Stato che riuscirà ad assicurare a tutti i
suoi residenti il pieno godimento dei diritti civili e politici avrà raggiunto
il massimo grado di democrazia e di civiltà auspicabile. I suoi cittadini si
sentiranno sovrani e sudditi allo stesso tempo. In quello Stato, la politica
opererà alla luce del sole, senza temere il confronto con alcuna categoria di
persone. Al contrario, lo Stato assolutista tenderà ad accentrare il potere
decisionale, negando, con diverse motivazioni, la partecipazione alla vita
politica dei suoi cittadini, che considera tutti alla stregua di sudditi.
Naturalmente tra questi due casi estremi vi sono tanti casi intermedi. Quando
uno Stato liberale prende una direzione assolutista, i primi a percepirlo sono
proprio i militari, in quanto divengono destinatari di provvedimenti via via
sempre più restrittivi delle loro libertà costituzionali. Tali provvedimenti si
inseriscono in un più complesso disegno teso a relegare i detentori del
monopolio della forza in una condizione di obbedienza cieca e muta. Orbene, nei
mesi scorsi, quando tutti i quotidiani erano impegnati a pubblicare una certa
piantina di una casa monegasca e le misure di un tal progetto di cucina, e molti
erano concentrati a sovrapporre l’una all’altra al fine di verificare la
corrispondenza delle misure, veniva varato, con il D.Lgs 66/2010, il “Codice
dell’Ordinamento Militare”, entrato poi in vigore il 9 ottobre 2010. Lo scopo
dichiarato era quello di abrogare circa mille atti normativi (per un totale di
circa 2.500 articoli di legge), emanati dal 2 aprile 1885 al 1° gennaio 2010, al
fine di semplificare l’intera materia, sopprimendo tutte le norme inutili. Tale
fine è stato perseguito raggruppando in un solo corpo legislativo (il D.Lgs
66/2010) ben 2.272 articoli. In realtà, si è semplificato solamente l’esercizio
della memoria: prima del 9 ottobre 2010, era necessario ricordare sia la legge
che i singoli articoli; da questa data in poi, è sufficiente ricordare
(re-imparare) solo i singoli articoli della comune legge. Per esempio, l’art. 9
dell’abrogata legge 382/78, a mente del quale “I militari possono liberamente
pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e comunque manifestare
pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di argomenti a carattere
riservato di interesse militare o di servizio per i quali deve essere ottenuta
l’autorizzazione”, è stato accolto dall’art. 1472 del D.Lgs. 66/2010. Nel
procedimento di traslazione dalla L. 382/78 al D.Lgs. 66/10 il dispositivo è
stato modificato con l’aggiunta di due semplici parole che, però, restringono
inesorabilmente i diritti civili e le libertà democratiche dei militari. La
nuova formulazione dell’art. 1472, infatti, recita testualmente: “I militari
possono liberamente pubblicare loro scritti, tenere pubbliche conferenze e
comunque manifestare pubblicamente il proprio pensiero, salvo che si tratti di
argomenti a carattere riservato di interesse militare, di servizio O COLLEGATI
AL SERVIZIO per i quali deve essere ottenuta l’autorizzazione”. In merito allo
strumento normativo utilizzato, quale fonte di produzione, sicuramente bisognerà
approfondire se siano stati violati i limiti contenuti nella delega. Il dubbio
non è di poco conto: se si dovesse accertare la violazione di tali limiti, si
dovrebbe ammettere che è stato approvato un atto legislativo apertamente in
conflitto con i dettami della Costituzione. E’ notorio, infatti, che un atto
emanato dal solo esecutivo non possa comprimere i diritti già riconosciuti e
garantiti da una legge ordinaria, emanata dal Parlamento sovrano in un fecondo
clima dialettico in cui trovano spazio anche le volontà delle minoranze e
dell’opposizione. Non a caso il giudice costituzionale ha, a più riprese,
sollecitato l’impiego di criteri direttivi il più possibile circoscritti,
qualora la delega vada ad incidere sulle libertà costituzionali e sui diritti
fondamentali (sentenze 250/1991; 53/1997; 49/1999; 427/2000; 251/2001;
212/2003). Al di là di qualsiasi considerazione di carattere giuridico,
riservata al mondo accademico, sembrerebbe che l’art. 1472 abbia riportato il
nostro Paese indietro di almeno 280 anni, quando le forze armate erano concepite
“per sorreggere il trono”. Concezione che ha trovato il suo migliore interprete
nel Generale Pes di Villamarina, che fu ministro della guerra dal 1832 al 1847,
secondo cui occorreva vietare «con rigore, non pure nelle caserme, ma nei
privati domicili, al militare gregario e graduato, qualunque studio, qualunque
lettura, anche di argomento militare, sì che un ufficiale scoperto autore di
qualche scritto o perdeva il grado, o vedeva preclusa ogni via di avanzamento».
Appare, quindi, poco convincente la tesi secondo cui per garantire le libere
istituzioni democratiche è necessario vietare al cittadino militare la
divulgazione di notizie che, benché non coperte da segreto, siano (in modo non
meglio specificato) “collegate al servizio”. Per di più, la nuova formulazione
della norma offre una grandissima discrezionalità alle autorità militari, che
potendo ritenere ogni opinione espressa collegata lato sensu al servizio,
possono impedire che trapeli all’esterno, nella società civile, qualsiasi
problematica che agita ed inquieta il mondo militare. Inoltre, ad un precetto
così vago ed indeterminato, come quello in esame, corrisponde una sanzione ben
definita e, soprattutto, penalmente rilevante, circostanza che contrasta con
l’art. 13 della Costituzione e con l’art. 1 del C.P.. Infatti, il punto 6)
dell’art. 751 del DPR 90/10 dispone che la violazione dell’art. 1472 del D.Lgs.
66/10 è punita con la sanzione della consegna di rigore (arresti di rigore), che
comporta l’obbligo di rimanere in un apposito spazio dell’ambiente militare o
nel proprio alloggio per un massimo di 15 giorni. Ritengo che il cittadino
militare debba essere totalmente integrato nella vita democratica del nostro
Paese. Le sue preoccupazioni e le sue istanze dovrebbero godere della massima
visibilità; sostenere il contrario significherebbe guardare con nostalgia ad
esperienze che, fortunatamente, la storia ha ormai archiviato e si auspica che
non vengano mai più riproposte. Tali esperienze nel passato hanno trovato,
proprio nella separazione del comparto militare dal resto della società civile,
terreno fertile per il loro progressivo consolidamento e successiva
degenerazione. Il tentativo di isolare il cittadino militare dal resto della
società, perciò, appare una strada molto pericolosa, che lede proprio quella
posizione di apoliticità delle FF.AA. e delle Forze di polizia militarmente
organizzate, posta a presidio delle istituzioni democratiche. Il miglior rimedio
contro tali pericoli consiste in un ripensamento del ruolo del militare
all’interno della società, egli deve poter vivere con coscienza la vita della
nazione e tenere sempre nella più alta considerazione individuale la
salvaguardia del sistema costituzionale. Le riforme che comprimono i diritti
costituzionali dei cittadini militari, fatte passare per difendere l’apoliticità
degli stessi, il più delle volte nascondono una decisa scelta politica. Tale
scelta si sostanzia nella necessità di avere cittadini militari subordinati, non
tanto alla legge, quanto piuttosto alle esigenze perseguite, attraverso
l’apparato esecutivo, dai gruppi più forti presenti nella realtà civile e
sociale del paese. L’apoliticità va pensata come una “strada a doppio senso di
marcia”, il militare va garantito, oltre che dalle insidie provenienti
dall’esterno, anche da quelle, eventualmente, provenienti dall’interno, “si
rischiano incidenti” quando una delle due forme di garanzie viene sacrificata a
vantaggio dell’altra. Concludo con una significativa poesia, attribuita
impropriamente al poeta e drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, ma che in realtà è
stata ripresa dalla predicazione di un pastore luterano e teologo tedesco Martin
Niemöller (1892-1984), che così recita: “… Prima di tutto vennero a prendere gli
zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e
stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli
omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere
i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero
a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare …”.
Diritti dei militari: sillogismi ed inaccettabili separatezze,
scrive Cleto Iafrate.
“... La polizia giudiziaria militarmente organizzata è come una ‘stella polare’
per l’autorità giudiziaria, con la sua luce consente al magistrato di orientarsi
nelle indagini; essa deve poter continuare a brillare anche quando le indagini
conducono a ‘menti sopraffine’…” È noto come il nostro ordinamento giuridico sia
ispirato al principio della libertà di organizzazione sindacale. Le
organizzazioni sindacali sono inquadrabili in quelle formazioni sociali di cui
parla l'art. 2 della Costituzione, all'interno delle quali la Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo. L’art. 39 della nostra
Costituzione ha dato la possibilità a tutti i lavoratori di riunirsi in liberi
sindacati. Tali organi hanno il compito di rappresentare i loro iscritti nella
stipula di contratti collettivi di lavoro e, a tal fine, essi possono ottenere
il riconoscimento della personalità giuridica. Com’è noto, però, per condurre
con efficacia qualsiasi trattativa, che interessi gli iscritti ad un sindacato,
è necessario che allo stesso sia riconosciuto un ruolo negoziale di
contrattazione ed abbia un ordinamento interno a base democratica. Solo in
questo modo, si può giungere alla stipula di accordi ed ottenere concessioni con
efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria dei lavoratori
di un determinato settore. La legge di principio sulla disciplina militare ha
istituito degli organi particolari, detti di "rappresentanza". Essi furono
presentati come un'importante innovazione che avrebbe dovuto "informare"
l’ordinamento militare ai principi costituzionali in materia di tutela del
lavoro e realizzare l’avvicinamento delle Forze armate allo "spirito
democratico" della Repubblica. Gli organismi di rappresentanza militare furono
immaginati in "funzione sostitutiva rispetto alla negata libertà sindacale".
Nelle intenzioni del legislatore del 1978, tali gli organi avrebbero dovuto,
parallelamente alla linea gerarchica, realizzare un insieme di istanze, pareri e
richieste che dalla base sarebbero confluite verso il Parlamento, attraverso i
vertici delle Forze armate, per favorire "lo spirito di partecipazione e
collaborazione e mantenere elevate le condizioni morali e materiali del
personale militare nel superiore interesse delle Istituzioni". L'applicazione
pratica dell'istituto della rappresentanza militare, però, è risultata molto
difficoltosa. Nel concepire tali organi, il legislatore ordinario ha partorito
una legge “zoppa”. Ma v'è di più: il legislatore regolamentare, nel “travasare”
i principi sanciti dalla legge all’interno del regolamento di attuazione, sembra
essersi munito di un “recipiente incapiente” poiché, a causa delle ulteriori
limitazioni, ha finito per compromettere definitivamente il funzionamento di
tali organi. La legge di principio sulla disciplina militare è la legge 382/78,
essa è stata accolta, unitamente ad altre leggi ordinarie, in un unico testo
normativo: il Codice dell’Ordinamento Militare. La norma più controversa della
legge di principio sulla disciplina militare, a mio parere, è il primo comma
dell'art. 3 della L. 382/78 (recepito dall’art. 1465 del Codice dell’Ordinamento
Militare). Tale norma è assai simile a un sillogismo, cosiddetto “entimematico”;
questo tipo di sillogismo è un ragionamento logico - deduttivo in cui è taciuta
una delle premesse. L’articolo, infatti, si compone di una premessa implicita (a
tutti i cittadini la Costituzione riconosce certi diritti), di una esplicita (ai
militari spettano i diritti che la Costituzione della Repubblica riconosce ai
cittadini) e di unaconclusione (la legge impone ai militari limitazioni nell'esercizio di
alcuni di tali diritti). Il sillogismo, però, è contrario a ogni logica
aristotelica, in quanto la conclusione è antitetica alle premesse. E’ del tutto
evidente che le due premesse non possono convivere insieme alla conclusione, per
cui o si accettano le premesse oppure la conclusione. Il legislatore, purtroppo,
negli altri articoli della legge non si è informato alle premesse. Conformarsi
alle premesse avrebbe significato prevedere solo delle limitazioni di carattere
esecutivo e tecnico, tese a garantire che le legittime aspettative dei militari
si affievolissero solamente di fronte al rischio concreto di minacce al
superiore interesse dello Stato e alla conservazione dell'ordine pubblico e
della sicurezza nazionale (così com’è stato fatto, ad esempio, con la normativa
che regola il funzionamento dei servizi pubblici essenziali). Il legislatore,
invece, ha stabilito un divieto assoluto per i militari di “costituire
associazioni professionali a carattere sindacale (ed) aderire ad altre
associazioni sindacali" (art. 1475, II comma, del Codice dell’Ordinamento, già
art. 8, II comma, L. 382/78). Nelle successive norme, inoltre, il legislatore ha
continuato a mostrarsi molto attento a rimarcare i limiti e poco preoccupato a
incentivare la portata delle competenze e delle attribuzioni degli organi di
rappresentanza. Pertanto, molto ristrette sono le competenze di tali organi. Il
legislatore, infatti, ha distinto le materie di cui può occuparsi la
rappresentanza, da quelle nelle quali gli organi di rappresentanza non hanno
alcuna voce in capitolo. Tra le prime figurano le attività assistenziali,
culturali, ricreative e di promozione sociale; l’organizzazione delle sale
convegno e delle mense; le condizioni igienico – sanitarie e gli alloggi. Le
materie, invece, di cui la rappresentanza militare non può occuparsi sono:
l'ordinamento, l'addestramento, le operazioni, il settore logistico operativo,
il rapporto gerarchico - funzionale e l'impiego del personale.I limiti di tali
organismi, però, non emergono solamente dalla ristrettezza delle materie di cui
essi possono occuparsi, ma anche dal fatto che nemmeno nelle materie di loro
competenza essi hanno un ruolo che va al di là della semplice possibilità di
formulare pareri, proposte e richieste, non vincolanti. Ad onor del vero, una
norma successiva (il D.lgs. 195/95) ha riconosciuto al COCER un ruolo di
concertazione, nella sostanza, però, non è cambiato nulla, nel senso che
concertare non equivale a negoziare; pertanto i COCER continuano a subire la
volontà della controparte in occasione di ogni rinnovo contrattuale. Il
Regolamento di Attuazione della Rappresentanza Militare (RARM), emanato con DPR
691/1979, è stato accolto, unitamente ad altre norme di rango regolamentare, in
un unico testo normativo: il DPR 15 marzo 2010, n. 90. Ebbene, dopo aver
esposto, in breve, le motivazioni per cui la legge di principio è stata definita
"zoppa", relativamente alla disciplina della rappresentanza, si espongono le
ragioni di fondo che inducono a definire il relativo regolamento di attuazione
come gravato da ulteriori impedimenti, che hanno depotenziato ed anestetizzato
il funzionamento degli organismi di rappresentanza militare. Nel passaggio dalla
legge di principio al relativo regolamento di attuazione, l'attività delle
rappresentanze militari è stata delimitata, enfatizzando piuttosto il suo ruolo
di "fonte di responsabilità disciplinari". Basti pensare che i punti da 45 a 55
dell'allegato C al Regolamento di Disciplina Militare elencano minuziosamente,
con una precisione quasi maniacale, i comportamenti che, se posti in essere dal
delegato, danno luogo all’irrogazione della consegna di rigore (sanzione
assimilabile agli arresti domiciliari, impartita da una commissione priva del
requisito di terzietà, in assenza di un difensore abilitato). A ciò si aggiunga
che detta sanzione ha conseguenze devastanti per la carriera del militare. Da un
esame complessivo del R.A.R.M. emerge come sia stata sostanzialmente posta in
ombra la valenza partecipativa della rappresentanza e la irriducibilità della
figura del delegato; circostanza che incide sul clima di partecipazione e
collaborazione che avrebbe dovuto informare le riunioni. Innanzitutto, le
riunioni dei consigli di rappresentanza "hanno luogo nelle ore di servizio e
sono a tutti gli effetti attività di servizio". La norma pone dubbi
interpretativi, non essendo chiaro se, nella contemporanea sussistenza di altri
servizi, sia possibile inibire al delegato la possibilità di partecipare alle
riunioni. Si consideri, inoltre, che non si può essere eletti se si è riportata,
negli ultimi quattro anni, una o più punizioni di consegna di rigore.
L'incidenza della disciplina sullo svolgimento dell’attività di rappresentanza
non si esaurisce nella fase precedente l'elezione, ma investe anche la fase
successiva. Si faccia riferimento alla previsione secondo la quale i delegati
possono essere destituiti anticipatamente dal mandato per aver riportato nel
corso dello stesso due consegne di rigore per violazione delle norme sulla
rappresentanza militare. Pur non negando la necessità di prevedere delle
specifiche sanzioni disciplinari per i delegati, a causa della particolarità del
ruolo che ricoprono, si deve osservare come le norme predette, attualmente, non
siano poste con funzione di controllo e di indirizzo dell’attività dei delegati
e a tutela dei rappresentati, ma allo scopo di restringere l'autonomia degli
organismi stessi. Queste ultime considerazioni assumono maggiore rilievo se solo
si considera che la sanzione della consegna è disciplinata anch'essa da un
regolamento e non da una legge. Tale circostanza induce a nutrire notevoli
perplessità di ordine costituzionale, perché non è conforme alla necessità di
garantire il libero esercizio delle funzioni di rappresentanza previsto nella
legge di principio e il cui contenuto è stato poi ulteriormente ristretto nella
disciplina introdotta dal regolamento attuativo. Questo esercizio, costituendo
un diritto sancito in una norma di legge (formale e sostanziale), non può essere
disatteso da una disposizione prevista in un atto normativo che è legge solo in
senso sostanziale. Sempre sotto il profilo della disciplina, occorre evidenziare
la circostanza secondo la quale nessun tipo di sanzione è prevista a tutela
della garanzia dell'attività dei delegati. L’art. 1479 (già art. 20 della legge
382/78), infatti, vieta comportamenti assunti ex ante, a scopo intimidatorio,
“diretti a condizionare o limitare l’esercizio del mandato”, ma non reprime atti
e comportamenti punitivi esercitati ex post, ossia quale ritorsione della
gerarchia nei confronti dei delegati. In altri termini, sembra mancare del tutto
un mezzo di difesa giudiziale dell’organismo in quanto portatore di interessi
collettivi, in analogia a quanto previsto dall’art. 28 dello Statuto dei
lavoratori. Non è prevista, per esempio, una specifica sanzione per la
violazione del dovere di concordare con gli organi rappresentativi di
appartenenza il trasferimento ad altra sede di delegati, quando vi possa essere
pregiudizio per 1'esercizio del mandato (dovere specificatamente previsto
dall’art. 1480 del Codice dell’Ordinamento Militare). Ad onor del vero, il punto
n. 50 dell'allegato C, al Regolamento di Disciplina Militare, prevede tra le
infrazioni punibili con la consegna di rigore, "gli atti diretti a condizionare
l'esercizio del mandato dei componenti degli organi di rappresentanza militare";
tale formula, però, è di difficile applicazione a causa della sua eccessiva
genericità e andrebbe meglio specificata. A proposito della gerarchizzazione
degli organismi di rappresentanza, si consideri quanto segue: con riferimento
alle riunioni, rileva art. 884, II comma, DPR 15 marzo 2010, n. 90, (già l'art.
14, I comma, DPR 691/1979) a mente del quale il presidente non è scelto con
criterio di tipo collegiale bensì gerarchico, poiché deve essere "il delegato
più elevato in grado o, a parità di grado, più anziano presente alle riunioni";
le delibere vengono adottate dai delegati presenti e, a parità di voti, prevale
il voto del presidente; al presidente è attribuito il potere disciplinare di
richiamo e di censura, nonché quello di allontanamento dalla riunione del
militare colpevole di aver turbato l'ordine o di non aver osservato le norme sui
limiti e le facoltà del proprio mandato; il regolamento, con una norma che ha il
tenore di clausola generale, prevede come l'inosservanza delle norme della legge
di principio e delle altre disposizioni disciplinanti l'attività dei delegati
contenute nei R.A.R.M., è considerata a tutti gli effetti grave mancanza
disciplinare e pertanto punibile con la sanzione della consegna semplice. Non vi
è chi non veda come tale tipo di punizione è posta in violazione del principio
di legalità delle sanzioni disciplinari, con un'interpretazione arbitraria del
contenuto della legge di principio sulla disciplina militare. Mi spiego. Se è
vero che esiste un diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero per il
militare rappresentato, tale diritto andrebbe, a fortiori, riconosciuto al
militare rappresentante, con le uniche limitazioni previste dalla legge di
principio, cioè argomenti a carattere riservato di interesse militare o di
servizio. In effetti, al militare rappresentante è concessa tale possibilità ma
solo dietro autorizzazione dell'autorità gerarchica competente. In tale modo la
libertà che sembra riconosciuta al militare prima della sua elezione, finisce,
inesorabilmente, per comprimersi quando costui viene eletto membro della
rappresentanza. L'assoggettamento ad autorizzazione sembra proprio eccessiva e
rappresenta un’ulteriore chiara restrizione alla libertà di manifestazione del
pensiero. Tale restrizione presta il fianco a dubbi e perplessità sotto il
profilo della sua legittimità costituzionale. Tutto quanto sopra brevemente
visto, fa capire come i singoli rappresentanti siano costretti ad agire, in modo
eroico, in un campo irto di insidie, quasi come fosse un percorso di guerra;
essi, pertanto, non devono essere biasimati, ma vanno sostenuti e aiutati dai
colleghi della base (almeno fino a quando non chiedono di essere prorogati e poi
ri-prorogati!). Giunti a questo punto, non si può certo sostenere che gli
organismi di rappresentanza siano immuni dai condizionamenti derivanti dalla
gerarchia. A tal proposito si consideri il comunicato stampa emesso in data
02/09/11 da un delegato del COCER Carabinieri, Fornicola Michele, il quale ha
affermato: “Nel Consiglio Centrale di Rappresentanza c’è un problema di
democrazia: non è possibile che un comunicato stampa che dovrebbe avere un
contenuto condiviso sia invece redatto unilateralmente, senza che la maggioranza
dei delegati ne sappia nulla”. Ha precisato il delegato del COCER: “Quanto
accade in occasione della divulgazione dei comunicati stampa del Consiglio è
contrario alle regole interne degli organismi della rappresentanza militare”.
Tutto questo accade, sostiene sempre il militare, senza tener conto “di quanto
previsto dall’articolo 902 del DPR 15 marzo 2010, n. 90, il potere decisionale
del COCER non sempre appartiene all'Assemblea, ovvero alla maggioranza dei
propri delegati riuniti. Il 90 per cento dei comunicati stampa del COCE non sono
stati condivisi dall’assemblea”. E’ evidente che la rappresentanza militare,
così come concepita dall’attuale normativa, appare oggi uno strumento obsoleto e
drasticamente inutile a rappresentare le istanze della base, per cui un’intera
categoria di pubblici dipendenti, in possesso di sconfinati poteri e strumenti
investigativi, continua a rimanere in una situazione di assoluta separatezza. Ci
si chiede quale sia il motivo per il quale il legislatore italiano sia da sempre
contrario a riconoscere ai cittadini militari il diritto di costituire
associazioni professionali a carattere sindacale o di aderire a quelle
esistenti.
Ebbene, la
diffidenza del legislatore ha una radice “biforcuta”.
a) Il mancato
riconoscimento delle libertà sindacali sarebbe giustificato dalla preoccupazione
secondo la quale un eventuale sindacato armato si porrebbe in conflitto con lo
Stato ("datore di lavoro"). A proposito della "conflittualità" degli interessi
coinvolti in eventuali "rivendicazioni" sindacali, va osservato come una tale
preoccupazione sia infondata in quanto lo Stato, in persona dei propri organi
(funzionari ecc), non tende alla massimizzazione di un determinato e personale
profitto, bensì ad organizzare i pubblici uffici in modo tale da garantire il
buon andamento ed il raggiungimento di un'utilità comune. Ritengo che i
suggerimenti e le istanze provenienti dalla base potrebbero rappresentare un
utile contributo al miglioramento dell'efficienza della macchina amministrativa
della difesa. A tal proposito, si consideri, che le Forze armate e, soprattutto,
la polizia giudiziaria e tributaria militare hanno acquisito una notevole
professionalità. Non sono infrequenti i casi in cui singoli settori
dell'amministrazione della difesa (es. Carabinieri, Esercito, Guardia di
Finanza, ecc.) avanzano proposte, volte a rendere più efficiente e produttivo il
loro operato, che sono destinate a restare lettera morta perché chi le propone
non ha gli strumenti per portarle all'attenzione della collettività. Si
consideri, inoltre, che non è il riconoscimento del diritto di libertà
sindacale, in quanto tale, a mettere in pericolo lo svolgimento del ruolo tipico
delle Forze armate, ma solo certe ed eventuali modalità del suo esercizio. E’
giusto il caso di far rilevare come forme illegittime di esercizio del diritto
di libertà sindacale sarebbero sicuramente represse con l'applicazione del
Regolamento di Disciplina Militare, oppure con il Codice Penale Militare di Pace
oppure con il Codice Penale.
b) La seconda
motivazione posta a fondamento del divieto risiede nella preoccupazione secondo
la quale l'esercizio della libertà sindacale esporrebbe le Forze armate e di
polizia militarmente organizzate al rischio di strumentalizzazione e
politicizzazione e ciò potrebbe mettere in pericolo l’assolvimento dei compiti
istituzionali. Tali timori, però, risultano pretestuosi e privi di qualsiasi
fondamento. Il mancato riconoscimento dei diritti sindacali non contribuisce in
alcun modo a scongiurare o allontanare il rischio di strumentalizzazione e
politicizzazione. Le stesse preoccupazioni, infatti, potrebbero nutrirsi anche
nei confronti degli esponenti più alti della gerarchia, proprio perché questi si
trovano più a stretto contatto con i vertici dell'esecutivo. Qualora ciò si
verificasse, si correrebbe un pericolo ben più grave per la sicurezza della
democrazia. La base, infatti, per quanto mossa da nobili intenti, sarebbe
destinata ad un'obbedienza incondizionata, a causa di alcune altre circostanze:
grado di istruzione inferiore rispetto alla gerarchia, sicurezza di uno
stipendio e timore di perderlo, assenza di organi non indipendenti dalla
gerarchia che rappresentino e difendano le sue legittime istanze e, infine, cosa
ben più grave, la mancanza del principio di legalità e di tassatività
dell’illecito alla base delle sanzioni disciplinari di Corpo (per un
approfondimento sul punto, vedi “Il paradosso di un’Europa più attenta alle
dimensioni dei cetrioli che non ai diritti soggettivi dei cittadini militari”,
pubblicazione online).
Il punto è un
altro. Il mancato riconoscimento di una concreta tutela sindacale per i militari
si ripercuote direttamente sul concetto di obbedienza militare, fino a
provocarne una mutazione genetica. L’obbedienza - definita “ASSOLUTA” nel
precedente regolamento e “leale e consapevole” in quello vigente - diventa, a
causa dell’assenza di tutele effettive, “ASSOLUTA-mente” necessaria per la
carriera del militare. Tale circostanza provoca, di riflesso, un’espansione dei
confini che delimitano l’attinenza dell’ordine militare. Tutelare i diritti dei
militari equivarrebbe a perimetrare con una linea continua, e non più
tratteggiata, i confini di attinenza dell’atto amministrativo-ordine-militare
(per un approfondimento sul punto, vedi “Ordini militari e disordini normativi”;
vedi anche “Esecuzione dell’ordine militare non manifestatamente illecito:
asimmetrie da sanare tra codice penale comune, codice penale militare e legge
sulle norme di principio della disciplina militare” entrambi pubblicati online).
Si rende, perciò, assolutamente necessario uno strumento di tutela effettiva, a
garanzia non solo dei militari, ma anche, e soprattutto, dei superiori interessi
della democrazia. Si consideri che la polizia giudiziaria militarmente
organizzata è come una “stella polare” per l’autorità giudiziaria: con la sua
luce consente al magistrato di orientarsi nelle indagini; essa deve poter
continuare a brillare anche quando le indagini conducono a “menti sopraffine”.
Come nei film americani.
Arrestati quattro poliziotti.Violenza sessuale, corruzione, falso e furto.
Sono queste le accuse che hanno portato all’arresto di due ispettori, un
sovrintendente e un assistente della Polizia di Stato. Le quattro ordinanze di
custodia cautelare in carcere, eseguite dalla Squadra Mobile della Questura di
Roma e dalla polizia giudiziaria del Tribunale di Roma, sono state emesse dal
gip presso il Tribunale di Roma. In particolare, sono ritenuti
responsabili di aver trafugato, nel 2009 e 2010, quando
prestavano servizio presso la Squadra Mobile, somme di denaro ad alcuni
commercianti stranieri e di aver preteso elargizioni in cambio di mancate
denunce. Gli arrestati avrebbero anche stuprato delle prostitute dietro la
minaccia dell'arresto. La divisa, e in alcuni casi anche le manette, erano le
“armi” utilizzate per intimorire le vittime. I quattro erano in servizio
presso la Squadra Mobile ma durante l'inchiesta sono stati
trasferiti in ufficio.
Tutto è partito da una denuncia presentata da un commerciante straniero
che mesi fa raccontò in Procura dei soprusi subiti dai quattro che erano
diventati un po' il terrore dei negozianti stranieri di Roma. Gli arrestati
indossavano sempre la divisa, anzi, a dire del denunciante, la usavano proprio
per tenere sotto scacco le vittime. L'uomo raccontò di vessazioni continue
nonostante fosse in regola con i vari permessi sulla sua attività. A volte il
tutto si traduceva in veri e propri furti che i quattro facevano nei negozi che
andavano a controllare. per minacciare i commercianti si mettevano anche a
stilare delle denunce false. Inoltre i poliziotti chiedevano soldi, vere
mazzette di migliaia di euro, minacciando i negozianti di fargli chiudere
l'attività.
“Stupri, ricatti e mazzette".
Con queste accuse sono finiti in carcere i quattro poliziotti della Questura di
Roma: due ispettori, un sovrintendente e un assistente. La squadra mobile ha
eseguito gli arresti dei colleghi dopo le ordinanze emesse dalla sezione di
polizia giudiziaria del Tribunale. Durante l'arresto ai poliziotti sono stati
ritirati sia la pistola che il tesserino. I reati contestati dalla procura della
Repubblica di Roma risalgono agli anni negli anni 2009 e 2010 e sono pesanti:
violenza sessuale, corruzione, falso e furto. In particolare, i poliziotti si
sarebbe fatti consegnare, quando prestavano servizio presso la squadra mobile,
somme di denaro da alcuni commercianti stranieri con la minaccia di far chiudere
la loro attività con denunce per irregolarità inesistenti. Le accuse di stupro
si riferiscono a violenze che avrebbero compiuto verso una donna straniera
fermata per prostituzione, sotto la minaccia dell'arresto immediato. Le indagini
erano scattate dopo una denuncia presentata da un commerciante straniero: mesi
fa ha raccontato in Procura dei taglieggiamenti subiti dai quattro in divisa, e
di non essere l'unica vittima, tanto da aver rivelato che i quattro, che agivano
sempre insieme, erano considerati "il terrore dei negozianti stranieri di Roma".
E i quattro, nel racconto del negoziante, si presentavano sempre in divisa
proprio per tenere ancor più sotto scacco psicologico le vittime. L'uomo ha
parlato di vessazioni continue nonostante fosse in regola con i vari permessi
sulla sua attività, e ha raccontato di veri e propri furti che i quattro
compivano nei negozi che andavano a controllare e di come ricattavano i
negozianti, minacciando di stilare denunce false. E chiedevano continuamente
soldi, mazzette per migliaia di euro. Particolari che emergono anche dalle
intercettazioni pubblicate da “La
Repubblica”. ''Paga o ti facciamo
chiudere il negozio''. Così uno dei quattro poliziotti arrestati minacciava uno
dei commercianti taglieggiati e vessati dalla banda di agenti della Mobile.
PARLIAMO
DELLE MANIFESTAZIONI DI PIAZZA. MANIFESTARE PER CHI E PER COSA?
In democrazia esiste la
facoltà di scegliersi il rappresentante politico che possa tutelare diritti ed
interessi del suo elettorato. L’eletto-rappresentante opera in sede legislativa
o in sede esecutiva. Le manifestazioni di piazza, per alcuni chiamati a torto
esercizio della democrazia, potrebbero andar bene in uno Stato dittatoriale, ove
manca il collegamento tra sovrano e sudditi. In democrazia che senso ha
manifestare un problema o un disagio a chi già dovrebbe conoscerli e porvi
rimedio? Quindi si manifesta e ci si rivolge a chi? Per chi e per che cosa?
Oltretutto alcune volte in modo violento e nell’indifferenza delle masse. Per
far cosa: far guerra tra poveri? O per esibire una moda adolescenziale su
argomenti il cui tema si ignora e viene sfruttata dai violenti?
Ogni Novembre vi è la moda
degli scioperi studenteschi ed ogni pretesto è buono per marinare la scuola.
Oltretutto il tema della protesta è sconosciuto dai manifestanti, che con
l'istruzione della scuola media o delle scuole superiori è impossibile
approfondire.
Mercoledì 14 novembre 2012
scontri e feriti in diverse città italiane, nella giornata di mobilitazione
europea contro le politiche di austerity dei governi, scrive “Il
Messaggero”. Tafferugli e tre agenti feriti a Roma. Cinque a Milano, dove
gli studenti hanno danneggiato la sede dell'Enel. A Torino un poliziotto è stato
ferito gravemente da un gruppo di autonomi. Altri due agenti colpiti da bombe
carta a Padova.
Torino: grave un
agente. Il poliziotto gravemente ferito a Torino è stato aggredito
dagli autonomi davanti alla sede della Provincia di corso Inghilterra a Torino.
È stato accerchiato da una ventina di giovani, armati di bastoni e mazze da
baseball, che lo hanno colpito alla testa spaccandogli il casco e a un braccio.
Il poliziotto è stato portato all'ospedale Mauriziano. Sempre a Torino alcune
decine di manifestanti si sono scagliate contro il cantiere del grattacielo di
Intesa Sanpaolo, compiendo atti di vandalismo: sono state rotte vetrate dei
container, bagni chimici, tirate uova. Le forze dell'ordine hanno allontanato i
manifestanti. La protesta è proseguita sulle strade attorno al cantiere, vicino
alla stazione ferroviaria di Porta Susa, dove sono stati rovesciati alcuni
cassonetti dei rifiuti.
Padova. Due
poliziotti feriti negli scontri a Padova, uno in modo più serio. Entrambi si
trovano ancora al pronto soccorso. Il primo agente ha una gamba lacerata da una
bomba-carta che ha oltrepassato la tuta di servizio, l'altro ha avuto un
mancamento in seguito allo scoppio di un analogo ordigno rudimentale. Non è
stata ancora emessa la prognosi medica.
Milano, scontri e
feriti. Uno dei 2 tronconi del corteo degli studenti che stamattina
ha sfilato a Milano si è scontrato in 2 occasioni con un cordone di agenti in
tenuta anti sommossa in corso Magenta, a due passi dalla rappresentanza del
Parlamento europeo a Milano. I ragazzi, schierati in formazione a testuggine con
scudi e caschi, hanno tentato due volte di sfondare il cordone di agenti che ha
reagito caricandoli: cinque agenti sono rimasti feriti. Durante i due momenti di
confronto dal corteo sono volati, in direzione delle forze dell'ordine, sassi,
sampietrini, fumogeni e grossi petardi. Dopo il secondo tentativo di superare
l'ostacolo che li frappone all'obiettivo, i ragazzi (principalmente dei
collettivi universitari) sono indietreggiati, proseguendo il lancio di oggetti e
petardi in direzione degli agenti. Scontri anche all'interno della stazione
ferroviaria Porta Genova. Fitto il lancio di sampietrini, sassi, bottiglie di
vetro e fumogeni contro le forze dell'ordine nell'androne della stazione.
Momenti di panico per alcuni cittadini che si sono ritrovati nel mezzo degli
scontri, cercando di conquistare rapidamente l'uscita.
Banche nel mirino.
La protesta degli studenti si è rivolta, sin da subito, contro le
vetrine delle banche e in particolare contro quelle del Punto Enel di via
Broletto, nel centro città. Sulle 3 grandi vetrate danneggiate si notano i segni
dei colpi di mazza o di altri oggetti contundenti e a terra le schegge di vetro
e della terra rovesciata dalle fioriere sbattute al suolo. Scritte con vernice
nera e rossa, a firma anarchica o 'No Tav'. Tra le scritte e i volantini
lasciati dai manifestanti sulle vetrate, spiccano 'Tenetevi l'Austerity',
insulti vari e inviti a 'non pagare' e contro il capitalismo.
Aggredito un ragazzo.
Secondo alcuni testimoni presenti ai danneggiamenti al Punto Enel di
via Broletto, in centro a Milano, una ragazzo di 17 anni è stato aggredito dai
manifestanti pare a scopo di rapina, ed è stato 'salvato' dall'intervento di 2
passanti, due lavoratori sudamericani. «Abbiamo visto quel ragazzino venire
picchiato con dei pugni da alcuni altri giovani proprio durante i blitz contro
le vetrate del Punto Enel - racconta uno dei due - siamo riusciti ad evitare che
gli portassero via il portafogli e che non ci fossero conseguenze peggiori, ma
poi abbiamo dovuto desistere perchè dei manifestanti hanno cominciato a tirarci
contro dei petardi».
Brescia, tre studenti
arrestati. Tre studenti sono stati arrestati dalla polizia locale
questa mattina dopo che avevano incendiato alcuni copertoni in via Triumplina, a
Brescia. Incendio doloso e travisamento le accuse. In segno di solidarietà, il
corteo della manifestazione studentesca ha deviato il proprio percorso per
dirigersi verso il comando di polizia locale. Successivamente gli studenti hanno
raggiunto la stazione ferroviaria di Brescia, dove per circa mezz'ora hanno
occupato alcuni binari. Si sono registrate alcune cariche da parte della polizia
per tentare di allontanarli dai binari. Il corteo studentesco si è poi diretto
verso il centro cittadino.
Bologna, blitz in sede
Cisl. Un lancio di uova e poi l'invasione della sede della Cisl di
Bologna. È il blitz del collettivo degli studenti. La sede del sindacato in via
Milazzo è stata occupata simbolicamente per un paio di minuti, durane i quali
c'è stata anche tensione tra gli attivisti e persone all'interno degli uffici.
Sono volati spintoni. Poi la manifestazione ha ripreso a percorrere le vie della
città. in precedenza, con uova e vernice rossa, era stata colpita una sede del
Ministero del Lavoro, in viale Masini, un gesto accompagnato da slogan contro
Elsa Fornero.
Napoli, occupati i
binari. I binari della Stazione centrale di Napoli sono stati occupati
dagli studenti delle scuole medie e superiori che hanno sfilato per le strade
della città.
Ancona, uova contro
Bankitalia. Esponenti di centri sociali, studenti e precari, che
hanno manifestato in coda al corteo indetto per lo sciopero della Cgil ad
Ancona, hanno lanciato uova e vernice contro l'ingresso della sede della Banca
d'Italia e contro le vetrine di diverse banche e finanziarie nel centro
cittadino tra cui Ubi Banca Popolare di Ancona, Bnl e Credem. La corposa
componente del corteo (oltre 700 persone) che ha inscenato anche un
contro-comizio polemico nei confronti della Cgil, ha intonato in coro: "Noi la
crisi non la paghiamo", ma anche insulti contro il presidente del consiglio
Mario Monti.
Pescara.
Migliaia di persone - c'è chi dice più di diecimila - in corteo per le vie del
centro di Pescara nell'ambito della protesta regionale organizzata dalla Cgil
Abruzzo in occasione della Giornata Europea di mobilitazione promossa dalla
Conferenza Europea dei Sindacati (Ces), «per il lavoro, per la solidarietà e per
dire no all'austerità». Tra striscioni, cori e bandiere - sono presenti
lavoratori di ogni categoria, oltre a studenti, docenti, personale scolastico e
assieme a partiti politici, associazioni ed enti locali.
Pisa e Firenze.
Doppia manifestazione a Firenze: Cobas e Cgil.Pacifica la
manifestazione a Pisa: macerie davanti all'ingresso del palazzo della Provincia
lasciate da un gruppo di studenti medi superiori per denunciare «lo stato
disastroso delle nostre aule e delle nostre scuole». Un gruppo di ragazzi, circa
una decina, si è staccato dal corteo che sta percorrendo le vie del centro per
raggiungere la Provincia e mettere in atto il blitz di protesta. I giovani hanno
acceso fumogeni e scaricato le macerie oltre ad affiggere uno striscione subito
tolto dagli addetti alla vigilanza. L'azione è durata pochi minuti, seguita a
distanza dalle forze dell'ordine, e si è conclusa senza disordini.
Genova. Migliaia di lavoratori, assieme agli studenti, sono scesi in piazza a
Genova. Il sindacato qui ha proclamato un'astensione dal lavoro di 8 ore. Tre i
cortei che si sono snodati in città. Manifestazioni molto partecipate anche a
Imperia, Savona e La Spezia.
In tutta Europa.
In Grecia sono previste astensioni dal lavoro per tre-quattro ore,
mentre in Belgio i sindacati delle ferrovie intendono bloccare il traffico dei
treni. Si fermeranno anche Madrid e Lisbona, con gli scioperi dei mezzi
pubblici, la paralisi nel settore alimentare, la chiusura delle fabbriche. E
questa mattina, durante le manifestazioni legate alla mobilitazione generale
almeno 16 persone - tra cui 3 poliziotti - sono rimaste ferite negli scontri e
altre 42 sono state arrestate. Per Candido Mendez, segretario generale del
sindacato spagnolo Ugt, l'Unione Generale dei lavoratori, lo sciopero di oggi
rappresenta un atto di «difesa personale» per preservare la «dignità» dei
lavoratori spagnoli ed europei.
Voli cancellati.
A causa del blocco odierno nella penisola iberica alcune compagnie
aeree spagnole e la portoghese Tap hanno cancellato centinaia di voli. In Spagna
e Portogallo la disoccupazione è aumentata rispettivamente al 25% e al 16%. Come
riporta The Guardian, al «primo sciopero generale pan-europeo» parteciperanno
circa 40 sindacati di 23 Paesi. Per quanto riguarda la situazione in Francia,
invece, non c'è nessuno sciopero ufficiale, ma solo alcune manifestazioni in
tutta la nazione. Le contestazioni non risparmieranno neanche la Gran Bretagna
ed in serata sono previste delle proteste a Westminister.
L'ITALIA DELLE RIFORME CHE
NESSUNO VUOLE
A proposito di
riforme, in tema di insegnamento vi è un interessante approfondimento di Sergio
Lorusso sulla Gazzetta del Mezzogiorno. Coniata nel 1909 da due intellettuali
del calibro del pugliese Gaetano Salvemini (1873-1957) e Giuseppe Prezzolini
(1882-1982), la locuzione «barone universitario» ricorre ciclicamente nelle
cronache italiane, a dispetto di riforme e controriforme del mondo accademico
susseguitesi negli ultimi decenni. Un secolo fa, dalle colonne della prestigiosa
rivista letteraria «La Voce» (una loro creatura), i due già si interrogano sulle
radici e sulle ragioni dei potentati accademici, forti delle loro esperienze in
Italia e all’estero: tra gli obiettivi della rivista, afferma in un editoriale
Prezzolini, vi è quello di occuparsi «della crisi morale delle università
italiane», e desta clamore, in uno dei fascicoli iniziali, un articolo di
Salvemini dal titolo «Cocò all’Università di Napoli, o la scuola della mala
vita», che rappresenta il primo atto della campagna contro i baronati e il
dogmatismo delle università dello Stivale. Lo storico molfettese, dopo aver
conseguito a soli ventotto anni la cattedra di Storia moderna nell’Università di
Messina ed essere passato agli Atenei di Pisa e Firenze, emigrerà negli Stati
Uniti dove dal 1933 insegna Storia della civiltà italiana nell’Università di
Harvard, per poi rientrare in Italia nel 1949 – all’indomani della caduta del
fascismo – e riprendere l’insegnamento a Firenze, città dei suoi studi
superiori. Anche Prezzolini, giornalista e scrittore, può godere di un punto di
vista privilegiato, avendo vissuto tra Italia, Francia e Stati Uniti, paese
quest’ultimo in cui si trasferisce nel 1929 per insegnare nella Columbia
University di New York. «Essere baroni è una categoria dello spirito e loro
hanno sempre trovato il modo di far pesare il proprio ruolo su valvassori e
valvassini», ha scritto qualche giorno fa sul «Corriere della Sera» Lorenzo
Salvia, additando le facoltà di Medicina e Giurisprudenza come quelle più a
rischio baronie e citando il caso dell’Ateneo barese – finito sotto le lenti
della magistratura – come emblema dell’Esamopoli e della Parentopoli accademica.
Il fenomeno, tuttavia, non è esclusivamente pugliese o meridionale, anche se è
soprattutto al Sud che ha assunto una dimensione giudiziaria più eclatante. In
Lombardia, ad esempio, dove sono concentrati alcuni tra i più prestigiosi atenei
italiani, non è mai scoppiata una vera e propria Parentopoli, ma i casi di
nepotismo certo non mancano, come documentano con dovizia di particolari Davide
Carlucci e Antonio Castaldo nel loro volume Un paese di baroni (Chiare lettere
ed., 2009), elencando le dinastie padane. E suona come una nota decisamente
stonata l’asserzione del capostipite di una di esse, Walter Montorsi, che
introduce un improbabile distinguo tra il nepotismo del Sud, dove «c’è la
mafia», e la «naturale trasmissione del sapere del Centronord», per poi
affermare, con un certo orgoglio, che «i baroni ci sono sempre stati e
continueranno ad esserci», ma che «a Milano non è come giù», perché si lavora da
mattina a sera. Siamo di fronte a qualcosa che andrebbe studiato piuttosto dal
punto di vista antropologico, evidenziando quelle leggi non scritte che reggono
il mondo universitario e le carriere accademiche nel nostro Paese, quelle regole
non codificate che stanno alla base di un sistema spesso chiuso e
autoreferenziale, distante anni luce dalla concezione anglosassone
dell’accademia. Regole che, proprio perché consolidate, sono più difficili da
sradicare e per il cui superamento non è sufficiente una riforma legislativa,
anche se animata da buone intenzioni o annunciata come «epocale». Lo ha fatto
Raffaele Simone, leccese, tra i più autorevoli studiosi europei di linguistica e
di filosofia del linguaggio, in un illuminante saggio del 1993 ripubblicato in
versione aggiornata nel 2000 dal titolo L’Università dei tre tradimenti (Laterza
ed.), che bolla il pianeta università come arretrato, tribale, inefficiente e
orientato all’autoriproduzione. È la cultura della formazione d’eccellenza e del
sapere, allora, che andrebbe rifondata ab imis, restituendo dignità,
autorevolezza, trasparenza e competitività ad un sistema universitario in
affanno. Se il compito è estremamente arduo, e molto più facile da enunciare che
da realizzare in concreto, ciò non significa che si debba rinunciare in
partenza. «Ci sono uomini colti persino tra i professori», affermava con non
poca ironia Prezzolini, che dipingeva l’Italia come una terra di grandi
ingiustizie, nella quale «non si può ottenere nulla per le vie legali, nemmeno
le cose legali», raggiungibili soltanto «per via illecita: favore,
raccomandazione, pressione». L’Università come specchio del nostro Paese,
allora? Forse sì, ma solo in parte. Salvemini, il «professore sovversivo» di
Molfetta costretto all’esilio durante il regime fascista, che in una lettera al
rettore dell’Ateneo fiorentino aveva chiarito le ragioni della sua rinuncia alla
cattedra per essere venute meno le condizioni di un insegnamento veramente
libero, il censore dell’Italia dei potenti, delle inefficienze, delle lentezze e
degli scandali refrattario ai compromessi, visse sempre all’insegna del motto
«fa’ quello che devi, avvenga quello che può». Salvemini tornò alle redini della
«sua» cattedra fiorentina quasi vent’anni dopo – grazie all’ostinazione di Piero
Calamandrei e di Ernesto Rossi – alla veneranda età di settantasei anni, per
continuare a svolgere la sua battaglia contro il nozionismo e l’incapacità di
formare delle vere coscienze critiche, piaga del nostro sistema formativo. Non
sempre, in definitiva, «docente» fa rima con «incompetente» o con «potente».
ITALIA – 12 OTTOBRE 2012.
Proteste in tutta Italia scrive “Il
Secolo XIX”. Gli studenti italiani oggi sono in piazza in 90 città italiane
per «difendere il loro futuro»: questa giornata di mobilitazione, si legge in un
comunicato della Rete della Conoscenza, «è stata lanciata dall’Unione degli
Studenti quest’estate, per manifestare contro la svendita della scuola pubblica
e la distruzione dell’Università, ha avuto una grande diffusione e preannuncia
l’apertura di un autunno di mobilitazione intenso». A Milano, per esempio, in
centinaia hanno risposto all’appuntamento lanciato dai collettivi studenteschi
Laps (per le Superiori) e Link (per gli universitari) a difesa di un’iscrizione
pubblica. Partiti come di consueto da largo Cairoli tra cori, musica e fumogeni,
i ragazzi sfilano per le vie del centro: l’obiettivo è raggiungere piazza Duca
d’Aosta, a fianco della stazione Centrale. Poco prima delle 13, una ventina di
ragazzi ha scavalcato il cancello del Pirellone, sede del consiglio Regionale
della Lombardia, che affaccia proprio su piazza Duca d’Aosta: una volta dentro,
i ragazzi hanno alzato le mani di fronte a un drappello di agenti in tenuta
antisommossa che controllava l’ingresso all’edificio. L’iniziativa, avvenuta
quando la manifestazione sembrava ormai finita e molti partecipanti avevano
lasciato il presidio con cui era terminato il corteo, è stata accompagnata dai
cori «dimissioni, dimissioni» e «mafiosi, mafiosi». A Bologna, invece, un nastro
giallo e nero è stato usato per circondare la fontana di piazza Nettuno e
“sigillarla” simbolicamente: “Ci scusiamo per il disagio, stiamo scioperando per
voi”, vi si legge accanto. Anche nel capoluogo emiliano gli studenti (circa 800,
in maggioranza delle Superiori) si sono riuniti per un presidio: “Più
rappresentanza meno privati ladri ladroni”, è lo slogan su uno striscione
esposto davanti a un palchetto allestito dalla Flc-Cgil, dove si alternano
interventi a sostegno della scuola pubblica. È presente anche un gazebo dei
Comunisti Italiani. A Roma, intorno alle 10.30 centinaia di studenti sono
partiti da piazza della Repubblica per raggiungere piazza Apostoli, davanti alla
Prefettura, preceduti da uno striscione su cui si legge “La scuola non è in
vendita. Risorse - Stop Aprea - Diritto allo studio”. Probabilmente, il corteo
incrocerà i manifestanti della Cgil partiti da piazza dell’Esquilino, che
confluiranno nella loro manifestazione. Anche in Sardegna, a Cagliari e
Oristano, è iniziato questo «autunno caldo» della scuola: centinaia di studenti
sono scesi in piazza a fianco di insegnanti di ruolo e precari, personale
amministrativo e tecnico. E anche gli operai dell’Alcoa di Portovesme si sono
uniti con un loro striscione. Nel capoluogo, i manifestanti hanno raggiunto
piazza Repubblica, sede del concentramento e da qui un serpentone umano ha
percorso le vie del centro città verso viale Trieste, sede dell’assessorato
regionale della Pubblica istruzione.
ITALIA – 24 NOVEMBRE 2010 -
Intanto, prosegue la
mobilitazionecontro il decreto Gelmini. E' stata una
giornata molto calda sotto l'aspetto politico ed istituzionale. I cortei
studenteschi contro la riforma Gelmini hanno avuto il picco massimo con gli
scontri avvenuti a Palazzo Madama, dove un gruppo di estremisti di sinistra ha
sfondato la barriera di protezione ed è giunto fino all'entrata del Senato dove
sono avvenuti violenti tafferugli con la Polizia che ha respinto i contestatori.
Il bilancio di questi scontri è di alcuni contusi fra le forze di Polizia e uno
studente arrestato. Contro il decreto incriminato si sono scatenati anche i
ricercatori che all'Università la Sapienza di Roma sono saliti sui tetti degli
edifici insieme al segretario del Pd Pierluigi Bersani per sottolineare la
gravità della condizione in cui versano molti precari di questo settore. Ma la
giornata è stata contrassegnata da numerose manifestazioni in tutta Italia da
Palermo a Firenze dove è stato occupato il rettorato. In concomitanza con queste
lotte universitarie che riecheggiano nella forma quelle del '68 e degli anni
settanta, ci sentiamo di dire che senza dubbio l'apparato universitario italiano
dev'essere a tutti i costi riformato e rinnovato per renderlo competitivo a
livello europeo. Ma è anche vero che la problematica principale delle Università
del nostro paese è l'assoluta gerarchia baronale dei docenti ultra settantenni,
che da decenni spadroneggiano negli atenei unitamente a una gestione affaristica
e nepotista di corsi di laurea e enti accademici. Non ci sfugge che molti di
questi gruppi di studenti sono nelle mani di questi boss, che possono pilotarli
come vogliono per far sì che tutto rimanga come è adesso. Cari giovani voi state
pagando proprio gli atteggiamenti prevaricatori di questi signori che hanno
impedito con il loro potere il cambio generazionale alla guida del paese. Se è
giusto ribellarsi a questo stato di cose vergognoso, bisogna però colpire i veri
responsabili di tutto questo che sono i partiti e i boss delle Università, che
vi hanno condannato ad essere precari e senza un domani. Le altre lotte che non
hanno questo fine non sono proficue e al contrario sarebbero faziose e inutili.
ITALIA – 23 OTTOBRE 2008 -
Intanto, prosegue la mobilitazione contro il
decreto Gelmini.
A Roma si è svolto un corteo, partito dalla Sapienza, per
dire no alla riforma dell'università. Da stamattina la Facoltà di Scienze
dell'Università Roma Tre è stata occupata. Presidi da oggi anche al liceo
scientifico Malpighi, all'Avogadro e all'istituto Matteucci, mentre proseguono
le occupazioni iniziate nei giorni scorsi.
A Palermo, il Consiglio di facoltà di
Lettere ha approvato la sospensione per dieci
giorni della didattica ordinaria. Nella altre facoltà, dopo la
sospensione di martedì, la didattica è ripresa, anche se diversi studenti hanno
disertato le lezioni.
A Torino circa mille studenti delle scuole
superiori hanno dato vita a una manifestazione
spontanea per le strade del centro storico della città. E continuano
nel torinese le occupazioni delle scuole.
A Trieste c'è stata la protesta degli
studenti delle scuole superiori. Qualche centinaia di ragazzi ha ''edificato''
un muro con i libri in piazza San Giacomo.
Dal 1
ottobre 2008 ad oggi il dissenso nei confronti del decreto Gelmini si è
sviluppato finora in circa 300 manifestazioni in
tutta Italia, con 150 scuole e 20 facoltà universitarie occupate.
I consiglieri del Pdl del
Friuli Venezia Giulia, Paolo Ciani e Piero Tononi hanno intenzione di denunciare
alcuni insegnanti di scuola superiore, compreso il liceo classico Dante
Alighieri di Trieste, che ieri mattina, durante le proteste in corso contro la
riforma Gelmini sfociate nell'occupazione di alcuni istituti, avrebbero
minacciato di bocciatura e penalizzazioni gli studenti che chiedevano il
regolare svolgimento della lezione. «Per questi episodi la norma introdotta dal
ministro Brunetta contempla anche il licenziamento - hanno spiegato - Siamo
stati direttamente contatati da alcuni genitori che hanno denunciato
l'accaduto».
ITALIA – 12 OTTOBRE 2007 - Erano in 100mila gli
studenti che in 130 diversi cortei sono scesi in piazza oggi a manifestare
contro il decreto Fioroni. Tra slogan, striscioni e bandiere studenti di scuole
superiori e delle università hanno gridato al ministro della Pubblica istruzione
, Giuseppe Fioroni, e a quello dell'Università e la Ricerca, Fabio Mussi, il
loro dissenso, chiedendo a gran voce più fondi per le scuole, abolizione dei
corsi di laurea a numero chiuso e contestando il ritorno degli esami di
riparazione a settembre. Qualcuno però si è fatto prendere la mano: chi ha
inneggiato al Duce e chi invece ha imbrattato i muri di Napoli con insulti
diretti al Papa.
130 cortei Sventolano le bandiere rosse
dell'Unione degli studenti e dell'Unione universitari. Gridano "No alla riforma
della scuola" e dicono "no al numero chiuso nelle università". E ancora:
"Fioroni rimandato a settembre". Così i 130 cortei di studenti di superiori e
università che sono scesi in piazza oggi sono andati diritti al cuore della loro
protesta: il decreto del ministro dell'Istruzione che ha reintrodotto gli esami
di riparazione.
Insulti al Papa
"Occupiamo il Vaticano e impicchiamo il Papa". Scritte di questo genere sono
apparse sui muri di via De Pretis e Corso Umberto I a Napoli. A scriverle sono
stati sei minorenni, ora denunciati, tutti appartenenti all'area anarchica. I
sei - quattro ragazzi e due ragazze - si sono staccati dal corteo studentesco
imbrattando i muri con offese rivolte al Papa.
Macerata: "Domani a scuola accompagnati"
"Le assenze da scuola dovute a scioperi saranno giustificate solo se gli
studenti saranno riaccompagnati a scuola dai genitori". Il preside del liceo
classico "Leopardi" di Macerata, Sauro Pigliapoco, ha scritto ai genitori degli
studenti minorenni per invitarli a giustificare l’assenza dei figli
presentandosi direttamente a scuola. I minorenni che oggi hanno scioperato
contro il decreto Fioroni saranno riammessi alle lezioni solo se domani saranno
accompagnati dai genitori.
Gli striscioni
I ragazzi che oggi hanno deciso di scendere in piazza usano il linguaggio a loro
più congeniale: quello degli striscioni e degli slogan da stadio. Nella
capitale, la scritta "Le nostre idee faranno scuola" anticipa un camion con
musica a tutto volume. Gli studenti gridano: "Ministro la scuola è nostra". E
poi: "Non cambiate l’istruzione? Noi ve famo la rivoluzione". E anche: "Contro
il governo della guerra per una scuola pubblica, laica, di massa".
Milano contro Fioroni e Formigoni Sono arrivati a Palazzo
Marino, sede del Comune di Milano, e hanno gridato: "Sciopero, sciopero".
Qualcuno si è fatto prendere la mano e ha iniziato a insultare il sindaco, ex
ministro dell'Istruzione, e Fioroni, attuale titolare del ministero contestato.
Con lo striscione "Trasforma la cultura, spezza il contratto" migliaia di
studenti milanesi hanno iniziato la loro protesta contro il decreto della scuola
da largo Cairoli. I partecipanti chiedono "l’abrogazione della riforma
Formigoni, ennesima minaccia alla scuola pubblica", e sollecitano anche
"l’annullamento delle riforme Moratti e Fioroni che continuano nella loro opera
di distruzione della scuola, portando elementi nuovi non condivisi dalle
componenti scolastiche per evitare di occuparsi e di risolvere i problemi reali
del mondo dell’istruzione".
20mila a Roma E' partito da piazzale Aldo
Moro a Roma, lo sciopero degli studenti contro la riforma Fioroni. "Siamo circa
20mila" dicono gli organizzatori. "È la manifestazione più grande degli ultimi
anni - spiega Elisabetta degli studenti di sinistra - noi abbiamo richieste ben
precise: più risorse in finanziaria per la didattica e l’edilizia sia scolastica
sia universitaria, una legge nazionale per il diritto allo studio e il
superamento della legge 264/99 che ha istituito il numero chiuso
nell’università".
Studenti di destra: "Duce, duce"
Anche gli studenti di destra chiedono la riforma. Ma i termini da loro usati
sono destinati a creare scompiglio. Un gruppo sparuto, circa una trentina tra
loro, grida: "Duce, duce" e poi "chiediamo che venga abolita la riforma della
scuola prima come studenti e poi come fascisti - ha detto Giacomo della scuola
Gaetano Martino - ma non ci avviciniamo al corteo perché si ammazzano solo di
canne".
Picchiato un manifestante romano Il clima si è scaldato
a Roma, dove le forze dell'ordine in borghese hanno fermato tre ragazzi. Due di
loro, minorenni, farebbero parte di organizzazioni di destra infiltrate nel
corteo; mentre il terzo è un manifestante picchiato. "Stavano menando un mio
amico - ha detto Andrea, il manifestante picchiato - l’ho tirato fuori dalla
mischia. Ero in coda al corteo con la mia ragazza. Ho visto che erano tanti e ho
cercato di proteggerlo, lui è riuscito a scappare e non so neanche dove sia
adesso".
Abolire "il numero chiuso"
Dall’unione universitari la richiesta di abolire il numero chiuso in tutte le
facoltà. "Vogliamo accesso libero all’università - spiega Nicola - e poi magari
una selezione a partire dagli anni successivi. La legge 264 prevede inoltre il
numero chiuso solo in 5 facoltà perché viene applicato anche nelle altre?".
ITALIA
- 4 NOVEMBRE 2005 -
A oltre una settimana di distanza dall'approvazione dei Ddl Moratti sullo stato
giuridico della docenza universitaria e sul riordino della scuola superiore, non
solo le proteste degli studenti non sono cessate, ma sembra invece che, in
diverse città del Paese, stiano riprendendo vigore.
A
Milano da venerdì scorso gli studenti dell'Università statale continuano ad
occupare la sede dell'Ateneo per protestare contro il ministro Moratti. Il
senato accademico, con in primis il rettore Decleva, ha chiesto di "porre fine a
un'azione illegale" perché "la sede centrale non può diventare in alcun modo un
porto franco per comportamenti impropri e avventuristici", riferendosi
soprattutto alle decine di "ragazzi esterni" che sono entrati in ateneo e
avrebbero derubato diversa merce dai bar. La protesta degli studenti, però,
continua: "Va bene non essere d'accordo con le nostre iniziative, ma non
accettiamo le falsità", hanno detto, ricordando, a chi li accusava di essere
poche decine, di essere oltre duecento. Questa mattina, insieme ai colleghi "più
piccoli" delle scuole superiori hanno sfilato per le vie della città occupando
per alcuni minuti l'anagrafe e interrompendo, sempre per breve tempo, la
circolazione di alcune linee tramviarie. Gli studenti sono stati tenuti sotto
controllo da un piccolo cordone di polizia e tutto si è svolto in modo
tranquillo.
Una
manifestazione anche a Venezia. Circa 800 studenti hanno partecipato al
corteo che, attraversate le calli, ha sfilato fino al palazzo della Prefettura.
Qui una delegazione è salita a parlare con il capo di gabinetto della
Prefettura, illustrando le ragioni della protesta contro la riforma Moratti, ma
anche contro l'intervento delle forze dell'ordine che, una decina di giorni fa,
avevano sgomberato con la forza un istituto occupato. Anche qui, comunque, la
manifestazione si è svolta senza incidenti.
A
Pozzuoli, nel napoletano, continuano le proteste degli studenti delle scuole
medie superiori. Mercoledì è stata attuata un'occupazione simbolica
dell'Istituto professionale per il turismo e il commercio "Falcone" e
dell'Istituto polispecialistico di Toiano. Gli studenti - circa mille - hanno
bloccato con un sit in i cancelli di accesso all'istituto e bloccato l'adiacente
strada con i cassonetti della spazzatura. Le proteste stanno andando avanti con
assemblee d'istituto e riunioni tra i rappresentanti delle diverse scuole.
A Bari,
invece, continua l'occupazione della facoltà di Lettere e Filosofia
dell'Università. "Occuperemo a oltranza, fino ad arrivare alla completa
autogestione della facoltà", dicono i manifestanti. Le lezioni dunque sono
sospese e i docenti hanno sostenuto, insieme agli studenti, la protesta contro
il Ddl Moratti. D'accordo con la protesta anche il presidente Corrado Petrocelli.
Singolare
occupazione, infine, al liceo Tasso di Roma, dove la protesta si è
intrecciata anche con alcune vicende interne all'istituto.
ITALIA - 6 DICEMBRE 1997 -
Ottantaquattro istituti occupati, 192 autogestiti. Altre 182 scuole che svolgono
un' attività didattica inferiore al 50 per cento. In tutto 549 scuole
mobilitate. E dopo le occupazioni, la polizia, le polemiche, il ministro
Berlinguer lancia un messaggio agli studenti: 'Studenti - dice in sintesi -
avete diritto ad esprimere il dissenso ma non considerate l' occupazione l'
unica forma di protesta' . "In questi giorni - ha detto Berlinguer - si sono
levate molte voci di studenti, docenti e genitori che non mettono in discussione
il diritto al dissenso, ma chiedono che esso si esprima nel contesto di una
regolare vita scolastica. Ho ricevuto varie espressioni di questo diffuso stato
d' animo e non posso non condividerlo. Ritengo importante la partecipazione
degli studenti da protagonisti alla discussione sulla scuola. Sono però
altrettanto convinto che sia possibile discutere e protestare senza per ciò
dover interrompere le lezioni". Le lezioni interrompono la continuità dello
studio e non possono essere tollerate prevaricazioni - dice il ministro - anche
se non c' è nessuna intenzione da parte del governo di adottare metodi
repressivi. L' appello non è piaciuto ai ragazzi delle occupazioni: "Il ministro
faccia il ministro, come lottare lo decidiamo noi", e ricordano la
manifestazione che ci sarà l' 11 dicembre in varie città d' Italia.
FIGLI DI
PAPA'. LA DEVASTAZIONE DEGLI STUDENTI COSTA 1,5 MILIARDI DI EURO.
Figli di papà. La devastazione
degli "studenti" la pagheremo 1,5 miliardi. Il bilancio dei tafferugli nel
giorno della mobilitazione internazionale: danni materiali e ore di lavoro
perse. I cortei dei violenti valgono lo 0,1% del Pil, scrive
Francesco De Dominicis su “Libero
Quotidiano”. Fino a 1,5 miliardi di euro. Una
cifra incredibile che corrisponde, secondo stime non ufficiali dei sindacati,
alla perdita di prodotto interno lordo consequenziale allo sciopero di mercoledì
organizzato dalla Cgil. Stiamo parlando dello 0,1% del pil, che sarebbe stato
bruciato con 4 ore di stop degli iscritti all’organizzazione guidata da Susanna
Camusso. Messa così, con una percentuale, pare poca roba. Invece, calcolatrice
alla mano, ci si rende conto che si tratta di un dato non irrilevante. Anzi. La
cifra viene fuori districandosi fra le stime sindacali. Negli scorsi mesi, il
segretario generale dell Uil, Luigi Angeletti, di fronte all’ipotesi di uno
sciopero generale paventato a più riprese dalla più agguerrita Cgil, aveva detto
che lo stop avrebbe pesato per lo 0,5% sulla crescita economica. L’idea di una
manifestazione di massa di tutte le sigle e per l’intero arco della giornata era
stata avanzata dalla Camusso per protestare contro le misure del governo di
Mario Monti. Una prospettiva che ha diviso il fronte sindacale. La Uil ha sempre
ritenuto pericolosa una protesta ad ampio raggio, specie in una fase così
delicata per l’economia del Paese. E partendo proprio dall’analisi di Angeletti,
oggi, alcuni esperti delle sigle dicono che uno sciopero come quello di
mercoledì, vale grosso modo un quinto di uno generale. Di qui il calcolo dello
0,1%, cioè 1,5 miliardi di euro o poco più. Conteggio che tiene conto delle ore
di lavoro buttate al vento da tutti gli iscritti (e non) alla Cgil che hanno
incrociato le braccia per quattro ore. Certo, chi ha aderito alla manifestazione
avrà una decurtazione in busta paga. Ma allo stesso tempo ha contribuito a
tagliare la produzione. Con danni per il pil nazionale. Un conto che, peraltro,
potrebbe salire ancora. Basta aggiungere i danni cagionati dai manifestanti e
dalle vere e proprie guerriglie che hanno avuto come protagonisti anche gli
studenti in diverse città italiane, da Roma a Milano. Vetrine, negozi, banche,
uffici postali e assicurazioni sono stati prese di mira dai partecipanti ai
cortei che, come se non bastasse, hanno bruciato migliaia di auto. Strade e
piazza trasformati in campi di battaglia. La manifestazione finisce, ma restano
i danni da riparare. Interventi sempre costosi. Singolarmente sono sempre cifre
esigue, pochi spiccioli. Ma, messi insieme, pure i 25mila euro calcolati per
sistemare i 5 tornelli della stazione di Milano Cadorna assumono una rilevanza
diversa. E a raggiungere cifre ben più consistenti ci vuole davvero poco. Per
calcolare i danni provocati mercoledì ci vorrà qualche giorno. Un anno fa, in
occasione della protesta degli indignados, solo a Roma il sindaco Gianni
Alemanno calcolò che la Capitale avrebbe pagato un conto di oltre 3 milioni di
euro. Cifre che pesano sui conti degli enti locali, quasi sempre disastrati. Ma
a pagare sono pure i privati. Che - quando sono coperti da specifiche polizze
assicurative - se la cavano, ma spesso sia i cittadini sia i commercianti sono
costretti a mettere mani al portafoglio per riparare i danni. Un film che si
ripete spesso. L’anno scorso Roberto Maroni, allora ministro dell’Interno,
propose una legge ad hoc. Complice la caduta del Governo di Silvio Berlusconi
non se ne fece più nulla, ma adesso c’è chi pensa di tirare fuori dal cassetto
quella proposta. L’idea dell’attuale segretario della Lega prevede che gli
organizzatori di manifestazioni pubbliche si assicurino con specifiche polizze.
In assenza di una copertura assicurativa l’organizzazione deve mettere sul
piatto adeguate garanzie patrimoniali. Il principio è piuttosto semplice: chi
provoca i danni, paga.
VITTIME E
CARNEFICI. CHI SON LE VITTIME E CHI SON I CARNEFICI.
Manifestanti violenti (pseudo
studenti politicizzati) in assetto di guerra che distruggono ed attaccano e
poliziotti violenti in assetto antisommossa, a cui basta il pretesto per
manganellare. Se li danno di santa ragione Ed a pagarne le spese sono i
cittadini.
Gli uni e gli altri però sono
senza tutele. I manifestanti lottano per le loro bizzarre idee, gli agenti
dovrebbero tutelare la sicurezza e l'ordine pubblico, tutelati essi stessi dallo
Stato. Quale Stato? Gli agenti restano senza scudo: costretti a pagarsi medici e
legali. I poliziotti coinvolti negli scontri di piazza spesso non sono coperti
da assicurazione e fanno fronte di tasca propria alle spese processuali. Ora
vogliono persino schedarli, scrive
Alberto Giannoni
su “Il
Giornale”.
«Presunti colpevoli». È la condizione degli agenti di polizia oggi. Non solo
sottoposti a responsabilità doverose e rischi di ogni tipo, ma di fatto
costretti perfino a pagarsi le spese legali e quelle mediche. E se il lavoro del
poliziotto non fosse passione, vocazione e infine anche mestiere, non ci sarebbe
dubbio alcuno: «No, mi dispiace, non lo rifarei». Dicono così. Sono state 10.461
le manifestazioni di «spiccato interesse» cui hanno partecipato, nel 2011, circa
410mila unità dei reparti mobili: 484 hanno riportato lesioni gravi (fratture,
traumi). Normali rischi professionali? Sarebbe vero se non fosse che troppi sono
mandati allo sbaraglio: senza preparazione e senza protezioni, normali divise
casco e via: a prendere botte - mentre in altri civilissimi Paesi europei sono
ben altri, i deterrenti e le difese. E in definitiva a loro rischio e pericolo.
Chi si fa male sul serio può finire riformato, con pensione legata ai contributi
pagati. Troppo pochi in genere per dei giovani. C'è l'aspettativa. Un anno e
mezzo, a stipendio tagliato di un terzo e a rischio della semi-idoneità. Non
solo si finisce messi da parte, ma si perdono le indennità accessorie, che
rendono meno misero lo stipendio (con 25 anni di servizio, per esempio, la base
è 1.300 euro circa). Le ore di straordinario, spesso dovuto per le regole della
procedura penale, sono pagate meno dell'ordinario, tassate di più. C'è un tetto,
un monte ore. I riposi compensativi scadono e il risultato è presto detto: ore
regalate «a fondo perduto» alla Patria. «Senza un grazie», dice Agostino Maria
Marnati, segretario dell'Ugl e responsabile Nord-Italia. Gli aumenti sono fermi
(promozioni e responsabilità no). L'indennità di vacanza contrattuale è ferma.
Fino al 2014. Gli «effetti collaterali» dell'ordine pubblico sono noti: l'avviso
di garanzia, spesso per lesioni, minacce o reati contro la persona. Le indagini
a loro carico possono essere accompagnate dalla sospensione cautelare, a
stipendio «di mantenimento»: 700 euro al mese. Fino alla sentenza in giudicato,
che vuol dire anni. Intanto corre il procedimento disciplinare, dalla
deplorazione alla sospensione alla destituzione, con sanzioni pecuniarie fino a
un sesto dello stipendio. La punizione significa niente concorsi. Poi c'è la
responsabilità contabile, per dolo e colpa grave. Un agente può dover pagare la
riparazione dell'auto danneggiata durante un inseguimento, e la «messa in
strada» della «nuova». È capitato il caso di un conto da 26mila per uno scontro
a un semaforo con lampeggiante. E ovviamente non manca il profilo della
responsabilità civile. Le spese processuali, poi, non sono più coperte neanche
per i «soliti» 2mila euro di anticipo. Il Fondo tutela legale è svuotato, e le
risorse destinate alla manutenzione dei veicoli. «L'assicurazione legale c'è
solo sulla carta, quella medica non esiste», spiega Marnati. Il clima generale
poi, ormai confonde aggrediti e aggressori. Ed è anche per questo che le sigle
più importanti, come Sap e Ugl, ieri hanno detto «no» al ministro degli Interni
Annamaria Cancellieri, che sta valutando l'ipotesi di identificativi sui caschi
degli agenti, mentre i «bravi ragazzi» e i «pacifisti» li affrontano - come dice
l'Ugl - «armati di spranghe e sanpietrini».
PARLIAMO DEI
MILITARI: LA CASTA ARMATA.
I SUPER STIPENDI LORDI ANNUI AL 2012
Ministro della
Difesa: 314.000 euro
Capo di Stato
Maggiore della Difesa: 482.019 euro
Capo di Stato
Maggiore dell’Esercito: 481.021 euro
Capo di Stato
Maggiore della Marina: 481.006 euro
Capo di Stato
Maggiore dell’Aereonautica: 460.052 euro
Segretario
Generale della Difesa: 451.072 euro
I GENERALI ITALIANI
Sono 425 tra
Esercito, Marina ed Aeronautica, a capo di 178.000 unità del personale civile e
militare. Uno ogni 418 militari. Negli USA 900 generali a capo di 1.408.000
uomini. Uno ogni 1.564 militari.
LE BUSTE PAGA DEI GENERALI.
Di Brigata (1
stella) 4.000 euro netti mese
Di Divisione (2
stelle) 5.500 euro netti mese
Di Corpo
d’Armata (3 stelle) 7.000 euro netti mese
I BENEFIT DEI GENERALI.
Alloggio di
servizio o di rappresentanza
Macchina con
autista (non per tutti)
Soggiorni low
cost nelle foresterie delle Forze Armate
Rimborso viaggi
(non per tutti)
Promozioni
automatiche
Straordinari
senza limiti di ore
Indennità di
ausiliaria
GLI UFFICIALI.
Dopo 13 anni di
servizio hanno la retribuzione del colonnello a prescindere dal grado: 2.400
netto mese. Dopo 23 anni di servizio hanno la retribuzione del Generale di
Brigata a prescindere dal grado: 3.100 netto mese.
SPESE MILITARI
23,1 Miliardi di
euro all’anno. Ottavi nel mondo.
1,4 miliardi di
missioni all’estero.
19,8 miliardi di
mantenimento Forze Armate.
145 milioni (Aisi,
Fondi Ministero Finanze).
1,6 miliardi
Distemi d’Arma (Fondi Sviluppo economico).
L’AUSILIARIA
E’ l’indennità
dei congedati, che devono rimanere a disposizione del ministero per 5 anni. Per
un generale (di Brigata o equivalente) può arrivare a 770 euro per 5 anni, oltre
la pensione. 355 milioni di euro stanziati solo per il 2012.
I CAPPELLANI MILITARI.
Sono 182. I
cappellani militari in Italia, equiparati per grado e stipendio agli ufficiali.
La gerarchia:
Ordinario
militare: 7.000 euro netti al mese
Vicario: 4.000
euro netti al mese
Vicario
episcopale, cancelliere ed economo: 3.000 euro netti al mese
Cappellano
semplice: 2.700-2.800 euro netti al mese
Costo: 10
milioni di euro in stipendi e gestione ordinaria; 7 milioni in pensioni.
GLI APPARTAMENTI.
18.447 gli
alloggi di servizio delle Forze Armate, dei quali 5.384 sono in possesso di
utenti con il titolo concessorio scaduto. 44 gli appartamenti extralusso di
rappresentanza che costano allo Stato 4 milioni di euro solo per la
manutenzione. 1 euro/mq l’affitto pagato dagli inquilini.
Un’inchiesta di
Fabio Tonacci su “La
Repubblica”. Un esercito di ufficiali e poca truppa. Mandorle e champagne
per l'ammiraglio.
La "spending review" delle Forze Armate sembra limitata a taglia
della "bassa forza". Ma anche tra le divise si riscontrano situazioni di
evidenti sprechi. A partire dal numero spropositato di generali e al
supestipendio dei vicecapi di Stato Maggiore. Le mandorle dell'ammiraglio non si
toccano. La spending review delle forze armate faccia pure il suo sporco lavoro,
ma da un'altra parte. Si riduca la truppa, se serve, o si taglino i marescialli,
però a Giuseppe De Giorgi, il comandante in capo della flotta italiana, non
devono mancare le sue mandorle quando sale sulle navi. Meglio se tostate al
momento, altrimenti vanno bene anche salate. Quell'accoglienza da impero
borbonico riservatagli a Taranto l'8 settembre scorso a bordo dell'incrociatore
"Mambella" (camerieri, tartine, champagne e ovviamente mandorle), di cui hanno
dato conto i giornali, si era vista anche a maggio sulla "Caio Duilio" a La
Spezia. E chissà quante altre volte, perché per la casta militare le vacche
grasse non dimagriscono mai. Le indennità sono calcolate come se ancora ci fosse
la Guerra Fredda, le pensioni rimangono dorate, c'è ancora qualcuno a lucidare
le maniglie d'oro degli sfarzosi appartamenti di rappresentanza. Chi sono i
privilegiati della Difesa? Bisogna leggerla tutta la mail che il Capitano di
Vascello Liborio Francesco Palombella spedisce ai suoi sottoposti, il 3 maggio
2012, per capire fin dove arriva oggi l'anacronistico sfarzo concesso al
militare privilegiato. Scrive Palombella, alla vigilia della visita di De
Giorgi: "All'arrivo del Cinc (comandante in capo della squadra italiana, ndr)
prevedere in quadrato l'aperitivo con vino bianco ghiacciato, mandorle salate,
grana, olive verdi, pizzette, rustici, tartine. Prepararsi a servire caffè
d'orzo o thé verde". Poi un altro ufficiale entra nel dettaglio dei gusti
dell'ammiraglio, guai a sbagliare: "Il caffè con orzo in tazza grande, senza
zucchero, macchiato caldo. Il tè verde, senza zucchero". Stona, tutto questo. A
La Spezia si domandano se l'ammiraglio gradisca il caffè in tazza grande o
piccola, a Kabul ai militari italiani non è più concesso di andare a mangiare
alla mensa americana, più abbondante e costosa. Stona, nell'era della crisi,
qualsiasi forma di sperpero di denaro pubblico. Tutti i privilegi, tutto ciò che
è casta non è più sopportabile. E quella dell'ammiraglio De Giorgi è solo una
delle 400 e passa storie di benefit e favori goduti da chi ha il grado di
generale, nelle forze armate italiane. Già i numeri crudi, di per sé, parlano.
Tra Esercito, Marina e Aeronautica ci sono 425 generali per 178 mila militari.
Negli Stati Uniti sono in 900, il doppio, ma guidano un comparto che con
1.408.000 uomini è quasi dieci volte quello italiano. Per dire, noi abbiamo più
generali di Corpo D'Armata, 64, che Corpi d'armata, circa una trentina. In
Aeronautica 20 generali di Divisione per tre divisioni effettive. "Ad essere
generosi, in Italia basterebbero 150 generali per svolgere gli stessi compiti",
scrive Andrea Nativi nel rapporto 2011 della Fondazione Icsa, che si occupa di
Difesa e intelligence. E così siamo arrivati al punto, paradossale, che i
comandanti sono più dei comandati: 94 mila ufficiali e sottoufficiali, 83.400
uomini e donne della truppa. Nei prossimi due anni il personale, civile e
militare, sarà tagliato di 8.571 unità. Entro il 2024, si legge nel testo del
ddl di revisione appena approvato dal Senato, i 178 mila (somma di graduati e
truppa) scenderanno a 150 mila. Ma i generali no, loro non si toccano. Perché
avere la greca sulla spallina significa godere di uno status privilegiato.
Significa uno stipendio annuale da 120 mila euro per i generali di Corpo
d'armata (quelli col grado più alto, le tre stellette), circa 7 mila euro netti
al mese. E si ha diritto all'alloggio di servizio gratuito nelle zone migliori
della città, al telefonino, in alcuni casi all'autista (l'anno scorso sono state
acquistate dalla Difesa 19 Maserati per gli alti ufficiali), a soggiorni low
cost a Bardonecchia o a Milano Marittima. Significa attraversare le sforbiciate
della spending review e uscirne illibati. Si chiama Sip l'eldorado dei generali.
Speciale indennità pensionabile, un emolumento ad personam che fa schizzare lo
stipendio dei dirigenti in alto. Molto in alto. Spetta al Capo di stato maggiore
della Difesa, il generale Biagio Abrate, (482.019 euro all'anno), ai tre capi di
stato maggiore di Esercito, Aeronautica e Marina (481.006 euro), al comandante
generale dell'Arma dei Carabinieri Leonardo Gallitelli (462.642 euro) e al
segretario generale della Difesa Claudio De Bertolis (451.072). Cifre che
superano i 294 mila euro annuali (il trattamento riservato al Primo presidente
di Cassazione) indicati dal decreto " salva-Italia" come tetto degli stipendi
dei manager pubblici. In sei costano al ministero 2,8 milioni di euro. Gli
stessi soggetti quando lasciano ricevono una liquidazione che sfiora il milione
di euro e una pensione da 15 mila netti al mese. La Sip però viene
misteriosamente concessa anche al vice comandante dei Carabinieri. Ciò aveva un
senso fino a quando c'era un generale dell'Esercito a ricoprire il ruolo di
vertice dell'Arma, non ancora promossa a forza armata. Dal 2000 in poi c'è un
Comandante carabiniere, ma la Sip al suo vice è rimasta. E non è un caso che per
quel ruolo si siano avvicendati, dall'inizio del 2012 ad oggi, già tre ufficiali
e di media si rimane in carica non più di un anno. La cerchia dei privilegiati
così si allarga un po'.
Promozioni e appartamenti con le stellette. Generali con marmi, parquet a 1 euro
al metro.
Carriere molto più rapide che nel resto dell'apparato statale. E molto
"affollamento" nei gradi più alti. Alloggi lussuosi da 400 metri quadri anche
per alti ufficiali senza obblighi di rappresentanza. E con affitti decisamente
bassi. Anche il cappellano se la passa bene. La carriera della dirigenza
militare, caso unico in tutto l'universo degli statali, è un moto inarrestabile
verso l'alto. Nelle amministrazioni pubbliche si viene promossi quando si libera
un posto. Qualcuno esce, qualcuno entra, è un elementare principio di
contenimento degli sprechi. Sotto le armi no. I generali vengono promossi a
prescindere che ci sia un posto vacante. La commissione Difesa alla Camera l'ha
messo nero su bianco, prevedendo che il generale di Divisione (2 stellette) con
almeno un anno di permanenza in quella posizione possa avanzare al grado
superiore anche se in soprannumero. Più stelle sulle spalline, più benefit. È un
ingranaggio ben oliato ed efficace, quello delle promozioni " di carta". Che
riesce ad aggirare il blocco delle buste paga imposto alle amministrazioni
pubbliche fino al 2014 grazie all'istituto della "omogenizzazione stipendiale":
gli ufficiali dopo 13 anni di servizio senza demerito, hanno diritto al
trattamento economico fisso del colonnello a prescindere dal grado, quindi 2800
euro al mese. Dopo 23 anni, lo stipendio diventa in automatico quello del
generale di brigata, circa 4 mila euro. Certo, gli stipendi medi dei soldati
italiani sono nel complesso inferiori rispetto a quelli dei colleghi inglesi o
francesi. Ma quando si parla dei capi, il discorso cambia. E più guadagnano,
meno devono spendere.Ad oggi sono 44 i generali e gli ammiragli a cui è
stato concesso l'alloggio di servizio e rappresentanza, i famosi Asir, l'extra
lusso del parco immobiliare della Difesa. Solo per mantenerli puliti, lo stato
spende 4 milioni di euro all'anno. Del resto si devono lucidare appartamentini
con 400 mq di parquet, 143 mq di marmo, 188 mq di maioliche, ascensore con
moquette e terrazzo di 275 mq, come nel caso della residenza riservata al Capo
di Stato Maggiore dell'Aeronautica in via del Pretoriano a Roma. Nessuno mette
in dubbio che il ministro, i quattro capi di stato maggiore, i sottocapi, i
comandanti più importanti abbiano diritto agli Asir, per il ruolo e per
l'attività diplomatica effettivamente svolta ricevendo ambasciatori e cariche
estere. Ma andando a sfogliare l'elenco di chi li occupa, qualche perplessità
sorge. Ad esempio non si capisce quale siano i compiti di rappresentanza del
comandante della 1° Regione aerea dell'Aeronautica, che pure vive in un alloggio
in via Gaio a Milano di 450 mq rivestito in parquet, leggermente più ampio del
collega delle Operazioni aeree, che ne ha uno di 445 mq in via Cavour a Ferrara.
A Firenze il Comandante dell'Isma si deve stringere in 233 mq, ma può sfruttare
un balcone da 158 mq. A Pozzuoli il direttore dell'Accademia Aeronautica ha un
alloggio di 189 mq, con un terrazzo faraonico da 287 mq. "Solo la metà dei 44
Asir concessi ha una giustificazione realistica, gli altri si potrebbero anche
tagliare per risparmiare", sostengono sottovoce al Cocer, l'organismo di
rappresentanza interna dei militari che ha solo la parvenza di un sindacato vero
visto che non ha autonomia operativa ed economica ma i cui delegati costano
all'anno 40 milioni di euro. Chi occupa gli Asir si difende sostenendo di pagare
regolarmente l'affitto mensile sulla parte residenziale, cioè le camere, la
cucina, il soggiorno e i bagni. Verissimo. Ma i canoni sono più che vantaggiosi:
1 euro a metro quadrato. Che sia in centro a Roma o a Pozzuoli o nella strada
più in di Firenze, sempre quello è il prezzo. Equiparato per grado e stipendio
al generale di Corpo d' Armata è anche l'ordinario militare, ruolo attualmente
coperto da monsignor Vincenzo Pelvi, che è a capo di un'arcidiocesi speciale
composta dai 182 cappellani militari, tutti inquadrati come ufficiali che
svolgono l'attività pastorale nelle caserme. Il vicario è un generale di brigata
(6000 euro al mese lordi), il vicario episcopale, il cancelliere e l'economo
sono tenenti colonnello (5 mila euro), il primo cappellano ha il rango di
capitano, il cappellano semplice quello di tenente (2500 euro al mese). Alla
Difesa costano 10 milioni di euro in buste paga annuali, a cui si aggiungono
altri 7 milioni per 160 pensioni liquidate regolarmente ai preti soldato non più
in servizio, mediamente 43 mila euro all'anno ciascuno, tranne quella
dell'ordinario a cui vanno circa 4 mila euro al mese. L'attuale presidente della
Conferenza episcopale italiana, Angelo Bagnasco, nei fatti è un baby pensionato.
E' stato arcivescovo ordinario militare dal 2003 al 2006, a 63 anni ha ottenuto
il vitalizio dalla Difesa, un po' meno di 4 mila euro, con appena tre anni di
contributi. A Repubblica risulta che il suo successore, monsignor Pelvi, abbia
mandato una lettera al presidente della Repubblica, a cui spetta la nomina, e a
Papa Ratzinger per chiedere di essere confermato nel suo ruolo fino al 2014,
così da raggiungere gli anni necessari per la pensione da generale. Anni fa
Verdi e Radicali presentarono un disegno di legge per sganciare i cappellani
militari dal bilancio della Difesa e lasciare il servizio pastorale ai preti
delle parrocchie dove si trovano le caserme. Non passò. I Radicali ci hanno
riprovato pochi giorni fa in Senato con un emendamento al ddl di revisione,
senza risultato. "Ancora una volta la politica salva gli affari dei generali e
la paga dei preti soldato - ha commentato Luca Comellini, ex maresciallo
dell'Aeronautica ora segretario del Partito per la tutela dei diritti per i
militari - così si ignorano i reali sprechi delle forze armate". Uno dei quali è
sicuramente l'"ausiliaria". Una volta in congedo, ufficiali e sottoufficiali per
5 anni restano a disposizione della Difesa e possono essere richiamati in
servizio in caso di necessità. È un'eredità della Guerra Fredda, quando lo
scoppio di un conflitto rientrava nel ventaglio delle ipotesi. Ma che senso ha
oggi? Il " disturbo" di restare a casa, ma a disposizione, viene comunque
pagato: l'indennità di ausiliaria è di 700 euro al mese per un generale in
congedo. Inizialmente c'era un bacino relativamente stretto di 35 ufficiali e
500 sottoufficiali a cui spettava, per ragioni di servizio. Oggi in deroga viene
concessa a centinaia di militari. Nel 2011 la Difesa per l'ausiliaria ha speso
326 milioni, quest'anno 355. Ma i casi di richiamo in servizio sono rarissimi.
Qualche generale ha partecipato alle commissioni di concorso interno, qualcun
altro è stato richiamato durante l'emergenza rifiuti a Napoli. E quando un pezzo
grosso torna al lavoro, lo fa con tutti i crismi. Stipendio pre-congedo,
macchina con l'autista, alloggio, spese di diaria, straordinari. Che uno torni
in servizio o rimanga a casa, i 5 anni di ausiliaria vengono conteggiati
nell'anzianità ai fini del trattamento pensionistico. E continuerà a ricevere
per sempre il 70 per cento dell'ausiliaria. La casta dei generali non sventola
mai bandiera bianca.
AUTO BLU AL
MARE CON I FINANZIERI COME AUTISTI.
Auto blu al deputato Papa, indagati ufficiali Finanza. Avvisi di garanzia nei
confronti di ufficiali della Finanza per le auto messe a disposizione del
parlamentare del Pdl Alfonso Papa, scrive “La
Repubblica”. Avvisi di garanzia nei confronti di ufficiali della Guardia di
Finanza sono stati emessi dal pm di Napoli Henry John Woodcock nell'ambito di
una inchiesta sulle auto della Finanza messe a disposizione del parlamentare del
Pdl Alfonso Papa. Le ipotesi vanno dal peculato al falso ideologico e falso
commesso da pubblico ufficiale. Nell'inchiesta risultano indagati anche Papa e
la moglie Tiziana Rodà. Inviti a presentarsi sono stati emessi nei confronti
degli ufficiali della Finanza che hanno ricevuto gli avvisi: Ernesto Mottola,
Alfonso Tuccini, Fernando Capezzuto, Paolo Poletti, Giovanni Mainolfi. Poletti,
ex capo di stato maggiore delle Fiamme gialle, è attuale vicedirettore dell'Aisi,
il servizio segreto che si occupa di sicurezza interna. Sono indagati inoltre i
sottufficiali Santolo Federico e Andrea Grimaldi. Al centro dell'inchiesta
l'impiego di auto e uomini "per scopi privati e estranei a quelli di istituto
ovvero espressione di attività istituzionale". Autovetture e militari della
Finanza sono stati usati tra l'altro, secondo l'ipotesi di accusa formulata
dalla Procura, per accompagnare Papa e la sua famiglia alla casa al mare, in
provincia di Latina, tra il 2005 e il 2008; per accompagnare la moglie del
parlamentare, Tiziana Rodà, che è avvocato, a Roma e nei Tribunali in cui andava
per motivi di lavoro, come Napoli e Santa Maria Capua Vetere (Caserta); per
accompagnare i due figli della coppia a scuola, in piscina o a giocare a
calcetto; per accompagnare Ludmyla Spornik, amica ucraina di Papa, a Ischia, in
giro per Roma o all'aeroporto di Fiumicino. Gli itinerari e le date in cui le
vetture e il personale della Guardia di Finanza sono stati messi a disposizione
del parlamentare sono ricostruiti nell'invito a comparire notificato agli
indagati. I fatti al centro dell'indagine si riferiscono a un arco di tempo che
va dal febbraio 2002 al febbraio 2011. Gli ufficiali indagati avrebbero disposto
indebitamente il servizio di accompagnamento per Papa (magistrato in servizio
fino al 2001 alla Procura di Napoli, dal 2001 al 2008 distaccato al ministero
della Giustizia e dal 2008 deputato eletto nelle liste del Pdl). E ciò "senza
che ne avesse alcun titolo", espletando inoltre "sovente e in modo non saltuario
il servizio di accompagnamento di componenti della famiglia di Papa nonchè delle
amiche dello stesso, in luoghi e per fini esclusivamente privati". Le indagini
sono condotte dalle stesse Fiamme gialle. La Finanza, viene sottolineato, ha
fornito la massima collaborazione all'autorità giudiziaria.
È l'ora di
un'inchiesta sull'auto blu del pm.
Perché la scorta di Woodcock è motivata e giustificabile, anche dopo tante
inchieste fallimentari? A quale reale pericolo è esposto? E in cosa si
differenzia da Alfonso Papa, che ne ha "abusato"? Così scrive
Vittorio Sgarbi
su “Il
Giornale”. Il rispetto per i morti non
giustifica l'idiozia. Non c'è nessun «coraggio» nella sentenza sconvolgente e
violenta che condanna i sette componenti della Commissione Grandi Rischi per le
previsioni sbagliate sull'attività sismica all'Aquila. Nessuna leggerezza,
nessuna abdicazione ai «doveri di valutazione del rischio connessi alla loro
qualità e alla loro funzione». Chi fa previsioni non è un mago, e nessuna
scienza può dare indicazioni certe su un terremoto. Ma non è possibile
condannare un uomo intelligente e capace come Enzo Boschi che, in premessa, ha
sempre dichiarato l'impossibilità di previsioni, che prescindano da un
programmatico catastrofismo, in materia di terremoti. Per scagionarlo è
sufficiente la documentata dichiarazione dello stesso Boschi, in quella
circostanza: «Improbabile ci sia a breve una scossa come quella del 1703, pur se
non si può escludere in maniera assoluta». Ma, nonostante questo, gli scienziati
sono accusati di non avere, a loro stessa tutela, viste le conseguenze,
manifestato allarmismo in mancanza di dati certi. La condanna demagogica è
un'intollerabile manifestazione di oscurantismo, espressione di una cultura
giuridica aberrante e medievale. Dovere del presidente della Repubblica è
eccezionalmente sanzionare questa inaccettabile sentenza con un provvedimento di
grazia, a tutela della scienza, contro ogni rigurgito di inquisizione. Ma si può
configurare l'azione giudiziaria come ritorsione personale? Henry John Woodcock
e Alfonso Papa erano magistrati colleghi, probabilmente dello stesso concorso.
Hanno avuto carriere diverse. Ma in che cosa la condotta del secondo è più
reprensibile di quella del primo? Per insanabile conflitto di natura
psicologica, e non per oggettivi riscontri, Woodcock ha ottenuto l'arresto di
Alfonso Papa, magistrato in aspettativa e poi deputato, immolato da un
Parlamento vile per fumose ipotesi di reato, configurate in una inesistente P4.
Ha fatto per questo più di 100 giorni di galera. Adesso che ogni accusa è stata
smontata e, quale che fosse, non giustificava comunque la detenzione, dopo
l'ennesima inchiesta sbagliata, con capriccioso puntiglio, Woodcock ha aperto un
altro fascicolo contro il nemico, con l'accusa di uso improprio e abuso di una
ingiustificata macchina di servizio. Un piccolo reato odioso tipico della casta,
ma risalente a dieci anni fa e, almeno da allora, noto a Woodcock. Perché,
allora, apre oggi l'inchiesta? In che cosa Woodcock si differenzia dal collega
reprobo? Non abbiamo visto anche lui, per processi inutili, accompagnato dalla
macchina di servizio e con scorta? E perché la scorta di Woodcock è motivata e
giustificabile? Papa ha abusato dell'auto di servizio? E perché Woodcock ne è
dotato dopo tante inchieste fallimentari? A quale reale pericolo è esposto? E se
la P4 non è mai esistita, e Papa è stato arrestato senza presupposti, perché a
Woodcock non toccano sanzioni disciplinari e penali per avere stabilito una
ingiusta detenzione e per avere sprecato denaro pubblico per cervellotiche
inchieste? Non è uno spreco intercettare personaggi celebri che risultano
estranei alle accuse? Mi rivolgo a Myrta Merlino che, nella sua «L'aria che
tira», ha denunciato, confidando nell'impianto accusatorio di Woodcock, l'uso
dell'auto di servizio di Papa, con severo disappunto e facendo intervistare
vicini di casa perplessi. Ma perché non fa un'inchiesta sull'auto di servizio di
Woodcock, e sulla reale necessità che abbia una scorta? E magari anche sui costi
delle sue inchieste sbagliate che paga lo Stato? Le risulterà forse che Papa è
costato allo Stato infinitamente meno di Woodcock, che ha denunciato persone
acclaratamente innocenti. E non dimentichiamo che Woodcock è anche quello che,
circonvenendo il vecchio procuratore Lepore, pretendeva di interrogare su
questioni di sesso Berlusconi a Palazzo Chigi, senza averne la competenza. Non è
un abuso essere «incompetenti»? E l'incompetenza non comporta uno spreco
peggiore di un'auto blu? Troverà Woodcock, un giorno, un magistrato che, non per
motivi personali ma per oggettivi riscontri di reato, aprirà un'inchiesta su di
lui? In Italia si può processare una persona per bene come il generale Mori,
incolpare un giurista come Giovanni Conso e tollerare che un magistrato
pervicacemente sbagli e agisca per protagonismo. Chi ripagherà Papa del carcere
ingiustamente subito? Non Woodcock, ma lo Stato. Un altro, evidente, spreco,
cara Merlino.
A NAPOLI
VITTIME INNOCENTI. SI MUORE PER NIENTE, NELL’INDIFFERENZA E SENZA OTTENERE
GIUSTIZIA.
La lettera di Pasquale
Scherillo: "Mio fratello e altre 160 vittime innocenti. Napoli è in guerra, non
fate finta di nulla ". L'episodio: un trentenne ucciso per errore da killer dei
clan. Pasquale Scherillo, fratello di un ragazzo ammazzato quasi allo stesso
modo otto anni fa, ha scritto a
Repubblica.it: "Ribelliamoci alla paura e al coprifuoco imposti nei nostri
quartieri". Il resoconto è di Claudia Morgoglione. L'ultima vittima innocente dell'infinita
guerra di camorra partenopea si chiama Pasquale Romano: studente trentenne
ucciso a
Marianella - zona nord della città -
alle 22 di lunedì scorso. Bersaglio incolpevole di
un errore di persona, commesso da
killer che solitamente vanno in giro ad ammazzare i rivali, su ordine dei clan,
con armi in pugno e tanta cocaina in corpo. Una tragedia, la sua, che non
colpisce solo la famiglia, gli amici, i
residenti del comune limitrofo di Cardito in cui risiedeva. Perché
Pasquale "è solo l'ultimo agnello sacrificale di una lunga serie. Prima di lui,
in Campania, altre 160 persone sono morte in maniera analoga: gente perbene
freddata per sbaglio, o caduta nel fuoco incrociato di bande che sul territorio
agiscono indisturbate. Molti non se ne rendono conto, ma da queste parti, anche
se in teoria siamo in tempo di pace, si vive in trincea. Ed è ora di dire basta,
di ribellarsi, di uscire dall'assuefazione e dire 'no'". A lanciare - attraverso
una lettera a Repubblica.it - questo appello ai suoi concittadini e all'intera
società civile del Paese, è Pasquale Scherillo. Ha trentotto anni e vive e
lavora a Casavatore, uno dei quartieri ai margini della città investiti, dal
2004 in poi, da quella i giornali definiscono "la guerra di Scampia". Il
conflitto tra cosche camorriste concorrenti, per il controllo del territorio e
della zona di spaccio di droga più redditizia d'Europa. Lui, questa mattanza,
l'ha vissuta sulla pelle. Visto che suo fratello Dario, ventiseienne, fu la
vittima casuale di un regolamento di conti dalla dinamica molto simile a quella
di Romano: "Erano circa le 20,30 del 6 dicembre di otto anni fa, stava uscendo
dalla scuola guida che gestivamo insieme (e di cui continuo ad occuparmi io).
Parlava con un amico, discutevano di quando l'altro avrebbe dovuto sostenere
l'esame per la patente. Era accanto al suo motorino, quando si avvicinano due
pusher e sicari degli Scissionisti, che gli sparano alle spalle. Secondo gli
investigatori il suo scooter era identico, per modello e colore, a quello della
vittima designata, che era lì pochi secondi prima. Gli assassini, però, non sono
mai stati individuati e catturati". Otto anni senza giustizia, per la famiglia
Scherillo. E a ogni nuovo agguato simile - ce ne sono stati tanti, a cadenza
quasi regolare, concentrati proprio in quella zona di Napoli - il dolore che si
riaccende. All'allungarsi di questo lungo elenco di morti ammazzati senza colpa,
ciascuno con una sua storia tragica: "Ai tempi di mio fratello, o poco dopo,
caddero innocentemente Antonio Landieri, finito in mezzo a una sparatoria;
Gelsomina Verde, freddata perché ex ragazza della persona sbagliata; Attilio
Romanò, dipendente di un negozio di telefoni il cui titolare era il vero
obiettivo". Tra gli episodi più recenti il caso di Andrea Nollino, ucciso per
sbaglio lo scorso giugno a Casoria, mentre apriva il suo bar. Il suo fu uno di
quei casi che, almeno per un attimo, provocò un risveglio di coscienze, con una
fiaccolata per dire basta alla violenza. Malgrado la sofferenza risvegliata da
ognuno di questi episodi, Pasquale Scherillo è riuscito a non farsi travolgere.
A utilizzare la rabbia come molla per non arrendersi: "Ho fondato
un'associazione a nome di mio fratello, che fa parte del Coordinamento campano
delle vittime innocenti della criminalità, presieduto dal marito di Silvia
Ruotolo (la donna uccisa nel 1997 nel quartiere Vomero, ndr).
Centosessanta persone, civili caduti in una guerra assurda che nessuno vuole
riconoscere come tale. Io da anni vado a dire queste cose nelle scuole, per
cercare di educare alla legalità: elementari, medie, superiori. I bambini e i
ragazzini ascoltano le mie parole, capiscono quando dico che non bisogna
accettare la mentalità camorrista, che nessuno può dirsi al sicuro. I liceali,
invece, hanno già troppa malizia, quella che qui a Napoli in gergo si chiama
cazzimma: dicono che se uno si fa i fatti propri va tutto bene, che io parlo
così solo perché ho avuto un lutto". Atteggiamenti che fanno riflettere. Perché,
al di là delle istituzioni "che devono garantire la sicurezza per il territorio
e soprattutto la certezza della pena per i camorristi", il problema - a suo
giudizio - investe in primo luogo "la tanta brava gente che vive in queste zone
della città, e che di fatto è la grande maggioranza. Ma che si adegua troppo
allo stato delle cose. Ad esempio, in quartieri come il mio esiste un coprifuoco
non dichiarato: non si può uscire la sera tardi, e se lo si fa mai da soli: se
un ragazzo va fuori si infila subito in una macchina con almeno altri tre
ragazzi. Le persone si sono abituate a vivere così. Le leggi del territorio sono
imposte dalla minoranza di delinquenti, che sfruttano la paura". Da qui il suo
appello a non arrendersi, a reagire: "Non tanto scendendo in piazza - conclude
Pasquale - quanto dicendo no ogni giorno ai ditkat di quella gente, sfidandoli
con le parole e i comportamenti, come Roberto Saviano ci ha insegnato.
Denunciandoli, ogni volta che si può. A me non hanno mai chiesto il pizzo, se lo
facessero chiuderei subito e andrei dalla polizia. Al di là delle questioni
politiche i napoletani hanno votato sindaco un magistrato, il che è un buon
segnale: ma adesso bisogna cambiare anche la nostra vita quotidiana". In altre
parole: noi stessi.
Con quel ragazzo ucciso a
Napoli è morta anche la democrazia, scrive Roberto Saviano su “La
Repubblica”. Pasquale Romano, detto Lino, era innocente. È stato massacrato
dai clan e ignorato dal governo, che non si è presentato ai suoi funerali, in
un'Italia che non si indigna più. Mi chiedo che Paese siamo diventati. Che Paese
è quello in cui un ragazzo va a salutare la propria fidanzata prima di una
partita a calcetto, scende di casa e viene massacrato da una sventagliata di
mitra. Che Paese è quello in cui i media considerano questa, tutto sommato, una
notizia che può esser data in coda alle altre, e non la notizia principale, da
dare per prima. Una delle tante. Quel ragazzo si chiamava Pasquale Romano: lo
chiamavano Lino, ma nessuno ricorda già più il suo nome. Come è stato possibile
assuefarsi a tutto questo? Forse si pensa che se accade lì, in terre di clan, è
"normale"? È così? La democrazia nel mezzogiorno italiano è morta il 15 ottobre
2012, insieme a Lino Romano, e insieme a lui è stata seppellita ieri, dopo i
funerali. Ed è morta non solo perché Lino è caduto innocente, ma perché per
urlare che si trattava dell'ennesimo ragazzo innocente ucciso a sangue freddo e
senza motivo, si è aspettato di capire a che famiglia appartenesse, chi fossero
i suoi parenti. Ma perché - mi domando - se avesse avuto un lontano parente
affiliato o coinvolto in fatti di camorra, sarebbe stato forse meno innocente?
Ma è così che vincono le mafie: facendo credere che nessuno è innocente. Il
messaggio che i clan vogliono far passare è che tutto appartiene a loro in
maniera diretta o indiretta. Tutti fanno parte della loro logica, nessuno può
dirsi immacolato. Tutti hanno un parente, un concittadino, un vicino di casa,
tutti hanno fatto un lavoro per loro o hanno un amico che fa parte del Sistema.
E allora magari nascere a Cardito, crescere a Secondigliano, andare a casa della
propria fidanzata a Marianella, tutto sommato, diventa, nella coscienza
nazionale, una sorta di colpa. Il retropensiero è: "Beh, però è normale che se
vivi lì queste cose possano accadere". E invece non è così, non è naturale ed è
un'aberrazione ragionare in questo modo. Lino Romano era una persona per bene.
Era un lavoratore e veniva da una famiglia per bene. La maggior parte delle
persone che vivono in questi territori sono persone per bene. Per bene potrà
sembrare un'espressione superficiale, fin troppo semplice, ma non lo è. Per bene
significa che si tratta di persone che lavorano duramente, che vivono con
disciplina e soprattutto che resistono in territori dove è molto facile poter
cedere a corruzioni e illegalità. Quindi per bene, lavorare per il bene, è
l'espressione più appropriata per queste famiglie che si credono normali, ma che
in realtà hanno una singolare tempra. Che Paese è quello che non ha sentito il
bisogno di andare in massa alla fiaccolata per Lino Romano? E il governo, perché
non è andato ai funerali? Avrebbe dato un segnale fondamentale. In questi
territori manca giustizia, istruzione, ordine pubblico, lavoro, impresa,
l'ambiente è a pezzi: tutti i ministri avrebbero trovato cose da dire e,
soprattutto, avrebbero avuto molto, moltissimo da ascoltare. Non si trattava di
fare visita o di ricevere i genitori di Lino Romano, si trattava di essere lì
presenti perché in quelle terre, dalla prima grande faida che ha fatto centinaia
di morti, nulla è cambiato. Nelle piazze di spaccio si sparava otto anni fa,
nelle stesse piazze di spaccio si torna a sparare ora. Clan Di Lauro contro
"scissionisti" otto anni fa, "scissionisti" contro i "girati" alleati ai Di
Lauro ora. Quattro governi dalla prima faida a oggi e nessuno ha avviato alcun
tipo di riflessione sul mercato delle droghe, sul narcotraffico, su come
strapparlo ai cartelli criminali. Tutti si sono sottratti sino a ora anche ai
dibattiti avviati in altri Paesi. L'Italia in questo è latitante. Al massimo c'è
stata militarizzazione, che nulla ha risolto. Bisogna esserci, invece, su quel
territorio che sembra totalmente abbandonato. La crisi sta regalando ai cartelli
criminali l'intero mezzogiorno italiano e si affaccia sulla totalità del paese.
E non si può demandare tutto solo al coraggio e alla creatività delle
associazioni di volontari. Ripeto: che Paese siamo diventati? Che Paese è un
Paese che non riesce nemmeno più a esprimere indignazione collettiva? Qualche
mese fa, giugno, era successo lo stesso. A Casoria, un barista pulisce la strada
davanti al suo bar. C'è una sparatoria e un proiettile lo colpisce. L'intero
paese scende in piazza per dire che Andrea Nollino era una brava persona, che
non c'entrava nulla. Un intero paese di lavoratori, disoccupati, persone
normali, persone umili scende in piazza. C'era "Libera", l'associazione di Don
Ciotti, ma non politici, nessuno che si assumesse la responsabilità di dire:
"Mai più". Così come c'era "Libera" a fianco della famiglia Romano. Come per
Andrea Nollino, ora per Lino Romano valgono le stesse considerazioni. Nulla di
più forte contro la crisi, per arginarla, esiste che ridare fiducia a un
territorio e a chi lo abita. Nulla di peggio può essere fatto in tempo di crisi
che nutrire la sensazione, che diventa certezza, che tutto sia inutile o per
dirla con Corrado Alvaro, che "vivere onestamente sia inutile". Mi sono trovato
a scrivere queste parole molte volte. Quando hanno ucciso Attilio Romanò, quando
hanno ucciso Dario Scherillo, quando hanno ucciso Andrea Nollino e adesso che
hanno ucciso Lino Romano. Quei territori sono di nuovo in guerra, la faida è
riesplosa e terribili possono essere le conseguenze. Flussi di coca, eroina,
hashish si stanno riassestando e diffondendo come sempre da Scampia, ma ce ne
accorgeremo quando i morti cadranno a decine, come la prima volta. È facile in
Italia essere profetici quando dici cose che sono sotto gli occhi di tutti ma
che nessuno (o quasi) vuole vedere. Dalla prima faida a oggi si sono inserite le
associazioni di volontariato uniche a denunciare negli anni cosa stava ancora
accadendo ma nulla di davvero nuovo è iniziato. Quindi che si inizi ad ascoltare
chi in quelle zone ci lavora e ne conosce i problemi. Tutti, ma proprio tutti,
parlano della necessità di ripartire dalla scuola; sarebbe importante capire
cosa è stato realmente fatto, e con quali fondi. L'attuale sottosegretario
all'istruzione Marco Rossi Doria è stato il fondatore della Onlus "Maestri di
strada", chi più di lui in questo momento può fare da ponte tra la periferie di
Napoli e questo governo in tema di istruzione? Ma soprattutto, com'è possibile
che a distanza di otto anni dalla faida in alcun modo si sia affrontato il
discorso sul proibizionismo in materia di droghe? Scampia è il più grande
mercato a cielo aperto del mondo occidentale. Camorra e 'ndrangheta si
spartiscono il bottino del narcotraffico divenendo interlocutrici dei più
importanti cartelli sudamericani, ma nel corso di questi anni non è stato fatto
nulla per affrontare il problema dello spaccio, sperando, cinicamente, che la
pax tra cartelli continuasse. O pensando, ancora più cinicamente, davanti alle
stragi: bene che si ammazzino tra loro. Pensieri banali e qualunquisti. La pax
mafiosa li rende più forti. E anche la guerra li rende più forti: per ogni morto
di mafia se ne affilieranno altrettanti. Uno Stato che offre solo repressione
favorisce, ignorandone le cause, situazioni che portano, come in questo caso,
alla morte di un innocente. L'omicidio di Lino Romano ha degli esecutori
materiali che devono esse trovati, processati e se ritenuti colpevoli
condannati; ma il responsabile occulto di questo omicidio è una tirannica
indifferenza sul sud e sul potere criminale. Il sud è il problema principale
della nostra democrazia ma è anche la grande occasione e risorsa del nostro
paese. Gli uffici del Comune di Napoli dovrebbero essere spostati a Scampia. Le
sedi attuali, eleganti, centrali, pompose, non rispecchiano più l'anima della
città. Il cuore di Napoli ora è nelle sue periferie, è lì che la città pulsa e
muore. Anni fa uccisero un ragazzo innocente vicino Napoli. Portarono via il
corpo, rimase il sangue a terra. Ricordo che un uomo, forse un prete, si
inginocchiò dinanzi a quel sangue, mischiato alla segatura. Come a cercare di
chiedere scusa a quella vita che voleva scorrere e che invece era stata
costretta a seccarsi nei trucioli. Poi arrivò un'auto. Diede un colpo di
clacson. L'uomo fu costretto ad alzarsi. L'auto parcheggiò lì, sul sangue. Tutto
finito.
Già. E poi ti ritrovi le
istituzioni che pretendono rispetto.
PREFETTI, IL
RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE. ANCHE A NAPOLI!!!
Il prefetto De Martino
infuriato con don Maurizio Patriciello: «Inaudito, chiama la mia collega
casertana "signora"».
La scena si è svolta il 18 ottobre 2012. Ospite in prefettura a Napoli è il
prete di Caivano don Maurizio Patriciello, noto come il sacerdote anti-roghi
tossici, scrive “Il
Corriere della Sera”.
Il parroco esplicita la condizione di assoluto allarme delle terre
dell'hinterland partenopeo e casertano infestate da roghi tossici. E lo fa
rivolgendosi al prefetto di Napoli De Martino e all'omologo di Caserta, Carmela
Pagano. Commette però un errore, giudicato gravissimo: chiama "signora" la
dottoressa Pagano e non "prefetto" come vorrebbe il bon ton istituzionale. De
Martino vede rosso e redarguisce, in modo palesemente alterato, il reverendo.
«Lei chiamerebbe mai "signore" un sindaco? Dov'è il rispetto per le
istituzioni?». Poi, nella foga, il prefetto scivola sull'italiano: «Se io la
chiamarei 'signore' invece di reverendo, lei che direbbe?». Don Maurizio
resta in silenzio, poi si scusa: «Non era mia intenzione mancare di rispetto» e
prosegue il suo discorso sull'aumento di tumori e sulle esalazioni da diossina,
roba da far accapponare la pelle. Nel corso del piccolo diverbio - ripreso con
un cellulare - il commento più efficace si alza dal pubblico: "Signori si nasce"
dice un esponente del comitato anti-roghi all'indirizzo del prefetto ferito
nell'etichetta. In una nota, diffusa sabato 20 ottobre, il prefetto De Martino
definisce la vicenda un «incidente di lavoro spiacevole» e poi aggiunge: «Al
contrario di quanto è stato evidenziato, al di là dei toni anche accesi – e dei
quali mi dolgo – dettati dalla forte partecipazione di tutti alla problematica,
nell’occasione non si è registrata alcuna distanza tra istituzioni e cittadini
ma un clima di intensa e proficua collaborazione. Quanto all’episodio tengo a
precisare che il parroco don Maurizio Patriciello conosceva il prefetto Carmela
Pagano e il suo ruolo perché era stato ricevuto in più occasioni presso la
prefettura di Caserta. Pertanto dopo averla chiamata per ben tre volte "signora"
in presenza dei rappresentanti di altre istituzioni – più di 20 sindaci, il
questore, i comandanti dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e dei
Vigili del Fuoco, i rappresentanti della Regione, della Provincia e delle Asl –
ho ritenuto doveroso invitare don Patriciello a rivolgersi al responsabile della
prefettura di Caserta utilizzando il titolo di prefetto, perché riconoscesse nel
suo interlocutore, agli occhi di tutti, il ruolo e le responsabilità che sono
affidate al rappresentante del Governo. Il rispetto dei ruoli ancor più se di
livello istituzionale e connessi a incarichi di elevata responsabilità è la
prima regola per aver un confronto costruttivo.... Se qualcuno si fosse rivolto
a don Patriciello, appellandolo come signore, avrei chiesto ugualmente il
rispetto per l’istituzione che rappresenta e per le funzioni che svolge e sono
certo che nessuno avrebbe avuto nulla da ridire». «Il prefetto di Napoli Andrea
De Martino si scusi con don Maurizio Patriciello o bisognerà chiedere le sue
dimissioni immediate». A sostenerlo è Roberto Saviano in una dichiarazione
all'Ansa. «Da anni don Maurizio è presidio di legalità e umanità in terre
difficilissime. Don Maurizio - conclude Saviano - è lo Stato in quel
territorio».
Intanto a sostegno del prete si è costituito un gruppo su Facebook che chiede al
prefetto De Martino di scusarsi pubblicamente. Un gruppo che in poche ore ha
fatto già oltre 350 iscritti. Intanto gli aderenti al «Coordinamento Comitato
Fuochi» annuncia iniziative clamorose per i prossimi giorni e si scaglia contro
il ministro della Salute Balduzzi che avrebbe sottovalutato la vicenda.
Chiama "signora" il prefetto,
prete rimproverato in pubblico, scrive Antonio Tricomi su “La
Repubblica”. Durante un incontro sull'allarme
rifiuti tossici, il sacerdote anticamorra (e antidiscarica) don Maurizio
Patriciello si rivolge a Carmela Pagano, prefetto di Caserta, chiamandola
"signora". Scatenando l'ira del prefetto di Napoli Andrea De Martino.
Carmela Pagano quando era a Taranto ha negato il porto d’armi al
dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della
“Associazione Contro Tutte le Mafie”
www.controtuttelemafie.it ,
e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato la
collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui
propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri
scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare.
Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne
culturali ad ignorare. Inoltre mai la "signora" ha sentito il dovere di
interloquire e rapportarsi con lo stesso Giangrande e la sua Associazione. Ha
preferito "Libera" di Don Ciotti.
Comunque, da una parte un
prete anticamorra, don Maurizio Patriciello. Dall'altra ben due prefetti: quello
di Napoli, Andrea De Martino (che il 30 ottobre lascerà la sua poltrona), e
quello di Caserta, Carmela Pagano. Si tratta in tutta evidenza di una signora.
Ed è infatti in questi termini che don Patriciello si rivolge a lei, durante un
incontro in Prefettura, a Napoli. Don Patriciello è in piedi, atteggiamento mite
e rispettoso, ma aria combattiva. Dall'altra parte del tavolo, seduti, i due
prefetti e altre autorità. Il tema dell'incontro è l'allarme rifiuti in
Campania. "Una mattina sono andato dalla signora - esordisce il prete - la
signora è stata così gentile da ricevermi ...". Veramente troppo per il prefetto
De Martino, che sbotta, interrompendo il prete: "Ma quale signora, è un prefetto
della Repubblica Italiana. Abbia più rispetto per le istituzioni". Stupore del
sacerdote, che quasi balbetta: "Ma non era mia intenzione offendere, se vuole
posso anche andarmene". De Martino alza ulteriormente i toni. "Può anche
andarsene, ma prima cerchi di capire cosa sto dicendo. Chiamandola signora l'ha
offesa e ha offeso anche me".
Mentre il prefetto inveisce contro il prete, insistendo nei suoi argomenti
(grosso modo: non si può chiamare "signore" o "signora" chi rappresenta le
istituzioni, è un modo per sminuirle) monta l'indignazione tra il pubblico e tra
gli accompagnatori del sempre più sconcertato Patriciello. "Signori si nasce",
esclama una donna, anzi una signora, citando inevitabilmente l'antica saggezza
di Totò. E ancora, rivolgendosi direttamente a De Martino: "Lei è prima di tutto
un cittadino, abbiate voi piuttosto rispetto per i cittadini". Ma il prefetto,
sentito da Repubblica.it, rimane fermo sulle sue posizioni:
"Stimo don Maurizio, ma la sua era una mancanza di rispetto".
Ho appena visto un video in
cui un sedicente “signor” Andrea De Martino scrive
Piergiorgio Odifreddi che in
realtà è soltanto un maleducato “signorotto” d’altri tempi, ha interrotto con
urla e strepiti una dichiarazione di don Maurizio Patricello, un prete
anticamorra che pacatamente stava parlando di rifiuti tossici. Evidentemente
sentendosi tirato in campo per l’argomento, il novello don Rodrigo ha inveito
contro l’attonito sacerdote, che ha faticato un po’ a capire quale fosse stato
il suo sgarro.
Il gravissimo reato in cui era incorso, è poi stato spiegato, era di aver
chiamato il prefetto di Caserta “signora”, invece che “signor prefetto”. E per
buona misura, il signor De Martino ha precisato urlando che chiamare “signora”
un prefetto offendeva non soltanto colei alla quale il sacerdote si riferiva, ma
anche lui. Perché sì, apparentemente questo energumeno è pure lui un prefetto,
di Napoli per la precisione, e pretende rispetto! E non gli viene in mente che
già chiamarlo anche solo “signore” sarebbe un’esagerazione, visto il suo stile
tutt’altro che signorile! In una successiva dichiarazione il malcapitato
funzionario pubblico ha ribadito che la sua maleducazione era un “doveroso”
richiamo al rispetto “delle istituzioni”. Secondo lui, sullo stesso piano delle
lezioni di legalità che si fanno ai giovani. E ha aggiunto che “certe cose
bisogna viverle, per capirle”. Ma in questo, almeno, il signor De Martino ha
ragione. Perché bisogna vedere e sentire le registrazioni del suo comportamento,
per capire che quei modi sono più consoni a un bulletto di periferia che a un
prefetto di una grande città. E che effettivamente non fanno onore alle
istituzioni, e nemmeno a lui.
Signore e signori, buonanotte
(al cittadino) scrive
Michele Smargiassi. Ma il signor Andrea
De Martino, al quale capita di essere temporaneamente un funzionario al servizio
dei cittadini della Repubblica Italiana in qualità di prefetto di Napoli, avrà
chiesto scusa a don Maurizio Patriciello? E assieme a don
Maurizio avrà
chiesto scusa anche a tutti i cittadini italiani? Perché nella persona del
parroco di Caivano ha umiliato tutti quanti noi, ricordandoci che siamo solo dei
sudditi e che dobbiamo presentarci davanti al Potere col cappello in mano,
ossequienti e deferenti e timorati, rispettando le barocche formule di
genuflessione verbale che solo un Potere arrogante e sordo potrebbe ormai
pensare di pretendere come una formula di “rispetto”.
Ho cercato quelle scuse
sui giornali e non le ho trovate. Ho aspettato ventiquattr’ore, dopo aver visto
su RepubblicaTv questo sconcertante video, girato e diffuso in Rete
dagli attivisti presenti all’incontro, in attesa appunto che succedesse
qualcosa. Non è successo, anzi il signor De Martino sembra ancora convinto che
il sacerdote con quell’appellativo civile ed educato abbia mancato di rispetto
alle istituzioni, queste le sue conclusioni quasi surreali: “Se cominciamo tutti
ad essere signori, dove lo troviamo più il prefetto?”. Se non conoscete
l’episodio
della sconcertante umiliazione verbale da parte di un prefetto nei confronti di
un cittadino che ha osato impiegare, per rivolgersi a una delle Loro Maestà,
solo l’appellativo civile e cortese di “signora” invece del titolo sacralmente
protocollare di “Signora Prefetto”, allora andatelo a vedere subito, quel video,
poi ne parliamo.
Ecco, cominciamo da quel che si vede,
visto che questo è un blog sulla cultura dell’immagine. Guardate, allora, come
il rapporto verticale e diseguale fra sovrani e sudditi è plasticamente
rappresentato nella distribuzione delle relazioni spaziali, in quell’incontro
fra un gruppo di cittadini e i civil servants che dovrebbero essere al
loro servizio. Guardate l’altare del Potere: con i prefetti asserragliati
dietro l’iconostasi invalicabile e severa del tavolo di noce, picchettati da
bandiere senza vento usate qui come stampelle della sovranità più che come
simboli di democrazia, sormontati da un dipinto (che potrebbe anche essere un
paesaggio del mio avo Gabriele Smargiassi…) che nessuno guarderà mai perché è lì
solo come connotazione di sfarzo e prestigio; guardateli, schierati
frontalmente, spalla a spalla, nessuna interazione con gli astanti, ieratici
solenni e freddi, lo sguardo nel vuoto come i mosaici imperiali di Giustiniano e
Teodora in San Vitale a Ravenna. E poi guardate il Cittadino,
lontano, ai margini della sala, neppure di fronte all’altare ma di sghimbescio,
che si alza in piedi di fronte a loro che restano ovviamente seduti, che
protende il busto quasi per scavalcare i dieci metri di fossato che lo separano
dai funzionari pubblici ai quali lui, come tutti noi, paga lo stipendio.
Basterebbe
questa disposizione coreografica
per capire quanto poco la democrazia italiana sia riuscita a liberarsi dalla
messinscena borbonica dell’autorità, quanto ci tenga ancora a rappresentare
fisicamente la siderale distanza che separa chi comanda da chi deve ubbidire,
come la descrisse Ignazio Silone in una pagina indimenticabile: In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo.
Questo ognuno lo sa. Poi viene il Principe Torlonia, padrone della terra. Poi
vengono le guardie del Principe. Poi vengono i cani delle guardie del Principe.
Poi nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni.
Ma il video ha anche un sonoro,
e qui non riesco a restare nei panni del Fotocrate che osserva solo le figure,
chiedo venia se questa volta Fotocrazia andrà un po’ fuori delle sue competenze,
ma di fronte a questa sequenza il disagio diventa davvero sconcerto e rasenta il
disgusto. Un cittadino, che sia prete o no conta poco, denuncia con
tono civile e fermo cose drammatiche, parla di scorie tossiche, di roghi
pestilenziali, di amianto non bonificato, ma l’espressione annoiata sul viso del
Potere si scuote solo quando quel cittadino dice “signora” rivolgendosi al
prefetto di Caserta, Carmela Pagano (che a onor del vero sembra l’unica che sta
ascoltando, e fa pure sì sì con la testa, e non pare turbata dalla qualifica di
“signora” ); e allora il Potere interrompe brutalmente il Cittadino,
indifferente a quel che sta dicendo, lo intimidisce col dito alzato ammonitore
come uno scettro, “A chi dice signora?”, lo investe di tutto il maestoso
disprezzo del potentato offeso dall’irriverenza del cafone, lo apostrofa in
mirabile italiano: “Se io lo chiamerei signore, lei cosa penserebbe?”
Fosse anche stata detta in un signor italiano, quella frase
resterebbe assurda e ridicola. Sembra presa di peso da uno sketch di Totò. Ma quello di Totò è il mondo
dell’ironia sapiente che beffeggia i poteri, è la sacrosanta irriverenza di
Bertoldo e Cacasenno. Invece l’intemerata del prefetto offeso nella sua aura
viene da un altro mondo, il mondo delle forme vuote, degli orpelli di gesso
dorato, delle formule più importanti dei fatti, un mondo ancora più antico e
decrepito dell’italico “lei non sa chi sono io”.
Chissà se il signor De Martino ha mai ascoltato
un’opera lirica, assistito a un balletto classico. Chissà se gli hanno detto che
le incantevoli stelle del firmamento teatrale, le dive che sono la più riuscita
approssimazione borghese al divino, vengono rispettosamente e devotamente
chiamate “signora Maria Callas”, “signora Carla Fracci”.
Apostrofate cioè con quello che il signor De Martino ritiene un insulto
vergognoso se rivolto a un semplice dipendente dello Stato. Continuo a
chiedermi se
questo episodio passerà come acqua fresca, e vorrei chiederlo alla signora
Anna Maria Cancellieri che ora, per incarico dei cittadini, ricopre il
ruolo di ministro degli Interni e che, posso dirlo per averla conosciuta di
persona, è una autentica signora e lo sarà anche quando non avrà un potere da
esercitare.
A PROPOSITO
DI PREFETTI, PARLIAMO DI CARLO FERRIGNO.
Arrestato il prefetto Carlo
Ferrigno, scrive “Il
Corriere della Sera”. Il suo nome
era spuntato in un’intercettazione del caso Ruby. L’ex commissario antiracket
avrebbe sfruttato la sua posizione per ottenere favori sessuali da giovani
donne. È stato
prefetto di Napoli, poi commissario nazionale antiracket. Uno dei più alti
funzionari di Stato, in prima fila nella lotta alla mafia. L'ex prefetto Carlo
Ferrigno, 72 anni, è stato arrestato con l'accusa di millantato credito ed è
adesso agli arresti domiciliari. È indagato anche per prostituzione minorile per
due casi segnalati nell'inchiesta. Secondo la Procura di Milano, dal 2005 a
pochi mesi fa avrebbe fatto avance e ottenuto favori sessuali, promettendo in
cambio il suo autorevole intervento nella pubblica amministrazione. Nell'ambito
dell'indagine, è finito in carcere anche l'imprenditore Massimo Abissino,
titolare di un negozio di moda in via Farini a Milano, che avrebbe tra le altre
cose favorito la prostituzione di una delle due minorenni che avrebbero avuto
rapporti con Ferrigno. Ad Abissino vengono contestati anche fatti di droga. Una
delle giovani lavorava proprio nel negozio di Abissino come commessa. In totale,
le parti lese, che riguardano condotte sessuali di Ferrigno per i reati di
millantato credito e prostituzione minorile, sono 4: le due minorenni e due
donne maggiorenni. In particolare, l'ex Prefetto, chiedendo prestazioni
sessuali, millantava agevolazioni per le donne come la possibilità in un caso di
far entrare una giovane in Polizia e, in un altro caso, di risolvere la
questione di un permesso di soggiorno per un'altra ragazza. L’inchiesta, condotta dal
pubblico ministero Stefano Civardi, è nata dalla denuncia del presidente di Sos
racket e usura Frediano Manzi, che aveva raccolto le testimonianze di alcune
vittime di usura ed estorsione, secondo le quali Ferrigno avrebbe promesso di
«accelerare le pratiche per accedere al fondo antiracket e antiusura, farle
passare in commissione, se avesse ottenuto in cambio prestazioni sessuali». In
merito Frediano Manzi era stato sentito come persona informata sui fatti, ma il
pm aveva poi secretato gli atti. «Da tempo circolavano le voci
nel nostro ambiente di prestazioni sessuali che erano richieste soprattutto alle
vittime di usura che presso la sede del Comitato Nazionale Antiracket a Roma, in
Via Cesare Balbo 37, entravano in contatto con il Prefetto Carlo Ferrigno». Così
si apre la lunga nota pubblicata sul sito dell'associazione antiracket già nel
febbraio del 2010. All'epoca risalgono anche le testimonianze video registrate
nella sede dell'associazione. Le presunte vittime di Ferrigno raccontavano la
disavventura con il funzionario che era arrivato a molestarle pesantemente.
«Queste voci riferivano di una prassi consolidata e perpetrata negli anni dal
Prefetto: accelerare le pratiche per accedere al fondo antiracket e antiusura.
Nel caso fossero stati uomini a far domanda al fondo, era loro richiesto
esplicitamente se avessero avuto una "amica" da presentargli». Secondo quanto
Manzi scriveva sul sito dell’associazione «era abitudine del commissario
antiracket inviare un autista (...) con la macchina in dotazione del ministero a
prelevare prostitute giovani e soprattutto minorenni, per fare orge e festini
presso l’abitazione del Prefetto a Roma». Il nome di Ferrigno è poi spuntato in
un’intercettazione svolta nell’ambito dell’inchiesta sul caso Ruby il 29
settembre scorso, in cui Ferrigno dice a un uomo parlando delle feste del
presidente del Consiglio: «C’erano orge lì dentro non con droga, non mi risulta.
Ma bevevano tutte mezze discinte. Berlusconi si è messo a cantare e a raccontare
barzellette. Loro tre (Berlusconi, Mora e Fede) e 28 ragazze. Tutte ragazze che
poi alla fine erano senza reggipetto solo le mutandine strette...». Un racconto
che all'alto funzionario era stato fatto da Maria Makdoum, ventenne danzatrice
del ventre in un caso ospite a Villa San Martino. Per tenerla costantemente
sotto controllo, il prefetto avrebbe anche violato il sistema informatico del
Ministero dell'Interno. Da quanto si è saputo, Ferrigno controllava i contatti
telefonici della Makdoum, anche grazie all'aiuto di altre persone indagate. In
particolare, aveva l'accesso ad alcuni account e a delle password per spiare il
traffico telefonico della ragazza. Il presidente dell'associazione Sos-Racket e
Usura, che ha dato il la all'inchiesta, Frediano Manzi commenta così l'arresto:
«Noi siamo stati gli unici tra tutte le associazioni antiracket a denunciare
questo fenomeno. Ora pretendiamo che vengano verificate le posizioni di tutti
coloro che hanno ricevuto i finanziamenti disposti dal prefetto Ferrigno dal
2003 al 2006 periodo in cui è stato commissario Antiracket». «Ferrigno è pronto
a chiarire tutto e a dimostrare che si tratta di accuse infondate». Lo ha
spiegato uno dei suoi legali, l'avvocato Maurizio Messuri. L'interrogatorio
dell'ex prefetto di Napoli ed ex commissario nazionale antiusura dovrebbe
tenersi tra venerdì 15 e sabato 16 aprile, mentre l'imprenditore Massimiliano
Abissino, finito in carcere perchè avrebbe indotto alla prostituzione una
minorenne, dovrebbe essere sentito dal giudice giovedì. «In questa vicenda - ha
spiegato l'avvocato - si è inserita una situazione mediatica che non ha
attinenza con i fatti contestati». Il nome di Ferrigno era comparso infatti
anche in alcune intercettazioni dell'inchiesta sul caso Ruby. «Nella mia
carriera poi - ha aggiunto il legale - non ho mai sentito di una misura
d'arresto per millantato credito». Inoltre, secondo l'avvocato, i presunti reati
contestati sarebbero di competenza della Procura di Roma, perchè «nel periodo
dei fatti contestati Ferrigno svolgeva la funzione di commissario antiusura».
Dopo aver spiegato che «ricorreremo al Riesame», l'avvocato ha aggiunto che
«presto faremo partire le denunce per calunnia nei confronti dell'associazione»
Sos Racket e Usura, quella che consegnò mesi fa ai pm dei video con le
testimonianze di alcune donne, dando il via all'inchiesta.
Come si vede, a Napoli non è
solo la Camorra a vessare il cittadino. Vi sono anche le istituzioni a fare la
loro parte.
QUALE MAFIA? IL PREFETTO AL MARE, PAGA LIGRESTI.
Il prefetto
al mare, paga Ligresti, scrive Paolo Biondani e Vittorio Malagutti su “L’Espresso”.
Ma è normale che un alto funzionario dello Stato vada in vacanza a spese di un
costruttore? E che poi sgomberi i nomadi dalle proprietà dello stesso
costruttore? E che suo figlio sia pagato dallo stesso costruttore? Generali,
prefetti, politici, gran commis di Stato. D'estate tutti al Tanka Village, il
resort di lusso sul mare cristallino della Carbonara, sud-est della Sardegna.
Pagava Ligresti. Salvatore Ligresti. E' andata così per anni, mentre il
finanziere e costruttore siciliano, amico di Bettino Craxi e poi di Silvio
Berlusconi, veleggiava alla grande nel mare magnum del potere italiano.
Pochissimi dicevano di no a quegli inviti nel villaggio a cinque stelle. E alle
allegre comitive di vacanzieri vip partecipava spesso e volentieri anche un
anziano signore napoletano. Si chiama Gian Valerio Lombardi, classe 1946 e fino
a febbraio dell'anno prossimo, salvo nuove proroghe, resterà seduto sulla
poltrona di prefetto di Milano. Un lungo addio, quello di Lombardi, che avrebbe
dovuto lasciare l'incarico già nel 2010 ma è rimasto al suo posto per decisione
del governo di Re Silvio. Un addio sofferto e anche triste, funestato in questi
giorni da rivelazioni imbarazzanti sulle frequentazioni del prefetto sbarcato a
Milano nel lontano 2005, nella metropoli, in regione e in parlamento comandava
il centrodestra. Qui Lombardi si inserisce in una «consolidata rete di favori,
amicizie, protezioni politiche e legami elettorali» che «ha reso possibili
malversazioni, truffe e corruzioni»: lo hanno messo nero su bianco i magistrati
milanesi titolari dell'inchiesta che due settimane fa ha portato all'arresto per
corruzione di un dirigente comunale nominato dalla giunta Moratti. «Solo
relazioni istituzionali», reagisce Lombardi. Ma dall'inchiesta emerge pure che
suo figlio Stefano ha ricevuto un appartamento in centro, a prezzi scontati, da
una fondazione diretta da un avvocato del Pdl: proprio quell'Antonio Picheca,
ora in carcere per corruzione, che il prefetto aveva voluto ai vertici di
un'altra fondazione ambrosiana. Di certo, in questi tempi per lui difficili,
qualche pensiero deve averglielo dato anche il tracollo dell'amico Ligresti,
travolto da debiti e perdite miliardarie e ora indagato a Milano e Torino per
una lunga serie di reati societari. E tra le pieghe dei bilanci in rosso della
Fondiaria-Sai dei Ligresti adesso si scoprono anche i costi esorbitanti delle
spese di rappresentanza per milioni di euro. Tutti costi che la famiglia del
costruttore finiva il più delle volte per mettere sul conto della compagnia di
assicurazioni quotata in Borsa, con migliaia di piccoli azionisti. Anche
l'avvocato Stefano Lombardi, il figlio del prefetto, è stato per anni a libro
paga dei Ligresti. Centinaia di migliaia di euro a titolo di legittimi compensi
per incarichi professionali. Parcelle staccate sia dalle finanziarie di famiglia
del patron Salvatore sia dalle società assicurative del gruppo Fonsai. Ma non è
solo questione di parcelle. I Lombardi erano di casa dai Ligresti. E viceversa.
Le due famiglie si frequentavano abitualmente tra salotti e feste. E il
quarantenne Stefano Lombardi vanta tra i suoi migliori amici i tre figli del
patron Salvatore (Jonella, Gulia e Paolo), oltre al suo collega avvocato
Geronimo La Russa, erede dell'ex ministro Ignazio, a sua volta stipendiato,
nonché grande animatore della movida milanese. Giusto un anno fa, al matrimonio
di Lombardi junior, tra i 600 invitati al sontuoso ricevimento nell'esclusiva
Società del Giardino, i Ligresti erano tra gli ospiti d'onore, con il finanziere
Francesco Micheli, pure lui a lungo legato al carro dei Ligresti, come testimone
dello sposo. Non poteva mancare all'appuntamento Paolo Berlusconi, un altro
amico dei Lombardi che molti ricordano intrattenere gli invitati al cocktail in
prefettura del 2 giugno, festa della Repubblica italiana, con giochi di
prestigio e barzellette (un vizio di famiglia). Del resto Lombardi è sempre
stato un berlusconiano in servizio permanente effettivo. Una fede non nascosta,
anzi esibita, con tanto di foto del caro leader del centrodestra sistemata in
bella vista sulla scrivania, con buona pace dell'imparzialità dei servitori
dello Stato. La sua passione per Silvio ha però procurato al prefetto anche
qualche grana. L'anno scorso l'inchiesta su Silvio e Ruby svela che Lombardi, il
13 gennaio 2011, ha incontrato un'elegante ospite notturna dell'ex premier. La
ballerina domenicana Maria Esther Garcia Polanco, che sognava la cittadinanza
italiana, è stata ricevuta dal prefetto in persona, contattato «sul numero avuto
da Berlusconi». A Lombardi dev'essere sfuggito che il fidanzato della giovane
era appena stato arrestato e condannato a otto anni di galera per dodici chili
di cocaina nascosti nel garage della casa di lei in via Olgettina, pagata da
Silvio. «Sono un rappresentante del governo e se il presidente del Consiglio mi
chiede di ricevere una persona, io non posso rifiutarmi», fu la difesa di
Lombardi. La gaffe, però, resta agli atti. Al pari di quella, clamorosa, del 22
gennaio 2010, quando il prefetto accoglie la commissione parlamentare antimafia
con una relazione memorabile: «A Milano la mafia esiste?», sono le prime parole
di Lombardi, che si risponde da solo: «No». Di lì a pochi mesi, nel luglio 2010,
l'ottimismo prefettizio è platealmente smentito dalle Procure di Milano e Reggio
Calabria: 300 arresti per mafia svelano una trucida realtà di omicidi di mafia,
sistematiche estorsioni e grandi aziende in mano alla 'ndrangheta. Con i rom e
gli extracomunitari invece il prefetto fiuta subito l'allarme sicurezza. Tanto
da scavalcare a destra perfino la giunta dell'ex sindaco Letizia Moratti e dei
suoi uomini forti di Lega e dell'ex An, politici che quanto a esibizioni
muscolari non temono rivali. «Tra un anno basta campi abusivi», proclama
Lombardi nel giugno 2008. Due anni prima il prefetto di pronto intervento aveva
fatto sgomberare in tutta fretta un campo nomadi a sud della città. Sarà un
caso, ma l'area in questione era una delle tante di proprietà dei Ligresti. Per
i rom si improvvisa una sistemazione provvisoria nel vicino comune di Opera.
Molto provvisoria, perché nel giro di tre settimane l'accampamento viene dato
alle fiamme da un'orda di cittadini guidati dal locale sindaco leghista. Pochi
mesi fa, ad aprile, tocca alla Caritas indignarsi col prefetto per il caso dei
200 rom italiani (70 bambini) rimasti senza baracche in via Sacile, bruciate da
un incendio doloso. Comune e Curia organizzano alloggi provvisori per le vittime
del rogo, senza dividere i genitori dai figli, e inseriscono i minori nelle
scuole. All'alba si contano però dieci famiglie non censite. Giunta e Caritas
hanno finito i rifugi e chiedono un soccorso al prefetto. Ma Lombardi nega che
la protezione civile di Milano abbia anche solo dieci roulotte. Contro Giuliano
Pisapia, primo sindaco di sinistra dopo vent'anni di Pdl e Lega, Lombardi
ingaggia una battaglia personale. Un esempio tra i tanti. La giunta Pisapia
accetta l'esercito in città, per presidiare stazioni e obiettivi a rischio, ma
dice no a ronde armate. Invece il prefetto manda i soldati nelle strade in
assetto bellico: sono un inutile spreco, ma li vuole l'allora ministro La Russa.
Con la politica degli sgomberi, poi, la città rischia la guerriglia urbana.
Molti i casi contestati. Nel maggio scorso centinaia di "precari dell'arte"
occupano la torre Galfa, un grattacielo abbandonato da anni nella zona della
stazione Centrale. Lombardi convoca subito l'apposito comitato che, senza
sentire il Comune, ordina lo sgombero d'urgenza. La polizia teme una rivolta
urbana, Pisapia tratta con la piazza e gli sgomberati accettano un trasloco
pacifico in un altro palazzo dismesso. Domanda: a chi appartiene la torre Galfa,
sgombrata a gran velocità da Lombardi? Alla Fondiaria dei Ligresti, gli amici
del prefetto. Ancora loro.
VIGILI
URBANI. PARLIAMO DI VIOLENZA DELLE ISTITUZIONI, OMERTA' ED IMPUNITA'.
In riferimento al
comportamento tenuto dal comandante dei vigili urbani nei confronti di un
giornalista, di seguito si propongono alcune esemplari note stampa pubblicate
sul sito del giornalista di Milano
Franco Abruzzo.
Dobbiamo riflettere sul
comportamento di alcuni giornalisti napoletani di fronte al collega
schiaffeggiato dal comandante dei VVUU.
Alessandro Migliaccio: “Lo
schiaffo dei colleghi e il silenzio delle Istituzioni. Le disavventure di un
giovane giornalista professionista”.
Il collega Alessandro Migliaccio, che nella sua incredibile vicenda è stato
assistito da Unione Cronisti Campani e dall’Assostampa Campania, ha mandato all’Unci
questo intervento: "Se è vero, come è vero, che ho denunciato il capo dei vigili
di Napoli perché ha osato darmi uno schiaffo per un mio articolo che non gli è
piaciuto, allora è pur vero che non resterò zitto di fronte all'attacco che sto
subendo da alcuni colleghi napoletani. Bugie sull'articolo "incriminato",
assurdi collegamenti tra la vicenda dello schiaffo (reale) e quella (presunta)
di una busta con proiettile recapitata al comando della Polizia municipale di
Napoli, ma perfino articoli in cui, in maniera velata, si giustifica l'assurdo
gesto violento del capo dei vigili. Insomma, sono stanco di questo attacco
portato avanti da diversi colleghi amici, evidentemente, del comandante della
Polizia municipale. Quelli stessi colleghi che per una settimana hanno ignorato
l'accaduto, dandone poi risalto solo dopo che la notizia è stata data da
"Tg3-Lineanotte", e quindi da un'emittente nazionale. Il mio legale, Elena
Coccia, si è vista costretta ad inviare alle redazioni di diversi giornali
locali una richiesta di rettifica in merito ad articoli in cui chiaramente si
affermava che io avrei indicato l'indirizzo di casa del comandante della Polizia
municipale mettendo a rischio la sua incolumità. Non solo nell'articolo non c'è
nessun indirizzo ed il capo dei vigili non rischia nulla, ma perché spostare
l'attenzione sull'articolo piuttosto che condannare lo schiaffo, ovvero il gesto
violento ed inaccettabile? Spero che, almeno Voi, vogliate intervenire in questa
incresciosa vicenda che mi vede vittima di due schiaffi. Inutile dirVi che il
secondo è quello dei miei stessi colleghi napoletani, che non hanno capito che
se ho intrapreso una battaglia legale denunciando il capo dei vigili di Napoli,
l'ho fatto solo per difendere la libertà di stampa di tutti i giornalisti e
quindi anche la loro. La stessa libertà di stampa che, come ho avuto modo di
dire ad alcuni miei colleghi, vale molto di più rispetto agli "equilibri da
mantenere" delle loro redazioni o rispetto alle loro stesse amicizie con gli
"alti in grado". Sappiate che, col silenzio dei colleghi e con le bugie di
alcuni giornali, la nostra categoria sta facendo una pessima figura a livello
nazionale e questo lo potrete riscontrare su moltissimi siti internet in cui
ancora si commenta la vicenda. Spazi di libertà in cui ognuno dice la sua e in
tanti mi invitano a non mollare e a non deludere chi lotta per una giusta causa:
l'articolo 21. RingraziandoVi per quanto avete già fatto, porgo cordiali
saluti". Alessandro Migliaccio, semplicemente un giovane giornalista
professionista.
Caso Migliaccio:
Sementa è al suo posto. Iacopino: "Il sindaco non fa nulla". Il segretario
dell’Ordine nazionale dei giornalisti, Enzo Iacopino, in relazione a quanto
accaduto a Napoli il 5 dicembre ha dichiarato: “Sono più di due settimane da
quando il comandante dei vigili urbani di Napoli ha fatto convocare nel suo
ufficio il giornalista Alessandro Migliaccio, lo ha fatto identificare e lo ha
schiaffeggiato. Che cosa è accaduto? Nulla. Autorevoli esponenti della giunta
del sindaco Rosa Russo Iervolino hanno assicurato provvedimenti, che non sono
arrivati, invitando l’Ordine dei giornalisti a non prestarsi a
strumentalizzazioni. Le uniche che fin qui ci sono state sono risultate quelle
di chi ha tentato di accreditare la voce che il collega Migliaccio ha pubblicato
l’indirizzo di casa del comandante Luigi Sementa, nel patetico tentativo di
giustificare la gravità del gesto di un pubblico ufficiale. Senza trascurare un
particolare: quella notizia è falsa, Migliaccio non ha pubblicato
quell’indirizzo. E’ vero, invece, che sindaco e giunta – per quanto distratti
dai molti affanni che li hanno colpiti – continuano a non fare nulla. Un
comportamento davvero significativo”. (www.odg.it)
NAPOLI.
CRONISTA SCHIAFFEGGIATO: IMMAGINI IN TV, DIVENTA UN CASO. SINDACO: RISPETTARE LA
LIBERTÀ di STAMPA. Un giornalista «convocato» nell'ufficio del comandante della
polizia municipale che, incurante anche della presenza di due rappresentanti dei
cronisti, lo ha schiaffeggiato non avendo gradito il contenuto di un articolo.
L'episodio risale ad alcuni giorni fa, ma ha ottenuto una grande risonanza
grazie alle immagini trasmesse ieri sera da Tg3 Linea Notte, la trasmissione di
approfondimento del telegiornale di Rai3. Sì, perchè il cronista, Carlo
Migliaccio di E Polis, aveva una telecamera nascosta con la quale ha ripreso
tutte le fasi di questa brutta storia, che ha suscitato oggi nuove e più vibrate
reazioni sia da parte dei rappresentanti della stampa sia dei politici locali,
tra cui il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino. Il filmato mostra il capo
della polizia municipale di Napoli, Luigi Sementa, prendere a schiaffi e
apostrofare violentemente Migliaccio. «Tu hai messo in pericolo me e la mia
famiglia per le cose che ha scritto» dice Sementa dopo aver assestato uno
schiaffone al giornalista. Il comandante si era risentito del fatto che
nell'articolo, dove venivano mosse critiche al comportamento dei vigili, vi
sarebbe stata l'indicazione della sua abitazione privata. Un'accusa respinta dal
giornalista. «Pur comprendendo la preoccupazione del Comandante della Polizia
Municipale di voler garantire la sicurezza dei propri congiunti - ha detto
Iervolino - il sindaco ha espresso il più vivo disappunto per quanto accaduto
nei rapporti con il giornalista Alessandro Migliaccio e per le modalità in cui
l'episodio si è verificato». «Uno schiaffo dato ad un giornalista - dice la Fnsi
- da parte di chi deve, più di altri, rispettare le regole ed il lavoro altrui è
uno schiaffo inaccettabile che non può essere derubricato come semplice sfogo.
Suona, invece, come uno schiaffo che si può dare al giornalista il cui lavoro
non è stato gradito». Migliaccio è amareggiato anche dal comportamento dei
colleghi: «Molti mi hanno chiesto di tacere sulla vicenda, di lasciar correre.
Quando poi hanno saputo che avevo ripreso tutto con una telecamera,
improvvisamente mi si è fatto il vuoto attorno. I colleghi campani, tranne
quelli di E polis, mi hanno tradito tutti. Si sono limitati ad un comunicato di
solidarietà ma al di là di questo nessuno spazio sulla stampa locale» ha
affermato in un'intervista rilasciata a www.articolo21.info. E Beppe Giulietti,
portavoce dell'Associazione, giudica il gesto di Sementa incompatibile con
qualsiasi funzione pubblica. Intanto la polizia municipale ha reso noto che oggi
una busta contenente un proiettile calibro 38 special è stata recapitata a
Sementa presso il comando della polizia municipale. Nella busta, oltre al
proiettile, c'era una fotocopia dell'articolo del quotidiano Il Napoli
intitolato Gran bazar d'illegalità nel rione del comandante: sulla fotocopia
sono state tracciate due croci, sul nome di Sementa e su quello della strada
dove abita il generale. L'assessore alla Polizia urbana Luigi Scotti convocherà
nei prossimi giorni il comandante: «Anche la convocazione del giornalista al
comando della polizia municipale mi sembra insolita» ha detto Scotti. (ANSA)
CRONISTA
SCHIAFFEGGIATO. MIGLIACCIO: TRADITO DA COLLEGHI. «Che l'articolo 21 venga
rispettato. Questo il motivo per cui ho denunciato la vicenda e non sono stato
zitto. Che vengano rispettate le leggi e che il giornalismo rispetti a sua volta
la sua missione: informare e denunciare, altrimenti si riduce a insignificante
velina». Così Alessandro Migliaccio, giornalista di E Polis, schiaffeggiato dal
Comandante della polizia municipale di Napoli Luigi Sementa, chiude l'intervista
rilasciata a www.articolo21.info. E Beppe Giulietti, portavoce
dell'Associazione, giudica il gesto di Sementa incompatibile con qualsiasi
funzione pubblica. Migliaccio è amareggiato dal comportamento dei colleghi: «...
Molti colleghi mi hanno chiesto di tacere sulla vicenda, di lasciar correre.
Quando poi hanno saputo che avevo ripreso tutto con una telecamera
improvvisamente mi si è fatto il vuoto attorno.». «I colleghi campani, tranne
quelli di E polis - prosegue - mi hanno tradito tutti. Si sono limitati ad un
comunicato di solidarietà ma al di là di questo nessuno spazio sulla stampa
locale», «Un gesto di tale natura è incompatibile con qualsiasi funzione
pubblica», sostiene il portavoce di Articolo21, Giuseppe Giulietti. « Non ci
interessa sapere quali siano le motivazioni che hanno provocato una reazione
simile, la cosa certa è che è inaccettabile, inaccettabile nei confronti di un
cronista, ma inaccettabile in generale nei confronti di qualsiasi cittadino».
«Rivolgiamo dunque un invito all'amministrazione di Napoli affinchè non solo
chiarisca al più presto la vicenda, ma prenda anche adeguati provvedimenti in
merito».(ANSA).
CRONISTA
SCHIAFFEGGIATO: FNSI, SIAMO VICINI AL COLLEGA. «La Fnsi, con l'Associazione
napoletana della stampa, resta vicina al collega Alessandro Migliaccio e chiede
che fatti del genere non si debbano mai più ripetere», si legge in una nota
della Federazione nazionale della Stampa riguardo alla vicenda del cronista di E
Polis Alessandro Migliaccio schiaffeggiato dal capo dei vigili urbani di Napoli
Luigi Sementa. «Il clamore suscitato dall'aggressione subita dal collega di
E-polis a Napoli da parte di un ufficiale dei vigili urbani - dice la Fnsi -
ripropone l'esigenza di una cultura di rispetto per gli organi di informazione
ed i loro operatori da parte di chi è incaricato di funzioni di polizia. Uno
schiaffo dato ad un giornalista da parte di chi deve, più di altri, rispettare
le regole ed il lavoro altrui è uno schiaffo inaccettabile che non può essere
derubricato come semplice sfogo. Suona, invece, come uno schiaffo che si può
dare al giornalista il cui lavoro non è stato gradito. Ma nessun giornalista ha
nel proprio dna quello di essere accondiscendente e cortigiano verso
chicchessia. Nello specifico - conclude la nota - va sottolineato che a Napoli
ed in Campania già troppi giornalisti sono sotto tiro della criminalità. Per i
tutori dell'ordine non è accettabile perdere la testa al di là di ogni
considerazione». (ANSA).
CRONISTA
SCHIAFFEGGIATO. ODG CAMPANIA ACCANTO A MIGLIACCIO. L'Ordine dei Giornalisti
della Campania «sarà al fianco del collega Alessandro Migliaccio, il cronista
del quotidiano schiaffeggiato dal comandante dei vigili urbani Luigi Sementa, in
sede legale». Lo ha stabilito il Consiglio dell'Ordine, fanno sapere i vertici
dell'Ordine, nella riunione del 10 dicembre confermando la linea di «essere
accanto a tutti i colleghi vittime di soprusi». (ANSA).
CRONISTA
SCHIAFFEGGIATO. ODG: IERVOLINO SOSPENDA CAPO VIGILI. «È sconcertante che il
sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, non abbia ancora sospeso dal servizio
il capo della locale Polizia municipale, Luigi Sementa, il quale ha ritenuto di
poter convocare nel suo ufficio un cronista di E Polis, Alessandro Migliaccio, e
di schiaffeggiarlo perchè era l'autore di un servizio che non risultava gradito
non si capisce bene a chi e a quanti». È il monito del segretario nazionale
dell'Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino. Nei giorni scorsi l'Ordine dei
giornalisti della Campania, l'Assostampa Campania, l'Unione cronisti della
Campania e il comitato di redazione di E Polis avevano già protestato per
l'episodio, denunciato dallo stesso Migliaccio, e avevano chiesto l'intervento
del sindaco. «Ogni ulteriore ritardo nell'adozione di un provvedimento che
allontani dal servizio Sementa, in attesa delle conclusioni di una rapida
indagine - afferma Iacopino in una nota - potrà essere letto come la
condivisione di un gesto insopportabile se commesso da chiunque e nei confronti
di qualsiasi cittadino, ma estremamente più grave se compiuto da un pubblico
ufficiale che con comportamenti di quel tipo non onora il ruolo che ricopre.
Decida liberamente il sindaco se continuare a restare nella linea che ha portato
lei stessa a definire "sciacalli" i giornalisti durante il funerale di Giorgio
Nugnes». (ANSA).
LA NAZIONE CHE VA A SCATAFASCIO.
«In una nazione dove tutto va
a catafascio, o come dicono alcuni a scatafascio, ossia alla deriva morale e
materiale, il sistema di parassiti le pensa tutte per potersi mantenere vessando
in tutti modi i cittadini, sudditi di una classe dirigente (politica ed
istituzionale) corrotta ed incapace. Classe dirigente che con i media genuflessi
alle cricche induce il paese ad essere governato da nani, ballerine ed oggi
anche da comici. Questo da aggiungersi al sistema di potere cristallizzato di
mafie, lobbies, caste e massonerie. Si sorvola sul fatto che a riformare
l’ordinamento forense ci sono gli stessi avvocati in Parlamento a tutela dei
loro privilegi ed a chiusura della concorrenza (salvo che per amici e parenti),
i medesimi che, oltretutto, sono periodicamente in sciopero per le riforme da
loro stessi predisposte. Ma passiamo oltre. In una Italia dove si sottace
l’usura e l’estorsione di Stato, ovvero la nomina e la retribuzione amicale dei
consulenti dei magistrati. Una nazione, dove il più onesto merita l’Asinara, ci
dimostra che né toghe, né divise possono pretendere l’esclusiva della legalità,
né possono permettersi il monopolio del parlarne agli studenti in incontri nelle
scuole e nei convegni organizzati dalla sinistra – dice il dr Antonio
Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”
www.controtuttelemafie.it,
e scrittore-editore dissidente che ha scritto e pubblicato la collana editoriale
“L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su
Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti dallo stesso autore e
pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono
a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. -
Bene. Detto questo, un
fatto merita di essere conosciuto.
Quando tutto è perduto, e quel
tutto ti accorgi di essere vacuo, non rimane altro che tornare a fare i
contadini. Ma ecco qui. Ci impediscono anche di fare questo. Si passa oltre sul
fatto che il duro lavoro dei nostri antenati di sanificazione dei terreni da
sterpaglie e pietre o di bonifica dalle paludi, al fine di renderli terreni
fertili da coltivare, sia stato reso vano dall’invasione su quelle stesse terre
di pannelli fotovoltaici e del ritorno delle sterpaglie. Truffaldini intenti
ambientalisti di falsa tutela della natura, ma che nasconde l’odio verso gli
umani od addirittura speculazioni mafiose, ci impongono l’invasione di
alternative fonti di energia e ci impediscono di tagliare le sterpaglie, che
oggi sono protette. Oggi tu tagli e pulisci le strade o il podere dai rovi? Giù
multe perché tagli piante protette. Ed ancora. Da sempre i contadini hanno
bruciato nello stesso campo gli avanzi delle potature degli alberi o le foglie
cadute. Oggi tu li bruci? Giù multe perché inquini. Ma il colmo di questa Italia
e che in campagna non ci puoi più proprio andare, salvo che accompagnato dal
commercialista o dal consulente del lavoro, se no giù multe per violazione di
norme sul lavoro.
“Vendemmia amara: 5mila euro
per aver portato il nipote in campagna” è il titolo del fatto avvenuto e
pubblicato su “La
Voce di Manduria”. Un fatto che merita di essere conosciuto in tutta Italia,
perché fatti analoghi succedono in tutto il “Mal Paese”, ma nessuno si degna di
parlarne. “Una multa di cinquemila euro per lo zio e una denuncia penale per i
genitori di un quindicenne che prima dell’inizio dell’anno scolastico si era
recato nella campagna dei parenti per assistere al taglio dell’uva.
Quell’esperienza costerà cara alle due famiglie di agricoltori manduriani che
durante la passata vendemmia in uno dei propri poderi hanno avuto la visita
degli ispettori dell’Ufficio provinciale del lavoro di Taranto. La sanzione
pecuniaria riconosciuta allo zio è per impiego di minore e lavoro irregolare
mentre il papà del ragazzo è in attesa di una contestazione di reato penale per
sfruttamento di lavoro minorile. L’episodio risale al 6 settembre 2012, ma solo
ora è stata notificata l’intimazione a pagare. I protagonisti della vicenda sono
due cugini manduriani che per la campagna dell’uva avevano organizzato il
cantiere di vendemmia, assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano
alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal
cugino e il signor M. oltre alla moglie, componente del nucleo lavorativo
familiare, porta con sé anche il figlio P. Il giovane oltre a frequentare lo
Scientifico di Manduria, studia pianoforte (quinto anno) presso il conservatorio
musicale “Paisiello” di Taranto (scuola privata). P. non ha iniziato ancora le
lezioni in quanto le scuole non erano aperte alla data del 6 settembre. Decide
allora di assistere alla vendemmia. Si mette affianco alla madre senza prendere
parte ai lavori. Lo studente di fatto non vendemmia e questo perché il padre è
un agricoltore che rispetta la legge. Quel giorno però arrivano in campagna gli
ispettori del lavoro (un uomo e una donna), fanno i dovuti controlli e trovano
tutto in regola salvo, per loro, la presenza di P. che viene considerato come un
lavoratore, in quanto ha in mano delle forbici antinfortunistiche. Il tutto
viene contestato dagli ispettori e a domanda al ragazzo se stesse lavorando
Piero risponde di no, dice che si trovava affianco alla madre e non su un filare
di vite e senza un secchio per la raccolta. A non convincere gli ispettori circa
quella casualità è stato l’arnese che aveva tra le mani: le forbici
antinfortunistiche che seppure non adatte al taglio dei grappoli sono state
comunque considerate come un utensile da lavoro.”
Il fatto è successo a
Manduria, comune sciolto ed in odor di infiltrazione mafiosa. Eppure, quando una
denuncia partì dal Dr Antonio Giangrande, anche in occasione di concorsi
pubblici truccati svolti in quel comune, i carabinieri delegati alle indagini
scrissero nel rapporto che tutto quanto denunciato non era vero, anzi, erano
propalazioni del Giangrande ed il magistrato archiviò. Del fatto si occupò la
Gazzetta del Sud Africa e il magistrato per ritorsione denunciò a Potenza il
Giangrande per diffamazione. I magistrati a Potenza furono pronti ad
incriminare.
Vuol dire che è più importate
multare i campagnoli che lottare contro i mafiosi. In questa Italia c’è solo da
vergognarsi di farne parte. Non sanno più da dove prendere i soldi. Se una
famiglia ha un piccolo appezzamento di terreno ereditato dagli avi, coltivato ad
uliveto o vigneto o altro tipo di coltura, ed il capo famiglia portasse con sé
moglie e figli, per raccoglierne i miseri frutti per i bisogni familiari, e
vorrebbe farsi aiutare dai parenti il sabato o la domenica per sbrigarsi prima
perché affaccendato in altre mansioni durante la settimana? Non può. Deve
passare prima dai burocrati che devono stampargli in fronte il timbro della
validazione e pagare tributi e contributi. Aprire la partita iva ed assumere i
parenti con tanto di sfilza di norme da rispettare. Se non lo fa: giù multe e
processi per caporalato. Ma qui ci impediscono addirittura le salutari
scampagnate di una volta. Qui più che non ci sono più le tradizioni di una
volta, mi sa che non c’è più religione. Ed allora sì che la campagna viene
abbandonata, l’unica vera e certa fonte di sostentamento. Che ci invoglino a
rubare e finire in carcere? Almeno lì si mangia e si beve a sgrascio…e multe non
te ne fanno. Ben venga allora quel sonoro vaff… di quel comico che, a quanto
pare, fa ridere meno dei nostri governanti ed aspira a governare un paese
abitato da macchiette colluse e codarde.»
Già Antonio Di Pietro e Beppe
Grillo elevati a salvatori della Patria: stiamo freschi!!!
Chi ha 'ucciso' Antonio Di
Pietro, il cultore della legalità ed amico intimo e tutore dei magistrati? La
colpa non è di Report, ma dei suoi cortigiani che hanno premuto il grilletto
(dopo la batosta in Sicilia), scrive
David Parenzo su “Panorama”.
Report ha davvero ucciso definitivamente il partito fondato da Antonio Di
Pietro? Per individuare i veri assassini dell'Idv bisogna tornare sulla scena
del delitto ed analizzare tutti i dettagli della vicenda. Ripercorrendo la
storia di questo partito si scopre che anche per l'ex Pm di Mani Pulite la
famiglia e' importante e quindi va in qualche modo inglobata nella gestione del
suo stesso movimento. Del resto, quando si è fondatori e leader indiscussi, si
pensa di poter fare tutto e infatti molto e' stato fatto per la grande famiglia
allargata di Tonino. Tutto regolare ma se ci si chiama "Italia dei Valori" un
bel giorno devi mettere in conto che su "quei valori" qualcuno ti chieda
ragione. L'ex governatore della Sicilia Raffaele Lombardo tiene famiglia e
candida il giovane Toti all'Ars, Tonino fece lo stesso con il 35 enne Cristiano
Di Pietro, suo primogenito, al consiglio provinciale di Campobasso. Umberto
Bossi faceva gestire i suoi affari legati alla casa di Gemonio alla moglie
Manuela Marrone (il vero capo del fu "cerchio magico") e lui affida la gestione
del bilancio del suo partito in Lombardia alla prima moglie Isabella Ferrara e
per l'attuale moglie Susanna Mazzoleni c'è pronto un bel posto nella triade
proprietaria dell'associazione Italia dei Valori. Nulla di irregolare, nulla di
penalmente rilevante ma se per anni fondi la ragione sociale del tuo partito
parlando contro i conflitti di interesse, certo qualche piccolo problema, prima
o poi, potrebbe sorgere. Ma la colpa non è di Di Pietro ma di tutti quelli che
lo hanno affiancato in questi anni. Come mai solo oggi uno dei suoi pretoriani
più fedeli, Massimo Donati, lo scarica con parole di fuoco? "Tradito dal
segretario, si comporta come Berlusconi e il suo declino sarà simile" . Il
capogruppo dell'Idv dov'era in tutti questi anni? Forse non sapeva della
gestione padronale del patrimonio del partito? Forse non aveva mai sentito
parlare di un giovanotto chiamato Cristiano Di Pietro? I veri assassini dell'Idv
sono i suoi stessi dirigenti, che oggi provano a capitalizzare la sconfitta del
capo e a trasformare il partito nell'Italia dei Livori. Facile oggi, dopo lo
sbertucciamento della Gabbanelli, sparare sul morto. Lo sapeva anche il trattore
di Montenero di Bisaccia che l'onorevole Cimadoro e' il cognato di Di Pietro,
eppure tutti zitti, tutti sotto coperta ad ossequiare il capo. Ora che Report -
dopo il bagno di sangue delle elezioni in Sicilia - spara, si sappia che a
premere il grilletto però sono stati altri. Tutti coloro che in questi anni
hanno fatto gli struzzi per avere un piccolo strapuntino di potere. Del resto,
come sosteneva il mitico Barone d'Holbach (amico di Diderot) “Un buon cortigiano
non deve mai avere un’opinione personale, ma solamente quella del padrone o del
ministro (… ) Un buon cortigiano non deve mai avere ragione, non è in nessun
caso autorizzato ad essere più brillante del suo padrone (… ) deve tenere
presente che il Sovrano e più in generale l’uomo che sta al comando non ha mai
torto.” Questo hanno fatto gli uomini di Tonino, i suoi veri assassini. Trattasi
di suicido assistito e i medici che hanno iniettato la dose letale si chiamano:
Ivan Rota (cognato di Cimadoro), Silvana Mura, Fabio Evangelisti, Aniello
Formisano, Sergio Piffari ecc..ecc..ecc...una vera equipe che in tutti questi
anni ha contribuito al "suicidio assistito" del gabbiano dei Valori.
Ma Di Pietro ha un amico
interessato. Beppe Grillo. Quando Grillo attaccava Di Pietro. "Ha
fondato l'Idv in una sede sotto sequestro dalla Finanza" spiega un video su
“Repubblica tv” e raccontato da Brunella Bolloli su “Libero
Quotidiano”. L’uomo giusto per il Quirinale, l’uomo «onesto», l’unico
che si è opposto al berlusconismo, insomma Antonio Di Pietro, il nuovo idolo di
Beppe Grillo, l’altra metà della coppia politica del momento, è lo stesso Di
Pietro di cui il comico-urlante parlava qualche tempo fa? Fenomenale lo show che
circola in rete, datato marzo 1998, in cui l’arringatore genovese in una sala
gremita di spettatori paganti attacca senza tregua l’ex pm. «Non so se posso
dirvelo, ma che resti tra noi 8mila...», esordisce sornione. «Lui è un
insegnante di procedura penale e fa le lezioni al Cepu: sarebbe già da
vergognarsi solo per questo». Risate. «Ma la notizia clamorosa è che il Cepu ha
102 sezioni in Italia tutte sotto sequestro dalla Finanza». Grillo carica a
testa bassa: «Il Cepu è imputato di associazione a delinquere, bancarotta,
usura, riciclaggio, e lui ha fondato l’Italia dei Valori in una sede sotto
sequestro dalla Finanza». Scattano gli applausi, il concetto di casta è ancora
lontano da essere sviscerato, ma il comico di “Te la do io l’America” comincia
già ad abbozzare i suoi «vaffa» contro i politici e la corruzione. Tonino, che
proprio nel ’98 dà vita al suo partito puntando sulla legalità, è una delle
prime vittime. Adesso, invece, è la persona giusta per il Colle. Ma in fatto di
coerenza anche l’ex pm non scherza. Come ricorda Claudio Cerasa sul Foglio.it,
solo il 26 aprile scorso Tonino prendeva le distanze dal comico. «Tra me e
Grillo c’è una sola differenza: io critico, ma voglio costruire un’alternativa,
lanciare un modello riformista e legalitario. Lui invece mira a sfasciare tutto
e basta». Come dire: che c’azzecca lui con me? E del resto i grillini
respingevano le avances dei dipietristi, scaricati dalla foto di Vasto, mollati
da Bersani e compagni.
Quella sentenza su Di Pietro
che il comico finge di ignorare. Le debolezze del leader Idv non sono una novità
recente. Già nel '96 i giudici di Brescia accertarono i favori avuti da
inquisiti e il denaro restituito prima di togliersi la toga, scrive
Stefano Filippi su “Il
Giornale”. Adesso, dopo le inchieste, le dimissioni e la Gabanelli, tutti
scoprono chi è davvero Antonio Di Pietro, che peraltro il Giornale ha sempre
raccontato: quello dei valori immobiliari, del partito che non ha mai fatto un
congresso, del finanziamento pubblico «personale» (per statuto notarile l'Idv
appartiene a Tonino e quindi anche i contributi statali). L'equilibrato
magistrato che si offrì di interrogare Silvio Berlusconi con queste parole: «Io
quello lo sfascio». L'uomo dei piccoli favori avuti da inquisiti, ritenuti privi
di valenza penale sebbene accertati da varie sentenze giudiziarie. I 100 milioni
di lire incassati, senza dover corrispondere interessi, dall'assicuratore
inquisito Giancarlo Gorrini, successivamente restituiti con assegni circolari
avvolti in carta di giornale prima di lasciare la magistratura. Altri 100
milioni sempre senza interessi e sempre da un imprenditore inquisito, Antonio
D'Adamo, resi nel 1995 in una scatola da scarpe messa agli atti. Buste di
contanti ancora da D'Adamo e centinaia di milioni da Gorrini, D'Adamo e Franco
Maggiorelli per i debiti di gioco dell'amico Eleuterio Rea. Gorrini era in
ottimi rapporti con Tonino benché fosse indagato per bancarotta fraudolenta e
condannato per appropriazione indebita. E poi le auto. Una Mercedes da 65
milioni avuta da Gorrini (rivenduta all'amico avvocato Giuseppe Lucibello) e
ripagata con altri assegni circolari incassati poco prima delle dimissioni, e
una Lancia Dedra per la moglie da D'Adamo. Le case. Una garçonnière dietro
piazza Duomo messa a disposizione da D'Adamo e riconsegnata all'inizio del 1994
(che, ricordiamo, è l'anno delle dimissioni dalla magistratura); l'utilizzo per
un anno e mezzo di una suite al Residence Mayfair di Roma, dietro via Veneto,
pagata da D'Adamo medesimo; un appartamento acquistato a Curno con denaro avuto
da Gorrini; un appartamento per il collaboratore Rocco Stragapede fornito da
D'Adamo a canone gratuito. I lavoretti per i familiari: per la moglie avvocato,
le pratiche legali dalla Maa assicurazioni di Gorrini e le consulenze da
D'Adamo; per il figlio, un doppio impiego alla Maa. E infine le piccole regalie:
da D'Adamo abiti nelle boutique Tincati, Fimar e Hitman di Milano, telefonini,
biglietti aerei Milano-Roma, un mobile-libreria; da Gorrini agende, penne,
calze, ombrelli, passaggi su voli privati per battute di caccia. Ricorre questa
strana coincidenza: Tonino Di Pietro ha restituito gran parte dei soldi avuti in
prestito da inquisiti alla vigilia del grande gesto di togliersi la toga in
aula. Perché lasciò la magistratura? Anche questa risposta è stata messa per
iscritto in alcune sentenze. Per esempio nei proscioglimenti decretati dai gup
di Brescia Roberto Spanò e Anna Di Martino nei primi mesi del 1996.
Quest'ultima, che doveva decidere sul rinvio a giudizio di Di Pietro per le
accuse di Gorrini, argomentò che l'ex magistrato sarebbe incorso in sanzioni
disciplinari se non avesse lasciato l'ordine giudiziario. Ma la sentenza più
importante è quella del 29 gennaio 1997 depositata il 10 marzo successivo dal
giudice Francesco Maddalo del tribunale di Milano; in questo processo Di Pietro
(era parte lesa) non rispose alle domande del pubblico ministero né interpose
appello al pari delle altre parti. Ecco alcuni passaggi dalle 192 pagine della
sentenza del giudice Maddalo. Pagina 151: «È indubbio che i fatti raccontati da
Gorrini si erano realmente verificati». Pagina 152: «Ne viene fuori un quadro
negativo dell'immagine di Di Pietro (...) fatti specifici che oggettivamente
potevano presentare connotati di indubbia rilevanza disciplinare». Pagina 167:
«Decisiva appare l'intenzione di Di Pietro di intraprendere l'attività politica
ovvero di ottenere incarichi pubblici di maggior rilievo». Pagina 177: «Il
desiderio di lasciare l'incarico giudiziario nel momento di massima popolarità
non poteva non essere funzionale e strumentale ad un successivo sfruttamento di
questa popolarità, proprio in vista di quella progettata attività politica». Di
Pietro non lasciò la toga per difendersi, come ha cercato di far credere (del
resto i fascicoli a suo carico furono aperti successivamente) ma per fare
politica. L'Italia dei valori, mobiliari e immobiliari.
Antonio Di Pietro «è come
Berlusconi io con lui ho rotto definitivamente». Il capogruppo dell'Idv Massimo
Donadi dopo aver minacciato le dimissioni è furioso con Tonino che, spiega in
una intervista all'Unità, «con noi parlava di rilancio del partito, di date del
congresso, poi va al Fatto quotidiano e dichiara sciolto il partito». «Di Pietro
- osserva - stava lavorando da tempo a un percorso di avvicinamento con Grillo
che si è perfezionato dopo un lungo lavorio sotterraneo» perchè «Grillo non
vuole l'Idv, vuole Di Pietro» e «Antonio» ha dimostrato un «cinismo
sconvolgente». Donadi aggiunge poi di sentirsi «truffato e tradito» e spera che
si possa lavorare a una «nuova Idv». Poi «se il partito deciderà di suicidarsi
obbedendo al necrologio di Tonino ognuno sarà libero». In un'intervista a
"Repubblica" Donadi sottolinea che «da politico navigato qual è Di Pietro ha
chiuso un'operazione sulla pelle dell'Idv».
''Di Pietro? E' in campo ormai
da vent'anni, un tempo lunghissimo per un politico. La fine di Berlusconi va
insieme alla fine della carriera politica di Antonio Di Pietro. Lo sa anche lui,
e' uomo dotato di senso critico. E' giusto uscire di scena in questo momento''.
Lo ha detto Michele Emiliano, sindaco di Bari del Pd, al programma radiofonico
'La Zanzara' su Radio24. ''Il Quirinale? Ci ho parlato di recente - dice
Emiliano - e non mi sembra predisposto a fare il presidente. Ora deve spiegare
immobile per immobile come li ha ottenuti, deve fare una prestazione migliore di
quella di Report. Con trasmissioni come quella o ci si prepara bene oppure si
declina l'invito''.
E' come Berlusconi". Questa la
secca e durissima replica di Federica
Salsi all'attacco del leader del Movimento 5 Stelle arrivata
dopo la partecipazione della consigliera comunale a Bologna a Ballarò.
Tra le 5 Stelle, dopo il celebre fuorionda di Giovanni Favia e il
"divincolarsi" del sindaco di Parma,
Federico Pizzarotti, c'è una nuova dissidente: la presa di
posizione della Salsi è arrivata ad Affaritaliani.it. “La gente conosce
il Movimento attraverso il messaggio di Grillo - ha aggiunto -, che si esprime
in modo colorito. Lui fa bene perché deve dare la sveglia", ma "mi spiace che
reagisca così. Siamo delle persone. Altre volte ha espresso apprezzamento per le
mie presenze in tv. Vedo che adesso ha cambiato”.
Ed il sodale Travaglio.
Mazzate di Facci: "Grillo, Bossi, Di Pietro. Ormai è una barzelletta umana".
Marco fa il manettaro solo con Berlusconi, mentre difende Tonino come un Ghedini
qualsiasi. Nessuna novità: non è mai stato credibile, scrive Filippo Facci su “Libero
Quotidiano”. Che noia. C’è un tizio, Marco Travaglio, che vorrebbe in galera
i giornalisti che «dicono il falso» ma che è stato condannato penalmente con
«prova del dolo» e cioè sapendo di diffamare: sentenza del 15 ottobre 2008,
confermata in Appello l’8 gennaio 2010, prescritta il 4 gennaio 2011 senza
l’opposizione del condannato. Uno che però ha scritto un milione di volte che
una prescrizione equivale a una condanna e che ha pure beccato un sacco di
condanne civili. Uno che la mena con l’indipendenza dei giornalisti e però
pubblica solo carte di magistrati coi quali peraltro va in vacanza. Uno che è
andato pure in vacanza con con un tizio poi condannato per favoreggiamento di un
prestanome di Bernardo Provenzano. Uno che la mena coi servi berlusconiani e che
però ha pubblicato due libri con la Mondadori già berlusconiana. Uno che ha
appena fatto un libro che deride chi credeva in Bossi ma che scriveva, con
pseudonimo, sulla Padania. Uno che ha intervistato Grillo e alla fine aveva il
naso marrone. Uno che ricatta i conduttori di talkshow dicendogli che, se c’è il
sottoscritto, non ci sarà lui. Questo tizio, ieri, è riuscito a difendere Di
Pietro scrivendo un articolo infarcito di omissioni e di balle: sembrava un
ghedini minore. Ha detto che Di Pietro è un personaggio che non ha niente da
nascondere: il suo scritto era una barzelletta. Questa sera ne racconta altre.
Una è diventata lui.
"Polizia e carabinieri votano
tutti per il Movimento 5 Stelle perché mi dicono che hanno due coglioni gonfi
così di portare i politici a fare la spesa, accompagnarli ai concerti o a
scopare le loro fighette ...". Lo ha detto Beppe Grillo nel suo ultimo comizio a
Palermo.
Già ma quale polizia? Quella
che ha screditato la nazione?
Sono parole dure quelle che si
leggono nella motivazione della sentenza che il 5 luglio scorso ha confermato le
condanne per gli ex vertici della polizia coinvolti nell'assalto alla scuola
Diaz, dove alloggiavano i no-global e dichiarato prescritti i reati di lesioni
gravi nei confronti di alcuni agenti imputati durante il G8 di Genova nel 2001.
La condotta violenta della polizia nell'irruzione alla scuola Diaz ha «gettato
discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero». A sottolinearlo sono i
giudici della quinta sezione penale della Cassazione, nelle motivazioni della
sentenza con cui.
La sentenza (n. 38085) è stata depositata ed è lunga 186 pagine. Le violenze
della polizia e gli immotivati arresti di massa dei no-global inerti e
innocenti, hanno «gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero».
Già ma quale polizia? Quella
del dossier anonimo?
Viminale, inchiesta sugli
appalti: ecco tutte le accuse del "corvo". I pubblici ministeri di Roma al
lavoro sulle dieci pagine dattiloscritte inviate al ministro Cancellieri:
"Beneficiate sempre le stesse imprese". Sospetti sulle commesse milionarie. Il
ruolo di tre prefetti. Tutto scritto da Carlo Bonini su “La
Repubblica.
Se dovesse
essere vera anche solo la metà delle circostanze che il "corvo" racconta, ciò
che attende il Viminale è uno tsunami. Rivelata ieri da "Repubblica"
1,
la vicenda - conferma solo ora la Procura di Roma - è oggetto ormai da qualche
mese di un'indagine del pool di pm competente per i reati della pubblica
amministrazione (ora coordinato dal procuratore aggiunto Francesco Caporale).
Non fosse altro perché le dieci pagine dattiloscritte che il corvo firma e che,
prima dell'estate scorsa vengono recapitate al ministro dell'interno Cancellieri
(è lei a incaricare il capo della polizia Manganelli di trasmetterle alla
magistratura), squadernano con dovizia di dettagli una storia di macroscopica
corruzione. Il lavoro infedele di "una cricca" - si legge nell'anonimo - agli
ordini di "un puparo": l'attuale vicecapo vicario della Polizia Nicola Izzo, "il
proprietario di tutti i fondi della Polizia di Stato, sia nazionali, sia
provenienti dall'Unione Europea che, spietatamente, controlla tutti gli uffici
delegati alla gestione economica e amministrativa dell'Amministrazione".
"Gallina dalle uova d'oro". Così il corvo battezza la Direzione Centrale per i
servizi tecnico-logistici e la gestione patrimoniale. Un formidabile centro di
spesa che, tra il 2006 e il 2011, vede avvicendarsi al suo vertice tre prefetti.
Nicola Izzo (futuro vicecapo), quindi Giovanna Iurato e infine Giuseppe
Maddalena. I primi due, per altro, già macchiati dal sospetto e indagati da
oltre due anni a Napoli proprio perché accusati di aver pilotato gli appalti per
la realizzazione del Centro Elaborazione dati Nazionale del Viminale. Ebbene, in
quella direzione centrale del Ministero - scrive il corvo - "la casa della legge
diventa luogo prediletto per l'affermazione di interessi personali". "Ci si può
muovere per realizzare interessi personali", grazie a "forme di assegnazione
diretta" di commesse milionarie, coperte da "un ricorso improprio a forme di
segretazione". E non da ieri. "Da anni". "Nel settore delle telecomunicazioni,
delle sale operative, del centro elaborazione interforze, del sistema automatico
per la gestione delle impronte digitali". Un circuito chiuso e impermeabile a
occhi indiscreti, magistratura amministrativa in primis. Di cui - a dire del
corvo - beneficia sempre una stesso drappello di imprese: Sintel, Divitech,
Telecom Italia, Beyond Security. Qualche esempio? "Alla Sintel, il Viminale paga
con fondi comunitari e senza gara, apparati per la polizia stradale (5,4 milioni
di euro), Polizia Penitenziaria (7,1 milioni), Vigili del Fuoco (5,6 milioni)".
"Alla Telecom va il rifacimento di tutte le sale operative della polizia, con la
strategia dello spezzettamento delle commesse". E ancora: "A Varese, senza gara,
per compiacere l'allora ministro Maroni, viene sperimentato un nuovo sistema di
gestione per il 112 europeo" che si aggiunge in parallelo ad un progetto
identico nello scopo, ma diverso nelle tecnologie, "con il risultato di
raddoppiare i finanziamenti. (...) Ma l'importante è soddisfare il ministro e
portare avanti i propri malaffari con soddisfazione degli amici". Quali? Di
Izzo, si è detto. Ma con lui, appunto, il "corvo" ne indica altri. Enzo Roveda,
amministratore della Divitech, Alessandro Spasiano, "consulente tecnologico
riservato della Polizia", Gianfranco Polizzi, proprietario della Sintel, Massimo
Sordilli, funzionario commerciale di Telecom, il prefetto Giuseppe Maddalena.
Quest'ultimo ha lasciato la direzione centrale del Logistico per "raggiunti
limiti di età nell'agosto scorso". In singolare coincidenza con l'arrivo
dell'anonimo sulla scrivania del ministro Cancellieri dell'anonimo. E con
altrettanto singolare coincidenza del rientro a Roma della Iurato (dal 2009
prefetto dell'Aquila), richiamata in sede per essere assegnata ai servizi
ispettivi. Ebbene, Maddalena è accusato dei suoi rapporti con Emilio Meccheri "coproprietario
della Beyond security e già suo testimone di nozze e sodale nei periodi di
ferie". Izzo si dice diffamato e nel parlare di "ignominia" sostiene di "non
occuparsi di appalti" nella sua veste di vicecapo. A ben vedere, lo ha fatto in
passato come direttore centrale del Logistico e come vicecapo è oggi a lui che
risponde il direttore centrale di quella struttura. Il che, evidentemente, non
prova nulla, ma spiega che aria tiri al Viminale in queste ore.
PARLIAMO
DELLA PUBBLICA SICUREZZA
Altro che
Forze dell’Ordine. Rapine, far west Italia.
Per gli assalti ai furgoni
portavalori spesso si usano esplosivi ed armi, soprattutto kalashnikov. Il
periodo migliore è l'inverno. E' come una guerra, quella tra forze dell'ordine
ed i banditi, che vede i colpi in continuo aumento. Dal 2000 al 2008 sono stati
304, dal 2008 al 2011 sono 150: più 12% in tre anni, scrive l’inchiesta di Fabio
Tonacci su “La
Repubblica”. "Per un colpo
sai quando esci, ma non sai mai se ritorni". Stefano ha precedenti penali per
rapina e tentato omicidio. Racconta di un furto a un grande magazzino che, dopo
un conflitto a fuoco con i Carabinieri, gli è costato l'arresto. Da quando ha 14
anni entra e esce dal carcere. Tuttora è detenuto. "La
nostra 'batteria' era di sette persone, abbiamo rubato anche miliardi".
"Con una punta di trapano rompevamo il vetro e prendevamo le valigette di
preziosi". Luigi, detto Gino, ha commesso rapine durante gli anni Ottanta. E per
queste scontato più di 15 anni di carcere. Ha dieci fratelli: due erano
coinvolti nel processo alla banda della Magliana. Entrambi sono stati assolti.
Uno è stato ammazzato da un colpo di pistola alla testa nel '90. Oggi racconta
come si assaltavano i rappresentanti di preziosi. E sugli omicidi che
insanguinano la capitale dice: "Ma che Magliana, oggi si uccide per la cocaina".
Sono bande di
almeno sette persone disposte a tutto per soldi. Per l'assalto al furgone si
usano pistole e fucili. Andrea di Giannantonio, capo dell'Antirapine della
Questura di Roma, dice che oggi si “preferisce” chi porta preziosi.
Tanto onore per Polizia e
Carabinieri. Ma in effetti chi vigila sui nostri patrimoni? Quelle 54mila
guardie giurate che rischiano per 1000 euro al mese. Ricevono paghe bassissime e 79
centesimi al giorno di indennità di rischio. I vigilanti spesso rischiano per
poco. Solo negli ultimi dieci anni ne sono morti 40
IL SETTORE 54 mila guardie giurate 3000 istituti circa. Di questi il 18 % fanno trasporto valori 2,4 miliardi il fatturato annuo 1,2 mln di clienti
RAPINE AI PORTAVALORI 304 dal 2000 al 2008 150 dal 2008 al 2011 454 totali 40 le guardie giurate morte durante assalti ai portavalori
LA PAGA DELLA GUARDIA GIURATA
972 euro al mese 70 centesimi/giorno di indennità di rischio
Rabbia e sangue,
le rapine ai portavalori. Armi e tecnologia, 150 assalti in tre anni.
Trasportano preziosi e
soldi. Per preparare una rapina a un blindato servono mesi. Si studia il
percorso, si fanno appostamenti, si utilizzano armi “dissuasive”. A Roma ci sono
una decina di bande specializzate in questo, la maggior parte composte da
romani. E il reato è in continua crescita: 12% in più dal 2008. Dal 2000 a oggi
è stato ripetuto 450 volte. Il Viminale registra un crollo di questo fenomeno.
Ma è un problema di conteggio. Nelle statistiche spesso rientra nella categoria
di "rapina a mano armata". All’improvviso il traffico sull’autostrada svanisce.
Le macchine che si intravedevano negli specchietti retrovisori spariscono. E’ il
primo segnale, per chi è al volante di un camioncino portavalori, che quella
sarà una brutta giornata. La tecnica dei rapinatori infatti negli anni si è
molto affinata. Ricorda ancora l’assalto alla diligenza del far west, quello
sceneggiato in tanti film. Ma si fa a 150 all’ora, dopo aver isolato il furgone
interrompendo la circolazione agli altri veicoli con l’aiuto di camionisti
compiacenti, carcasse di auto bruciate in mezzo alla strada, catene,
kalashnikov. La rapina, se fatta da professionisti, ha un certo ritmo. Bloccare
la circolazione, inseguire il camion, raggiungerlo, fermarlo, disarmare le
guardie, sfondare il tetto del furgone, afferrare il bottino, scappare. Il tutto
in 4-5 minuti, il tempo a disposizione dei rapinatori prima dell’arrivo della
polizia. Salvo imprevisti. Sulla superstrada SS7 tra Civitanova e Macerata,
pochi giorni fa, è avvenuto l’ultimo episodio di questa battaglia moderna tra
indiani e cowboy, tra banditi pistoleri e guardie che proteggono i soldi di
altri. Due vigilantes stanno guidando un furgone della Fitist Security, uno dei
3000 istituti di vigilanza privata, con centinaia di migliaia di euro in
cassaforte. Alle sei di mattina entrano sulla SS7 e percorrono tre chilometri
dopo l’ingresso di Macerata-Piediripa senza vedere neanche l’ombra di un
veicolo. Mai quel tratto di strada è stato così libero. All’improvviso tre
macchine sbucano a tutta velocità, sparando alle gomme del blindato e verso i
finestrini con pistole e fucili. Riescono a bloccarlo stringendolo con le
automobili, le due guardie giurate si fingono ferite e riescono a premere il
pulsante che avverte il 113. I poliziotti arriveranno in pochi minuti, ma per
guadagnare tempo i rapinatori hanno fermato un tir costringendo l’autista a
sbarrare parte della carreggiata. Il resto l’hanno chiuso con una catena,
appiccando il fuoco ad alcuni pneumatici che si sono portati dietro. Salgono sul
tetto del furgone, la parte più “tenera” perché la doppia blindatura prevista
per legge sui portavalori in quel punto è meno spessa. Con un frullino lo stanno
aprendo, quando scatta un sistema antifurto e il furgone si riempie di un
liquido. L’imprevisto. A quel punto, i cattivi si danno alla fuga. L’assalto di
Macerata è finito senza vittime e i soldi non sono stati rubati. Ma non sempre
va così bene. Dal 2002 al 2008 (ultimo periodo di riferimento delle statistiche
del Sindacato nazionale delle guardie giurate) sono rimasti uccisi 40 vigilantes
nelle rapine con sparatoria. Nello stesso periodo sulle strade italiane, con
particolare frequenza in Campania, Puglia, Lazio, Lombardia, Sardegna e
ultimamente Veneto sono state compiute 304 rapine. Dal 2008 ad oggi, la
situazione è, se possibile, peggiorata. Ci sono state altre 150 rapine con altri
morti tra i colleghi. L’ultimo episodio, finito nel sangue, a Taranto il 19
dicembre scorso. Un uomo di 35 anni, padre di due bambini e dipendente
dell’istituto di vigilanza Vis, è stato ucciso durante una sparatoria da due
rapinatori che lo stavano aspettando davanti a una filiale di banca. “Gli
assalti – stima il sindacato – sono aumentati del 12 per cento in media rispetto
al 2008”. Eppure, secondo l’ultimo Rapporto sulla criminalità e la sicurezza in
Italia elaborato per il ministero dell’Interno, che raccoglie dati fino al 2010,
questo tipo di reato sarebbe in crollo verticale. Le rapine ai trasportatori di
valori bancari crescono nel periodo 1985-1991, poi si riducono del 10 per cento
nel 1992-1999, del 21 per cento nel 2000-2003, addirittura del 62 per cento nel
2004-2006. Lo stesso andamento, più o meno, seguono le rapine a rappresentanti
di preziosi. Una discrepanza evidente rispetto al conteggio fatto da chi guida
quei portavalori e alle cronache dei quotidiani locali, che raccontano invece di
un fenomeno purtroppo ancora molto diffuso. Il calo registrato nelle statistiche
del Viminale si spiega con la diminuzione generale delle rapine dal 1991 ad oggi
(anche se i dati più recenti documentano, nel 2011, un’inversione di tendenza
con un più 15 per cento rispetto all’anno precedente) e, più semplicemente, con
un difetto di rilevazione. Spesso infatti l’assalto ai portavalori finisce nella
più generica categoria di “rapine a mano armata”. Analizzando i dati a
disposizione, viene fuori la “fenomenologia” della rapina ai portavalori. Si
fanno soprattutto in inverno, tra ottobre e gennaio si verifica il 40 per cento
degli assalti. Nel 29 per cento dei casi la rapina fallisce, per la reazione
delle guardie giurate o per l’intervento della polizia. Otto volte su dieci i
banditi usano armi, altrimenti esplosivi tipo C4. Il 58 per cento degli assalti,
infine, viene portato a mezzi in movimento. “Per preparare una rapina a un
blindato – spiega Andrea Di Giannantonio, vicequestore della Squadra Mobile di
Roma – servono mesi. Si deve studiare il percorso, si fanno appostamenti,
servono armi “dissuasive”, come kalashinikov e altri fucili da guerra. A Roma ci
sono una decina di bande specializzate in questo, la maggior parte composte da
romani”. A volte, però, basta una guardia infedele per fare il colpo. Un basista
interno, una spia. Che sappia cosa viene trasportato e dove. Una persona,
dunque, a cui il contatto quotidiano con milioni di euro in banconote o lingotti
fa sembrare ancora più misero il suo stipendio di 972 euro al mese più 70
centesimi al giorno di indennità di rischio. E decide di passare dall’altra
parte. Anche di questi casi sono piene le cronache. A Parma nel 2010 una guardia
giurata è scappata con i 2,5 milioni di euro che trasportava nel suo furgone,
ritirati nel consueto giro di banche e negozi. E a Napoli il 2 febbraio è stato
arrestato un vigilantes ritenuto il basista di una tentata rapina avvenuta il 12
ottobre scorso al caveau della Bsk, l’istituto presso il quale la guardia
lavorava. "Cosa ne penso dell'aumento delle rapine ai portavalori? Che il
governo deve andare a quel paese. Lo scriva, lo scriva...", dice al telefono
Marco Fusco, segretario nazionale del Sindacato guardie giurate. Ci sono 54 mila
vigilates in Italia che, secondo lui, non sono protetti a sufficienza. "Nei
furgoni che guidiamo ci sono anche 5-6 milioni di euro alla volta (nonostante
per legge non possano trasportare più di 2 milioni, ndr), eppure non abbiamo mai
auto della polizia che ci scortino nel viaggio. Il blindato portavalori è
catalogato come mezzo civile, quindi non può infrangere il codice della strada.
Non possiamo ad esempio percorrere la corsia di emergenza in caso di traffico,
non possiamo superare il limite di velocità, non abbiamo nemmeno la sirena, da
attivare in caso di pericolo". Fusco ha più volte richiamato l'attenzione del
precedente governo Berlusconi, con lettere indirizzate all'ex ministro
dell'Interno Maroni e anche al presidente della Camera Fini. Ma non è cambiato
niente, se non l'introduzione dell'obbligo della doppia blindatura dei furgoni,
perché in caso di assalto deve resistere al taglio della lamiera almeno per 4
minuti. Il tempo medio dell'arrivo di una volante. "Noi vogliamo una cosa sola:
la scorta con macchine della polizia. Perché non si può fare sempre l'eroe
contro i rapinatori. Perché capita di morire". Per 972 euro al mese, e una
misera indennità di rischio.
VIGILANTES:
TANTI ONERI, POCO ONORE. FANNO QUELLO CHE I FUNZIONARI DELLO STATO DOVREBBERO
FARE: TUTELARE LA PROPRIETA’, MA SONO TRATTATI CON DISPREZZO DALLE COSIDDETTE
FORZE DELL’ORDINE, VINCITORI DI CONCORSI PUBBLICI ALL’ITALIANA. I VIGILANTES
SONO NESSUNO, PERCHE’ NON SONO LO STATO, PUR FACENDO QUELLO CHE DOVREBBE FARE LO
STATO.
Figli di un dio minore,
scrive Leandro Abeille su “Polizia
e Democrazia”. I cosiddetti “vigilantes” stanno vivendo momenti di
particolare incertezza e frustrazione. Eppure il mercato della sicurezza
privata, in Italia, si aggira sui due miliardi di euro l’anno. Due anni prima
dell’attentato alle Torri Gemelle, molto prima che la domanda di sicurezza dei
cittadini diventasse un affare miliardario, Giovanni Aliquò, Segretario dell’
Associazione Nazionale Funzionari di Polizia - Anfp in una lettera (Prot
0043/99/SN del 1/4/1999) all’allora Capo della Polizia, Fernando Masone,
dichiarava: “in barba alle disposizioni di legge e contrattuali vigenti, le
Guardie Giurate possono essere mandate in servizio in condizioni di assoluta
insicurezza, isolate, prive di idonei indumenti protettivi, di apparati radio,
del necessario addestramento e dell’istruzione minima – e obbligatoria – su
diritti e doveri degli operatori della vigilanza. Basterebbe operare, invero,
un’elementare ricognizione dei mezzi che certi Istituti mettono a disposizione
delle Guardie per comprendere come la stessa vita umana, prima ancora che la
dignità del lavoratore, possa passare in second’ordine dinanzi alla logica del
profitto”. Ed ancora, “Turni massacranti, mancanza assoluta di disposizioni
scritte sul servizio e di corsi di addestramento pratico, vigilanze ad agenzie
bancarie svolte in abiti civili, piantonamenti isolati ad obiettivi estremamente
sensibili, giovani, neoassunti con contratto di formazione, investiti, senza
alcuna esperienza, della responsabilità di delicatissimi e pericolosi servizi.
Sono queste le assurde condizioni di lavoro, comuni alla maggioranza delle
Guardie Giurate, che ingigantiscono l’esposizione al pericolo e fanno venir meno
il diritto alla sicurezza del lavoratore, lasciando anche spazi indebiti alla
concorrenza sleale tra Istituti”. Nel 2005, sei anni dopo queste dichiarazioni,
ecco la condizione delle Guardie particolari Giurate, dipendenti degli Istituti
di vigilanza.
La storia, le leggi, le
funzioni. Chi siano le Guardie particolari Giurate è ancora oggetto di
discussione tra la dottrina giurisprudenziale, le Forze di polizia e loro
stessi. E’ oscura anche la loro la provenienza e metamorfosi storiche, c’è chi
le fa discendere dai tres viri nocturni dei romani precristiani e chi invece, li
spinge più avanti nel tempo definendoli i successori dei “bravi” di manzoniana
memoria. La prima legge italiana in materia è quella del 20 marzo 1865 n. 2248,
che dava la possibilità di nominare Guardie particolari da destinare alla
custodia della proprietà terriera. Con la legge n. 7321 del 1890, si estendeva
la possibilità di vigilare anche le proprietà dei Comuni e dei corpi morali. Con
la legge n. 690 del 1907 (T.U. sugli Ufficiali ed Agenti di Pubblica sicurezza),
si attribuì ai privati, ai corpi morali ed ai Comuni la facoltà di chiedere
l'approvazione della nomina di “Guardie particolari Giurate” per custodire le
loro proprietà. Più tardi il R.D. n. 562 del 1914 regolava gli Istituti di
vigilanza e custodia della proprietà mobiliare ed immobiliare altrui. E’ però
con il Testo Unico delle leggi di Pubblica sicurezza (Tulps), approvato con R.D.
n. 773 del 1931, che le Guardie particolari Giurate prendono la forma attuale.
E’ questo il testo che stabilisce gli attuali diritti e doveri degli Istituti di
vigilanza e delle Guardie particolari Giurate come ad esempio l’essere tenuti a
prestare la loro opera ad ogni richiesta dell'autorità di Polizia (art.139).
Dopo circa 70 anni la legge non è cambiata, le Guardie particolari Giurate sono
nominate dal Prefetto, su proposta degli enti autorizzati, giurano innanzi al
sindaco e come novellano R.D.L. n.1952 del 26.19/1935 convertito in legge n.508,
del 19/3/1936 e il R.D.L. n.2144 del 12/11/1936, sono sottoposti all’autorità
disciplinare del questore sia gli istituti che le GpG. A tal fine è il questore
della provincia, dove hanno sede gli Istituti, che emana apposito regolamento il
quale disciplina non tanto il lavoratore, ma la persona con lo status di Guardia
particolare Giurata. Eventuali inosservanze dei doveri o carenze da parte del
personale, in quanto lavoratori, sono rilevate, dal datore di lavoro che in
relazione all'entità delle mancanze ed alle circostanze può, dopo adeguata
procedura garantita per legge, irrogare sanzioni disciplinari. Il Tulps prevede
che “possono essere oggetto di vigilanza privata unicamente i beni, mobili e
immobili, determinati, mentre la tutela dell’integritá fisica delle persone
rimane esclusiva delle Forze di polizia” (G. Calesini, Leggi di P.S. e illeciti
amministrativi, Laurus Robuffo), se ne ricava che le GpG possono esercitare l’attivitá
di vigilanza, direttamente alle dipendenze di privati proprietari, di enti
pubblici o enti collettivi, dei privati tra loro associati, oppure,
indirettamente alle dipendenze di Istituti di vigilanza, i quali stipulano un
contratto con i proprietari dei beni (art. 133 e s. Tulps). In tutta Italia sono
800 gli Istituti di vigilanza, forti di un organico di quasi 36.000 unità,
forniscono una serie ampia di servizi:
- attivitá di sicurezza delle aziende (supermercati, banche, fabbriche etc.) e
di organismi extraterritoriali (ambasciate, sedi Onu, etc.);
- trasporto e scorta valori;
- vigilanza e videocontrollo a distanza;
- gestione dei servizi antifurto;
- sistemi centralizzati di teleallarme;
- telesoccorso;
- radiomobili di pronto intervento.
Il profilo della GpG. Per
diventare una GpG, bisogna essere cittadino italiano o di un paese membro della
Ue, avere raggiunto la maggiore età, aver adempiuto agli obblighi di leva
(adempiuto, non vuol dire necessariamente, svolto), saper leggere e scrivere,
non aver riportato condanna per delitto, essere persona di buona condotta
morale, essere munito di carta d’identità, essere iscritto alla Cassa nazionale
delle assicurazioni sociali e a quella degli infortuni sul lavoro (138 Tulps).
Sulla qualificazione giuridica delle GpG esistono 4 correnti che le collocano
rispettivamente nei: Pubblici ufficiali, Agenti di Polizia giudiziaria,
Incaricati di pubblico servizio, Privati cittadini. Una svolta, nel coacervo
delle interpretazioni, sembra essere stata data dalla Cassazione, la quale, ha
“ritenuto che in virtú dell’art. 358 C.p. sostituito dalla legge 26 aprile 1990
n. 26, alla Guardia Giurata deve attribuirsi non la qualifica di pubblico
ufficiale ma quella d’incaricato di pubblico servizio” (G. Calesini, Op. Cit.).
Fanno ovviamente eccezione a questa definizione gli agenti venatori o quelli
delegati alla sorveglianza ittica o le GpG direttamente dipendenti da
Amministrazioni pubbliche o anche, quelle chiamate a prestare la loro opera a
richiesta dell’Autorità di Ps. Secondo una stima di D. Rizzo il 97% delle GpG
sono uomini e solo il 3% donne, il 70% sono coniugate, l’età media si aggira
intorno ai 35-40 anni. L’80% delle GpG è in possesso di licenza di scuola media
inferiore, il restante 20% sono diplomati, i laureati sono statisticamente
inconsistenti (Tam Tam, n.1, gennaio 2002). In accordo con il Contratto
collettivo nazionale di lavoro dell’8/1/2002 (Contratto collettivo nazionale di
lavoro per i dipendenti da Istituti di vigilanza privata), le GpG lavorano tra
le 7 e le 7,15 (art. 64 e ss) ore giornaliere, a seconda del sistema di
turnazione scelto, possono avere un giorno di riposo ogni 5 (sistema 5 + 1) con
25 giorni di ferie, o, due giorni ogni 6 (sistema 6 +1+1) con 23 giorni di ferie
(art. 71). Le GpG percepiscono la 13^ e 14^ mensilità (art. 56) e grazie alla
contrattazione decentrata, anche i buoni pasto. Il contratto ovviamente
riconosce tutti i diritti di legge, quali, ad esempio, il congedo matrimoniale o
i permessi studio (artt. 84 e ss.). In passato le GpG non erano considerate con
le loro peculiarità e specificità e venivano inquadrate presso gli uffici di
collocamento come operai generici. Ora invece, sono state riconosciute le
adeguate differenze rispetto ad altri prestatori d’opera e le GpG presso gli
uffici di collocamento, trovano il loro spazio in una lista speciale che le
qualifica con maggior precisione. Fin qui il mondo delle GpG sembra disciplinato
e sicuro, ma i fatti ci raccontano un’altra storia. Le GpG stanno vivendo un
momento di particolare incertezza e frustrazione, dai forum aperti su Internet,
si evince una condizione frustrante, per un mondo dove regna l’anomia e
l’incertezza. Molte GpG si lamentano della poca considerazione (quando non
ilaritá) che ricevono dalle Forze dell’ordine e dai cittadini, da cui, per il
48,9%, si sente disprezzato (sondaggio: www.guardiegiurate.net), si chiedono chi
sono, o quali sono i loro poteri quando in servizio, nelle metropolitane, nelle
caserme, negli aeroporti. Il 35% considera la sua formazione così insufficiente
che spesso, durante il servizio, non sa cosa fare (sondaggio:
www.guardiegiurate.net). Hanno poca fiducia delle Istituzioni e tra di esse, si
fidano più dei Carabinieri (23,9%) che dei sindacati (6,4%), della Polizia
amministrativa che li gestisce (5,5%) e ancora meno (2,1%) della Prefettura
(sondaggio: www.guardiegiurate.net). La gente: i fruitori dei servizi bancari,
dei supermercati, i dipendenti delle fabbriche, gli utenti della strada, ha
varie percezioni delle GpG, spesso poco positive. Percezioni, quando negative,
provocate da distorte valutazioni di persone che, non conoscono il lavoro delle
Guardie, ma anche, dai comportamenti, a volte vessatori, che queste ultime
hanno, nei confronti dei cittadini. Al non idilliaco rapporto tra GpG e
cittadini, non aiuta la definizione di “sceriffi” che i giornali e la
televisione, troppo spesso, danno delle GpG. Non aiutano neanche i comportamenti
di quei “ragazzi giovani ed inesperti che con la divisa e la pistola pensano di
essere dei veri e propri sceriffi” (cfr. le dichiarazioni della GpG anonima a
Piergiorgio Giacovazzo in Tg2 Costume e Società). La situazione reale è diversa.
Per ogni “sceriffo”, c’è un onesto lavoratore che, ogni giorno, in mezzo a mille
difficoltà cerca di assicurare non solo la nostra sicurezza patrimoniale ma
rappresenta anche una “vigilanza” in più contro la criminalità. Occhi vigili,
come quelli della GpG in servizio antirapina presso una banca di Milano la quale
ha filmato, per alcuni istanti, un gruppo di rom ed una bambina chiamata “Danàs”,
sosia di “Denise”, la bambina scomparsa a Mazara del Vallo. I nomadi accortisi
delle attenzioni di questo “vigilantes” sono scappati, senza attendere l’arrivo
della Polizia che era già stata avvisata. Perché la GpG non abbia inseguito,
quella che credeva essere Denise, bambina sequestrata e non abbia arrestato
(come facoltà di tutti i privati cittadini per questo tipo di reati, art.383
C.p.p.) chi la deteneva, rimane un mistero. Probabilmente nella mente della GpG
si sono materializzati una serie di aporie: potrò inseguirla? Potrò lasciare il
posto di servizio per liberarla? Sarà veramente lei? Quali poteri ho per
intimare l’alt a queste persone? Tanti problemi, forse troppi e quella che
poteva essere Denise è fuggita insieme a loro. All’interno del “pianeta GpG” ci
sono le “pecore nere”, i “lecchini”, quelli che stanno “caldi”, ma anche
lavoratori che muoiono per difendere i beni altrui, che soffrono l’harrasment
(persecuzione) degli Istituti di vigilanza, dei colleghi e dei superiori,
vedendo spesso il loro posto di lavoro a rischio. Le GpG lavorano tanto, più di
quanto ci si immagini. Secondo il Savip circa il 70% delle GpG lavora 12 ore al
giorno, non c’è allora da meravigliarsi che con turni così lunghi quasi il 90%
percepisca di avere poco tempo per la famiglia (cfr. www.savip.it), due ore al
giorno, considerando 8 ore di riposo e due per i pasti e necessità fisiche
quotidiane. L’incertezza percepita dalle GpG nasce, a volte da vuoti
legislativi, a volte dagli interessi di qualche Istituto di vigilanza che ha
poco a cuore i propri dipendenti, a volte da necessitá economiche o lavorative,
a volte dalla mancanza di addestramento e di istruzione, a volte dalla
sensazione di essere utili solo come “bersagli” per malviventi sempre più
organizzati. I problemi sono svariati eccone alcuni. Non di rado le esigenze
operative delle GpG contrastano con la legge. Se si trasportano milioni di euro
su un furgone, sì blindato ma non a prova di tutto, rimanere imbottigliati nel
traffico cittadino potrebbe rappresentare un problema, in quanto, più si è fermi
o lenti, più si diventa facile bersaglio per i malintenzionati. A volte allora,
i trasporti valori viaggiano sulle corsie preferenziali o si fanno largo in
mezzo al traffico con i sistemi acustici di allarme accesi come se fossero una
sirena. Infrazioni al Codice della Strada necessarie, dettate da esigenze di
sicurezza, secondo le GpG, semplici infrazioni da sanzionare secondo le Forze
dell’ordine, che a volte, comprensibilmente chiudono un occhio. Quando i tutori
dell’ordine non si dimostrano comprensivi, succede che le GpG si vedano azzerati
i punti patente (La Stampa, 19/05/2004). Nessuno pensa che, senza la patente,
non si può guidare, senza poter guidare, non si può lavorare. Diritto al
profitto o diritto dei lavoratori? Il mercato della sicurezza in Italia, si
aggira attorno ai 2 miliardi di euro annui. A volte per massimizzare i profitti,
certi Istituti di vigilanza utilizzano il personale per scopi diversi rispetto
allo status di GpG, attuando inaudite forme di discriminazione e persecuzione.
Nel 2002 per alcuni giorni, delle GpG con tanto di divisa ed arma d’ordinanza
aprivano i cancelli di alcune ville milanesi e prelevavano i sacchi
dell’immondizia dai giardini per depositarli sul marciapiede, dove gli operatori
ecologici provvedono a raccoglierli (il Giornale, 06/02/2002). Delle GpG non
autorizzate, perché non in possesso dei requisiti di legge, sono state assunte
ugualmente da un Istituto di vigilanza che aveva in appalto la sicurezza
dell’aeroporto di Malpensa, facendo servizio in uniforme, con pistole giocattolo
in fondina (Corriere della Sera, 12.06.2004). Un titolare di un’agenzia di
vigilanza, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, avrebbe secondo la
Guardia di Finanza, costretto delle GpG a rinunciare ai compensi mensili e al
pagamento degli straordinari, nonché alla tredicesima e alla quattordicesima
mensilità pena le contestazioni disciplinari fino all’eventuale licenziamento o
(Il Crotonese.it, 27/07/2004). A Roma una GpG è morta a causa di un malore
improvviso. Se ne è accorta un'altra GpG di passaggio che ha chiamato
un’ambulanza, ma ormai l’uomo era morto (Corriere della Sera, 7.10.2005). Forse
se fossero stati in due, come previsto dal Contratto nazionale, il collega
avrebbe potuto chiamare dei soccorsi o dirigersi verso il primo pronto soccorso
ma non é successo ed una persona è morta. Spesso le discriminazioni sono vere e
proprie violazioni dei diritti umani. Alcuni dirigenti di un Istituto di
Palermo, i quali, per non attuare più un comportamento vessatorio verso una GpG
ed infine non licenziarlo, hanno richiesto, in una sorta di rediviva jus primae
noctis, le prestazioni sessuali della moglie (La Stampa, 7 giugno 2001). Una GpG
del vercellese è stata licenziata, dopo 20 anni d’onorato servizio, perché a
causa dell’applicazione di un peace-maker, non poteva più indossare il giubbotto
antiproiettile (La Stampa, 18/10/2002). Orario di lavoro e tempo di vita. Lo
stipendio delle GpG non è alto, rispetto ai rischi e allo stress lavorativo. Una
GpG guadagna, dopo 3 anni d’anzianità, circa 1.160 euro lordi, che si
trasformano al netto in circa 850 euro (Titolo VIII, Ccnl). Per raggiungere uno
stipendio dignitoso, di almeno 1.000 euro, una GpG dovrà lavorare ulteriori 30
ore, considerando che il netto di un’ora di straordinario si aggira intorno ai 5
euro. Gli straordinari diventano una voce importante dello stipendio delle GpG a
scapito peró del benessere fisico degli uomini e del livello d’attenzione che va
a scemare giá dopo circa 4 ore di servizio, figuriamoci con turni di 12-14 ore.
Secondo un sondaggio del Savip (Sindacato Autonomo della Vigilanza Privata), il
68,81% delle GpG effettua turni di 12 ore (visto il 23/8/2005). Secondo un altro
sondaggio il 9,9% delle GpG non esegue straordinario, il 24,5% un’ora al giorno,
il 17,4% due ore al giorno, l’8,1% tre ore al giorno, il 12,1% quattro ore al
giorno, il 12,9% cinque ore al giorno, il 7,7% sei ore al giorno, il 7.5% piú
che puó (www.guardiegiurate.net, tutti i sondaggi del sito visitati il
13/09/2005). Il record d’ore di straordinario in un mese che, è stato possibile
registrare, è di 296 ore, effettuate da una GpG soprannominata “il vecchio”,
impiegato presso un Istituto di vigilanza di Roma. Una GpG a Roma è finita in
coma per un incidente stradale provocato da un colpo di sonno dopo un servizio
ininterrotto di 12 ore dalle 18 alle 6 di mattina (Corriere della sera,
26/04/2004). Tra pecore nere e squali bianchi. Esiste quello che si potrebbe
definire il “paradosso dell’impiego” negli Istituti di vigilanza, infatti quando
è la singola a compiere degli illeciti ne paga le conseguenze, quando invece è
l’Istituto chi ne soffre sono sempre le GpG. Alcune GpG a Brindisi secondo i
Carabinieri, rubavano, piazzavano ordigni esplosivi, compivano incendi ed
estorsioni utilizzando anche le autovetture di servizio, sulle quali facevano
salire anche i pregiudicati (La Provincia.it, 08/02/2005). Secondo la PolStrada,
tre Guardie Giurate hanno rubato, circa 50.000 euro provenienti dai caselli
autostradali (Il Messaggero, 28/05/2005). Una GpG ha confessato alla Polizia di
aver rubato 10.000 euro ai magazzini Ikea di Firenze per poter passare un bel
Natale (La Repubblica, 19/12/2005). Delle GpG spacciavano droga in un
supermercato a Varese (AdnK, 19/07/2005). Tutte le suddette Guardie Giurate sono
state arrestate mentre gli Istituti proseguono le normali attività. Che gli
Istituti, attraverso i controlli dei servizi, non siano riusciti, per proprio
conto, a smascherare queste “pecore nere” appare grave. Considerando la
percezione che ne hanno le GpG, il numero dei rapporti disciplinari ed il numero
di rapine, sembra quasi che, i controlli giornalieri effettuati dai “graduati”
siano piú vessatori rispetto ai lavoratori, invece di essere un supporto all’attivitá
giornaliera delle Guardie volta alla sicurezza di tutti. Ecco il paradosso: il
giudice, in seguito ad alcuni illeciti, sospende la licenza ad un Istituto di
vigilanza e i 100 GpG impiegati rimangono senza lavoro (La Repubblica,
19/11/2002). Il mondo degli Istituti di vigilanza non è tutto nella legalitá,
Giovanni Aliquó (Anfp), al congresso SicurEur-Ope 2005 parla di un “settore
ampiamente inquinato… che dovrebbe essere alla ricerca di un diverso e superiore
livello etico nell’attività imprenditoriale” (La Ronda, n. 6, giugno 2005).
Parla di cose di questo pianeta, il funzionario di Polizia, eccone alcuni
esempi:
- un Istituto di vigilanza secondo la Guardia di Finanza, avrebbe truffato circa
33 miliardi di lire all’erario, perché risultava, non essendolo, ente morale,
beneficiando illegalmente degli sgravi fiscali di legge (Il Messaggero,
13/05/2000);
- secondo la Guardia di Finanza un Istituto di vigilanza ha evaso il fisco per
630.593,87 euro di mancati versamenti Iva (La Stampa, 04/01/2002);
- un Istituto di vigilanza è sotto accusa per aver truccato una gara d’appalto
con il ministero della Difesa, per la sorveglianza di siti militari (Corriere
della Sera, 29/08/2004);
- un Istituto di vigilanza che aveva l’appalto per la sorveglianza nei parchi di
Milano, mandava un numero inferiore di GpG rispetto a quelli previsti dal
contratto (Corriere della Sera, 3/04/2004);
- il 48,8% delle GpG, nonostante sia vietato dal regolamento delle questure, usa
la propria macchina (e non come previsto quella dell’Istituto) per eseguire i
piantonamenti fissi (sondaggi: www-guardiegiurate.net ).
Dove stanno i criminali? Il
lavoro di GpG è, anche, un lavoro pericoloso. Bisogna sottolineare “anche”
perché dopo gli esempi già descritti quello dei malviventi che, dovrebbe essere
il primo problema, è relegato in fondo. I giornali non danno molto spazio alle
GpG morte o ferite anche se sono tante, a causa di rapine in banca, ai
portavalori nelle aziende. Fa più notizia la GpG che organizza una rapina al
furgone dei suoi colleghi o che ruba nel caveau del suo stesso istituto che le
GpG uccise, sequestrate, malmenate, per aver fatto il proprio dovere. C’è
qualcosa che non va nel sistema della vigilanza privata fatta di soprusi
quotidiani, di disservizi e di illegalità, si conosce poco di questa faccia
povera rispetto alle “rapine miliardarie” che invece trovano ampio spazio nei
mass media. Sindacato e sciopero. Se Marx scrivesse oggi la sua opera
maggiore,“Il Capitale”, probabilmente, dedicherebbe un capitolo al concetto di
alienazione associandolo alle GpG. Secondo un sondaggio del Savip il 77,85%
delle GpG è insoddisfatto per il trattamento ricevuto dall’azienda (visto il
23/8/2005). Per guardiegiurate.it, il 62,2% delle GpG non si sente tutelato dal
proprio Istituto, l’80% dei contattati ha percepito del mobbing nei suoi
confronti da parte dell’azienda, spesso per ottenere servigi (22%), nonostante
tutto, il 39,5% crede ancora nella propria professione. La qualità del lavoro
delle GpG in Italia è al di sotto di standards accettabili. Il 47,7% delle GpG
fa servizio solo di notte mentre il 36,2% è obbligato dalle aziende a saltare i
riposi settimanali. Il contratto nazionale è scaduto il 30/4/2004 e per il nuovo
ci sarà ancora da aspettare. Sembra che la situazione descritta da Giovanni
Aliquò nel 1999 non sia cambiata di molto e per certi versi è anche peggiorata,
tuttavia, quello che non si evince dalle statistiche si percepisce parlando con
le GpG. Le GpG dipendenti di Istituti privati vivono ai limiti della
sopportabilità umana, si tratta di un mondo costituito da soggetti dis-uniti in
cui ognuno vive, alla giornata, come può. Tra la possibilità di un turno
straordinario in più e la ricerca di un posto “al caldo” cercando di evitare le
rapine ed il “fuoco amico”, quel fenomeno che include le decine di GpG ferite ed
uccise dai colleghi, per incidenti dovuti alla poca maturità di alcuni e,
soprattutto, per la scarsa esperienza al maneggio delle armi da fuoco. Le parole
“sindacato” e “sciopero” sono spesso sconosciute ai più. Nonostante questo,
molte GpG si sono unite per dar vita a movimenti che rivendichino i loro giusti
diritti, lottando contro alcuni Istituti esclusivamente money-oriented e la
mentalità rinunciataria, di alcuni loro colleghi, volta al mantenimento dello
status quo. La passività rispetto ai problemi, rende inermi di fronte alle
ingiustizie, rimane solo la speranza che un giorno qualcosa cambi. Non cambia
nulla senza una decisa presa di volontà, senza che si rischi del proprio perché
la propria situazione cambi. Lo ha dimostrato la Polizia di Stato nella lotta
per la smilitarizzazione e la democratizzazione, con una forte base, con dei
veri leader della protesta, con la voglia di cambiare, con la fermezza di chi è
nel giusto, i risultati si ottengono e le giuste rivendicazioni vengono
ascoltate. Chinare la testa per qualche ora di straordinario o un posto “caldo”,
non fa che peggiorare la situazione, per il benessere di un singolo si condanna
al malessere tutti gli altri. Un intervento legislativo ed una maggiore
attenzione di chi deve vigilare sul mondo delle GpG è auspicabile ma se il
malcontento non si veicola in giuste e precise rivendicazioni di tutte le GpG,
non ci si potrà aspettare un cambiamento favorevole per i lavoratori. Homo
homini lupus, diceva Hobbes, è quello che succede tra le GpG, quando ognuno
guarda il suo orticello. Tuttavia come insegnano tutti i Corpi militari d’èlite
dai Navy Seals ai Parà, chi fa morire il suo collega, muore a sua volta, ne
deriva che, chi non si preoccupa della vita del proprio collega, in fondo, non
si preoccupa neanche della propria. Esattamente quanto accade tra le GpG.
Inchiesta di
Valerio Teodonio e Fabio Tonacci su “La
Repubblica”.
Avere un secondo lavoro è vietato ai poliziotti. A meno che non sia
occasionale e autorizzato. Ma molti non riescono ad arrivare a fine mese e sono
costretti a vivere nell'illegalità. Antonio, in polizia da 20 anni, ha accettato
di raccontare il fenomeno, che riguarda migliaia di agenti: «Sono spesso lavori
faticosi - dice - come il muratore. Ma lo stipendio non basta, ottenere i
permessi è difficile, e per tirare avanti i miei colleghi devono per forza avere
un'attività in nero».
Un agente di polizia italiano appena assunto prende 1200 euro netti al mese. Lo
stesso vale per gli agenti della penitenziaria, della forestale, per carabinieri
e i finanzieri. Il collega tedesco del Bundeskriminalamt, la polizia criminale
federale della Germania, con lo stesso grado e la stessa anzianità percepisce
1626 euro. In Francia, un agente appena assunto nella Police Nationale guadagna
1683 euro. Il corrispettivo spagnolo 1420, in Gran Bretagna addirittura 2516
sterline (3200 euro), che diventano 3171 (4000 euro) dopo i primi dieci anni.
POLIZIA DI STATO: 102.561
(unità effettive 95.616)
836 dirigenti
2.142 direttivi
92.638 non direttivi
(ispettori, assistenti, sovrintendenti, agenti)
CARABINIERI: 114.778
3.797 ufficiali
29.531 marescialli
20.000 brigadieri
61.450 appuntati e carabinieri
GUARDIA DI FINANZA: 68.000
3.000 ufficiali
23.000 ispettori
13.000 sovrintendenti
28.000 appuntati finanzieri
VIGILI DEL FUOCO: 31.634
160 dirigenti
558 direttivi
558 sostituti direttori ed
ispettori 2
6.425 vigili, capi squadra,
capi reparto
3.656 amministrativi
ESERCITO: 108.155
13.174 ufficiali
25.916 sottufficiali
(marescialli e sergenti)
31.120 graduati di truppa
68.170 militari di truppa
895 allievi
Poliziotti di
giorno, camerieri di notte così la crisi (im)piega le forze dell'ordine.
Finanzieri che fanno i camerieri, vigili del fuoco che mettono infissi,
poliziotti elettricisti e pizzaioli. Agenti massaggiatori di shiatsu o
istruttori di palestra. Qualcuno autorizzato, la maggior parte di nascosto.
Almeno il 30 per cento dei dipendenti pubblici impiegati nella pubblica
sicurezza svolge abitualmente un altro impiego part-time. Il problema è che con
gli stipendi bassi si fatica ad arrivare a fine mese, e l'accesso al credito è
diminuito. L'appuntato Pietro è stanco. La sua doppia vita lo sta sfinendo. «Ma
non ho scelta - racconta mentre si toglie la divisa da carabiniere - ho due
figli all'università, li devo pur mantenere in qualche modo, no?». Sono le 7 di
mattina, un martedì di luglio a Napoli, già si boccheggia per l'afa. Pietro è
appena rientrato a casa, tra un'ora lo aspettano in un appartamento da
ristrutturare. Oggi gli toccano le tracce degli impianti elettrici. Ha 51 anni,
gli occhi arrossati per la nottata di pattuglia, la voce arsa dalle sigarette. E
uno stipendio che, dopo 25 anni di servizio nell'Arma, non supera i 1600 euro.
"Pochi per mantenere la famiglia". E così, dopo il caffè, indossa la sua seconda
vita di muratore, al nero. «Vado a dare una mano nei piccoli cantieri tutte le
volte che i turni me lo permettono - racconta, ora che addosso ha una vecchia
tuta macchiata di calcina - è illegale e rischio il posto, lo so. Ma senza quei
300 euro in più al mese non ce la faccio. E come me, tanti miei colleghi.
Conosco finanzieri che fanno i camerieri, vigili del fuoco che mettono infissi,
poliziotti pizzaioli, massaggiatori di shiatsu o istruttori di palestra». I
servitori dello Stato deputati alla nostra sicurezza, dunque, si trovano a fare
i conti con mafiosi, criminali e quarte settimane che sembrano non arrivare mai.
Ma in quanti hanno un secondo lavoro?
LA SECOND LIFE DEI
POLIZIOTTI. La cifra la dice Massimiliano Acerra, dirigente nazionale e
responsabile ufficio studi del sindacato di polizia Coisp. «Almeno il 30 per
cento dei dipendenti pubblici impiegati nelle forze dell'ordine svolge
abitualmente un altro impiego part time». Tre su dieci. Sono centomila persone,
solo considerando carabinieri, poliziotti e finanzieri. «E tra appuntati e
brigadieri, tra agenti e assistenti di polizia - continua Acerra, che
sull'argomento ha scritto il manuale "Prestazioni occasionali" - la media arriva
fino al 40-50 per cento. In pochissimi però, non più di uno su dieci, hanno
l'autorizzazione del ministero». Dunque è tra i gradi più bassi e meno
remunerati della scala gerarchica che bisogna cercare per trovare le storie
degli statali con la doppia vita lavorativa. E di storie, appena si garantisce
l'anonimato, ne saltano fuori parecchie. Da nord a sud. Francesco, 46 anni,
romano, è uno dei 39 mila assistenti della Polizia di stato. Lavora in un
reparto speciale. «Siamo circa una quarantina in servizio - racconta - e a
quanto ne so quasi tutti fanno qualcos'altro fuori dai turni». Lui in
particolare ha una bancarella di collanine al mercato. Venditore ambulante. Il
suo collega di reparto, Saverio, molisano, 39 anni e una laurea in
Giurisprudenza, quando non è di pattuglia collabora con uno studio legale. «Per
legge non posso iscrivermi all'albo degli avvocati - spiega - però conosco la
materia, e con i seicento euro che mi danno ci pago le tasse». Qualcuno apre una
propria attività, durante gli anni di servizio. «Per coprire il mutuo ho messo
in piedi un bed & breakfast - racconta Filippo, primo maresciallo dell'Esercito
di stanza a Torino - affittavo la camera degli ospiti. Ho anche chiesto
l'autorizzazione al ministero della Difesa. Ero sicuro che mi avrebbero concesso
il permesso, era un'occupazione saltuaria. Invece quando l'hanno saputo mi hanno
mandato la finanza e mi hanno costretto a restituire all'amministrazione
militare tutto quello che avevo incassato, cioè 330 euro in un anno». Lorenzo,
assistente capo della polizia a Modena, la dice così: «Ti mettono nelle
condizioni di essere disonesto. Ho 41 anni, sono separato e con due figli.
Guadagno 1600 euro al mese e di questi 700 vanno in alimenti. Amo aiutare i
cittadini e ringrazio la pubblica amministrazione per il lavoro che mi dà, ma il
dipartimento non può pensare che riesca a vivere senza una seconda entrata.
Avere le autorizzazioni è impossibile, quindi vado a potare gli olivi, taglio e
raccolgo legna, faccio l'imbianchino. Per 50 o 100 euro al giorno». È illegale
due volte. Perché si opera al nero e perché un dipendente pubblico non può fare
il doppio lavoro, salvo casi particolari. Si rischia il procedimento
disciplinare e, qualche volta, il licenziamento. Dal 2009 al 2011, la Guardia di
Finanza ha scoperto 3.300 casi in Italia. Hanno guadagnato illegalmente oltre 20
milioni di euro, con un danno alle casse dello Stato di quasi 55 milioni. Ma
quanto guadagnano poliziotti, carabinieri e finanzieri? E quando sono
autorizzati ad avere un secondo impiego?
I PEGGIORI STIPENDI
D'EUROPA. Una volta indossare la divisa significava posto fisso e stipendio
più che dignitoso. Sinonimo di sicurezza, possibilità di mantenere una famiglia,
capacità di sostenere le rate di un mutuo. Oggi le cose sono un po' cambiate. Un
poliziotto italiano appena assunto prende 1200 euro netti al mese. Lo stesso
vale per gli agenti della penitenziaria, della forestale, per carabinieri e i
finanzieri. I colleghi tedeschi del Bundeskriminalamt, la polizia criminale
federale della Germania, a parità di condizioni, prendono 1626 euro. In Francia,
i neoassunti nella Police Nationale guadagnano 1683 euro. Il corrispettivo
spagnolo 1420, in Gran Bretagna addirittura 2516 sterline (3200 euro), che
diventano 3171 (4000 euro) dopo i primi dieci anni. Insomma, i salari italiani
sono tra i più bassi d'Europa. E gli scatti di anzianità in Italia portano ad
aumenti di un terzo inferiori rispetto alle forze di polizia estere. Anche per
questo lo Stato permette ai suoi tutori dell'ordine di svolgere un lavoro extra,
ma solo a certe condizioni e con l'autorizzazione scritta del ministero di
competenza. «Si possono avere occupazioni part time - spiega Massimiliano Acerra
- che non compromettano in alcun modo il servizio e che non rientrino nella
categoria delle libere professioni. Proibite invece le attività troppo
stressanti o in cui possano sorgere conflitti di interesse, come nei casi di
aziende di vigilanza privata o di investigazione. In polizia, ad esempio,
vengono autorizzate fino a 30 prestazioni all'anno per un massimo di 5 mila euro
lordi». Ma il problema è che le autorizzazioni non vengono concesse con
facilità, le pratiche vanno a rilento, spesso si ignora la normativa base.
Racconta il vicebrigadiere Fausto Antonini, da Firenze: «Sono diplomato al
conservatorio, ho avuto il permesso di fare il musicista, ma spesso sono in
difficoltà perché i teatri mi chiamano con un anticipo di dieci, quindici
giorni, e per ottenere l'autorizzazione del ministero della Difesa ne servono
almeno quaranta». «Il doppio lavoro oggi purtroppo è diventato una necessità -
spiega Felice Romano, segretario generale del Siulp, il maggiore sindacato di
polizia - E se prima ai poliziotti era garantito un accesso agevolato al
credito, adesso non è più così facile. Così succede che gli agenti rischiano
addirittura di finire nelle mani degli usurai. Abbiamo già dovuto salvare dei
colleghi. Ci sono due strade: o lo Stato si fa carico di mantenere dei livelli
salariali tali da arrivare a fine mese, oppure bisogna dare ai poliziotti la
possibilità di avere una seconda occupazione». Enrico Alessi, agente di Pavia in
polizia da 17 anni, è riuscito a farsi dare il permesso per gestire una pensione
per cani con degli amici. Offre anche consulenze informatiche, che rientrano
nelle prestazioni occasionali autorizzate. «Le mie entrate extra non superano i
limiti previsti - spiega - di tutti i colleghi che ho conosciuto nella mia
carriera, almeno la metà ha bisogno di fare un secondo lavoro. Alcuni lo fanno
di nascosto, illegalmente, perché non conoscono bene le opportunità che abbiamo
per legge». Ma quali conseguenze ci sono?
STANCHI, DEPRESSI, POCO
GRATIFICATI. «Mi è capitato di vedere un agente che si addormentava in
servizio - racconta Antonio, poliziotto romano che accetta di farsi riprendere
dalle telecamere di Repubblica, con il volto oscurato - poveraccio, faceva il
cameriere in un ristorante e tornava a casa alle quattro. Oppure succede che chi
ti sta accanto durante un pattugliamento in auto, all'improvviso ti chieda di
cambiare strada per evitare di farsi vedere con la divisa addosso da chi
potrebbe riconoscerlo e metterlo in difficoltà con l'altro mestiere. Deve quasi
nascondersi. Risultato: muore l'orgoglio di essere poliziotto». Non è difficile
intuire quali siano le conseguenze di tutto questo. «Un'ora di straordinario in
polizia viene pagata appena 6 euro - ragiona Antonio - non bastano neanche per
pagare la babysitter di mio figlio. Così, chi ha un'occupazione alternativa,
soprattutto nell'edilizia e nella ristorazione perché è più facile nascondere
l'abusivo, difficilmente vi rinuncia per prolungare il turno. E' sopravvivenza,
nient'altro». E questa facilità a cercare e trovare una seconda entrata,
fenomeno diffuso in ogni reparto e in ogni forza di polizia, consegna alle
cronache casi che vanno oltre il procedimento disciplinare. L'ultimo, in ordine
di tempo, ha riguardato Alessandro Prili, il carabiniere in servizio
nell'ufficio Primi atti del Tribunale di Roma che, prima di venire investito da
un'ordinanza di custodia cautelare, lavorava di fatto per due agenzie di
investigazione, la Global security service e la Nuova Flaminia srl. E i casi di
poliziotti che la notte fanno i buttafuori non si contano. «Si vivono due vite
parallele - ragiona amaro Antonio - una continua acrobazia per non far
incontrare le due identità. Di giorno poliziotti a cui viene chiesto di
rincorrere un mafioso, di notte camerieri che devono rincorrere gli ordini dei
tavoli. Ci mancano le gratificazioni, questa è la verità! Quando inizi, da
ragazzino, sei pieno di sogni e ideali. Poi cambia tutto, il nostro stipendio
misero ti toglie la dignità». E finisci che, per arrivare a fine mese e pagare
le tasse universitarie dei tuoi figli, violi quella legge che dovresti
tutelare.
PROFESSIONE: IMPUNITI
I magistrati tendono a
convincere i cittadini che eliminare un grado del processo, giovi alla celerità
dei processi ed all’efficienza dell’amministrazione della giustizia. Secondo
loro il cancro della giustizia è la prescrizione. Come se la lungaggine dei
processi debba essere addebitata ad altri e non a loro stessi. Bisogna
chiedersi: ma chi amministra la giustizia? I magistrati o il panettiere sotto
casa? Se la questione la si vede dal loro punto di vista, ciò è giustificato.
Tenuto conto che il “gravame”, spesso, porta a dei risultati opposti all’atto
impugnato, modificandone radicalmente l’efficacia e gli effetti degli atti
propedeutici, ciò comporta un sindacato di legittimità e di merito del
magistrato impugnato, che smaschera l’incapacità e il pressapochismo dei
magistrati giudicanti e requirenti attenzionati. Attività, quando sostenuta con
impegno, che porta a scoprire pacchiani errori giudiziari. Errori che danno vita
al risarcimento del danno a carico dello Stato. E così i magistrati vogliono che
rimanga tale. In tutti i modi i magistrati, cooptati con concorso pubblico
"tutto italiano", vogliono elevarsi come dio in terra, escludendo ogni loro
possibile responsabilità per gli errori da loro stessi commessi. Ed i loro
lacchè in Parlamento gli danno un forte sostegno contro gli interessi dei
cittadini che dovrebbero rappresentare. Si noti bene che, oltretutto, del
diritto ad impugnare una sentenza, ci si avvale solo se vi è interesse, ovvero
capacità economica a sopportare tempi lunghi ed oneri di giustizia. Il tutto con
il dubbio annesso che non vince chi ha ragione, ma chi ha maggior forza
dirompente per la libera e spesso arbitraria convinzione dei giudizi sui fatti
di causa. Un’amicizia, una tangente, e chissà cos’altro possono influire su una
decisione. Come per esempio la parentela. Spesso ci si ritrova genitori giudici
e figli avvocati che operano presso lo stesso foro: Latina, Parma, Brindisi,
Taranto, Lecce. Inammissibile, si direbbe. Già, ma chi lo scopre; chi lo
denuncia; chi interviene? Il CSM si direbbe: sì, ma solo se interpellato ed a
morte di papa. E le tante inchieste stanno lì a rammentarcelo. Per questi
motivi, bisogna dirlo, spesso e volentieri si rinuncia all'appello. C’è da
chiarire anche un’altra cosa. Il fulcro dell’amministrazione della giustizia non
è in mano ai magistrati, che, spesso, hanno ben altro da fare che svolgere la
loro professione: convegni, permessi, altri incarichi, ecc. In verità il monte
fascicoli giudiziari è deciso dai magistrati onorari: giudici di pace e giudici
onorari. Avvocati che giudicano le cause dei loro colleghi. Poveretti: senza
alcuna tutela contrattualistica. Se poi, addirittura, è ammesso il sindacato
sulle commissioni d’esame dei concorsi pubblici, vuol dire che le decisioni di
chi giudica sono sempre e comunque campate in aria. Il sindacato giurisdizionale
di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle
commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici è legittimamente svolto
quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità
manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base
ai quali è stato dedotto il giudizio sull'elaborato sottoposto a valutazione. Adaffermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della
Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. La Cassazione
ammette che ci possano essere commissioni che sbagliano. Naturalmente i TAR
adottano due pesi e due misure, in base ai ricorrenti ed al principe del foro
che li accompagna. Per questo il cittadino deve diffidare da strumentali
proposte avanzate da chi ha tutto l’interesse a farlo. Se già quasi tutte le
decisione, ancorchè sbagliate, sono confermate nei gradi successivi in virtù di
una solidarietà corporativistica, perché togliere la speranza di trovare qualche
magistrato onesto, capace ed imparziale che possa far luce su vicende viziate da
insabbiamenti o disattenzioni, spesso frutto di errori giudiziari impuniti?
Guardiamo per esempio la
sentenza sui fatti del G8 di Genova: Condannati i vertici della Polizia. In
appello ribaltato il giudizio di primo grado. Il testo integrale della
decisione di secondo grado ribalta completamente quella del tribunale. Una
diversa lettura degli stessi elementi che avevano portato all'assoluzione,
determinano le condanne di agenti e funzionari. In
Cassazione le torture di Bolzaneto: per medici e poliziotti "massimo disonore".
Quarantaquattro imputati fra poliziotti, guardie penitenziarie e medici
sono stati ritenuti responsabili civilmente, anche se i reati sono prescritti.
In sette condannati anche penalmente. Uomini senza onore scrive Marco Preve su “La
Repubblica”. Poliziotti, carabinieri, agenti della penitenziaria di
ogni ordine e grado e addirittura medici. Secondo i giudici della Corte
d'Appello di Genova hanno disonorato le loro divise, la loro missione. Nei
giorni del G8 del 2001 la caserma del Reparto Mobile di Genova venne trasformata
in prigione speciale con l'autorizzazione della procura di Genova. Di fatto un
luogo privo di diritti, una delle pagine più nere nella storia delle democrazie
occidentali secondo Amnesty International. I detenuti, oltre 300, privati della
possibilità di incontrare i loro legali, vennero brutalizzati, umiliati,
picchiati, minacciati in ogni modo. Il 5 marzo 2010 la Corte d'Appello di Genova
ha dichiarato responsabili civilmente tutti i 44 imputati del processo, anche se
ha dichiarato prescritti i reati. La sentenza di secondo grado ha ribaltato il
verdetto di primo grado (15 gli imputati condannati a complessivi 23 anni e 9
mesi di reclusione mentre furono 30 le assoluzioni), condannando al risarcimento
del danno anche gli imputati che erano stati assolti dal tribunale. Sette
imputati sono stati condannati anche penalmente a pene comprese fra uno e tre
anni. I sette imputati condannati sono l'assistente capo della Polizia di stato
Massimo Luigi Pigozzi (3 anni e 2 mesi divaricò le dita della mano di un
detenuto fino a strappare la carne), gli agenti di polizia penitenziaria
Marcello Mulas e Michele Colucci Sabia (1 anno) e il medico Sonia Sciandra (2
anni e 2 mesi). Pene confermate a 1 anno per gli ispettori della Polizia di
Stato Matilde Arecco, Mario Turco e Paolo Ubaldi, che avevano rinunciato alla
prescrizione. "Richiamarsi platealmente al nazismo e al fascismo, al programma
sterminatore degli ebrei, alla sopraffazione dell'individuo e alla sua
umiliazione, proprio mentre vengono commessi i reati contestati o nei momenti
che li precedono e li seguono, esprime il massimo del disonore di cui può
macchiarsi la condotta del pubblico ufficiale" è uno dei passaggi più
significativi delle 647 pagine delle motivazioni della sentenza.
E poi c’è il caso della Diaz, dove interviene
Manganelli. "Questo è il momento delle scuse".Il capo della Polizia dopo
la sentenza Diaz: "Mi rivolgo ai cittadini che hanno subito danni e a chi esige
da noi sempre più professionalità ed esperienza". Il ministro dell'Interno:
"Fiducia a chi lavora per la sicurezza del Paese giorno dopo giorno".
L'associazione dei funzionari di Polizia. "Mai più ripetere errori". Dopo undici
anni, questo è "il momento delle scuse". Antonio Manganelli, capo della Polizia,
commenta così la sentenza di condanna per i fatti accaduti nella scuola Diaz di
Genova durante il G8 del 2001. "Scuse dovute", dice Manganelli. Soprattutto ai
cittadini "che hanno subito danni". E anche a quelli che, avendo fiducia nella
Polizia, "l'hanno vista in difficoltà per qualche comportamento errato ed
esigono sempre maggiore professionalità ed efficienza". Le parole del capo della
Polizia giungono all'indomani del verdetto della Cassazione che ha confermato le
condanne d'Appello per falso nei confronti della catena di comando all'epoca del
G8 di Genova, causando come effetto collaterale l'azzeramento degli attuali
vertici dell'anticrimine, che dovranno lasciare i loro incarichi ed essere
sostituiti. Manganelli si dice poi "orgoglioso di essere il Capo di donne e
uomini che quotidianamente garantiscono la sicurezza e la democrazia di questo
Paese". Un orgoglio che non mette in discussione né il "rispetto della
magistratura", né "del principio costituzionale della presunzione d'innocenza
dell'imputato, fino a sentenza definitiva". Per questo, "l'istituzione che ho
l'onore di dirigere ha sempre ritenuto fondamentale che venisse salvaguardato a
tutti i poliziotti un normale percorso professionale, anche alla luce dei non
pochi risultati operativi da loro raggiunti". E dopo le scuse, l'impegno:
"Assicurare al Paese democrazia, serenità e trasparenza dell'operato delle forze
dell'ordine, garantendo il principio del quieto vivere dei cittadini". A Genova
sono stati commessi "gravi errori". Ed è giusto che "i responsabili paghino".
Così il ministro dell'Interno Annamaria Cancellieri. Che aggiunge: "Il G8 di
Genova è una pagina dolorosa per la Polizia e questo mi ferisce". Ancora: "Ho
visto come tutti le immagini di quello che è successo all'interno della Diaz e
posso dire che non condivido nulla di quella operazione. Di fronte a errori
gravi è giusto che i responsabili subiscano le conseguenze". Per il ministro
però, "questa non può diventare la condanna di tutte quelle migliaia di uomini e
donne che ogni giorno, indossando la divisa, fanno il proprio dovere". Dalle
sentenze non vanno tratti "nè motivi di soddisfazione nè di amarezza". Ma
insegnamenti a "non ripetere gli errori e la Polizia di Stato lo sta facendo da
tempo". E' quanto si legge in una nota dell'Associazione Nazionale Funzionari di
Polizia. "A Genova fu fatale l'adozione di un approccio ispirato alla
militarizzazione della città per gestire l'evento, mediante una impostazione
rigida, impreparata a governare una situazione complessa e ricca di diversità.
Noi come gli organizzatori del Social Forum abbiamo la responsabilità di non
aver saputo interpretare i fermenti avvelenati che circolavano nell'evento".
Ancora: "Sono anni che la Polizia non commette più errori collettivi, sono anni
che non ha reazioni che travalichino i limiti imposti dalla legge, fino al punto
che qualcuno ci rimprovera di essere afflitti dalla 'sindrome del G8'. Vogliamo
essere molto espliciti: non è nella missione della Polizia usare violenza
nemmeno in risposta alla violenza".
Diaz, un processo
italiano
Undici anni dalla notte in cui, a Genova,
nel quartiere di Albaro, la "democrazia venne sospesa" e quattrocento poliziotti
impazziti e maldiretti entrarono nella scuola elementare "Diaz" per massacrare
di botte 92 persone. Il 5 luglio 2012, la Cassazione ha emesso la sua sentenza.
Ma non tutto è stato chiarito. Il mistero lo svela l’inchiesta di “La
Repubblica”.
IL
retroscena
Gli invisibili e gli intoccabili, ecco i
convitati di pietra del G8. Politici e dirigenti delle forze dell'ordine
lasciati fuori dall'inchiesta. Dall'allora capo della polizia Gianni De Gennaro
al vicepremier Fini, passando per il ministro dell'interno Scajola. E i 400
poliziotti che fecero irruzione sono ancora oggi ignoti. L’amaro commento di
Carlo Bonini su “La
Repubblica”.Il processo è chiuso. Ma il giorno dopo, le
parole dell'avvocato Rinaldo Romanelli, difensore del comandante del VII Nucleo
Mobile Vincenzo Canterini, hanno il lampo della provocazione. "Se dovessimo
ragionare da storici, ma con la logica della sentenza della Corte di appello,
direi che, a spanne, alla condanna mancano almeno 500 persone". È un'iperbole,
appunto. Che tuttavia tocca il nervo scoperto di questa storia: i suoi convitati
di pietra. Uomini degli apparati ed ex ministri della Repubblica di cui, come in
certe foto di gruppo ritoccate, è scomparsa la silhouette. In 11 anni, Claudio
Scajola, in quei giorni dell'estate 2001 ministro dell'Interno, non ha mai
ritenuto opportuno dover chiarire o riferire quali indicazioni politiche aveva
fornito al capo della Polizia Gianni De Gennaro. Quali comunicazioni ebbe con
lui la notte della Diaz e nei giorni successivi. Perché non ne chiese le
dimissioni o perché non gli furono mai offerte. Né è stato mai di alcun aiuto lo
stesso De Gennaro, oggi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e già capo
del Dis, il vertice della nostra intelligence. In quel luglio del 2001,
intervistato da Enrico Mentana, all'epoca direttore del Tg5, dice: "La Diaz era
una semplice operazione di identificazione che si è trasformata in un'azione di
ordine pubblico perché gli agenti sono stati attaccati. Se ci sono stati eccessi
da parte di singoli saranno verificati. Comunque non ci sono stati errori di
valutazione o di comportamento collettivi". Nelle parole dell'allora capo della
Polizia non c'è una sola circostanza vera, o anche soltanto verosimile, come il
processo ha accertato. Ma, da subito, le sue parole definiscono il perimetro
entro cui, per anni, l'intera catena di comando di quella notte comincia il suo
lavoro di ostruzione alla ricerca della verità. De Gennaro, evidentemente,
scommette su un'inchiesta penale destinata nelle sue previsioni a non andare da
nessuna parte. Anche perché il Parlamento decide di ritirarsi in buon ordine
rinunciando a un'indagine indipendente, e soprattutto perché l'appoggio del
governo è ventre a terra. Non fosse altro perché il disastro del G8 crea un
legame malato e indissolubile tra chi, di quei giorni, ha avuto la
responsabilità politica e chi quella tecnica e, dunque, dalla verità può solo
ottenere un danno. Del disastro genovese nessuno sembra portare la paternità.
Non De Gennaro, appunto. Non Scajola. Non il ministro della giustizia Roberto
Castelli, il solo ad aver visitato la prigione di Bolzaneto nei giorni del G8
senza avere la percezione del lager in cui era stata trasformata. Non il
vicepremier Gianfranco Fini, che pure ha ritenuto di essere presente nella sala
operativa della questura di Genova non si capisce a quale titolo e con quale
utilità. Accompagnato dall'allora maresciallo dei carabinieri e futuro deputato
di An Filippo Ascierto. Anche Arnaldo La Barbera e Ansoino Andreassi,
rispettivamente capo dell'Ucigos e vicecapo della Polizia e dunque vertice
tecnico-operativo della catena di comando presente a Genova, sembrano, almeno
all'inizio, un problema risolto. La Barbera, allontanato dall'Ucigos, viene
nominato vicedirettore del Cesis. Andreassi transita al Sisde come numero due
del generale Mori. Così come un problema che viene presto risolto è Vincenzo
Canterini, il comandante del VII Nucleo, premiato con una ricca sinecura in
Romania quale alto rappresentante dell'Interpol. Finché la tela si straccia.
L'inchiesta penale afferra i primi bandoli della matassa e la morte di Arnaldo
La Barbera (2002) convince tutti i protagonisti di quella notte che è bene
sfilarsi e anche rapidamente da quel disastro. Ansoino Andreassi che, nei giorni
successivi alla Diaz, ha arringato gli uomini del VII nucleo nella caserma di
Castro Pretorio rassicurandoli che "la polizia italiana non si farà processare",
diventa teste di accusa. Accredita la circostanza di essere stato
"commissariato" da La Barbera (un morto che non può difendersi) e di aver
espresso il suo dissenso nella riunione in questura che precedette l'irruzione
nella scuola. Salvo, inspiegabilmente, non chiarire perché quel dissenso, a
maggior ragione dopo gli esiti disastrosi di quella notte, non venne mai
esplicitato nei giorni e nelle settimane successive. Altrettanto rapidamente si
sfila e diventa teste di accusa il vicequestore Lorenzo Murgolo, che, quella
notte, è il delegato dell'allora questore Francesco Colucci di fronte alla Diaz.
Anche lui armeggia con Gratteri e Luperi intorno al sacchetto con le molotov
portate all'interno della scuola. Ma ha più fortuna dei suoi colleghi. Il
processo non lo coinvolge e la sua carriera prosegue nel Sismi di Nicolò Pollari.
Sulla notte della Diaz, negli apparati si consuma una resa dei conti che
l'autorità politica finge di non vedere o che, se vede, ignora. Tra il luglio
del 2001 e il maggio del 2010 si succedono al Viminale quattro ministri
dell'Interno: Claudio Scajola, Giuseppe Pisanu, Giuliano Amato, Roberto Maroni.
Non uno di loro risulta abbia imposto o anche solo sollecitato che la Polizia
consegnasse alla magistratura genovese l'identità dei 400 poliziotti che fecero
irruzione in quella scuola e che, ancora oggi, restano incredibilmente degli
incappucciati. Parlamento e governo non hanno fatto la loro parte, la polizia si
è arroccata in un'attesa a volte omertosa, il movimento si è consumato
nell'esercizio su chi avesse diritto al "primato della memoria". E così il
procedimento giudiziario è diventato un'ordalia che troverà la sua ultima
pronuncia con la sentenza della Cassazione. I giudici della Suprema Corte
potranno scegliere se confermare l'impostazione più colpevolista dell'Appello o
tornare a quella di primo grado che non vide quasi responsabili. Oppure trovare
una specie di "terza via". Undici anni sono un tempo infinito. Inconcepibile.
Per le vittime, per gli imputati, per un'opinione pubblica, anche
internazionale, che dal 21 luglio del 2001 attende una parola definitiva sulle
responsabilità di quella notte alla "Diaz". Non fosse altro perché nulla, in
questa storia, ha mai avuto anche solo la parvenza della "norma". A cominciare,
evidentemente, dalle brutalità su 92 donne e uomini inermi consumate in quella
scuola. In 11 anni, lo Stato (nelle sue diverse articolazioni istituzionali) non
ha trovato il tempo, né l'occasione, per un gesto di pubbliche scuse, premessa
indispensabile di ogni riconciliazione, rifugiandosi dietro il pavido argomento
che questo avrebbe significato "ammettere" la responsabilità di chi stava
affrontando il processo. O, peggio, fornire il destro per un "indiscriminato
processo alla Polizia italiana". Come se non fosse un dato condiviso e oggettivo
(dunque avulso da qualsiasi giudizio di responsabilità penale) che quella notte
furono certamente "uomini dello Stato" (quale che fosse la loro identità) a
violare diritti umani fondamentali. Ma c'è di più: il Parlamento ha rinunciato
da subito, e in tre successive legislature, a indagare con gli strumenti della
politica, della responsabilità pubblica, quella che "Amnesty International" ha
definito "la più grave sospensione dei diritti civili dalla seconda guerra
mondiale". Né ha trovato maggioranze disposte ad adeguare il nostro codice alla
legislazione internazionale che prevede il reato di tortura, come se le
indicibili violenze della caserma di "Bolzaneto" non interpellassero la qualità
della nostra democrazia e l'urgenza di una sua continua manutenzione. La Polizia
(tolta qualche isolata voce sindacale) si è arroccata in un'attesa silenziosa e
auto-referenziale, talvolta omertosa, regolarmente riduttiva, convinta che il
tempo e un processo di riforma interno (che pure è indiscutibilmente avvenuto)
delle routine di ordine pubblico avrebbero medicato la ferita e aiutato l'oblio.
"Credo e sono d'accordo con Repubblica - scrisse in una lettera aperta a questo
giornale il capo della polizia Antonio Manganelli il 16 novembre 2008, dopo la
sentenza di primo grado che mandò assolta la catena di comando dell'irruzione
nella scuola - che il Paese abbia bisogno di spiegazioni su quel che realmente
accadde a Genova. L'Istituzione, attraverso di me, si muove e si muoverà a tal
fine senza alcuna riserva, non attraverso proclami via stampa, ma nelle sedi
istituzionali e costituzionali". Ma, in quattro anni, di quell'impegno, nelle
sedi istituzionali e costituzionali, non si è trovata traccia. Forse perché
nessuno, davvero, in quelle sedi, avvertiva o ha avvertito l'urgenza di
rispondere pubblicamente al "perché" di quella notte. O quantomeno di cercarlo.
In questa fuga e rifiuto di un dibattito pubblico e trasparente, la supplenza
affidata al lavoro della magistratura ha così messo d'accordo tutti: classe
dirigente ed apparati. E' diventata salvacondotto delle loro rispettive
fragilità. E non ha aiutato né la qualità, né la serenità nella ricerca della
verità. La Procura genovese, per anni, ha vissuto prigioniera di una sindrome da
accerchiamento, non sempre indotta, che l'ha convinta a coltivare con
ostinazione un'ipotesi di infedeltà costituzionale dei vertici degli apparati di
sicurezza dello Stato che i processi di merito avrebbero smentito e secondo cui
"la Diaz" sarebbe stata figlia di una preordinazione illegale e violenta
dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Né ha giovato l'eutanasia di
un Movimento - ma meglio sarebbe dire di quel poco che ne era rimasto - che si è
consumato in un esercizio autofago, spesso rancoroso, su chi avesse diritto al
"primato della memoria" e dunque all'esercizio della critica e del dubbio che
non fosse "ortodosso". E' in questo perimetro che la storia di quella notte - e
più in generale i giorni del G8 di Genova - è stata degradata e ridotta ad
affare esclusivamente penale che ha finito ineluttabilmente per farsi ordalia. E
che in questa settimana troverà, forse, la sua ultima pronuncia, con una
sentenza di Cassazione che deciderà su quanto non è già stato cancellato dalla
prescrizione. Il primo di tre verdetti che, entro la fine di luglio, chiuderanno
il giudizio penale sui fatti di quell'estate di 11 anni fa: "Diaz", "Bolzaneto",
le condanne di dieci ex militanti per la devastazione e il saccheggio di Genova.
La settimana di udienze tra l'11 e il 15 giugno (prima che il processo venisse
aggiornato al 5 luglio 2012) è stata lo specchio delle tossine che questo tempo
infinito ha depositato. Mostrando come siano rimaste intatte. I giudici della
quinta sezione penale hanno infatti ascoltato argomenti che, pur nel rispetto di
una discussione su questioni di "legittimità" e diritto quale è un processo di
ultima istanza, hanno finito per aggredire la sostanza della posta in gioco. Chi
deve pagare il conto di quella notte? Per dirla altrimenti: le due dozzine di
imputati di oggi sono "i colpevoli", o scontano al contrario responsabilità che
condividono o che sono proprie di chi al processo è sfuggito? Perché l'allora
vicecapo della Polizia Ansuino Andreassi o il questore Lorenzo Murgolo (poi
transitato al Sismi di Nicolò Pollari e presente sulla scena della Diaz) solerti
nel complimentarsi con il lavoro del VII Nucleo la notte dell'irruzione, e
dunque perfettamente consapevoli di quanto era accaduto, si sono trasformati
nell'indagine penale in pallidi figuranti svuotati di ogni responsabilità di
comando? Il procuratore generale Pietro Gaeta ha sostenuto che "i processi si
fanno ai presenti, non agli assenti". Che insomma non è più il tempo di
interrogarsi se questo processo consegnerà alla storia dei responsabili tout
court o dei "capri espiatori", vittime di una cinica resa dei conti tra bande
all'interno degli apparati. E che è senz'altro vero che il 21 luglio, nei locali
della "Diaz" si rovesciò "una macedonia di polizia" (per dirla con le parole
dell'ex comandante del VII nucleo celere Vincenzo Canterini). Almeno 400 uomini
rimasti per lo più tutti senza un volto e senza un nome (la Polizia,
incredibilmente, non è mai stata in grado di indicarne le generalità). Ma che è
altrettanto vero che la scelta di processare e condannare chi, quella notte,
ebbe in un modo o in un altro responsabilità di comando (dai capisquadra del VII
nucleo celere, ai funzionari e dirigenti di Digos e Sco intervenuti nella scuola
dopo l'irruzione che procedettero all'arresto degli occupanti) non può essere
considerata una abdicazione alla ricerca delle responsabilità individuali, o,
peggio, una scorciatoia per affermare "un inconcepibile principio di
responsabilità oggettiva".
Che dire poi dei due processi agli
antipodi. Il processo di primo grado lavorò su questo canovaccio
decidendo di caricare l'intero peso di quella notte sulla "bassa forza" (i
comandanti e i "capisquadra" del VII Nucleo, compreso, per dirne una, chi non
comandava alcuna squadra, come il sottufficiale Fabrizio Basili). Sulla Celere,
dunque, e qualche funzionario di secondo piano. Ultime carrozze di un treno più
lungo e articolato, e per questo semplici da sganciare. L'Appello, al contrario,
stabilì che, quella notte, non ci furono innocenti. E che la costruzione di
false prove necessarie a giustificare a posteriori la "mattanza" di 92 innocenti
(a cominciare dall'introduzione nella scuola di due bottiglie molotov, per
proseguire con la falsa dichiarazione di "aver incontrato resistenza") fu per la
Polizia una pagina persino più vergognosa di quella che voleva dissimulare. E
per la quale tutti gli imputati dovevano pagare. A maggior ragione, chi aveva un
ruolo di comando e si difende dichiarandosi "vittima dell'inganno", peggio del
"tradimento", di poliziotti infedeli. Non facendo alcuna differenza, sul piano
della consapevolezza, l'avere formalmente sottoscritto o meno atti di polizia (i
verbali di sequestro e arresto di quella notte, successivi all'irruzione) che
attestavano ciò che sarebbe risultato calunnioso. E ancora: non essendo una
"scriminante" l'aver messo collettivamente la propria firma sotto un pezzo di
carta di cui si dava "per scontata" una verità che tale non era, solo perché
"questa è la prassi". La Cassazione ha avuto due strade. Fare proprio il
giudizio di appello, confermandolo, così come è stato, o distinguere, come fece
il giudice di primo grado. Magari accogliendo una almeno delle pregiudiziali di
costituzionalità sollevate dalle difese (quella che, richiamandosi alla
giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo vuole un terzo processo
di merito nei confronti di quegli imputati che siano stati prima assolti e
quindi condannati sulla base di una semplice e opposta valutazione di una
medesima prova testimoniale). Tornando così a separare i "sommersi" e i
"salvati". La "testa" dal "braccio". Ovvero, lavorando sul grado di
responsabilità personale di ciascuno degli imputati. Con qualche certezza, quale
che sia la soluzione. Che la posta in gioco è altissima. Perché, con questa
sentenza, si gioca insieme l'immagine dello Stato, il rispetto delle vittime, il
destino di venticinque imputati. Alcuni di loro, in questi 11 anni, sono stati
la spina dorsale della nostra Polizia (Francesco Gratteri, Gilberto Caldarozzi,
Giovanni Luperi, solo per fare qualche nome). Altri, di cui l'opinione pubblica
ricorda a stento il nome, hanno cominciato a scontare la pena dopo la sentenza
di primo grado, in un'amministrazione che, di fatto, li ha già collocati in quel
limbo dove normalmente transita chi è in odore di "mela marcia". Gli uni e gli
altri chiedono di essere "uguali di fronte alla legge". Lo stesso principio che
invocano le vittime di quella notte. Consapevoli tutti che non c'è sentenza che
potrà metterli né d'accordo, né in pace gli uni con gli altri. Al punto che il
"dopo Diaz" potrebbe persino essere più lacerante di questa "vigilia" durata 11
anni. E la Corte di Cassazione ha confermato le
condanne per falso nei confronti dei vertici della polizia coinvolti nel
pestaggio e negli arresti illegali dei no-global alla scuola Diaz durante il G8
di Genova del 2001. La Suprema corte, invece, ha dichiarato prescritte le
condanne per le lesioni inflitte dagli agenti del reparto Celere. Le vittime del
pestaggio, circa 60 persone, potranno ora ottenere i risarcimenti dovuti. Il
ministero dell'Interno aprirà i procedimenti disciplinari a carico dei 25
imputati, anche quelli prescritti. La sentenza ha sostanzialmente confermato il
pronunciamento espresso dalla Corte d'Appello di Genova il 18 maggio del 2010. A
quasi (questione di giorni) undici anni dal tragico G8 di Genova sono state
confermate in via definitiva le condanne per falso aggravato inflitte agli alti
funzionari di polizia coinvolti nelle violenze alla scuola Diaz risalenti al
21 luglio 2001.
Lo ha deciso la quinta sezione penale della Cassazione. Nel dettaglio, la
suprema corte ha confermato l'impianto accusatorio della Corte d'Appello di
Genova del 18 maggio 2010. Convalidata la condanna a 4 anni per Francesco Gratteri, capo del
dipartimento centrale anticrimine della Polizia. Convalidati i 4 anni perGiovanni Luperi,
vicedirettore Ucigos ai tempi del G8 e poi capo del reparto analisi dell'Aisi
(Agenzia informazioni e sicurezza interna), i 3 anni e 8 mesi a Gilberto Caldarozzi,
capo dello Sco (Servizio centrale operativo). Convalidata anche la condanna a 5
anni per Vincenzo Canterini,
ex dirigente del reparto mobile di Roma. La conferma delle condanne comporterà
la sospensione dal servizio per i funzionari dal momento che nei loro confronti
è stata applicata la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per
5 anni. Prescritti, invece, i reati di lesioni gravi contestati a nove agenti
appartenenti al settimo nucleo speciale della Mobile all'epoca dei fatti. La
madre di Giuliani: "Giustizia incompleta". La sentenza dimostra che "la
giustizia c'è benché incompleta". Lo ha detto Heidi Giuliani, madre di Carlo
ucciso durante il G8. "In verità le responsabilità sono più ampie - ha aggiunto
la donna - e penso all'assoluzione dell'allora capo della polizia e al mancato
processo per la morte di mio figlio". Il padre di Giuliani: "C'è ancora un
barlume di giustizia". "Una notizia positiva. Succede di rado, ma quando accade
bisogna accoglierla con soddisfazione. Vuol dire che in questo Paese c'è ancora
un barlume di giustizia", sono state invece le parole di Giuliano Giuliani,
padre di Carlo. Avvocati vittime: "Giustizia é fatta". "Giustizia è fatta: ci
sono voluti 11 anni per arrivare a questo verdetto e la Cassazione è stata
coraggiosa. Mai, nelle democrazie occidentali, si è arrivati ad una condanna per
funzionari della Polizia di così alto livello", è la reazione dell'avvocato
Emanuele Tambuscio, legale di alcuni no-global picchiati alla Diaz. Cancellieri:
"Sentenza va rispettata". "La sentenza della Corte di Cassazione di oggi va
rispettata, come tutte le decisioni della Magistratura. Il ministero
dell'Interno ottempererà a quanto disposto dalla Suprema Corte". Lo afferma in
una nota Annamaria Cancellieri. "La sentenza - prosegue il ministro dell'Interno
- mette la parola fine a una vicenda dolorosa che ha segnato tante vite umane in
questi 11 anni. Questo non significa che ora si debba dimenticare. Anzi, il caso
della Diaz deve restare nella memoria. Ma proprio le definitive parole dei
giudici - riprende il ministro dell'Interno - ci devono spingere a guardare
avanti sicuri che le Forze di Polizia sono per i cittadini italiani una garanzia
per la sicurezza e per la democrazia". Manganelli: "Impegno a migliorare"."La Polizia accoglie la sentenza della magistratura con il massimo dovuto
rispetto e ribadisce l'impegno a proseguire nel costante miglioramento del
percorso formativo relativo al complesso campo dell'ordine e della sicurezza
pubblica". Queste le parole del Capo della Polizia, Antonio Manganelli, dopo la
sentenza. Manganelli, inoltre, ha espresso "apprezzamento e orgoglio per la
maturità, l'onestà, la dedizione e l'entusiasmo con cui quotidianamente il paese
viene servito dalle donne e dagli uomini delle forze di polizia". Nel blitz del
21 luglio oltre 60 feriti e 93 arrestati. Oltre 60 feriti e 93 giovani, di cui
molti stranieri, arrestati e poi prosciolti. Fu il bilancio del blitz degli
agenti alla scuola Diaz, dove il Comune di Genova aveva alloggiato i no global
del Genoa Social forum giunti nel capoluogo ligure per le manifestazioni contro
il G8 del 2001. L'operazione avvenne nella notte tra il 21 e il 22 luglio, poche
ore dopo la morte di Carlo Giuliani. Quasi 400 agenti di polizia fecero
irruzione nel complesso scolastico, molti no global vennero picchiati, le
immagini delle loro facce insanguinate fecero il giro del mondo.
Sì, ma chi pagherà i
danni alle vittime della Diaz e di Bolzaneto? Alla fine è probabile che
il conto da decine di milioni fra risarcimenti e spese legali andrà ai cittadini
italiani mentre i superpoliziotti dell'assalto alla scuola vedranno tutelati i
loro stipendi e i loro beni. E intanto la mamma di una ragazza pestata si
rivolge a Napolitano: "Ci faccia lui quelle scuse che in 11 anni nessun ministro
o capo della polizia ha voluto farci". E' uno Stato che deve ancora finire di
pagare il conto, e risarcire tutte quelle ossa spezzate, le mascelle fratturate,
i polmoni perforati dalle costole, le menti ferite per sempre da umiliazioni,
minacce di morte o di stupro. Ma è anche uno Stato che in undici anni non si è
mai degnato di chiedere scusa alle sue vittime innocenti, scrive ancora Marco
Preve su “La
Repubblica”. Ora l'ultima speranza, per un gesto di minimo
pentimento, è affidata a Giorgio Napolitano. Enrica Bartesaghi la mamma di una
delle ragazze pestate alla Diaz e imprigionate nel carcere dei torturatori di
Bolzaneto, si è rivolta al capo dello Stato per chiedergli: "Ci faccia avere lui
quelle scuse che nessun ministro dell'Interno o capo della polizia ha mai voluto
farci in 11 anni". Neppure dopo che nel 2011 l'allora Procuratore Generale di
Genova Luciano Di Noto le aveva sollecitate assieme alle dimissioni dei
responsabili gerarchici. Ma per quanto importante, pesante e al contempo
delicata sia la richiesta formulata al Presidente da Enrica Bartesaghi, assai
più complesso, intricato, quasi un giallo, appare il tentativo di dare una
risposta ad un'altra domanda: chi pagherà? La domanda non è superflua perché ci
sono ottime probabilità che, alla fine, per la macelleria messicana e per il
lager di Bolzaneto, in tutto circa 16 milioni, a pagare non siano i colpevoli ma
tutti i cittadini italiani. Non solo. Probabilmente finiranno a carico degli
italiani anche le spese legali pagate agli avvocati dei condannati, un'altra
vagonata di milioni. Vediamo come. Intanto partiamo dalle cifre. Per le 97 Parti
civili della scuola Diaz, le provvisionali (ovvero un anticipo per le lesioni o
per le false accuse e l'ingiusta detenzione subite, incassate le quali ogni
vittima potrà comunque intentare cause civili per ulteriori richieste danni)
fissate dai giudici di primo e secondo grado superano i due milioni e mezzo ai
quali ne vanno aggiunti altri tre e mezzo di spese legali. I processi Diaz e
Bolzaneto sono durati anni, decine di udienze, un enorme lavoro di raccolta di
testimonianze, traduzioni, migliaia di immagini visionate e centinaia di ore di
video analizzati fotogramma per fotogramma. Sia le provvisionali che le spese
legali della Diaz sono state risarcite quasi interamente (all'appello mancano
pochi casi per questioni relative alla loro reperibilità) dal ministero
dell'Interno. Anche in caso di assoluzioni da parte della Cassazione è assai
probabile che non subiranno modifiche i risarcimenti per le lesioni provocate
dalla polizia, che sono un dato storico e incontestabile. Ma per il processo di
Bolzaneto le cose sono andate in maniera opposta. Dei dieci milioni circa tra
provvisionali per le 155 parti offese e spese legali non è stato pagato un euro.
Ufficialmente il motivo è legato al mancato accordo tra i tre ministeri
coinvolti. Se alla Diaz era il solo dicastero dell'Interno, per la caserma del
reparto mobile diventata prigione speciale sono stati condannati agenti della
penitenziaria, quindi ministero della Giustizia, e in appello anche alcuni
carabinieri, quindi il ministero della Difesa. Ma secondo Enrica Bartesaghi del
Comitato Verità e Giustizia per Genova: "Non vorrei che dipendesse dal fatto che
si vogliano tutelare beni e stipendi degli alti funzionari condannati per la
Diaz a dispetto dei meno autorevoli condannati per Bolzaneto". Le provvisionali
dovrebbero essere pagate dai colpevoli, così come a loro i rispettivi ministeri
dovrebbero chiedere il rimborso degli anticipi versati agli avvocati difensori.
Il condizionale, però, in questo caso non è una svista. Infatti, una leggina,
come è stata soprannominato l'articolo 2 bis della legge "Misure urgenti in
materia di sicurezza" approvata il 17 dicembre 2010, potrebbe "coprire" tutte le
spese, sia i risarcimenti che il costo dei legali, specie quello dei
superpoliziotti della Diaz. Parcelle sui cui anticipi girano indiscrezioni che
parlano di una decina di milioni - impossibile ottenere dall'avvocatura di
Genova la cifra esatta, quasi fosse un segreto di Stato - ai quali vanno
aggiunte le scorte e l'accompagnamento a Genova e ritorno di due avvocati,
residenti a La Spezia e Lucca, per tutta la durata del processo Diaz a causa di
minacce nei loro confronti. La leggina, attraverso la costituzione di un "fondo
di solidarietà civile" per vittime di "manifestazioni sportive" ma anche,
genericamente, "di manifestazioni di diversa natura", e poi con la creazione di
una cassa alimentata dal "fondo unico di giustizia" potrebbe andare a saldare
tutti quei costi per vicende nelle quali lo Stato potrebbe graziare i suoi
dipendenti condannati, salvandoli dal prelievo forzoso del quinto dello
stipendio o dal pignoramento della liquidazione e dei beni. Un'eventualità resa
possibile da una frase a suo modo rivoluzionaria contenuta nella legge:
"Modalità relative all'esercizio di rivalsa o all'eventuale rinuncia ad esso".
La rinuncia, appunto, che verrà valutata da una speciale commissione presieduta
da un prefetto e interna al Viminale. Cioè tutti colleghi degli imputati
eccellenti del processo Diaz.
ROMANZO DI UNA STRAGE. Film uscito nel
marzo 2012 di Marco Tullio Giordana che racconta il dramma di
Piazza Fontana, partendo dall'attentato e conclusasi con
l'omicidio del commissario Luigi Calabresi. E' il caso di dire
finalmente. Finalmente qualcuno che ha il coraggio di raccontare come sono
andati i fatti. Sì perché la strage di Piazza Fontana è una delle pagine più
nere e buie della storia della Democrazia Italiana. Dopo ben 43 anni dalla
vicenda, un regista si cimenta in un'opera cinematografica tanto difficile
quanto piena di pericoli. Il risultato, lo si può dire fin da subito, è molto
confortante e chiarificatore. Romanzo di una
strage non parte dall'immediato attentato alla Banca dell'Agricoltura
di Milano in Piazza Fontana, ma da
prima. Ricostruisce in modo fedele l'atmosfera pesante che si respirava nel
nostro paese, i movimenti anarchici, gli scioperi, le rivolte in piazza: era il
"caldo" 1969. In maniera didascalica, non per questo meno lodevole da altre
forme narrative, il regista Marco Tullio Giordana (autore de I
Cento Passi e la Meglio Gioventù)
divide il film in piccoli capitoli tematici per aiutare lo spettatore,
soprattutto per quelli più giovani e non testimoni dell'accaduto, a capire come
si svolsero realmente i fatti. Elemento fondamentale è capirne fin da subito gli
schieramenti, le forze politiche in campo, i personaggi storici che governavano
il paese e, soprattutto, chi agiva nell'ombra affinché la ricostruzione delle
dinamiche prendesse una piega preferenziale per gli interessi dello Stato. In
tutto questo "Gioco di potere" vi sono due vittime, oltre ai morti
dell'attentato a Piazza Fontana
(ricordati all'inizio e ai quali è dedicato il film), il commissario Luigi
Calabresi e l'anarchico Giuseppe Pinelli.
Il primo perché troppo ligio a conoscere la Verità, il secondo perché era il
capro espiatorio ideale per risolvere un caso del genere, dato l'instabile
equilibrio geopolitico dell'Italia e la situazione internazionale (siamo in
Piena Guerra Fredda). Giordana
ricostruisce con estrema minuzia ogni passaggio, ciascun personaggio, grazie ad
una documentazione accurata, materiali di repertorio (telegiornali e articoli di
giornali), oltre ad una sceneggiatura, firmata da
Sandro Petraglia e Stefano Rulli,
semplicemente perfetta, anche per ciò che concerne la psicologia dei personaggi.
La ricostruzione storica è di quelle maniacali, a fronte è molto probabile di un
budget di produzione alto per lo standard italiano: lo spettatore è catapultato
perfettamente in quegli anni e progressivamente si appassiona al caso per il
desiderio di sapere come veramente sono andati i tragici eventi. Tecnicamente
girato bene, a parte qualche piccola pecca stilistica (esempio la scena della
madre di Pinelli all'obitorio), il film nonostante il titolo ammiccante non
vuole farsi piacere a tutti i costi, ma preferisce che la storia e i suoi
interpreti risultino interessanti e appassionino. Romanzo di una strage
è un film culturale di assoluto valore, un esempio di cinema al servizio del
cittadino proprio quando lo Stato NON vuole o preferisce nascondere la verità
per i propri interessi più "sporchi".
ACAB il film: trailer
e recensione della pellicola che racconta la vita dei celerini.Stefano Sollima è il regista della serie televisiva
Romanzo criminale, universalmente conosciuta e celebrata in tutta Italia
(dovreste sentire a Roma, è un florilegio di citazioni a ruota libera). Grande
attesa circondava il suo debutto cinematografico, il film Acab, tratto
dall'omonimo libro di Carlo Bonini, inviato di Repubblica che aveva raccontato
la vita dei celerini, gli appartenenti al reparto della polizia deputato al
servizio di pubblica sicurezza. I soldati dello Stato, per dirla in maniera
spiccia. L'attesa era grande anche perché il tema del film è ampiamente
politicizzato: la crisi economica in cui versa il Paese ha acuito il disagio
sociale, il malcontento è alle stelle, e molti appelli vengono lanciati alle
forze dell'ordine affinché queste si schierino coi manifestanti o addirittura
con le frange più sovversive e violente. Il film di Sollima da una parte svicola
dalla polemica politica facilmente riconoscibile (l'appartenenza, e quindi la
fedeltà, di questi personaggi ad ambienti di estrema destra) ma dall'altra si
promette di ricontestualizzare questo tema dandogli una prospettiva più
prettamente sociale. Il ruolo del celerino, si intende dalla visione della
pellicola, è quello di catalizzatore dell'odio sociale che lacera il mondo in
cui viviamo: insultati, duramente percossi, sfiancati nel fisico e nell'animo, i
poliziotti, scelti proprio per un'istintiva propensione alla violenza,
reagiscono con una carica devastante che non fa distinzione tra possibili
alleati che condividono gli stessi valori e i nemici dell'opposto schieramento.
Ciò che guida la vita del celerino è la difesa del gruppo cui si appartiene, la
fedeltà ai propri fratelli, e l'annichilimento materiale di coloro che
minacciano questo gruppo (siano essi ultrà, immigrati da sfrattare, estremisti).
I due punti di forza di un film come Acab sono quelli su cui sarebbe potuto
cadere facilmente: gli attori e la sceneggiatura. I primi, nella fattispecie
Pierfrancesco Favino, Filippo Nigro, Marco Giallini, Andrea Sartoretti e
Domenico Diele, forniscono interpretazioni che vanno dal convincente al toccante
(Giallini sugli scudi) grazie a un'interpretazione animalesca e molto sentita,
che mostra come l'esperienza attoriale passi anche attraverso il lavoro sul
corpo e sulla micromimica. La seconda rifugge dai facili schematismi, ma anche
dalla costruzione delle personalità tramite il bilanciamento dei pesi (un
difetto per ogni pregio), delineando una vicenda in cui colpe primordiali - si
pensi alla "macelleria messicana" del G8 di Genova, ad esempio - si mescolano
senza distinzioni con situazioni oggettivamente al limite dell'umana
sopportazione. Senza voler assolvere i suoi protagonisti dagli atti atroci che
compiono impunemente, Sollima cerca però di calare lo spettatore nella pelle di
questi soldati, seguendo le cicatrici che ne segnano il corpo, scavando nelle
ferite subite e inferte a ogni battaglia. Ciò però più sul piano narrativo che
su quello della messa in scena, e qui sta il limite della pellicola. I
personaggi infatti sono spesso rappresentati attraverso una serie di topoi, di
situazioni emotive e caratteriali facilmente identificabili, forse proveniente
da un certo trattamento seriale. Ciò che però delude maggiormente, e limita la
forza espressiva dell'opera, è la modestia della messa in scena delle sequenze
d'azione, difetto non da poco per quello che è stato definito in sede di
conferenza stampa come un "film di genere intelligente". Una regia
apparentemente nervosa ma sostanzialmente pulita impedisce che ci si identifichi
davvero con chi si trova in una situazione di estremo pericolo: impossibile
sentirsi davvero partecipi di uno scontro all'arma bianca come quello davanti
allo stadio quando la macchina da presa rimane a debita distanza per fare
comprendere al meglio l'azione. In questo modo si arriva alla testa di chi
guarda, ma non al suo stomaco, forse il traguardo ideale immaginato dai
realizzatori di Acab.
DIAZ. Le vicende della drammatica notte del
21 luglio 2001 vengono ora trasformate in film; un film importante, che diviene
documento storico per quanti ancora non sanno, per quanti c’erano, per quanti
hanno dovuto cercare tra le righe di giornalisti coraggiosi, come Beppe
Cremagnani, la verità su quanto è accaduto nella notte in cui la polizia stessa
rovesciò l’ordine.
Diaz. Un film per non dimenticare – il trailer.
Diaz è una scuola di Genova. E’ stato un dormitorio per giovani contestatori nel
luglio 2001 durante il G8. E qui, qualcuno decise che era il posto giusto per
ordinare la mattanza in risposta ai disordini della manifestazione. E fu sangue,
macelleria di violenza inaudita, con il solo piacere di perpetrare la violenza
dopo gli scontri di quel giorno in piazza. Scontri ai quali non si è dato un
volto chiaro di colpevole. Scontri ai quali parteciparono non certo, o non solo,
i giovani no global italiani: pacifisti, attivisti, femministe, ambientalisti.
Ma anche l’anima nera e nascosta di mezza Europa. Che presero il nome, da
allora, di Black Block. Ora è un film: “Diaz, non pulite quel sangue” del
regista Daniele Vicari, uscito ad aprile 2012. Al centro le violenze della sera
del 21 luglio nella scuola Diaz: “la più lunga sospensione dei diritti
democratici in un paese occidentale dopo la II Guerra Mondiale” ha
sentenziato lapidariamente Amnesty International. In una sola notte: 92
attivisti fermati, 63 feriti gravi portati in ospedale. Il regista e il film si
è potuto avvalere di tantissimo materiale: la segreteria legale del Genoa Legal
Forum ha infatti prodotto durante i processi, memorie e consulenze tecniche
sulla ricostruzione dei fatti relativi alle giornate di Genova 2001, 500 ore di
filmati, 15000 foto, 18000 tra comunicazioni radio e telefonate, dirette
radiofoniche di Radio GAP e Radio Popolare che hanno permesso di elaborare una
cronologia degli eventi, secondo per secondo.
Il
documentario su Genova a Venezia. Si
chiama Black Block e il titolo è volutamente provocatorio.
«Testimonianze, filmati e ricostruzioni di quello che è accaduto al G8 di Genova
con la scelta precisa di dare voce solo ai manifestanti, al racconto delle parti
offese. Racconti che sono stati fatti anche durante i processi, ma i media non
l’hanno ripresi», spiega Carlo A. Bachshmidt, regista del documentario
presentato in Controcampo italiano e rappresentante del Genova Legal Forum. Il
documentario ‘non è volutamente contraddittorio – aggiunge il produttore
Domenico Procacci -: ogni tanto questi spazi vanno lasciati, specie se e’ un
film’. L’intenso, anche scioccante, documentario sulle violenze durante il G8 di
Genova 2001 con il blitz notturno alla scuola Diaz e le torture alla caserma di
Bolzaneto, «è nato da un progetto collettivo di chi ha vissuto quei giorni e non
ha mai perso il contatto», ha proseguito Bachshmidt. Da lì l’osmosi con il
progetto cinematografico della Fandango, il film sulla Diaz che Daniele Vicari
ultimerà. «Gli sceneggiatori del film hanno visto il materiale documentario che
avrebbero poi dovuto trasformare narrativamente», prosegue il produttore.
Procacci, però, ammette: «sto vedendo i giornalieri del film, niente ha la
stessa drammaticità delle immagini reali».Il film uscirà in un’unica sala, il Politecnico a Roma, ma il da
Fandango Libri uscirà in libreria un cofanetto con libro e dvd. «Ci chiedono il
documentario da Parigi e Berlino – dice l’autore -: questa storia c’è chi in
Europa non l’ha voluta dimenticare». Certamente non i testimoni principali,
sette, tutti stranieri, che Bachshmidt ha fatto protagonisti di Black Block, due
dei quali presenti a Venezia, Mina Zapatero e Lena Zuhlke. Il film intende
restituire una testimonianza di chi ha vissuto in prima persona le violenze del
blitz alla scuola Diaz e le torture alla Caserma di Bolzaneto, in occasione del
G8 del 2001. Nel racconto corale dei protagonisti emerge la storia di Muli. Muli
ripercorre i motivi per i quali ha deciso di impegnarsi nella politica, fino
alla sua partecipazione alle giornate di Genova, le violenze subite, e la scelta
di ritornare a Genova per testimoniare ai processi. È tornato affrontando il
trauma subito per trasformarlo in un’occasione con la quale trovare un riscatto
morale. Attraverso la sua esperienza matura un nuovo percorso politico,
riacquista la voglia di confrontarsi e lo stare insieme, e soprattutto riscopre
un’altra Genova.
Per
la serie: “La Polizia ci ricasca”. Violenza sempre e comunque. Non solo Genova,
Napoli e i tantissimi episodi per i malcapitati di turno, più o come
conosciuti. 'Così torturavamo i brigatisti' è il reportagedi Pier
Vittorio Buffa su “L’Espresso”.
Usare ogni
mezzo per far parlare i terroristi: era il 1982 quando l'Espresso denunciò le sevizie
ai responsabili per il sequestro Dozier. All'epoca il nostro cronista fu
smentito e arrestato. Oggi il commissario di polizia Savatore Genova conferma
tutto: 'Ero tra i responsabili, e ricevemmo il via libera per botte e sevizie".
Sì, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con
i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre,
non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che
le compivano. Dovevamo arrestarci l'un con l'altro, questo dovevamo fare".
Salvatore Genova è l'uomo il cui nome è legato a una grigia vicenda della nostra
storia recente. Quella delle torture subite da molti terroristi tra la fine
degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Una vicenda grigia perché malgrado
il convergere di testimonianze concordanti, le denunce di poliziotti coraggiosi
e le inchieste giudiziarie la verità non è mai stata accertata. Nessuna condanna
definitiva, nessuna responsabilità gerarchico-amministrativa, nessuna
responsabilità politica. Solo lui, il commissario di polizia Salvatore Genova, e
quattro altri poliziotti arrestati con l'accusa di aver seviziato Cesare Di
Lenardo, uno dei cinque carcerieri del generale americano James Lee Dozier,
sequestrato dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981 e liberato dalla polizia il
28 gennaio 1982. Evocare il nome di Genova vuol dire far tornare alla memoria
l'acqua e sale ai brigatisti, le sevizie, le botte. Oggi Salvatore Genova non ci
sta più. Nel 1997 aveva iniziato a mandare al ministero informative ed esposti
senza avere risposte. Adesso ha deciso di fare nomi, indicare responsabilità,
svelare quello che accadde davvero in quei giorni drammatici. Ecco il suo
racconto.
«Questura di Verona, dicembre
1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del
Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e
Luciano De Gregori. E' la squadra messa in campo dal ministero dell'Interno
(guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso
Dozier. Il capo dell'Ucigos, De Francisci, ci dice che l'indagine è delicata e
importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare le maniere
forti per risolvere il sequestro. Ci guarda uno a uno e con la mano destra
indica verso l'alto, ordini che vengono dall'alto, dice, quindi non
preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete
coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare
tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione
cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura?
Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci
diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il
segno. Il giorno dopo, a una riunione più allargata, partecipa anche un
funzionario che tutti noi conosciamo di nome e di fama e che in quell'occasione
ci viene presentato. E' Nicola Ciocia, primo dirigente, capo della cosiddetta
squadretta dei quattro dell'Ave Maria come li chiamiamo noi. Sono gli
specialisti dell'interrogatorio duro, dell'acqua e sale: legano la vittima a un
tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli fanno ingurgitare grandi quantità di
acqua salata. La squadra è stata costituita all'indomani dell'uccisione di Moro
con un compito preciso. Applicare anche ai detenuti politici quello che fanno
tutte le squadre mobili. Ciocia, va precisato, non agì di propria iniziativa. La
costituzione della squadretta fu decisa a livello ministeriale. Ciocia, che
Umberto Improta soprannomina dottor De Tormentis, un nomignolo che gli resta
attaccato per tutta la vita, torna a Verona a gennaio, con i suoi uomini, i
quattro dell'Ave Maria. Da più di un mese il generale è prigioniero, la
pressione su di noi è altissima. Il 23 gennaio viene arrestato un
fiancheggiatore, Nazareno Mantovani. Iniziamo a interrogarlo noi, lo portiamo
all'ultimo piano della questura. Oltre a me ci sono Improta e Fioriolli.
Dobbiamo "disarticolarlo", prepararlo per Ciocia e i quattro dell'Ave Maria. Lo
facciamo a parole, ma non solo. Gli usiamo violenza, anche io. Poi bisogna
portarlo da Ciocia in un villino preso in affitto dalla questura. Lo facciamo di
notte. Lo carichiamo, bendato, su una macchina insieme a quattro dei nostri. Su
un'altra ci sono Ciocia con i suoi uomini, incappucciati. Fioriolli, Improta e
io, insieme ad altri agenti, siamo su altre due macchine. Una volta arrivati
Mantovani viene spogliato, legato mani e piedi e Ciocia inizia il suo lavoro con
noi come spettatori. Prima le minacce, dure, terrorizzanti: "Eccoti qua, il
solito agnello sacrificale, sei in mano nostra, se non parli per te finisce
male". Poi il tubo in gola, l'acqua salatissima, il sale in bocca e l'acqua nel
tubo. Dopo un quarto d'ora Mantovani sviene e si fermano. Poi riprendono. Mentre
lo stanno trattando entra il capo dell'Ucigos, De Francisci, e fa smettere il
waterboarding.Dopo qualche giorno l'interrogatorio decisivo che ci porterà alla
liberazione di Dozier, quello del br Ruggero Volinia e della sua compagna,
Elisabetta Arcangeli. Io sono fuori per degli arresti e quando rientro in
questura vado all'ultimo piano. Qui, separati da un muro, perché potessero
sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando
Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei
comportato allo stesso modo. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La
ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le
infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e
viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma
soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la
loro vita insieme, avranno due figlie. E' uno dei momenti più vergognosi di quei
giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso.
Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta
per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l'acqua e sale e
dopo pochi minuti parla, ci dice dove è tenuto prigioniero il generale Dozier.
Il blitz è un successo, prendiamo tutti e cinque i terroristi e li portiamo
nella caserma della Celere di Padova. Ciascuno in una stanza, legato alle sedie,
bendato, due donne e tre uomini. Tra loro Antonio Savasta che inizierà a parlare
quasi subito, e proprio con me, consentendoci di fare centinaia di arresti. Ma
le violenze non finiscono con la liberazione del generale. Il clima è
surriscaldato. Tutti sanno come abbiamo fatto parlare Volinia e scatta
l'imitazione, il "mano libera per tutti". Un gruppo di poliziotti della celere,
che si autodefinisce Guerrieri della notte, quando noi non ci siamo, va nelle
stanze dove sono i cinque brigatisti e li picchia duramente. Un ufficiale della
celere, uno di quei giorni, viene da me chiedendomi se può dare una ripassata a
"quello stronzo", riferendosi a Cesare Di Lenardo, l'unico dei cinque che non
collabora con noi. Io non gli dico di no e inizia in quell'attimo la vicenda che
ha portato al mio arresto. La mia responsabilità esiste ed è precisa, non aver
impedito che il tenente Giancarlo Aralla portasse Di Lenardo fuori dalla
caserma. La finta fucilazione e quello che accadde fuori dalla caserma lo
sappiamo dalla testimonianza di Di Lenardo. Io rividi il detenuto alle docce.
Degli agenti stavano improvvisando su di lui un trattamento di acqua e sale. Li
feci smettere ma non li denunciai diventando così loro complice. La voglia di
emulare, di menar le mani, di far parlare quegli "stronzi" non si ferma a
Padova. Di Mestre so per certo. Al distretto di polizia vengono portati diversi
terroristi arrestati dopo le indicazioni di Savasta. I poliziotti si
improvvisano torturatori, usano acqua e sale senza essere preparati come Ciocia
e i suoi, si fanno vedere da colleghi che parlano e denunciano. Ma l'inchiesta
non porterà da nessuna parte. Quando i giornali cominciano a parlare di torture
e scatta l'indagine contro di me e gli altri per il caso Di Lenardo mi faccio
vivo con Improta, gli dico che non voglio restare con il cerino in mano, che
devono difendermi. Lui promette, dice di non preoccuparmi, ma solo l'elezione al
Parlamento propostami dal Partito socialdemocratico mi toglie dal processo. Gli
altri quattro arrestati con me vengono condannati in primo grado e, alla fine,
amnistiati. Noi non siamo mai stati in prigione. Io venni portato all'ospedale
militare di Padova e lì mi venivano a trovare funzionari di polizia per
informarmi delle intenzioni dei magistrati. Tra le mie carte ho ritrovato un
appunto dattiloscritto che mi venne consegnato in quei giorni. E' una falsa, ma
dettagliatissima, ricostruzione dei fatti che dovevamo sostenere per essere
scagionati. Suppongo che lo stesso foglio venne dato anche agli altri arrestati
perché non ci fossero contraddizioni tra di noi. Io me ne sono restato buono per
tutti questi anni perché non volevo far scoppiare lo scandalo, fare arrestare
tutti quanti. Oggi, guardandomi indietro, vedo con chiarezza che ho sbagliato,
che non avrei dovuto commettere quelle cose, né consentirle. Non dovevo farlo né
come uomo né come poliziotto. L'esperienza mi ha insegnato che avremmo potuto
ottenere gli stessi risultati anche senza le violenze e la squadretta dell'Ave
Maria».
Ladri, rapinatori e
poliziotti, secondo Nadia Francalacci su “Panorama”.
La Squadra
mobile di
Bologna ne ha arrestati 4 il 5 marzo 2012. Sono quattro agenti
della sezione Volanti
che utilizzando l’auto di servizio e la divisa, rapinavano gli extracomunitari.
La divisa che indossavano, infatti, per i poliziotti non aveva nessun valore né
simbolico e né morale e come dei comuni delinquenti, durante i controlli nelle
piazze e nelle strade obbligavano gli extracomunitari sia con le armi che con
minacce, a farsi consegnare oggetti preziosi e merce.Il loro
“vizietto” è stato fermato dagli stessi colleghi della sezione investigativa del
commissariato bolognese che li hanno arrestati per rapina e, due di loro, anche
per sequestro di persona. In un caso, secondo l’accusa, una vittima sarebbe
stata sequestrata e aggredita. Ma la corruzione tra coloro che indossano la
divisa della
Polizia di Stato non è solo prerogativa bolognese.
Il
20 dicembre 2011 è stato arrestato per peculato il numero due
del
commissariato Greco-Turro di Milano, Nunzio Musarra. Il
sostituto commissario prendeva il “prestito”
oggetti preziosi dall’Ufficio reperti del commissariato: Rolex, cellulari,
profumi, gioielli e computer. L’indagine è partita proprio da un notebook
sparito dal magazzino della Polizia al quale i commissario aveva libero eccesso
e all’interno del quale erano custoditi oltre 4 mila oggetti in attesa di essere
distrutti o consegnati ai legittimi proprietari.
Solo pochi anni fa
sempre a Milano ne furono arrestati 8, tutti in servizio presso la
Sezione Volanti della Polizia di
Stato. Loro avevo il vizietto di rubare oggetti di valore sui
luoghi dei delitti. A smascherarli sono state delle “cimici” piazzate dai
colleghi della squadra mobile a bordo delle auto di servizio le cosiddette
“pantere”. Le loro conversazioni li hanno inchiodati.
Ma non solo ladri o
rapinatori:
poliziotti-spacciatori, poliziotti-mafiosi, poliziotti-corrotti.
A
Brindisi
per cancellare una multa due poliziotti si sono fatti pagare 250
euro. Dopo aver intascato la cifra, i due hanno garantito all’automobilista che
avrebbero cancellato la multa appena rilevata dall’autovelox. Ma le loro
“richieste” sono durate pochi giorni: il 7 dicembre, i carabinieri li hanno
arrestati per peculato.
Anche nei blitz
contri i boss mafiosi “spuntano” i poliziotti che invece di essere i cacciatori finiscono per
diventare prede.
Il 16 maggio 2011, durante un’operazione contro il
clan dei
Casalesi furono arrestate 13 persone, tre erano poliziotti. Due
dei tre agenti prestavano servizio alla Stradale, ma uno al
Nucleo
piantonamenti. Per loro l’accusa di truffa aggravata ma anche di
intestazione fittizia di beni appartenenti ai camorristi.
A
Reggio
Calabria non è andata meglio ad un agente in servizio al
Nucleo
Scorte della Polizia di Stato della città calabrese. Lui è stato
arrestato dai colleghi della Squadra mobile per aver rivelato notizie riservate
sulle indagini in corso agli affiliati alla cosca Caridi, legata al più potente
clan Libri. Il 20 febbraio scorso, in occasione della visita del
Ministro
Severino a Reggio Calabria, l’agente su messo a capo scorta del
Procuratore Nazionale Antimafia, Piero
Grasso.
Ma la realtà riesce
sempre a superare l’immaginazione: l’intero corpo della polizia Stradale di
Lecce
è stato “decapitato” per concussione.
Sedici
agenti sono finiti in manette con l’accusa di associazione a
delinquere per aver concusso imprenditori e commercianti salentini. L’attività
illecita, scoperta dai colleghi utilizzando le intercettazioni, andava avanti da
oltre un decennio e nel mirino dei poliziotti sono finite oltre 100 aziende.
Solamente cinque
giorni prima di Natale, ecco spuntare anche il
poliziotto-trafficante. Un agente di 47 anni è stato fermato dai
suoi stessi colleghi del commissariato di
Gioia Tauro alla guida di un’auto mentre trasportava oltre un
chilo di
cocaina purissima e una pistola calibro 6.35 con la matricola abrasa.
Arrestato.
Questo piccolo
elenco è nulla in confronto a quanto la cronaca ci offre. Tra il calderone si
passa dagli arresti ai nomi eccellenti indagati per favoreggiamento.
Il caso del capo della Mobile è
però di certo il più clamoroso: a Vittorio Pisani, indagato per favoreggiamento,
è stato vietato di dimorare a Napoli, e il suo posto sarà preso dal suo vice.
L'accusa contro Pisani è quella di aver rivelato all'imprenditore Marco Iorio
notizie riservate sull'inchiesta in corso, consentendogli di sottrarre beni al
sequestro e di depistare le indagini.
Malapolizia, quando si
muore di Stato.
Malapolizia si scrive
tutto unito, è gergale, scorretto, deviato e deviante. Un’altra necrosi del
sistema, l’ennesima (malasanità, malapolitica, malagiustizia), di quelle che
atterriscono di più: uomini in divisa contro uomini piccoli, fragili, spesso
malati. Malapolizia evoca deliri di onnipotenza, senso di impunità, abusi di
potere, fantasmi argentini: l’arroganza del forte contro il debole. Oltre che
una locuzione, "Malapolizia"
è adesso anche un libro che spaventa e fa pensare insieme, pubblicato con Newton
Compton da Adriano Chiarelli. Un libro nero, dell’orrore, di quelli veri che ti
tolgono il sonno, altro che zombi e case infestate. Un libro-inchiesta sulle
morti oscure (sulle morti evitabili) per mano delle forze dell’ordine. Le “mele
marce” in divisa, come li chiama qualcuno, minimizzando alquanto. Federico
Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Riccardo Rasman, Gabriele Sandri,
Domenico Palombo, Marco De Santis, Maria Rosanna Carrus, ma i “casi” che
troverete in questo excursus tra i gironi infernali della violenza di Stato sono
molti di più, e inquietano. In una nazione sedicente democratica, com’è
possibile che un normale intervento di polizia si trasformi in omicidio? Qual è
il discrimine che separa la tutela dell’ordine sociale dall’abuso di potere?, la
legittima difesa dalla tortura, dall’omicidio preterintenzionale? L’inchiesta di
Chiarelli (lavora come autore e sceneggiatore per cinema e televisione) non è
pregiudiziale, ideologicamente violenta, scorretta, contro la forza pubblica.
Dice però pane al pane, e lo fa dire, quasi sempre, alle carte delle procure,
alle parole dei familiari intervistati, sollevando il velo sugli scenari di
ferocia in divisa post G8 di Genova. Sulla sopraffazione senza testimoni
consumata troppo spesso nelle camere di sicurezza delle questure, nelle celle
dei penitenziari, oppure per strada, quattro contro uno, a calci e pugni, a
manganellate. Il fatto più grave è che l’elenco dei morti e dei feriti si
allunga col tempo e nel tempo, spesso offuscato dal silenzio delle istituzioni.
Quelle raccolte in “Malapolizia” sono storie scomode, crudelissime, che qualcuno
vorrebbe farci dimenticare. Servendosi di un nutrito novero di materiali
inediti, Chiarelli punta invece il riflettore sul lato buio della pubblica
sicurezza, imbastendo un’inchiesta civile destinata a far discutere.
Da non perdere.
L'ultima fatica editoriale di Adriano Chiarelli, una via crucis attraverso 23
casi di omissioni, insabbiamento giudiziari e rallentamenti delle indagini. In
tempi di "sciatteria editoriale" la cura del volume è pressoché perfetta: è
presente l'indice analitico dei nomi, accurata la bibliografia e la
documentazione giuridica. Un libro che dovrebbe stare sulla scrivania di ogni
caserma dei Carabinieri, ogni ufficio di Polizia e nella direzione di ogni
carcere. Stiamo parlando di MALAPOLIZIA, il volume dello sceneggiatore e regista
Adriano Chiarelli. Ventitrè sono i casi esaminati nel volume suddivisi in
"Arresti mortali", "I sopravvissuti", "Le patrie galere" e "Le mele marce". Una
via crucis di morti e sopravvissuti nelle mani dello stato italiano.
Si parte da quello ormai
celeberrimo di Federico Aldrovandi -"tossico e vestito da centro sociale"- morto
durante un controllo di polizia a Ferrara nel 2005, proseguendo in una galleria
degli orrori che si arresta al delitto facilmente prevedibile di una pensionata
sarda. Stupisce apprendere come parecchi dei soggetti muoiano per errate
procedure di immobilizzazione, quando invece la casistica insegnata nelle scuole
di addestramento prescrive in maniera quasi maniacale quali sono le tecniche di
arresto e fino a che punto deve e può spingersi l'uso della violenza nei
confronti del cittadino. L'autore non cade mai nello stile fazioso degli
attivisti militanti, ma presenta davanti al lettore tutte le prove necessarie a
ricostruire il logico svolgimento dei fatti affinché l'osservatore metta a fuoco
il problema fondamentale: in tutti i casi le indagini vengono svolte da colleghi
degli indiziati.
L'antico adagio "cane non
morde cane" si rivela perciò profetico, dando vita a una sequenza di omissioni,
insabbiamenti e rallentamenti giudiziari. Ai parenti delle vittime non rimane
che una lunga e snervante trafila nelle aule giudiziarie in attesa di processi
che non cominciano mai e dello svolgimento di tutti e tre i gradi di giudizio.
Fondamentale nel volume è il ruolo svolto da internet nella propagazione delle
informazioni, diversamente parecchi dei casi in oggetto giacerebbero dimenticati
nelle cantine polverose di qualche archivio.
Last but not least, in questi
tempi di "sciatteria editoriale" la cura del volume è pressoché perfetta: è
presente l'indice analitico dei nomi, accurata la bibliografia e la
documentazione giuridica che comprende la documentazione esistente in materia:
leggi, normative e documenti.
Tutto ciò non basta a dimostrare
l'ineluttabile e l'omertosamente taciuto. Dopo il grande successo di
pubblico e critica della serie tv Romanzo Criminale, il regista Stefano Sollima
porta sul grande schermo il romanzo di Carlo Bonini: A.C.A.B.. Un viaggio nel
mondo dei celerini, guardato con distacco dal resto del corpo di Polizia e con
sospetto e diffidenza dai cittadini.
Cobra, Negro e Mazinga sono tre “celerini bastardi”. “Celerini”, così si
sentono, più che poliziotti. Vivono da tempo immersi nella violenza, specchio di
una società esasperata e in un mondo che vogliono far rispettare anche a costo
di un uso spregiudicato della forza. Incontrano così Adriano, giovane recluta
appena aggregato al loro reparto: attraverso i suoi occhi e la sua lente
integrazione nel reparto mobile vengono raccontate le vita di questo uomini,
scandite da alcuni degli eventi più eclatanti di violenza urbana accaduti in
Italia negli ultimi anni.
Tratto dall’omonimo libro di Carlo Bonini.
Cobra, Negro e Mazinga sono poliziotti del Reparto mobile, una
struttura operativa guardata con distacco dai colleghi e con sospetto dai
cittadini. I tre agenti imparano sul campo cosa vuol dire essere odiati,
apostrofati al grido di “A.C.A.B.” che sta per “All Cops Are Bastards” (tutti
gli sbirri sono bastardi), un motto del movimento skinhead inglese degli anni
‘70 diventato negli anni un richiamo universale alla guerriglia urbana. Ma i tre
vanno anche fieri nel contrastare la violenza ripagandola con la stessa moneta,
cioè agendo con metodi spicci e duri e, soprattutto, con l’uso forza. Con le
loro storie si rivivono importanti fatti della cronaca italiana degli anni
Duemila, in un cortocircuito che finisce per cambiare il lavoro e le vite
private di tutti loro.
La trama di "ACAB. Tutti i poliziotti sono bastardi", romanzo di
Carlo Bonini edito da Einaudi. «ACAB». All Cops Are Bastards. Il refrain di un
celebre motivo skin anni Settanta diventa richiamo universale alla guerra nelle
città, nelle strade. Michelangelo, «Drago» e «lo Sciatto» sono tre «celerini
bastardi». Sono odiati e hanno imparato a odiare. Basta leggere l'impressionante
e inedita chat del loro reparto per capirlo. Cresciuti nel culto della destra
fascista, si scoprono disillusi al termine di una parabola di violenza che è la
loro «educazione sentimentale». Nella narrazione di Bonini si svela, attraverso
l'occhio e il linguaggio degli «sbirri» e una lunga inchiesta sul campo, la
trama occulta dei piú sconcertanti episodi di violenza urbana accaduti in Italia
negli ultimi due anni. Che collega in un ritmo serrato e una scrittura
emozionante episodi accaduti in tempi e luoghi diversi come l'assalto militare
degli ultras a una caserma di Roma e la caccia al romeno nelle periferie, i Cpt
per immigrati clandestini e gli scontri della discarica di Pianura. La catena
dell'odio e delle impunità.
All
cops are bastards: è questo
il significato di A.c.a.b., un acronimo nato negli anni 70’ dal movimento
skinhead inglese degli anni Settanta, e poi diventato nel tempo un richiamo
universale alla guerriglia nelle città, nelle strade, negli stadi. E’ una storia
che voleva portare da tempo sul grande schermo Stefano Sollima. Nel Gennaio 2010
contatta cosìDaniele
Cesarano, Barbara Petronio e Leonardo Valenti,storici
sceneggiatori con i quali ha realizzato Romanzo Criminale – la serie, per
adattare il romanzo di Carlo Bonini, giornalista di Repubblica. Lo script si
discosta leggermente dall’originale: se nel libro i protagonisti sono Fournier,
Drago e Sciatto, nel film il personaggio di Drago è diviso tra i personaggi di
Favino, Giallini e Nigro. Anche il personaggio di Adriano è frutto degli
sceneggiatori: “E’ la storia di una giovane recluta affascinata da un gruppo di
anziani e dalla loro morale assoluta e ambigua allo stesso tempo –
spiegano i tre-
Il tutto raccontato in presa diretta, con un andamento quasi cronachistico: una
fenomenologia dell’odio che si respira nel reparto celere”. Verranno ripercorsi
alcuni episodi tristemente famosi: i fatti del G8 di Genova, la morte
dell’Ispettore Filippo Raciti, il caso di Giovanna Reggiani e in ultimo la morte
del tifoso laziale Gabriele Sandri. Il risultato è un racconto asciutto, senza
retoriche che non crea santi e peccatori “Il film, nonostante sia immerso nei
fatti più sanguinosi ed inquietanti degli ultimi anni, non vuole essere un film
di denuncia sociale, o meglio, non solo –precisa
Sollima-
E’ soprattutto una storia di uomini, un racconto di amicizia, fratellanza, di
ricerca di sicurezza e ordine, ambientato in un paese sempre più attraversato
dall’odio, sempre più radicalizzato nelle sue posizioni, che compone certamente
uno sfondo sconfortante, da cui però è bene non distogliere lo sguardo”.
Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la
predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli
italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi
apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è
dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di
polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di
sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto
il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la
legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è
stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a
quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da
10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
Legalità è
comportamento conforme al dettato della legge. L’ordine è la sicurezza dei
cittadini è un compito affidato allo Stato, affinchè la violazione della
legalità non mini il buon vivere della comunità.
Si sta molto attenti ad imporre la legalità dal basso, nessuno
pretende il rispetto della legalità dall’alto: da chi dovrebbe dare l’esempio.
La sicurezza
degli italiani in patria è affidata al Ministro dell’Interno. Giusto per capire
se l'esempio debba venire dall'alto: esemplare è la figura di uno dei tanti
Ministri che nel tempo è stato chiamato a ricoprire l’incarico.
Fonte Wikipedia:
Roberto Maroni.
Anagrafe: Nato
a Varese il 15 marzo 1955.
Curriculum: Laurea
in Giurisprudenza; avvocato all’ufficio legale della Avon, poi dirigente
leghista fin dalle origini; ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi e
del Welfare nel secondo, già capo del «governo della Padania»; 5 legislature
(1992, 1994, 1996, 2001, 2006).
Soprannome: Bobo.
Fedina
penale: Condannato
definitivamente a 4 mesi e 20 giorni di reclusione per resistenza e oltraggio a
pubblico ufficiale. Nel 1996 la Procura di Verona invia la polizia a perquisire
la sede leghista di via Bellerio a Milano, nell’ambito dell’inchiesta sulla
Guardia padana, ma alcuni dirigenti leghisti, fra cui Maroni, ingaggiano un
parapiglia con gli agenti per impedire loro di compiere il proprio dovere.
Maroni, prima di finire in ospedale con il naso rotto, avrebbe tentato di
mordere la caviglia di un agente di polizia. Di qui la condanna a 8 mesi in
primo grado, poi dimezzata in appello e in Cassazione. Maroni è anche imputato
nell’inchiesta del procuratore veronese Guido Papalia come ex capo delle camicie
verdi, insieme a una quarantina di dirigenti leghisti, con le accuse di
attentato contro la Costituzione e l’integrità dello Stato e creazione di
struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due reati sono stati ampiamente
ridimensionati da una riforma legislativa ad hoc, varata dal centrodestra
nel 2005, allo scadere della penultima legislatura. Resta in piedi solo il
terzo.
Roberto
Maroni (Varese
15 marzo 1955) è un politico italiano e Ministro dell’Interno. Laureato in
giurisprudenza ha lavorato come manager degli affari legali di diverse società;
inoltre esercita la professione di avvocato.
All'età di 16
anni, nel 1971, Maroni milita in un gruppo marxista-leninista di Varese; fino al
1979 frequenta il movimento d'estrema sinistra Democrazia Proletaria. Nello
stesso anno, il 1979, Roberto Maroni conosce Umberto Bossi. Tra i due inizia una
collaborazione politica. Maroni e Bossi contattano i primi partiti autonomisti;
quello più importante dell'epoca è l'Union Valdôtaine, movimento autonomista
della Valle d’Aosta guidato da Bruno Salvadori. Dopo la morte prematura di
Salvadori (1980), Maroni e Bossi proseguono da soli l'organizzazione di un
movimento autonomista in Lombardia. Nel1984 Bossi e Maroni fondano, con Giuseppe
Leoni, la Lega Lombarda. Mentre Bossi è segretario politico, Maroni contribuisce
all'organizzazione del nuovo partito nella provincia di Varese. Nel 1985 Maroni
è eletto consigliere comunale a Varese. La Lega elegge i primi rappresentanti
anche a Gallarate e nel consiglio provinciale.
Nel
1989 partecipa alla fondazione della Lega Nord.
È deputato alla
Camera dal 1992, dove ha ricoperto la carica di presidente del gruppo
parlamentare leghista. Entra nel Consiglio federale della Lega e segue per conto
della segreteria di Bossi le più importanti vicende politiche di quegli anni.
Sempre nel 1992 contribuisce alla vittoria della Lega Nord alle elezioni
amministrative, culminata nell'elezione del primo sindaco leghista in una città
capoluogo di provincia, Varese. Maroni entra in quella prima giunta leghista
come assessore.
È stato Ministro
dell’Interno e Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, per otto mesi, nel
1994, sotto il primo governo Berlusconi.
È al fianco di
Umberto Bossi nella svolta secessionista della Padania (15 settembre 1996) e
viene indagato dalla Magistratura per reati legati al vilipendio dell'unità
nazionale e accusato di aver causato uno stato di "depressione del sentimento
nazionale" tra i propri concittadini a causa della diffusione delle proprie
opinioni sull'indipendenza della Padania.
Il 12 agosto
1996 il Procuratore della Repubblica di Verona, Guido Papalia, avviò delle
indagini sulla Guardia
Nazionale Padana,
sospettata di essere un'organizzazione paramilitare tesa ad attentare all'unità
dello Stato (reato previsto dagli articoli 241 e 283 del Codice penale). Il 18
settembre venne così disposta la perquisizione delle residenze di Corinto
Marchini, capo delle "camicie verdi", Enzo Flego e Sandrino Speri, dell'ufficio
di Speri nella sede leghista di Verona e di un locale della sede federale di
Milano della Lega Nord, ritenuto nella disponibilità dello stesso Marchini. Le
operazioni iniziarono alle 7 del mattino e alle 11 due pattuglie della Digos di
Verona si presentarono alla sede della Lega di via Bellerio a Milano con
Marchini a bordo. A tale perquisizione, operata dalla Polizia di Stato, si
opposero alcuni militanti e politici leghisti fra cui l’ex Ministro dell’Interno
Roberto Maroni, che ne contestavano la validità. Tuttavia nel pomeriggio, dopo
una consultazione con la Procura di Verona e un nuovo mandato di perquisizione,
la Polizia decise di fare irruzione, incontrando la resistenza dei militanti e
dirigenti padani. A questo punto scattò la carica per superare l'ostacolo e
raggiungere l'ufficio indicato dall'indagato. Corinto Marchini aveva infatti
indicato come proprio ufficio un locale che si rivelò invece essere, come
scritto sulla porta, l'ufficio di Roberto Maroni; nessun altro locale venne
identificato come un possibile ufficio dell'indagato. Il Procuratore decise di
ignorare tale informazione e di far perquisire ugualmente l'ufficio. Si
contarono contusi da entrambe le parti. Maroni, caricato su una barella, venne
portato in ospedale.
Contro la
perquisizione la Camera dei Deputati nel 2003 avanzò ricorso per «conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato, chiedendo alla Corte Costituzionale di
dichiarare che non spetta all'autorità giudiziaria (ed in particolare alla
Procura della Repubblica presso il Tribunale di Verona) di disporre e di far
eseguire la perquisizione del domicilio del parlamentare Roberto Maroni». Nel
2004 la Corte Costituzionale darà ragione alla Camera.
Il 16 settembre
1998 Roberto Maroni fu condannato in primo grado a 8 mesi per oltraggio e
resistenza a pubblico ufficiale. La Corte di appello di Milano il 19 dicembre
2001 ha confermato la decisione di primo grado riducendo la pena a 4 mesi e 20
giorni perché nel frattempo il reato di oltraggio era stato abrogato. La
Cassazione nel 2004 ha poi confermato la condanna commutandola però in una pena
pecuniaria di 5.320 euro. Per la Suprema Corte «la resistenza» di Maroni e degli
altri leghisti «non risultava motivata da valori etici, mentre la provocazione
era esclusa dal fatto che non si era in presenza di un comportamento
oggettivamente ingiusto ad opera dei pubblici ufficiali». In modo particolare
gli atti compiuti da Maroni sono stati ritenuti «inspiegabili episodi di
resistenza attiva (...) e proprio per questo del tutto ingiustificabili».
Maroni è stato
anche imputato a Verona come ex capo delle camicie verdi, insieme al altri 44
leghisti, con le accuse di attentato contro la Costituzione e l’integrità dello
Stato e creazione di struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due reati
sono stati ampiamente ridimensionati dalla Legge 24 febbraio 2006, n. 85 varata
dal centrodestra allo scadere della legislatura. Restava in piedi solo il terzo,
ma anche da questo Maroni ottiene il non luogo a procedere nel dicembre 2009, e
comunque il divieto di associazioni di carattere militare previsto dal Decreto
Legislativo 14 febbario 1948, n. 43 è stato poi abrogato dal Decreto Legislativo
15 marzo 2010, n. 66 (art. 2268, c. 1, punto 297).
Nel periodo
2001-06 lavora, nell'ambito della nuova coalizione della Casa delle Libertà,
quale delegato leghista alla definizione del programma per le elezioni politiche
del 2001, nelle quali viene rieletto deputato nel collegio uninominale di
Varese. Nei governi Berlusconi II e III ha ricoperto l'incarico di Ministro del
Welfare.
Nel 2001 riceve
una lettera dal giuslavorista Marco Biagi, suo collaboratore al Ministero del
Lavoro poi ucciso dalle Br, che lamentava una non adeguata protezione.
Nel periodo
2006-2008 è stato rieletto deputato nelle elezioni politiche del 2006 per le
liste della Lega nella circoscrizione Lombardia
2.
Nella XV è membro della Commissione Affari Esteri e della Giunta delle Elezioni.
È stato capogruppo della Lega Nord Padania alla Camera.
Nel 2009 Maroni
viene indagato a Milano per presunte tangenti ed evasione fiscali. Tra il 2007 e
il 2008, avrebbe ricevuto 60.000 euro, fatturati come consulenze legali dalla
società Mythos, considerata dagli inquirenti una 'cartiera'.
Verso la fine
del 2010 il GIP di Roma ha prosciolto Maroni da tale accusa, archiviando
l'indagine su richiesta della Procura di Roma, la quale aveva accertato che
"quei soldi erano il pagamento di una consulenza legale resa regolarmente da
Maroni alla Mythos".
Nel 2009 è
diventato consigliere comunale di Porretta Terme (BO). Candidato alle elezioni
amministrative del 2007 non era stato eletto. Diventa Consigliere Comunale in
seguito alla rinuncia di altri suoi colleghi di opposizione.Il 3 luglio 2010,
l'edizione locale de Il Resto del Carlino dà la notizia delle sue dimissioni,
rassegnate per mancanza di tempo.
Il 7 maggio 2008
Silvio Berlusconi gli ha riaffidato l'incarico di Ministro dell’Interno. La sua
proposta di prendere le impronte digitali a chi non fosse in grado di
documentare la propria identità, con particolare attenzione ai bambini rom,
viene da lui definita "Un provvedimento atto a tutelare i minori stessi,
obbligati dai genitori ad andare a rubare o mendicare", mentre gli oppositori la
definiscono "Un atto xenofobo e razzista, che costringe i bambini a pagare per
colpe non loro".
Così sono i
nostri Ministri dell’Interno.
PARLIAMO DI
BLACK BLOC.
Roma messa a ferro e
fuoco. L'Urbedevastata
e sfigurata. Diversi agenti delle forze dell'ordine
feriti e immortalati nelle foto con il volto sanguinante. Autoblindi bruciati.
Roma per un giorno era come Beirut, fiamme e fumo nel cuore dell'Europa, nel
cuore dell'antica civiltà latina. Il tutto per mano di centinaia di "teste di
casco". Così ha definito i black bloc il comicoEnrico
Brignanoin un
suo monologo durante la trasmissione “leIene”
del 19 ottobre 2011.
Brignano ha accusato i
teppisti di sabato 15 ottobre 2011 in maniera netta e diretta. A tratti
lasciando da parte anche la vena ironica. Brignano ha messo sotto accusal'intelligenza
di questi "uomini neri" che forse non sapevano neanche cosa stessero facendo e
soprattutto, convinti di arrecare un danno al "sistema", magari lo favorivano,
come nel caso delle banche. «Mentre tu black-bloc passeggiavi fra mamme e
bambini che giustamente volevano protestare - recita Brignano - ad un certo
punto ti viene sta botta di patriottismo e ti metti a spaccare la vetrina della
banca, perché questo fa molto rivoluzionario. Ma non ti sei chiesto che magari
la vetrina spaccata non gli fa niente alla banca, perché la banca ha magari
un'assicurazione contro gli atti vandalici e che magari l'assicurazione gliela
rimette nuova la vetrina alla banca? No tu non c'hai pensato perché sei black
bloc, è carattere, sei impulsivo....».
Poi Brigano passa a
parlare degliincendi
alle autodei
privati cittadini. «Tu black - bloc ti sei accorto che c'hai la molotov nello
zaino l'accendi e dai fuoco a un po' di macchine parcheggiate, macchine che
appartengono a dei poverelli che magarinon
l'hanno neanche finita di pagare, ma tu non ci puoi fare niente
sei black - bloc, c'hai il casco in testa che ti opprime il cervello....- Poi il
consiglio - E levatelo sto casco così il tuo cervello lo puoi fare respirare un
po' meglio...».
A questo punto Brignano
conia un nuovo soprannome per i teppisti di Roma e li apostrofa così: «Visti i
fatti, visto quello che è successo posso dirti una cosa mio caro black bloc? Sei
o non sei un incommensurabile 'testa di casco'...?».
Ma dopo aver giocato un
po' sull'indole teppista degli incappucciati di Roma, Brignano comincia ad
accusare le forze dell'ordine. Infatti "c'è una domanda principe" a cui il
comico non è ancora riuscito a darsi una risposta ed è questa: «Perché caro
black blocle forze
dell'ordine non vi hanno fermato prima?». Quindi anche Brignano alla
fine, nonostante attacchi i teppisti dà la colpa dei disordini alla negligenza
della polizia. Pensiero condiviso da moltissimi opinionisti, pur non palesandolo
per paura di rimbrotti. Secondo il comico "le foto dei black bloc le forze
dell'ordine ce le hanno, e se le scambiano come fossero figurine", e quindi la
polizia era a conoscenza dell'identità dei teppisti.
Poi arriva
l'insinuazione che forse Brignano aveva in serbo sin dall'inizio del suo sketch.
"Ma non è che sta manifestazione degli indignati non doveva riuscire...?".
A questo punto l’accusa di Brignano sembra chiara: la polizia sapeva tutto,
conosceva in anticipo facce e nomi e avrebbe lasciato fare senza problemi perché
serviva screditare gli indignati.
Dopo aver lanciato
l'accusa il comico torna sui binari accusando anche i genitori dei black bloc
che a suo modo di vedere non hanno saputo educare i propri figli. Ma nonostante
un monologo di sette minuti dedicato ad accusare i teppisti alla fine il
messaggio che è passato, quello più pesante, è contro la polizia colpevole di
averstrizzato
l'occhio ai black bloc. Ma alla fine resta una verità
indiscutibile e ce la dà lo stesso Brignano: «300 black bloc mimetizzati con le
spranghe in mano non valgono un solo romano definitivamente incazzato che tira
fuori ilcrickdalla
macchina black bloccata».
No Global, No Tav, Black bloc, Indignados, anarchici, Carc, popolo di Seattle,
Tute bianche, centri sociali, Ribelli hanno sfasciato, incendiato, divelto,
minacciato e picchiato. Ecco il bilancio da brivido della follia di piazza. Ed è
tutto a carico dei contribuenti. La vera beffa? Dal G8 di Genova agli scontri
nella Capitale hanno pagato in pochissimi.
Nemmeno le locuste di
biblica memoria hanno fatto danni quanto loro. Disobbedienti, No Global, No Tav,
Black bloc, Indignados, anarchici, Carc, popolo di Seattle, Tute bianche, centri
sociali, Ribelli hanno sfasciato, incendiato, divelto, minacciato e picchiato.
In dieci anni, dal Global Forum di Napoli passando per l’inferno del G8 di
Genova fino alle devastazioni romane del 15 ottobre 2011, questi teppisti hanno
provocato almeno 300 milioni di euro di danni diretti e indiretti. La cicatrice
che hanno lasciato sulla pelle del Paese unisce Nord e Sud, senza distinzione.
Con un bilancio da brividi. Tutto a carico dei contribuenti.
ROMA CAPUT
SCONTRI. In quattro anni, dal 2007 al 2011, la Capitale ha subito danni per oltre
40 milioni di euro. Solo per i disastri di sabato 16 ottobre 2011, bisognerà
riparare 1.200 mq di sampietrini, 30 pali della segnaletica stradale, 300 mq di
percorsi per non vedenti, 50 cestoni di ghisa, 80 cassonetti, 3mila metri
quadrati di mura cittadine. A cui bisogna aggiungere un extra di 250mila euro
per i guasti alla linea Metro (1.500 corse perse, 2.500 limitate, 13 cancellate
e 20 telecamere di videosorveglianza distrutte) e un altro di 80mila per le
spese straordinarie sostenute dalla polizia municipale (300 unità in servizio,
una vettura danneggiata e 3 garitte demolite). Incalcolabili i danni al turismo
e all’immagine di Roma (già si registrano le prime disdette di tour operator).
Almeno un milione di euro i mancati guadagni dei commercianti e un altro milione
di danni ai privati. Il 15 dicembre 2010, la protesta contro il governo portò al
danneggiamento di 23 auto e 8 motorini, alla devastazione di vetrine e
saracinesche per 150mila euro. Ancora prima, il 10 giugno 2007, per la visita di
George W. Bush a Roma, alla stazione Tiburtina, 300 scalmanati scatenarono una
vera e propria intifada contro le forze dell’ordine. Danni incalcolabili anche
lì.
Il 23 luglio 2011, a
Chiomonte (in provincia di Torino), la battaglia inizia all’imbrunire. L’assedio
al cantiere Tav dura 4 ore: 600 dimostranti battagliano con sassaiole, incendi e
una pioggia di fuochi artificiali. La tecnica è quella dei vietcong: attacchi
mordi e fuggi. Alla fine dell’assedio,il vicino villaggio neolitico (risalente a
6mila anni fa) è ridotto a un cumulo di macerie.
A Milano, l’11 marzo
2006, le forze dell'ordine sequestrano l'arsenale del «Presidio antifascista»:
bastoni, tirapugni, pietre, una tanica di benzina, passamontagna, coltelli a
serramanico, bombe carta con chiodi a tre punte, estintori e martelletti. La
conta dei raid è: 6 auto in fiamme, 3 vetrate di McDonald's infrante e il call
center di An distrutto, 18 feriti e 41 arrestati. Il gip che firma gli ordini di
cattura parla di «eccezionale animosità» e di «una singolare volontà di
contrasto alle autorità, all’ordine costituito, alle leggi e alla pacifica
convivenza».
La prova generale del
disastro di Genova è avvenuta Napoli, 17 marzo 2001. Scontri violentissimi.
Danni ovunque. Cinque poliziotti feriti, altrettanti carabinieri. Sfondate le
vetrine di quattro istituti di credito e dell’Adecco, agenzia per il lavoro
interinale. In tilt 50 bancomat. Danni ai monumenti del centro storico. Porto
bloccato per un’intera giornata. La protesta contro il «Global Forum»calcolando
per difetto costerà oltre 7 milioni di euro.
In principio erano 10
miliardi di lire, poi 15, poi 20. Alla fine il conto è di 50 milioni di euro. E
una lista infinita di disastri per quel 20 luglio 2001: in fiamme 83 auto,
sfondati 41 negozi, 34 banche, 9 uffici postali, 16 distributori di benzina, 7
edifici pubblici e privati, 9 cabine telefoniche e 1 carro attrezzi. Non a caso
il gip parlò di «impressionante furia distruttrice». A Roma, Milano, Napoli e
Genova pochissimi teppisti son finiti al fresco. Tanto fumo e pochi arresti.
Sono poco meno di 2000. Il fondo della bottiglia secondo un’inchiesta di
“La Repubblica”.
Hanno un nome e un cognome. Tutti nello stesso elenco, divisi tra destra e
sinistra come se davvero in quella violenza si potesse fare una distinzione così
netta. In fondo alla lista il totale dice 1.891, distribuiti in tutta la
penisola, dal Trentino Alto Adige alla Sicilia. Vivono nei centri sociali di
sinistra o nelle curve degli ultras. Occasionalmente in tutte e due. Ma anche in
condomini anonimi, funzionari di prefetture e impiegati modello. Calano il casco
sul volto come il passamontagna degli anni Settanta. Nell’elenco può capitare di
trovare qualche ex della lotta armata, finito sulle barricate per nostalgia.
L’intelligence li segue da anni. Sabato
15 ottobre 2011
hanno trasformato piazza San Giovanni in un campo di battaglia, la loro
battaglia. La mappa dell’Italia violenta, gli insediamenti di quelli che per
comodità vengono ormai definiti black bloc, riflettono la storia del Novecento
italiano. Non è strano osservare che le regioni dell’estremismo nero sono quelle
dove l’eredità del fascismo è ancora forte: il Lazio, in testa, ma anche la
Campania e l’Abruzzo. E poi la Calabria dei "boia chi molla" e l’Alto Adige
degli attentati irredentisti degli anni Sessanta. Sul versante opposto la
Toscana con la tradizione centenaria del movimento anarchico di Livorno. "Nel
fondo della bottiglia - racconta chi indaga - ci si può entrare anche
occasionalmente. Black bloc per un giorno, gente che, arrestata, dice 'passavo,
ho visto che c’era casino e mi sono aggregato'. Spesso ultras che hanno fatto
allenamento nelle curve degli stadi". Ma il nocciolo duro non è fatto di
violenti per caso. Piuttosto di gente che pianifica scientificamente le azioni,
usa i movimenti come scudo. Il fondo della bottiglia ha bisogno del suo brodo di
coltura, ha bisogno di collegamenti internazionali, in alcuni casi di campi di
addestramento, come ha documentato Repubblica. In occasione degli scontri in Val
di Susa del 3 luglio 2011 - una giornata di battaglia con centinaia di feriti,
lanci di molotov e assalti a colpi di bottiglie piene di ammoniaca - le
relazioni dell’intelligence raccontano che una buona rappresentanza della black
list è salita fin nei boschi di Chiomonte. "Provenivano - è scritto nelle
relazioni - da Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Lazio e
Campania". A questi si aggiunge "un ristretto gruppo di attivisti provenienti
dall’estero, in particolare dalla Francia". Una conferma dei collegamenti e
degli scambi a livello internazionale. "Ma state attenti - dicono gli
investigatori - a non cercarli troppo lontano da casa. Molti black bloc sono
l’altra faccia del movimento". Doctor Jekyll e mister Hide, persone che a metà
di un corteo lasciano le bandiere e impugnano gli estintori. La faccia
inconfessabile di movimenti che "non hanno una identità definita, nati dalla
rabbia e dai tam tam del Web. Movimenti contenitore nei quali si finisce per
accettare chiunque perché nessuno è titolato a selezionare chi partecipa sulla
base di un programma, di una ideologia. Chiunque - dice l’investigatore - ha un
buon motivo per indignarsi per qualcosa". Eccolo il brodo che serve al fondo di
bottiglia. Perché l'assalto alla banca, l’incendio del blindato dei carabinieri,
sono la prosecuzione del corteo con altri mezzi. Era già successo a Torino,
nella primavera del 2009, alla manifestazione contro il G8 dell’università: un
corteo pacifico di studenti che attraversa le vie del centro e che
improvvisamente si trasforma in un esercito di black bloc pronto ad assaltare la
polizia. "Non di rado - dice l’investigatore - tra coloro che il giorno dopo
deploravano la violenza abbiamo individuato alcuni di quelli che il giorno prima
ci assaltavano tirandoci le molotov". Perché tra i nuovi cattivi e i vecchi
movimenti può scattare anche un patto di mutuo soccorso. Si legge in una recente
relazione dell’intelligence: "Tra i manifestanti della val di Susa, pur contrari
alla violenza, è infatti sempre più diffusa la consapevolezza che la
disponibilità all’azione mostrata dalle componenti dell’antagonismo più estremo,
possa rivelarsi funzionale agli scopi della protesta contribuendo a dare
spessore e visibilità alle istanze del movimento". Che la lotta contro il
supertreno sia un’occasione ghiotta per gli uomini della black list è dimostrato
da un grave episodio avvenuto nel 2007 quando la magistratura arrestò alla
periferia di Torino Vincenzo Sisi, un sindacalista vicino ai Carc, i Comitati di
appoggio alla resistenza per il comunismo. Nel giardino di Sisi venne trovato un
kalashnikov e in casa sua volantini e documenti sulla battaglia No Tav. Un
tentativo abbastanza maldestro per provare a mettere il cappello su una lotta
che all’epoca non praticava la violenza. Allo stesso modo movimenti poco
strutturati come quelli che scendono in piazza in questi mesi possono diventare
interessanti per qualche reduce del partito armato: "Seguendo e intercettando
quella parte dei black bloc che ha partecipato agli scontri di Roma il 15
ottobre - dice l’investigatore - abbiamo incrociato anche personaggi legati alla
galassia delle ultime Br, in particolare ai Nuclei comunisti combattenti".
PARLIAMO DI
TANGENTOPOLI INTERNAZIONALE
Ci facciamo sempre conoscere.
Se i sospetti degli americani fossero veri, sarebbe una vergogna; se fossero
infondati sarebbe un’onta impunita.
In Afghanistan mazzette ai
guerriglieri per evitare attacchi contro i nostri soldati. I file di WikiLeaks
rivelano: nel 2008 Bush disse a Silvio di finirla con i pagamenti. E da allora i
caduti in missione sono quadruplicati. Ecco l'inchiesta de
L'Espresso, rilanciata anche da The Times di
Londra.
I
soldati italiani in Afghanistan combattono,
uccidono e muoiono. I bollettini di guerra sui nostri militari colpiti ormai
sono quasi quotidiani: in due settimane ci sono stati due caduti e dieci feriti.
Un tributo di sangue elevato, pari a quello degli altri eserciti occidentali
impegnati contro i talebani in questa estate di fuoco. Ma fino a due anni fa le
nostre perdite erano molto più basse, tanto da venire citate come prova di una
voce che circolava in tutti i comandi della Nato: il governo di Roma paga i
guerriglieri per evitare attacchi. Un'accusa sempre smentita dai ministri che
adesso prende consistenza nei
cablo segreti
della diplomazia americana, ottenuti da WikiLeaks e pubblicati in esclusiva da
"l'Espresso". Con una rivelazione fondamentale: nel giugno 2008 George W. Bush
ha domandato personalmente a Silvio Berlusconi di farla finita con le tangenti
ai miliziani fondamentalisti. Lo ha chiesto nel primo summit dopo il ritorno al
potere del centrodestra, ottenendo "la promessa del Cavaliere ad andare a fondo
nella questione".
I documenti riservati di Washington mostrano come
il problema fosse diventato fondamentale per gli americani, che continuavano a
ricevere rapporti dall'intelligence e dalle altre nazioni schierate in
Afghanistan, sempre più insofferenti per la "scorciatoia" usata dagli italiani
per pacificare le zone affidate al loro controllo. Secondo le informazioni
raccolte dai nostri alleati, i "pagamenti per la protezione" servivano a sancire
tregue tra le truppe di Roma e i guerriglieri nei territori più caldi. Dal 2008
in poi ci sono almeno quattro dossier della diplomazia statunitense che
sollecitano interventi al massimo livello sul governo Berlusconi per stroncare
il giro di mazzette. Fino all'estate 2009, quando con la prima grande offensiva
della Folgore anche i nostri militari sono passati all'assalto dimostrando con
le armi la nuova volontà bellica del centrodestra. Ma da allora anche il numero
di bare avvolte nel tricolore è cominciato a crescere, sempre di più fino a
quadruplicare: nei primi quattro anni erano state sei, negli ultimi due sono
state 24 a cui vanno aggiunti oltre cento feriti. Un lungo elenco di uomini che
si sono sacrificati per rendere credibile la nostra politica estera e
contribuire al tentativo di dare sicurezza alle popolazioni afghane.
Il forte segnale degli Usa.
Il primo dei file scoperti da WikiLeaks è dell'aprile 2008, alla vigilia delle
elezioni che portarono alla vittoria del centrodestra, quando l'ambasciatore
Ronald Spogli definisce la strategia verso il prossimo governo. A partire dalla
priorità di ottenere un potenziamento del dispositivo in Afghanistan. "Sia
Berlusconi che Veltroni saranno riluttanti ad esporre i soldati italiani a
rischi più grandi. Faremo pressioni perché le truppe assumano un atteggiamento
più attivo contro gli insorti. Daremo anche un forte segnale opponendoci
all'abitudine del passato di pagare denaro per ottenere protezione e negoziare
riscatti per la liberazione di persone rapite". Quando il Cavaliere si insedia a
Palazzo Chigi gli emissari di Washington cominciano subito a farsi sentire con
decisione. Il 6 giugno, anniversario dello sbarco in Normandia, Spogli incontra
il presidente del Consiglio e Gianni Letta per definire l'agenda dei colloqui
con il presidente Bush. "L'ambasciatore ha detto a Berlusconi che continuiamo a
ricevere fastidiosi resoconti sugli italiani che pagano i signori della guerra
locali e altri combattenti. Berlusconi si è detto d'accordo che ciò vada
fermato".
L'impegno del Cavaliere.
Stando ai documenti ufficiali, nel successivo vertice con Bush "in merito alle
accuse di pagamenti italiani ai leader degli insorti per evitare attacchi,
Berlusconi ha promesso che andrà fino in fondo". Insorti è il termine con cui
gli americani chiamano tutti i miliziani attivi in Afghanistan: fondamentalisti
talebani, signori della guerra locali e terroristi di Al Qaeda. Ma quattro mesi
dopo la situazione non è cambiata. Anzi, nel suo resoconto indirizzato
all'attenzione della Casa Bianca, Spogli è ancora più duro. Loda la decisione di
concentrare i 2.200 soldati nella Regione Ovest, affidata al comando tricolore,
sottolineando però il peso dell'affaire tangenti. "Disgraziatamente,
l'importanza del contributo è messa a repentaglio dalla crescente reputazione
negativa degli italiani che evitano i combattimenti, pagano riscatti e denaro
per ottenere protezione. Questa reputazione è basata in parte su voci, in parte
su informazioni dell'intelligence che non siamo stati capaci di verificare
completamente. Vero o no, resta il fatto che gli italiani hanno perso 12 soldati
in Afghanistan (questa cifra include le vittime di incidenti, ndr.), meno di
gran parte degli alleati con responsabilità simili. La maggioranza degli scontri
nella zona affidata all'Italia sono stati condotti dalle forze americane o
dell'esercito di Kabul. Le indicazione che abbiamo ricevuto dal quartiere
generale della Nato suggeriscono che questo comportamento potrebbe provocare
tensioni tra gli alleati". Spogli
prosegue la sua analisi con severità: "Ho già fatto presente la questione a
Berlusconi. Lui mi ha assicurato di non saperne nulla e che l'avrebbe fermata se
ne avesse trovato le prove". Gli americani però sembrano convinti che le
informazioni sui pagamenti siano vere. E quindi Spogli raccomanda a Bush di
"rendere chiaro a Berlusconi come la traballante reputazione dell'Italia, anche
se fosse immeritata, stia mettendo a rischio la sua credibilità nella
coalizione. Cosa ancora più grave, se ci fosse un fondamento a queste accuse, il
comportamento italiano starebbe mettendo in pericolo le truppe degli alleati".
Rappresaglia contro i parà.
A forza di insistere Washington sembra ottenere il risultato. Nella primavera
2009 la spedizione viene raddoppiata ed entrano in campo i parà. La Folgore va
all'offensiva in tutta la regione occidentale, respingendo i miliziani con raid
e incursioni di elicotteri Mangusta. La "bolla di sicurezza" intorno alle basi
occidentali viene allargata. E - come rivela WikiLeaks - quando il segretario
alla Difesa Gates incontra il ministro Franco Frattini si rallegra "per la fine
delle voci sulle tangenti agli insorti". Nello stesso periodo però crescono
anche i caduti, fino al terribile agguato del 17 settembre quando a Kabul
vengono uccisi sei paracadutisti e altri quattro restano feriti: l'attentato più
grave subito dai militari italiani dopo la strage di Nassiriya. Che adesso
potrebbe essere riletto in una luce diversa dopo i documenti "sulle mazzette in
cambio di protezione". Fonti dell'intelligence hanno confermato a "l'Espresso"
che ci sono stati pagamenti a capi locali, spesso alleati dei talebani,
nell'area della capitale. E' la prima zona dove i nostri soldati si sono
schierati a partire dal 2004, fino a ottenere per alcuni semestri la
responsabilità della sicurezza di tutta Kabul. I fondi per queste "operazioni
coperte" sono stati gestiti dal Sismi, allora diretto da Nicolò Pollari, durante
il vecchio esecutivo di Silvio Berlusconi. Come "l'Espresso" ha scritto nel
2005, solo nei primi due anni della missione afghana il servizio segreto
militare ha ottenuto oltre 23 milioni di euro extra per "attività di
informazioni e sicurezza della Presidenza del consiglio dei ministri". Ma le
elargizioni sarebbero proseguite anche durante il governo Prodi. E in città non
ci sono mai stati attacchi contro gli italiani. L'unico episodio grave è
l'imboscata del settembre 2009, una trappola così potente da dilaniare due
veicoli blindati Lince: è scattata dopo la fine di ogni regalia, poche settimane
prima che il nostro contingente traslocasse nella regione di Herat. Le
conclusioni dell'inchiesta su quel massacro non sono mai state rese note. Di
sicuro, nel mirino c'era proprio la Folgore: una rappresaglia per le azioni dei
parà o la moratoria delle mazzette ha pesato sulla ferocia dell'assalto?
Il pasticcio di Surobi.
Pagamenti alle milizie fondamentaliste ci sarebbero stati anche nel dicembre
2007 quando l'Italia prese il comando del distretto di Surobi, considerato uno
dei più pericolosi di tutto il Paese, lungo la direttrice che va da Kabul verso
il Pakistan. Per sei mesi alpini e parà presidiarono la vallata, in un periodo
di eccezionale serenità che permise anche di aiutare villaggi dove le truppe
occidentali non avevano mai messo piede. Ci fu un solo caduto, il maresciallo
Giovanni Pezzullo, colpito proprio mentre trasportava cibo alla popolazione. Ma
quando nell'agosto 2008 i nostri vennero sostituiti dai francesi, al loro
esordio assoluto in Afghanistan, si scatenò l'inferno. Dieci legionari morirono
e 21 furono feriti in un'imboscata, che colse di sorpresa la spedizione di
Parigi. Sui giornali francesi vennero fatte filtrare accuse durissime contro
Roma: "Gli italiani ci hanno taciuto i pagamenti ai miliziani, ecco perché siamo
stati presi alla sprovvista". Un anno dopo, "The Times" del gruppo Murdoch ha
pubblicato in prima pagina un articolo molto informato sulle tangenti italiane
ai talebani per "decine di migliaia di dollari". L'articolo faceva riferimento
anche alla protesta dell'ambasciata americana con Berlusconi. All'epoca, tutti
smentirono: sia i vertici dell'Alleanza atlantica, sia i ministri di Roma. Ma,
come raccontano i cable di WikiLeaks, in quell'autunno 2009 l'intervento
personale di George Bush aveva già fatto finire le mazzette. E i soldati
italiani si stavano comportando come le altre truppe della Nato: combattevano,
uccidevano, morivano. Tutti i giorni, in un Paese che da trent'anni non conosce
pace.
DIFENDERCI DA CHI ?!?
"Tutto quello che non si scrive sulla condanna
del generale Ganzer": è il titolo di una disanima di Paride Leporace su
"Carta". Un'accusa al sistema di potere deviato colluso con gli organi
d'informazione. La ricostruzione di una storia italiana dopo la clamorosa
condanna a 14 anni del generale dei Ros: i misteri d'Italia, i processi ai
movimenti, le trame...
Rinasce la P3, il solito Dell’Utri, il
coordinatore di Forza Italia, il vecchio faccendiere Carboni. Siamo abituati. Un
po’ meno al fatto che un generale dei carabinieri, capo dell’ineffabile Ros, sia
duramente condannato a Milano a 14 anni in primo grado per aver messo in piedi
una rete, che acquista cocaina in Colombia per far meglio carriera.
Il generale Ganzer non ha fatto un piega. Aspetta
le motivazioni di una sentenza del processo meno raccontato dai media italiani.
Eppure i protagonisti e i fatti meritavano approfondimenti. Ma oggi nel Belpease
chi si mette a scrivere delle ombre del reparto operativo più osannato nella
lotta al crimine? A Milano hanno condannato anche ufficiali e sottoufficiali del
Ros e un alto generale. Si chiama Mauro Obinu. Vice di Ganzer. Ma anche imputato
in altri processi poco raccontati. A Palermo fa coppia sul banco degli imputati
con il generale Mori. Sono accusati di non aver catturato Binnu Provenzano. In
quel periodo attraverso i Ciancimino avevano avuto anche il mandato di trattare
con Cosa Nostra invece di pensare ad arrestare boia e mandanti delle stragi che
uccisero Falcone, Borsellino e le loro scorte. Obinu sta all’Aise. Che non è
un’azienda di elettrodomestici ma una delle sigle dei nostri straordinari
servizi segreti che ogni tanto cambiano sigla per rinverdire il brand. Il capo
di Obinu è Gianni De Gennaro condannato in Appello ad un anno e quattro mesi per
la macelleria messicana della scuola Diaz di Genova quando era il capo della
polizia italiana. Poi richiamo alla vostra memoria che il comandante generale
della Guardia di Finanza, Roberto Speciale era stato condannato ad un anno e
mezzo per peculato ed è stato ricompensato con una nomina a senatore del partito
berlusconiano. Vogliamo aggiungere Niccolò Pollari direttore del Sismi salvato
dalle accuse per il rapimento di Abu Omar con il segreto di Stato e ricompensato
con una qualifica di Consigliere di Stato.
Vi meravigliate? Io ho poco disincanto forse
perché essendo un direttore di giornale ho potuto verificare che in favore di
Pollari con dossier mirati si muovevano strani personaggi calabresi in odor di
massomafia. Non avete mai incontrato uomini delle istituzioni che si sentono
Stato più Stato degli altri? Spesso in rapporto stretto con giornalisti di grido
dotati di ottimi fonti e che nelle redazioni possono far emergere titoloni su
quel personaggio o capaci di far circolare dossier molto documentati contro
avversari interni o esterni. Anche loro P3? Chissà.
Stiamo ai fatti senza troppo dietrologia e
comprendiamo chi è il generale Ganzer condannato a 14 anni da un Tribunale di
quello Stato che doveva servire. Accademia Militare di Modena. Capitano e
allievo del generale Dalla Chiesa tiene il fortino strategico di Padova, dove
coordina il blitz contro l’Autonomia. Si tratta del processo «7 aprile» ovvero
quando l’inquisizione politica consente l’eclisse del Diritto. Il dossier che
arriva al giudice Calogero porta le firma di Ganzer. Sul fronte della
criminalità cattura la banda dei giostrai. Poi infiltra uno dei suoi uomini
nella “Mafia del Brenta” di Felice Maniero. Pochi ricordano che un pm indaga
l’ufficiale dei carabinieri per falsa testimonianza a difesa dell’infiltrato. La
circostanza è citata da Fiorenza Sarzanini del Corsera che la elogia in positivo
chiosando : “preferì finire sotto processo piuttosto che tradire un
collaborante”. Carabinieri su una linea d’ombra. Stato nello Stato. Ma ci sono
anche magistrati che non fanno sconti. Parte da lontano la vicenda che ha visto
condannare il capo Dei Ros ad una pesantissima condanna a 14 anni di carcere. A
Ganzer è andata male perché ha trovato un mastino sulla sua strada. Lo stesso
magistrato che ha indagato sul Sismi di Pollari. Un pm tostissimo. Armando
Spataro della Procura di Milano. Che si fida ciecamente di Ganzer. Ma quelli
come Spataro non si bevono tutto come oro colato. Anche se ti chiami Ganzer. Il
pm riceve la richiesta di un’autorizzazione a ritardare il sequestro di una
partita di droga. Questo il racconto del pm dagli atti processuali:«Mi disse che
il Ros disponeva di un confidente colombiano che aveva rivelato l’arrivo nel
porto di Massa Carrara di un carico di 200 chilogrammi di cocaina. Era destinata
alla piazza di Milano e il confidente era disposto a fornire al Ros le
indicazioni necessarie per seguire il carico fino a destinazione e catturare i
destinatari della merce». Spataro firmò il decreto di ritardato sequestro. Ma i
piani del Ros cambiarono: l’operazione infatti fu effettuata. Ma, dopo aver
compiuto l’operazione, il Ros non diede più informazioni. Insospettito, Spataro
si presentò negli uffici romani del Raggruppamento operativo speciale e chiese
notizie attorno al sequestro dei due quintali di cocaina. Gli fu mostrata della
droga conservata in un armadio. Quando, molti mesi dopo, Ganzer gli prospettò
l’ipotesi di vendere quella droga a uno spacciatore di Bari, Spataro decise di
informare il capo della procura e alcuni suoi colleghi. E ordinò la distruzione
della droga. Un copione che sarebbe poi stato ricalcato molte altre volte.
Secondo l’accusa, gli stessi carabinieri erano diventati protagonisti del
traffico e le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci
piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi all’opinione pubblica. Anche
Fabio Salomone pm bresciano indaga sul Ros. Quello di Bergamo. I carabinieri
reclutano giovani pusher su piazza. Trovano i clienti e vendono la coca. Un
gruppo di carabinieri fa carriera con operazioni dove i soldi spariscono e che
hanno una sorta di regia etorodiretta.
Un esponente della malavita, Biagio Rotondo, detto
«Il Rosso» racconta al pm Salomone che nel 1991 due carabinieri del Ros lo
avvicinarono in carcere e gli proposero di diventare un confidente nel campo
della droga. In realtà, secondo l’accusa, questi confidenti (tra il 1991 e il
1997 ne furono reclutati in gran numero) venivano utilizzati come agenti
provocatori, come spacciatori, come tramiti con le organizzazioni dei
trafficanti. «Il Ros – scrivono i giudici nel rinvio a giudizio – instaura
contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni sudamericane e
mediorientali dedite al traffico di stupefacenti senza procedere nè alla loro
identificazione nè alla loro denuncia… ordina quantitativi di stupefacente da
inviare in Italia con mercantili o per via aerea, versando il corrispettivo con
modalità non documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in
Italia dello stupefacente importato. Denaro di cui viene omesso il sequestro».
«Si tratta – annota la Procura di Milano – di istigazione ad importare in Italia
sostanze stupefacenti». I sottoufficiali indagati nascondono microspie
ambientali e registrano l’interrogatorio del Pm. Per Ganzer è un gioco facile
denunciare Salomone per abuso alla procura di Venezia e paralizzare per lungo
tempo l’inchiesta. Un’inchiesta, nata a Brescia nel 1997 (pm Fabio Salamone)
passata poi a Milano (pm Davigo, Boccassini e Romanelli) perchè coinvolgeva un
pm bergamasco, salvo poi essere mandata a Bologna (per un episodio a Ravenna),
restituita da Bologna a Milano, girata a Torino e rispedita a Bologna, che
sollevò conflitto di competenza in Cassazione, la quale stabilì infine la
competenza di Milano. Un giro d’Italia che ha ritardato la fine di un processo
durato un’eternità e che a quello di piazza Fontana gli fa un baffo per quanti
tribunali ha visitato nel silenzio generale. E Biagio Rotondo detto “Il Rosso”?
Il testimone che ha permesso di scoprire i giochi del Ros è morto suicida in
carcere a Lucca il 29 agosto nel 2007. Cinque giorni prima la squadra mobile lo
ha arrestato nell’ambito di un’inchiesta su delle rapine avviata con delle
intercettazioni. Fuori dal ristorante dove lavora è stata trovata avvolta in un
tovagliolo una vecchia pistola di strana provenienza e che ha giustificato il
fermo per porto d’armi abusivo. Nella sua ultima lettera indirizzata anche ai
magistrati che hanno gestito la sua collaborazione c’è scritto: “Confermo che
tutto quello che ho detto corrisponde a verità. E’ un momento tragico per la mia
vita, sono fallito come tutto e ritrovarmi in carcere senza aver fatto nulla è
per me insopportabile…Vi chiedo scusa per questo insano gesto”. C’ è un’altra
presunta mela marcia in questa storia. E’ il magistrato Mario Conte che a
Bergamo offre la copertura legale al supermarket carrierista della droga. E
quando l’inchiesta Salomone decolla Conte si fa trasferire a Brescia acconto
alla stanza di Salomone. Per motivi di salute la sua posizione è stralciata e si
trova in attesa di giudizio. Si vedrà.
Per il momento una sentenza di primo grado ci dice
che il metodo Ganzer nella lotta alla droga ha permesso l’arresto di molti pesci
piccoli, sono aumentate le finanze di molti narcos ed è aumentativo il volume
della cocaina nel nostro Paese. Senza dimenticare le violazioni del diritto e la
deviazione delle istituzioni. Chissà se vi è capitato di assistere in
televisione a vedere i servizi di quelle operazioni antidroga come “Cobra” o
“Cedro” e che nulla altro sarebbero state che delle recite a soggetto. I Ros di
Ganzer avrebbero anche installato una finta raffineria a Pescara per renderne
più brillante l’operazione. Ma tutto questo non era un’associazione a delinquere
secondo il Tribunale di Milano. Resta con la prescrizione una zona d’ombra anche
per un carico arrivato dal Libano di 4 bazooka, 119 kalasnikov, 2 lanciamissili
in quel caldissimo 1993 italiano e che secondo l’originario capo d’accusa i Ros
avrebbero venduto alla cosca dei Macrì-Colautti. I soldi dell’affare non si
trovano. Solo qualche traccia bancaria sbiadita. Guadagni forse personali e
qualche conto off shore che l’inchiesta non è stata in grado di trovare. Ganzer
e Obinu sapevano quello che combinavano i sottoposti. Sono stati tutti
condannati insieme al loro tramite libanese Jean Ajai Bou Chaya che dovrà
scontare 18 anni di carcere.
Intanto a Milano per arrivare a questa sentenza
sono stati escussi trecento testimoni (a favore di Ganzer la difesa ha anche
chiamato l’ex procuratore nazionale Vigna) e accorpati centoquaranta fascicoli.
Tenute 163 udienze in cinque anni, 28 tra requisitorie e arringhe, 8 giorni di
camera di consiglio. Nessuno ha seguito il processo fatto salvo rinvio a
giudizio, richiesta pena e cronache sulla sentenza. L’unica eccezione è
rappresentata da un articolo dell’Unità apparso in pagina il 25 febbraio del
2009 a firma di Nicola Biondo.
Il generale Ganzer in tutto questo trambusto è
diventato capo del Ros dal 2002 con beneplacito di destra e sinistra. A Mario
Mori sotto processo a Palermo succede Ganzer condannato ieri a Milano. Allievi
di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nucleo speciale. Molti ufficiali e poca truppa.
Investigazione speciale e segreta. I magistrati sono stati spesso al loro
guinzaglio, intercettazioni invasive e operazioni nella terra di mezzo con il
confidente. Una strana miscela che ha fatto esplodere conflitti esplosivi come
quello tra il colonnello Riccio e Mori in Sicilia. Anche per Riccio condotte
illegali nelle indagini antimafia gli sono costate una condanna in Appello a 4
anni e 10 mesi. Chi è più Stato dello Stato? I Ros di Ganzer oggi gestiscono le
inchieste sui fondi neri a Finmeccanica, i ricatti a Marrazzo, tutte le nobile
gesta della cricca, l’asse calobro-lombarda delle ndrine e gli affari della
Camorra. Può il generale rimanere al suo posto? Secondo il ministro dell’Interno
leghista e per il Comando generale dell’Arma non ci sono dubbi, dall’opposizione
non vola neanche una mosca. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano,
da ministro dell’Interno vide lungo e chiese che alcune competenze dei reparti
speciali italiani andassero ai comandi territoriali. Il Gico della Guardia di
Finanza e lo Sco della Polizia hanno ottemperato alla disposizione. Tranne il
Ros dei carabinieri che con le sue ventisei sezioni dislocate nelle Procure
distrettuali restano delle monadi impenetrabili. Da quei reparti vengono uomini
come Angelo Jannone, Giuliano Tavaroli, Marco Mancini e finiti tutti nello
scandalo dei dossier illegali Telecom-Sismi. E gli ex Sismi accusano gli ex Ros
di avere contatti proprio con Ganzer che con il Ros di Roma va a Palermo a
disarticolare l’ufficio di Genchi subito sospeso dall’incarico senza essere
formalmente indagato mentre il generale resta al suo posto mancando solo la
promozione di generale di brigata. I Ros sono quelli che arrestarono a Milano il
calabrese Daniele Barillà, sette anni di carcere innocente risarcito con soldi e
la fiction di Beppe Fiorello “L’uomo sbagliato”. Potremmo narrarvi tante storie
sul Ros. Ma io che sono un cronista di provincia ricordo che il Ros di Ganzer si
occupò anche dei No Global di Cosenza e della Rete del Sud ribelle dopo i fatti
di Genova. E dal mio archivio pesco un documentato articolo di Peppino D’Avanzo
che su Repubblica ci svelava questa trama: «Accade che il Raggruppamento
Operazioni Speciali (Ros) dell’Arma dei Carabinieri si convinca che dietro i
disordini di Napoli (7 maggio 2001) e di Genova (21 luglio 2002) non ci sia
soltanto il distruttivo, nichilistico furore di casseur europei o il violento
spontaneismo delle teste matte (e confuse) di casa nostra, ma addirittura
un’associazione sovversiva. Concepita l’ipotesi, gli investigatori dell’Arma
intercettano, spiano, osservano, pedinano. In assenza di contraddittorio,
s’acconciano come vogliono cose, frasi, dialoghi, eventi, luoghi edificando una
conveniente e coerente cabala induttiva. È il sistema che più piace agli
addetti: “lavorare su materia viva, a mano libera”. Organizzato il quadro,
occorre ora trovare un pubblico ministero che lo prenda sul serio. Alti
ufficiali del Ros consegnano il dossier, rilegato in nero, di 980 pagine più 47
di indici e conclusioni ai pubblici ministeri di Genova. Che lo leggono e
concludono che ‘quel lavoro è del tutto inutilizzabile’. Gli investigatori
dell’Arma non sono tipi che si scoraggiano. Provano a Torino. Stesso risultato:
“Questa roba non serve a niente”. Il dossier viene allora presentano ai pubblici
ministeri di Napoli. L’esito non è diverso: il dossier, da un punto di vista
penale, è aria fritta. Finalmente gli ufficiali del Ros rintracciano a Cosenza
il pubblico ministero Domenico Fiordalisi. Fiordalisi si convince delle buone
ragioni dell’Arma dei Carabinieri. Ora rendere conto delle buone ragioni del Ros
che diventano buone ragioni per il pubblico ministero e il giudice delle
indagini preliminari, Nadia Plastina, è imbarazzante per la loro e nostra
intelligenza».
Nadia Plastina è stata promossa, Fiordalisi è
diventato pm in una procura sarda e vive sotto scorta per le minacce ricevute. I
militanti arrestati nell’operazione No global sono stati tutti assolti nel
processo di primo grado e devono affrontare quello d’appello. Il generale Ganzer
è stato condannato da un tribunale dello Stato e resta al suo posto di
comandante del Ros.
ORARI INSUFFICIENTI E
STRAORDINARI DA AUTORIZZARE
TURNO: 36 ORE SETTIMANALI. SONO MOLTO DI MENO,
SE SI CONSIDERA CHE PER OGNI GIORNO VI E' LA FASE MONTANTE E LA FASE SMONTANTE
DAL SERVIZIO. E' UN TEMPO MORTO, PERCHE' INIBISCE OGNI INTERVENTO.
ORARIO DI LAVORO
DECRETO DEL
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA 11 Settembre 2007 , n. 170
Recepimento
dell'accordo sindacale e del provvedimento di concertazione per il personale non
dirigente delle Forze di polizia ad ordinamento civile e militare (quadriennio
normativo 2006-2009 e biennio economico 2006-2007).
Titolo I
FORZE DI POLIZIA
AD ORDINAMENTO CIVILE
Art. 10. Orario
di lavoro
1. La durata
dell'orario di lavoro è di 36 ore settimanali.
2. Il personale
inviato in servizio fuori sede che sia impiegato oltre la durata del turno
giornaliero, comprensivo sia dei viaggi che del tempo necessario
all'effettuazione dell'incarico, è esonerato dall'espletamento del turno
ordinario previsto o dal completamento dello stesso; qualora il predetto
servizio si protragga oltre le ore 24,00 per almeno tre ore, il dipendente ha
diritto ad un intervallo per il recupero psico-fisico non inferiore alle dodici
ore. Il turno giornaliero si intende completato anche ai fini dell'espletamento
dell'orario settimanale d'obbligo.
3. Fermo
restando il diritto al recupero, al personale che per sopravvenute inderogabili
esigenze di servizio sia chiamato dall'amministrazione a prestare servizio nel
giorno destinato al riposo settimanale o nel festivo infrasettimanale è
corrisposta una indennità di Euro 5,00 a compensazione della sola ordinaria
prestazione di lavoro giornaliero.
4. Al personale
impiegato in turni continuativi, qualora il giorno di riposo settimanale o il
giorno libero coincida con una festività infrasettimanale, è concesso un
ulteriore giorno di riposo da fruire entro le quattro settimane successive.
FORZE DI POLIZIA
AD ORDINAMENTO MILITARE
Art. 28. Orario
di lavoro
1. La durata
dell'orario di lavoro è di trentasei ore settimanali.
2. Il personale
inviato in servizio fuori sede che sia impiegato oltre la durata del turno
giornaliero, comprensivo sia dei viaggi che del tempo necessario
all'effettuazione dell'incarico, è esonerato dall'espletamento del turno
ordinario previsto o dal completamento dello stesso. Il turno giornaliero si
intende completato anche ai fini dell'espletamento dell'orario settimanale
d'obbligo.
3. Fermo
restando il diritto al recupero, al personale che per sopravvenute inderogabili
esigenze di servizio sia chiamato dall'amministrazione a prestare servizio nel
giorno destinato al riposo settimanale o nel festivo infrasettimanale è
corrisposta una indennità di Euro 5,00, a compensazione della sola ordinaria
prestazione di lavoro giornaliero.
4. Al personale
impiegato in turni continuativi, qualora il giorno di riposo settimanale o il
giorno libero coincida con una festività infrasettimanale, è concesso un
ulteriore giorno di riposo da fruire entro le quattro settimane successive.
5. I riposi
settimanali, non fruiti per esigenze connesse all'impiego in missioni
internazionali, sono fruiti all'atto del rientro in territorio nazionale nella
misura pari alla differenza tra il beneficio spettante ed i recuperi e riposi
accordati ai sensi della normativa di settore; tale beneficio non è
monetizzabile.
6. Le ore
eccedenti l'orario di lavoro settimanale che non siano state retribuite possono
essere recuperate mediante riposo compensativo entro il 31 dicembre dell'anno
successivo a quello in cui sono state effettuate, tenendo presenti le richieste
del personale e fatte salve le improrogabili esigenze di servizio.
Registrato alla
Corte dei conti l'11 ottobre 2007
Ministeri
istituzionali, registro n. 10, foglio n. 214
STRAORDINARI
L'articolo 63
della legge 1° aprile 1981, n. 121, istituisce il compenso del lavoro
straordinario in favore degli agenti e degli ufficiali di pubblica sicurezza. Il
relativo capitolo di bilancio, di conseguenza, viene gestito dal Ministero
dell'Interno.
il Consiglio di
Stato, con decisione n. 1.531 del 14 marzo 2002, ha stabilito: "Per poter
retribuire il lavoro straordinario prestato dai dipendenti pubblici è necessaria
un'autorizzazione formale e preventiva, al fine di verificare, nel rispetto
dell'articolo 97 della Costituzione, se esistano effettivamente le ragioni di
pubblico interesse che rendono necessario il ricorso a prestazioni lavorative
eccedenti l'orario normale. A tal fine, l'autorizzazione può intervenire a
sanatoria soltanto nel caso di prestazioni lavorative espletate per
improcrastinabili esigenze di servizio". In tale quadro, solo i comandanti ed i
capi ufficio che dispongono il servizio potranno giudicare, anche in relazione
alla disponibilità del monte ore, come retribuire le ore eccedenti il normale
orario di lavoro. Competente, comunque, ad amministrare detto monte ore è il
Comandante provinciale. In riferimento ai tempi richiesti per la liquidazione
dei fogli di viaggio, non risulta prestabilito alcun termine, trattandosi di
mero lavoro burocratico eseguito sotto il controllo della scala gerarchica.
IMPUNITA' DIFFUSA
RAPPORTO
EURISPES: ITALIANI SFIDUCIATI NON DENUNCIANO IL 31 % DEI REATI.
Sicurezza: si stima
che il bilancio dei crimini stia per raggiungere quota tre milioni, un vero e
proprio record. Nel 30,6% dei casi gli italiani, pur essendo stati
vittima di reati, hanno preferito non denunciare l'accaduto agli organi
competenti. Il 42,4% degli italiani ha installato un allarme antifurto in
macchina, mentre il 33,3% ha preferito montarne uno a difesa della propria casa.
Dati allarmanti, che segnalano un preoccupante senso di sfiducia nelle
istituzioni ed un aumento della voglia del tutelarsi in proprio.
DATI ISTAT. RAPPORTO TRA LE
DENUNCE E LE CONDANNE: L'8%
IL RESOCONTO ANNUALE DELLO STATO DELLA GIUSTIZIA INDICA
IL PERCHE' DI TANTA SFIDUCIA DEI CITTADINI NELLE ISTITUZIONI, SE GIA' LE DENUNCE
DELLE FORZE DELL'ORDINE HANNO UN ESITO INCERTO.
DENUNCE FORZE DELL'ORDINE
TOTALE
AUTORI IGNOTI
AUTORI NOTI
2.456.887
1.840.209
616.678
TOTALE CONDANNE
198.263
RAPPORTO DENUNCE-CONDANNE
8%
SICUREZZA: 333 REATI ALL'ORA. LA MAPPA
DELLA CRIMINALITÀ CITTÀ PER CITTÀ
Nel complesso l'aumento si può definire "contenuto" e il traguardo dei tre
milioni era atteso; scrive Rossella Cadeo su "Il
Sole 24 ore". Ma il problema criminalità resta all'ordine del giorno – tra
insicurezza "percepita", episodi di cronaca "effettivi" e allarmi continui.
L'ultimo – sull'incertezza delle pene che vanificherebbe «gli sforzi della
magistratura e delle Forze di polizia» – l'ha lanciato venerdì scorso al Senato
il capo della Polizia Antonio Manganelli. Qualche indicazione concreta sulla
situazione e sui trend più recenti può venire dai dati forniti dal ministero
dell'Interno – ed elaborati dal Sole 24 Ore del lunedì – che parlano di un
bilancio 2007 di 2,9 milioni di reati denunciati, circa 143mila in più rispetto
al 2006 (+5,15%), quasi 8mila al giorno o 333 ogni ora.
Rapportando il dato ai 59,2
milioni di italiani, si ottiene una media di 4.900 delitti ogni centomila
abitanti: su ogni cento abitanti graverebbero insomma 4,9 crimini (appena un
paio di decimi in più rispetto al 2006). Se quindi, considerando l'attività
criminale in generale, il quadro non si presenta molto movimentato, luci e ombre
emergono da un'analisi più dettagliata, scendendo cioè nelle principali
tipologie (si veda la pagina a fianco) e nelle performance territoriali.
E così si scopre che c'è un
reato assai diffuso, quello dei furti d'auto, che evidenzia addirittura un calo
rispetto al 2006 (-5,35%), mentre un altro ben più temuto, quello dei furti in
abitazione, è salito di quasi un quinto. Collocandosi entrambi intorno a quota
170mila, si può calcolare che ogni ora, in Italia, vengano prese di mira una
ventina di auto e un numero analogo di abitazioni. Incremento oltre la media
anche per le truffe informatiche e le frodi (+8,7%): quasi 120mila ed è una
cifra che non comprende i numerosi episodi che – a volte per "vergogna" o per
paura della vittima, altre volte per le scarse probabilità di ottenere qualche
"ristoro" – neppure vengono denunciati. Poi ci sono i crimini per la strada, i
borseggi (23mila) e gli scippi (160mila), dati in crescita (rispettivamente
+2,35% e + 6,35%) che comunque si riferiscono solo all'emerso. Stabili invece
gli omicidi volontari: più o meno sono 600-620 all'anno.
Dalla classifica – che per
ognuna delle 103 province fornisce il numero totale dei reati, l'incidenza ogni
100mila abitanti e la variazione percentuale nel 2007 rispetto al 2006 – si
constata invece la diversa distribuzione del fenomeno sul territorio. Così è
abbastanza prevedibile scoprire ai primi posti per quantità le aree
metropolitane, maggiormente esposte all'attacco della criminalità per ragioni di
ricchezza e "densità": reddito, demografia, luoghi e occasioni di accesso.
Milano e Roma occupano le prime due posizioni, contribuendo ciascuna a quasi un
decimo delle denunce totali, seguite da Torino e Napoli, entrambe sopra quota
100mila. Altrettanto ovvio trovare all'altra estremità della classifica quattro
piccole province, Isernia, Enna, Oristano e Matera, tutte del Sud e tutte sotto
la soglia dei 4mila casi in totale.
Se, però, si mette il numero
dei reati in rapporto con la popolazione, ecco che una provincia di modeste
dimensioni si deve "rassegnare" a scalzare le grandi in vetta alla classifica: a
Rimini sono oltre 9 ogni cento residenti (ma questa realtà è maggiormente a
rischio di reati anche per gli elevati flussi turistici che richiama da anni).
Tutta l'Emilia Romagna, peraltro, si trova a pagare l'attrattività del
territorio in termini di maggiore incidenza dei fenomeni criminosi: quattro
delle sue nove province (Rimini, Bologna, Ravenna e Modena) sono nella top ten
dei reati in rapporto alla popolazione. In evidenza si mettono anche altre
province con forte appeal turistico, come Firenze e le liguri Genova e Savona.
Quanto al trend, la grande
maggioranza delle province evidenzia un aumento dei reati: particolarmente forte
quello di Foggia (22%), seguita da Latina, Isernia e Matera, ma almeno le ultime
due vantano condizione estremamente soddisfacenti. E non mancano segnali
positivi: in 15 province, tra le quali Genova, i reati risultano in calo.
IL CAPO DELLA POLIZIA,
ANTONIO MANGANELLI: ITALIA
TERRA DI INDULTO QUOTIDIANO E INCERTEZZA DELLA PENA
La certezza
della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto
quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia, prefetto
Antonio Manganelli, non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza
della pena in Italia.
NON SI E' FATTO NULLA
- «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari
Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è
fatto nulla negli ultimi anni» riporta "Il
Corriere della Sera".
La pena, aggiunge Manganelli,
«oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende
«assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di
polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della
Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che
abbiamo oggi è una situazione vergognosa».
CRIMINALITA' E
CLANDESTINITA'
- «La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben
identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della
polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono
immigrati clandestini - ha spiegato ancora Manganelli - ma questa media
nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della
polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono
relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per
cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per
cento». La maggior parte degli immigrati clandestini, sottolinea poi Manganelli,
entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il
10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a
Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva
regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento
di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi
arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio».
Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo
il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei
clandestini».
CPT
- Dal primo gennaio a oggi, «le forze dell'ordine hanno fermato 10.500 immigrati
clandestini per i quali è stata avviata la procedura di espulsione: ma solo
2.400 di loro hanno trovato posto nei Centri di permanenza temporanea» ha reso
noto Manganelli. «È un dato che io trovo inquietante - ha ammesso Manganelli -,
perchè significa che oltre 8 mila clandestini sono stati "perdonati" sul campo
essendosi visti consegnare un foglietto su cui c'è scritto "devi andar via", che
equivale a niente».
«Noi forze dell'ordine diciamo che l'immigrazione clandestina va contrastata con
rigore, ma di fatto rinunciamo già in partenza a qualsiasi possibilità di farlo»
ha detto ancora Manganelli. In tutto il 2007 - ha spiegato Manganelli - «gli
immigrati clandestini fermati e avviati ad espulsione sono stati 33.897, ma solo
6.366 di loro hanno trovato posto nei Cpt: di fatto, 27 mila sono stati
destinatari di un ordine scritto (di allontanamento), naturalmente non accolto
nella stragrande maggioranza, se non nella totalità, dei casi».
COMMISSIONE AFFARI COSTITUZIONALI. LUCIANO
VIOLANTE: BENE INDAGINI MA PROCESSI
INEFFICACI
Dal 1992 al 2007 infatti sono stati arrestati
3.747 pericolosi latitanti, circa uno ogni 36 ore e sono "quasi cessate le
violenze negli stadi".
Diverso è invece il discorso dell'efficacia del
processo "i cui risultati preoccupanti esigono la più severa delle riflessioni".
A denunciarlo è l'indagine sulla sicurezza in
Italia promossa dalla commissione Affari costituzionali della Camera presieduta
da Luciano Violante e presentata oggi a Montecitorio.
I dati offerti alla commissione da
"tutte e cinque le forze di polizia - si legge nel documento -
dimostrano un impegno crescente nel controllo del territorio, delle persone e
dei veicoli da trasporto, negli arresti e nelle perquisizioni".
In particolare, le "persone denunciate sono
passate dalle 435.751 del '90 alle 651.485 del 2006''. Negli ultimi cinque anni,
si aggiunge, si è passati dai 125.689 arresti del 2002 ai 153.936 del 2006
(+22,47%). Per quanto riguarda poi il controllo del territorio, gli indici sui
quali ci si basa sono quelli delle persone e delle auto identificate in
occasione dei posti di blocco e nel 2006 le persone controllate sono state 10
milioni, mentre gli automezzi 5 milioni.
Quando si passa a valutare
l'efficacia del processo, dice ancora la relazione, "che vuol
dire sconfitta dell'impunità e certezza della sanzione, i risultati sono
preoccupanti ed esigono la più severa delle riflessioni".(ANSA) 2008-04-22 12:16
IL
RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE
LA GUARDIA DI FINANZA, SEMPRE NELL'OCCHIO DEL CICLONE.
«Processate il generale
Cretella così ha corrotto quel giudice per sbloccare la sua promozione»
(di Maria Elena Vincenzi) Una storia all’italiana, fatta di piccoli
favori e raccomandazioni. I cui protagonisti, però, sono tre alti funzionari
pubblici: il generale di divisione della Gdf Walter Cretella Lombardo, il
consigliere di Stato Fulvio Rocco e il giudice del Tar Brunella Bruno. I primi
due accusati di corruzione per aver barattato piaceri personali. Il terzo di
rivelazione del segreto d’ufficio e di calunnia. Ingredienti per una storiaccia
che come scenografia ha il Tar del Lazio e il Consiglio di Stato. La storia
inizia quando il pm napoletano Henry John Woodcock iscrive il generale Walter
Cretella Lombardo per corruzione. Insieme al suo "mentore" ed ex capo del Sismi,
Nicolò Pollari, l’ufficiale avrebbe acquistato appartamenti a Roma a un prezzo
di favore. In cambio i due avrebbero assicurato all’immobiliarista l’affitto, a
cifre esorbitanti, di una caserma delle Fiamme Gialle a Napoli. È la fine di
novembre 2012, dopo pochissimi giorni si riunisce la commissione che deve
valutare se Cretella può diventare generale di corpo d’Armata. Lui, allora
comandante del Veneto, vuole la promozione, chi lo conosce lo descrive come un
uomo ambizioso. Ma sa che quel nuovo problema (già nel 2007 fu indagato da De
Magistris per l’inchiesta Why Not e ne uscì prosciolto) gli bloccherà la
carriera, come puntualmente avviene. A questo punto, il generale decide di
mettere in campo tutte le sue conoscenze. Contatta prima Brunella Bruno,
magistrato del Tar della Campania ed ex capitano della Finanza. È lei, secondo
l’accusa, a redigere il ricorso di Cretella al Tar del Lazio per bloccare la
sospensione dell’avanzamento. E per farlo la Bruno chiede e ottiene da un
maresciallo del comando generale informazioni coperte da segreto. Per questo i
pm romani (che hanno ricevuto il fascicolo da Napoli) contestano alla giudice e
al maresciallo, Paolo Colaneri, la rivelazione del segreto d’ufficio (accusa
dalla quale la Bruno ha cercato di difendersi parlando di una perquisizione
illegale, per questo le viene contestata anche la calunnia). Cretella, però,
teme che quell’aiuto non basti. Si rivolge anche a un consigliere di Stato,
Fulvio Rocco (in servizio, peraltro, alla commissione che dovrà giudicare il
secondo grado del contenzioso di Cretella). Il giudice ha una figlia, Diana,
ufficiale della Finanza. L’accordo è chiaro: Cretella si occupa di sostenere la
carriera della ragazza in cambio di un aiuto sul suo ricorso. Un do ut des tra
alti funzionario dello stato che per la procura è corruzione. Questi gli atti
dell’inchiesta che a metà febbraio finirà davanti al gup. Tutto il resto è il
racconto di un malcostume che non fa onore alla giustizia amministrativa,
gestita come se fosse cosa propria, con magistrati che curano gli interessi
propri e degli amici. Si scopre così che il generale e i due giudici avevano un
telefonino dedicato, trovato a Rocco durante una perquisizione. Quando il pm,
durante l’interrogatorio, gli chiede conto di quel "citofono" (così si chiama,
in gergo, il cellulare usato per evitare le intercettazioni), il consigliere di
stato risponde che è una «cosa fatta così, un po’ per gioco», salvo poi svelare
che lo scopo era di non essere ascoltati. Si scopre anche che il ricorso del
generale Cretella viene depositato al Tar del Lazio sabato 22 dicembre 2012 a
mezzogiorno, tre giorni prima di Natale. Non c’è tempo da perdere, la
sospensione va bloccata subito. L’avvocato dell’ufficiale chiama direttamente il
presidente della II sezione, Luigi Tosti. Il giudice non è al lavoro (spiegherà
al pm che «non ama recarsi in ufficio il sabato») ma avvisa un collega che, in
pochi minuti, arriva in tribunale e blocca tutto. Regalo di Natale per il
generale che ora, però, rischia di trascinare in tribunale lui e chi glielo ha
fatto. (La
Repubblica, 27 gen. 2014)
Il
generale Michele Adinolfi, capo di stato maggiore della Guardia di Finanza,
indagato dalla procura di Napoli nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P4,
è stato promosso generale di Corpo d'Armata insieme al generale Giuseppe
Quaranta. Lo riferisce una nota di Palazzo Chigi, diffusa al termine del
Consiglio dei ministri. "Su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze,
(Giulio) Tremonti, i generali di divisione della Guardia di finanza Giuseppe
Quaranta e Michele Adinolfi sono stati promossi generali di Corpo d'Armata".
Adinolfi, dal 15 settembre 2011, assumerà l'incarico di Comandante
interregionale Firenze.
ECCOLO il terremoto che torna a rendere plumbei i giorni della Guardia di
Finanza. Il generale di divisione Michele Adinolfi, capo di stato Maggiore,
l'ufficiale operativo più alto in grado del Corpo, secondo nella scala
gerarchica al solo Comandante generale, è indagato nell'inchiesta P4 per
rivelazione di segreto di ufficio e favoreggiamento.
I
pubblici ministeri napoletani Henry John Woodcock e Francesco Greco lo accusano
di essere la "fonte" di altissimo livello, la "talpa" negli apparati, che
consentì a Luigi Bisignani di sapere, nel momento cruciale dell'indagine di cui
era oggetto, che le sue utenze cellulari erano intercettate Marco Milanese,
deputato del Pdl, storico consigliere del ministro Giulio Tremonti, ed ex
ufficiale della Guardia di Finanza, già indagato dalla Procura di Napoli per
altre vicende. Non è tutto. Nella vicenda, per come al momento è possibile
ricostruirla, sono coinvolti un secondo generale della Guardia di Finanza, Vito
Bardi (già comandante interregionale per l'Italia meridionale, per altro già
ripetutamente citato nelle carte dell'inchiesta come uno dei contatti di Alfonso
Papa). Il generale Adinolfi e il generale Bardi sono indagati per rivelazione di
segreto di ufficio e favoreggiamento. E questo sulla base di "evidenze"
istruttorie che, all'osso, raccontano questa storia. Marco Milanese riferisce ai
pm napoletani (al momento non è dato sapere in quale contesto o sulla base di
quali sollecitazioni) di aver saputo dal generale Vito Bardi, che fu proprio
quest'ultimo a informare dell'indagine Bisignani e delle intercettazioni
telefoniche in corso il suo superiore gerarchico, il Capo di Stato Maggiore
Adinolfi. Una prassi che la lettera della legge vieta (il segreto di un'indagine
penale non cade di fronte all'obbligo militare che impone di riferire al proprio
superiore in grado), ma che, in qualche modo, è routine in tutti gli apparati,
soprattutto quando le indagini presentano risvolti di particolare delicatezza,
come per il caso Bisignani. Il problema, tuttavia, è che questa notizia non
resta confinata tra le mura di viale XXI Aprile. Adinolfi - ricostruiscono i
pubblici ministeri - ritiene di dover raccomandare a Bisignani cautela al
telefono. E per farlo, sceglie di mettere tra sé e l'uomo di piazza Mignanelli,
un amico comune, il giornalista Pippo Marra. Adinolfi gli consegna l'ambasciata
("Tacere al telefono"). Marra la gira a Luigi Bisignani.
Un
Corpo che, torna a non avere pace.
Un anno e sei mesi di reclusione per peculato
continuato, scrive Carlo Bonini su "La
Repubblica". Pena sospesa e, commenta ora con soddisfazione il Procuratore
militare Antonino Intelisano, "principi del diritto riaffermati". Il giudizio di
appello militare contro l'ex Comandante generale della Guardia di Finanza, poi
deputato del Pdl, Roberto Speciale, stabilisce che il "ponte aereo di spigole"
del 26 agosto 2005 per accendere le serate in baita di una vacanza estiva nella
foresteria dolomitica del Corpo a passo Rolle, non fu un atto di legittima
generosità verso "dei poveri finanzieri che non ne potevano più di mangiare solo
wurstel". Al contrario, fu un abuso di denaro e risorse pubbliche per riempire
la pancia del Comandante generale, di sua moglie, dei consuoceri, di una coppia
di amici (un generale della Finanza e consorte) e certamente di qualche povero
finanziere ridotto a cameriere di quella cena.
Con la sentenza d'appello, l'affaire - svelato e
documentato da un'inchiesta di "Repubblica" dell'ottobre 2007 - trova così una
sua nuova conclusione penale che ribalta i due giudizi che l'avevano preceduta.
Il primo processo, contabile, si era chiuso con una pronuncia della Corte dei
Conti il 10 agosto del 2009 che aveva respinto una domanda risarcitoria avanzata
dalla Procura di 28 mila euro, calcolata sul costo delle ore di volo e il
dispendio di "mezzi terrestri" necessari al trasferimento di dieci casse di
pesce fresco dall'aeroporto militare di Pratica di Mare, dove erano state
imbarcate, a quello di Verona (dove erano state prese in consegna dai uomini dei
"baschi verdi", normalmente addetti alle operazioni antidroga), alla baita di
Passo Rolle, dove l'attovagliato generale attendeva impaziente. Il secondo
processo, penale, si era chiuso l'8 ottobre del 2009, con una sentenza del
tribunale militare che aveva assolto Speciale ritenendo che i fatti contestati
all'ex comandante generale della Finanza non costituissero reato.
Con enfasi e
ostentata tracotanza, dopo le prime due assoluzioni, Speciale (che nel 2008, per
i suoi servigi politici nella vicenda Visco, è stato ricompensato dal Pdl con un
seggio sicuro alla Camera in un collegio dell'Umbria) aveva salutato i primi
verdetti penale e contabile con parole definitive ("La verità trionfa sempre").
Di più, aveva accusato "Repubblica" di un accanimento giornalistico degno di
miglior causa. Il nuovo processo (che, ora, conoscerà un ulteriore passaggio in
Cassazione) conferma che quanto raccontato dal giornale era semplicemente la
verità. E in qualche modo riabilita la testimonianza e il coraggio di uno dei
protagonisti di questa vicenda, il meno noto. Il maggiore della Guardia di
Finanza Aldo Venditti, l'ufficiale pilota dell'Atr-42 in forza al "Gruppo
esplorazione marittima" e anticontrabbando che la mattina del 26 agosto del
2005, a Pratica di Mare, dopo aver scoperto che il "volo vip" a cui era stato
assegnato con destinazione Verona, altro non era che un carico di pesce fresco
provò inutilmente a disobbedire, rifiutandosi di prendere la cloche.
Natale in carcere per l'ex generale della Guardia di finanza, Giuseppe Cerciello,
arrestato dalla polizia nella sua casa di Cagliari. Contro l'ufficiale pendeva
l'ordine di carcerazione, firmato dal Tribunale di Brescia, dopo che la
Cassazione aveva confermato a novembre la condanna a 3 anni e dieci mesi per le
tangenti alla Guardia di finanza di Milano. Di recente, Cerciello aveva
accumulato altre due condanne dal tribunale di Milano: 7 anni e 11 mesi per
concussione e corruzione (24 ottobre) e altri 12 anni per corruzione (17
aprile). La polizia ha cercato l'ex generale Cerciello prima a Firenze, dove
ufficialmente viveva con la famiglia. Quando gli agenti hanno bussato alla porta
di casa, nessuno ha risposto. I poliziotti lo hanno però raggiunto a Cagliari,
all'indirizzo che l'ex ufficiale corrotto aveva lasciato agli uffici della
procura che contro di lui aveva istruito, con i colleghi del pool di Milano,
l'inchiesta e il processo sulle bustarelle passate dagli imprenditori ai
finanzieri di Cerciello per ammorbidire le visite fiscali. La condanna era stata
pronunciata il 21 ottobre dai giudici della seconda sezione della corte di
appello di Brescia. Dopo sei ore di camera di consiglio, a Cerciello fu
riconosciuto uno sconto di pena: 3 anni e 10 mesi, rispetto al verdetto di
condanna di primo grado del novembre ' 95 che aveva quantificato in 4 anni e 2
mesi il periodo di carcere per la corruzione. In quell'occasione, Cerciello fu
riconosciuto colpevole di concussione in relazione a tre episodi per i quali,
invece, il Tribunale di Brescia lo aveva condannato per corruzione. Il
difensore, il professore Carlo Taormina, aveva presentato ricorso in Cassazione.
L'alta Corte ha confermato l'operato dei giudici di Brescia e per Cerciello si
sono riaperte le porte del carcere. L'ex generale della Guardia di finanza fu
arrestato la prima volta nel luglio del '94, su richiesta dei pm Antonio Di
Pietro e Francesco Greco. L'ordinanza di arresto portava invece la firma
dell'allora giudice per le indagini preliminari Andrea Padalino. L'inchiesta del
pool scoperchiò un sistema di corruzione organizzato dagli uomini di Cerciello.
Un'indagine, condotta dalla stessa Guardia di finanza, che portò negli anni ad
una serie di processi e di condanne. Ultimo, in ordine di tempo, è stato il
filone che ha visto Cerciello condannato a Milano a fine ottobre a 7 anni e 11
mesi. La vicenda riguardava le tangenti pagate da quattro società del gruppo
Fininvest e che vedeva in origine tra gli imputati anche Silvio Berlusconi. Per
motivi di salute, la posizione di Cerciello fu stralciato. Il pm Piercamillo
Davigo chiese 11 anni di reclusione: i giudici della settima sezione si
fermarono a quasi 8 anni, ma condannarono l' ex finanziere a risarcire i danni
al ministero delle Finanze, al quale fu riconosciuta una provvisionale di 400
milioni.
STRAGE DI NASSIRIYA:
CONDANNATO UN GENERALE MILITARE
Due anni di reclusione
al generale Bruno Stano e rinvio a giudizio per il colonnello Georg Di Pauli
perché avrebbero potuto fare qualcosa per evitare la morte di 19 italiani e 9
iracheni durante l’attentato di Nassiriya del 12 novembre 2003. Assolto, invece,
il generale Vincenzo Lops che aveva preceduto Stano nel comando della missione.
I tre ufficiali erano accusati, a diverso titolo, di non aver messo in atto
tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza della base Maestrale, a
Nassiriya.
TANGENTI PER ANDARE IN
MISSIONE
La procura
della Repubblica di Roma ha aperto un'inchiesta sulla denuncia di alcuni
sottufficiali dell'esercito e dei carabinieri i quali in occasione di trasmissioni
televisive hanno denunciato che i militari, che si erano offerti per andare in
missione di pace o di guerra all'estero, dovevano versare una tangente ai loro
superiori. L'inchiesta è affidata al pubblico ministero Adelchi D'Ippolito che
ipotizza i reati di corruzione e concussione.
È scoppiato il caso delle presunte tangenti pagate per poter partecipare alle missioni
militari all'estero, sul quale la Procura di Roma ha avviato un'inchiesta
affidata al pubblico ministero Adelchi D'Ippolito, che ipotizza i reati di
corruzione e concussione. A denunciare i fatti, alcuni militari italiani,
carabinieri e soldati dell'Esercito. E a raccoglierne le rivelazioni Rai New 24
che mandò in onda un ampio reportage a firma di Sigfrido Ranucci,
nel corso del quale alcuni sottoufficiali dei carabinieri raccontavano di aver
presentato senza successo richieste per partecipare alle missioni all'estero e
che erano venuti a conoscenza del fatto che »bisognava pagare una o due
mensilità per poter andare in Iraq, Bosnia, Kossovo«. Il servizio dava voce
anche a un militare dell'esercito operativo a Udine, che era stato costretto a
pagare per poter essere trasferito.
L'inchiesta aperta dalla
Procura romana si affianca a quella già avviata da tempo dalla Procura militare
per aspetti diversi da quelli affidati all'esame di D'Ippolito e ha tratto
spunto appunto dall'intervista fatta a luglio scorso dal maresciallo
dell'Esercito Domenico Leggero durante una trasmissione televisiva e
successivamente anche da un maresciallo dei carabinieri. Le loro versioni dei
fatti sono state confermate anche da altri due sottufficiali dell'Arma, che
incappucciati confermarono tutte le accuse recentemente durante il programma 'Le
Iene", spiegando come avevano fatto i loro colleghi che chi intendeva partecipare
alle missioni di pace o di guerra all'estero era costretto a versare ai suoi
superiori una somma di danaro calcolata sulla base della diaria che veniva
percepita a seconda del tipo di missione. Il magistrato ha già acquisito
un'ampia documentazione comprese le dichiarazioni fatte in televisione. Inoltre
sono stati già sentiti come testimoni diversi militari che hanno confermato le
accuse.
(Adnkronos).
INDAGINI SCIENTIFICHE: INDAGATO GENERALE DEL
RIS
Luciano Garofano ha salutato con una
stretta di mano i colleghi del Racis di Roma e il comandante Nicola
Reggenti e si è chiuso per sempre alle spalle la porta dell'Arma,
scrive Cristina Marrone su "Il
Corriere della sera".
L'investigatore dal camice bianco, il colonnello, poi Generale, che
ha fatto conoscere a tutta Italia concetti complicati come Dna e
analisi delle macchie di sangue, tecniche come luminol o crimescope
si è congedato. Non vestirà più la divisa dei carabinieri e
proseguirà in modo privato la sua attività di biologo prestato alle
indagini scientifiche. La notizia dell'addio arriva, curiosamente,
con quella della sua iscrizione nel registro degli indagati della
procura di Parma per un «presunto uso improprio dei mezzi e delle
strutture del Ris nell'ambito delle sue consulenze». Al colonnello
sono contestati peculato, truffa e falso ideologico in atto
pubblico. A far scattare l'iter giudiziario era stato un esposto dal
suo «nemico» dai tempi dell' inchiesta di Cogne, l'avvocato Carlo
Taormina, che un paio di anni fa si era presentato alla procura
militare di Roma lamentando una serie di anomalie su una quarantina
di consulenze svolte da Garofano tra il 2002 e il 2009. La procura
militare non aveva individuato reati e aveva trasmesso gli atti alla
procura ordinaria competente per territorio: Parma. «Il comandante
Garofano - precisa Taormina - ha utilizzato attrezzature e personale
appartenente all'Arma durante orari di ufficio e ha percepito i
compensi dalle consulenze tecniche affidategli quando il consulente
tecnico nominato dai pubblici ministeri o dai giudici per legge non
può essere considerato pubblico ufficiale ma privato cittadino».
L'11 novembre 2009 la Guardia di Finanza si era presentata nella
sede del Ris di Parma ed aveva sequestrato i documenti contestati.
Il colonnello, chiuso in un impenetrabile silenzio, non vuole
commentare.
VIOLENZA E NONNISMO
Nocs, ecco
le foto
degli abusi in caserma da
“La Repubblica”.
Le prove degli atti di nonnismo nel quartier generale delle teste di cuoio. Le
immagini mostrano la pratica chiamata "anestesia": la vittima viene fatta
spogliare e percossa con violenza sui glutei per renderli insensibili. A questo
punto i capi della caserma lo mordono con forza fino a far sprofondare i denti
nella carne.
E un altro agente denuncia:
"Chi veniva al corso poi finiva sotto shock".
Dopo l'ennesimo pestaggio concluso con la consueta
salve di minacce, esausto e sanguinante, un agente di Nocs torna nella sua
stanza, all'interno della Caserma di Spinaceto. Siamo nel 2010. L'agente non sa
più che fare, è disperato, depresso, va avanti così da una dozzina d'anni, per
un istante pensa persino di lasciare il Nucleo e gli 800 euro lordi in più che
quella situazione assurda gli garantisce in busta paga. Ma, d'un tratto,
rivolgendo lo sguardo verso la branda, la sua attenzione viene rapita da uno
strano foglio di carta. Un formato A4, che non aveva mai visto prima. Lo prende,
lo gira e capisce subito: qualcuno, dentro la caserma, di nascosto, ha voluto
fargli un regalo. Su quel foglio è immortalata, sequenza dopo sequenza, una
delle numerose violenze che accadono là dentro. "La scena - spiega l'agente che
per ovvi motivi di incolumità personale chiede di rimanere coperto
dall'anonimato - era stata fotografata qualche anno fa, una notte in cui il
gruppo decise di farci l'anestesia". L'anestesia è una pratica a metà tra il
sadismo e
il nonnismo:
il gruppo tiene ferma la vittima, e inizia a percuoterla in un punto prescelto
del corpo - di solito i glutei - fino a che questo non si anestetizza del tutto.
A quel punto il capo morde "la parte" fino a strappare la carne, o quanto meno
fino a far toccare gli incisivi. Nelle
foto
di cui Repubblica è entrata in possesso il rito si ricostruisce con una certa
precisione. In una si vedono distintamente tre ragazzi con i pantaloni
abbassati. Il clima è ambiguo, nonostante la situazione uno dei ragazzi sembra
sorridere. "Lo richiede la pratica - spiega l'agente - è una sorta di rito
d'iniziazione, anche se a volte prevede dei "richiami", e va affrontata con un
contegno maschile e complice". In un'altra si vede uno dei tre immobilizzato sul
letto da più persone: "È la fase dell'anestesia vera e propria, quella cioè in
cui a mani nude o con delle palette, il gruppo colpisce a ripetizione. Può
durare fino a mezz'ora". In un'altra, il morso. Ora quelle foto sono in procura
e presto arriveranno anche su quella degli ispettori della polizia che hanno
avviato un'indagine interna. Alla quale potrebbe contribuire il racconto di un
altro agente dei Nocs, M. C., che, dopo essere andato in pensione a 40 anni "con
uno stato depressivo di origine reattiva", conferma quanto denunciato dal
collega: "All'interno della caserma regna un clima incredibile. Ricordo che i
ragazzi che venivano a fare il corso basico, il primo, quello iniziale,
tornavano a casa in stato di shock". E mentre dal mondo politico si moltiplicano
le iniziative - dopo l'interrogazione parlamentare del pd Emanuele Fiano è
arrivata ieri quella del deputato radicale Maurizio Turco - è sceso in campo il
sindacato di polizia Siulp: "Se tutti questi racconti trovassero conferma -
commenta Luigi Notari - sarebbe gravissimo, una situazione da antropologi e
psicologi più che da magistrati. L'amministrazione deve fare pulizia".
Nocs, abusi in caserma,i
vertici sapevano.
Tre relazioni di servizio, rimaste senza seguito, avvertivano il comando dei
Nocs, facendo nomi e cognomi, del clima di violenza che ormai da tempo si
respirava all'interno della Caserma Polifunzionale di Spinaceto, quella
dell'ormai famigerata "anestesia", la pratica al confine tra il sadismo e il nonnismo
con cui il reparto d'élite della polizia di stato dà il benvenuto ai suoi agenti
scelti. Documenti inequivocabili, nei quali l'agente che con il suo racconto
affidato a Repubblica aveva sollevato il caso, descriveva con precisione i
comportamenti
borderline
del collega Fernando Olivieri, il leader del "gruppo fuori controllo che detta
legge all'interno della Caserma", peraltro già indagato per lesioni e minacce
dalla procura di Roma.
Scriveva l'agente, il 12
gennaio del 2007, in una lettera indirizzata "Al Signor comandante del Nocs":
"Chiedo alla S. V. tutela della mia dignità umana e della mia professionalità,
in quanto tale situazione perdura ormai da troppo tempo e non so più cosa fare
per arginare comportamenti illegittimi e intollerabili". In quell'occasione,
l'agente era stato aggredito verbalmente mentre si trovava a bordo di un furgone
trasporto personale sniper, in attesa di andare al poligono di Castel Sant'Elia
per una normale esercitazione. Un episodio minore che però faceva seguito a
numerosi altri di entità decisamente più rilevante come quella volta che "l'Olivieri
mi colpì con una testata al volto durante un addestramento a Chiusi" o quella in
cui, sempre l'Olivieri, "colpì con due pugni al volto l'agente scelto Claudio
Casoli, durante l'orario di servizio nei vecchi uffici di Castro Pretorio". Una
serie interminabile che si sarebbe protratta fino al dicembre 2010, il giorno in
cui, dopo l'ennesimo pestaggio, stavolta subìto in mensa, l'agente decise di
cominciare a raccogliere prove in vista di una denuncia in procura, convinto di
trovare terreno fertile anche in ragione del fatto che Olivieri aveva avuto
numerosi precedenti in tal senso e tra questi una rissa, particolarmente
violenta, con un istruttore di judo, Paolo De Carli, che di lì a qualche tempo
si sarebbe suicidato in preda ad una crisi depressiva.
Prima di cominciare a
raccogliere le prove, però, l'agente si premurò di avvertire nuovamente il
"Signor direttore del Nocs" dei comportamenti di Olivieri. "Un collega - scrisse
quel giorno l'agente - mi fissava e contemporaneamente mi sorrideva vistosamente
(...) Ricambiavo lo sguardo con un saluto e lui inspiegabilmente stizzito dal
mio gesto mi insultava ad alta voce con parole testuali: "Che cazzo ti saluti?".
Di lì a pochi istanti la situazione degenerò, e ne scaturì il pestaggio
(all'agente vennero "refertati" 108 giorni di malattia). Va detto che le
relazioni inviate al comando non furono del tutto ignorate. Di lì a poco
infatti, l'agente denunciante venne messo alla porta, trasferito per
incompatibilità ambientale.
ODIO ED IMPUNITA'
ACAB è un acronimo, una sigla famosa nel mondo
Ultras, che, se svolta, in inglese suona così “All cops are bastards”, vale a
dire “tutti i poliziotti sono dei bastardi. Ma è anche uno degli ultimi titoli
che va ad arricchire la collana stile libero della Einaudi, un titolo forte non
c’è che dire, ma perfettamente adatto al contenuto che veicola.
Questo nuovo libro, scritto dopo una lunga
inchiesta sul campo da Carlo Bonini, giornalista della Repubblica, svela il
background allucinante di una certa parte della polizia italiana, quella
cresciuta con il mito di una destra reazionaria e violenta, quella che si è resa
colpevole, a Genova nel 2001, di uno degli episodi più gravi dagli anni delle
stragi di stato in poi, ma anche di molto altro. Quello che emerge dal libro di
Bonini è un ritratto raccapricciante, che con la forza di un linguaggio
iperrealistico, tratto dalle chat che alcuni di questi”poliziotti cattivi”
frequentano sul web.
ACAB: all the cops are bastards è un libro che ci
deve far riflettere non solo sul ruolo della polizia, dell’organo di controllo
per eccellenza, nella nostra società, ma che soprattutto ha il compito di
riportare l’attenzione di un pubblico, spesso troppo distratto, su quella trama
di fatti sconcertanti di violenza urbana che hanno riempito le cronache dei
giornali e la storia italiana degli ultimi anni, dai fatti della scuola Diaz
all’assalto militare degli ultras a una caserma di Roma.
ACAB. All Cops Are
Bastards". Il refrain di un celebre motivo skin
anni Settanta diventa richiamo universale alla guerra nelle città, nelle strade.
Michelangelo, «Drago» e «lo Sciatto» sono tre «celerini bastardi». Sono odiati e
hanno imparato a odiare. Basta leggere l'impressionante e inedita chat del loro
reparto per capirlo. Cresciuti nel culto della destra fascista, si scoprono
disillusi al termine di una parabola di violenza che è la loro «educazione
sentimentale». Nella narrazione di Bonini si svela, attraverso l'occhio e il
linguaggio degli «sbirri» e una lunga inchiesta sul campo, la trama occulta dei
più sconcertanti episodi di violenza urbana accaduti in Italia negli ultimi due
anni. Che collega in un ritmo serrato e una scrittura emozionante episodi
accaduti in tempi e luoghi diversi come l'assalto militare degli ultras a una
caserma di Roma e la caccia al romeno nelle periferie, i Cpt per immigrati
clandestini e gli scontri della discarica di Pianura. La catena dell'odio e
delle impunità.
LE
VIOLENZE DI GENOVA
Oggi la
caserma non è più quella di allora: cancellati i "luoghi della vergogna".
Manganellate, minacce, umiliazioni: tutto ricostruito al processo da più di 300
testimoni.
C'era anche un carabiniere "buono", quel giorno,
scrive Giuseppe D'Avanzo su "La
Repubblica". Molti "prigionieri" lo
ricordano. "Giovanissimo". Più o meno ventenne, forse "di leva". Altri l'hanno
in mente con qualche anno in più. In tre giorni di "sospensione dei diritti
umani", ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra
decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti
carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri
dell'amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva
ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di
sedersi. Distribuiva la bottiglia dell'acqua, se ne aveva una a disposizione. Il
ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con
durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri
riprendeva.
Tortura. Non è una formula
impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato - contro
i 45 imputati - che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del
reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e
domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi
e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione;
spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre
statunitensi, un lituano.
Studenti soprattutto e
disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un
avvocato, un giornalista...). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e
Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che "soltanto un
criterio prudenziale" impedisce di parlare di tortura. Certo, "alla tortura si è
andato molto vicini", ma l'accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in
reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle
326 persone ascoltate in aula.
Il reato di tortura in Italia
non c'è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il
dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale
dei diritti umani, alla Convenzione dell'Onu contro la tortura, ratificata dal
nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d'uso corrente da gettare in
faccia agli imputati: l'abuso di ufficio, l'abuso di autorità contro arrestati o
detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono
nell'indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio
2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la
pena prevista dal reato).
Come una goccia sul vetro,
penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale
impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel
discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle
amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a
tutti di dimenticare che la tortura non è cosa "degli altri", di quelli che
pensiamo essere "peggio di noi". Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la
tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.
Nella prima Magna Carta - 1225
- c'era scritto: "Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato
della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo
e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari
e secondo la legge del paese". Nella nostra Costituzione, 1947, all'articolo 13
si legge: "La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e
morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà".
La caserma di Bolzaneto oggi
non è più quella di ieri. Con un'accorta gestione, si sono voluti cancellare i
"luoghi della vergogna", modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla
città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l'idea di
farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C'è un
campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri"
accompagnavano l'arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci,
filastrocche come "Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!", cori
di "Benvenuti ad Auschwitz".
Dov'era il famigerato "ufficio
matricole" c'è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei
corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come "Morte agli ebrei!", ha trovato
posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume
italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita
a 5000 ebrei.
Quel giorno, era venerdì 20
luglio, l'ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l'ampio
cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la
palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta
metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla
sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è
costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la
famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri
non si offre la traduzione del testo).
A una donna, che protesta e
non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: "Allora, non li
vuoi vedere tanto presto...". A un'altra che invoca i suoi diritti, le tagliano
ciocche di capelli. Anche H. T. chiede l'avvocato. Minacciano di "tagliarle la
gola". M. D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in
dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: "Vengo a trovarti, sai". Poi, si è
accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o
meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli
oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è
costretti a fare delle flessioni "per accertare la presenza di oggetti nelle
cavità".
Nessuno sa ancora dire quanti
sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55
"fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i "tempi di
permanenza nella struttura". Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna"
di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento
nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore.
Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano
quelli della Diaz, contrassegnati all'ingresso nel cortile con un segno di
pennarello rosso (o verde) sulla guancia.
È saltato fuori durante il
processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le "posizioni
vessatorie di stazionamento o di attesa". La "posizione del cigno" - in piedi,
gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per
ore, nel caldo di quei giorni, nell'attesa di poter entrare "alla matricola".
Superati gli scalini dell'atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella
palestra con varianti della "posizione" peggiori, se possibile. In ginocchio
contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella
"posizione della ballerina", in punta di piedi.
Nelle celle, tutti sono
picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro
il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato "entro stasera vi scoperemo
tutte"; agli uomini, "sei un gay o un comunista?" Altri sono stati costretti a
latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: "viva il duce", "viva la
polizia penitenziaria". C'è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui
genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe
aperte e in alto: G. ne ricaverà un "trauma testicolare". C'è chi subisce lo
spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza.
A. D. arriva nello stanzone
con una frattura al piede. Non riesce a stare nella "posizione della ballerina".
Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna
in sé e si lamenta, lo minacciano "di rompergli anche l'altro piede". Poi, gli
innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. "Comunista di merda".
C'è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di "non
picchiarlo sulla gamba buona". I. M. T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo
in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta
che prova a toglierselo, lo picchiano. B. B. è in piedi.
Gli sbattono la testa contro
la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e
intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: "Ti piace il
manganello, vuoi provarne uno?". S. D. lo percuotono "con strizzate ai testicoli
e colpi ai piedi". A. F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: "Troia,
devi fare pompini a tutti", "Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte".
S. P. viene condotto in un'altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo
mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una
trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo
schiaffeggiano. J. H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel
corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e "a sollevare il
pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania". J. S., lo ustionano con un
accendino.
Ogni trasferimento ha la sua
"posizione vessatoria di transito", con la testa schiacciata verso il basso, in
alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le
mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una
forca caudina. C'è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene
percossi, minacciati.
In infermeria non va meglio. È
in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato,
l'altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono
costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia
penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni.
Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: "I piercing venivano rimossi in
maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing
vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone". Durante la
visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni.
P. B., operaio di Brescia, lo
minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un
preservativo. Gli dicono: "E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci".
Poi un'agente donna gli si avvicina e gli dice: "È carino però, me lo farei". Le
donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al
necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio
avviene nell'unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e
terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i
bisogni dinanzi all'accompagnatore. Che sono spesso più d'uno e ne approfittano
per "divertirsi" un po'.
Umiliano i malcapitati, le
malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene
lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli
anni, strappa una maglietta, "arrangiandosi così". A. K. ha una mascella rotta.
L'accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E. P.
viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che
le hanno chiesto "se è incinta". Nel bagno, la insultano ("troia", "puttana"),
le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: "Che bel culo che hai", "Ti piace
il manganello".
Chi è nello stanzone osserva
il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che
prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il
cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però
picchiati in infermeria perché "puzzano" dinanzi a medici che non muovono
un'obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato
"strattonato e spinto".
Il giorno dopo, per farsi
riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia
penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle
nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con
"questo è pronto per la gabbia". Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà
mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di
"trofei" con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini,
"indumenti particolari". È il medico che deve curare L. K.
A L. K. hanno spruzzato sul
viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la
maschera ad ossigeno. Stanno preparando un'iniezione. Chiede: "Che cos'è?". Il
medico risponde: "Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!". G. A. si
stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide
quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All'arrivo, lo picchiano contro un muretto.
Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c'è un carabiniere morto. Un poliziotto
gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due
lati. Gli spacca la mano in due "fino all'osso". G. A. sviene. Rinviene in
infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore.
Chiede "qualcosa". Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non
urlare.
Per i pubblici ministeri, "i
medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare
la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno
permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria".
Possono davvero dimenticare -
le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per
settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la "dimensione
dell'umano" di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati?
Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i
nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre "con lo stesso
cinismo, la medesima indifferenza per l'etica, con l'identica allergia alla
coerenza"?
Il 18 maggio 2010 la corte d'Appello ha ribaltato
la sentenza di primo grado sulla sanguinosa irruzione della Polizia nella scuola
Diaz durante il G8 del 2001 a Genova ed ha condannato anche i vertici della
Polizia di Stato, infliggendo in totale circa 85 anni di reclusione, scrive "Il
Giornale".
Il capo dell'anticrimine Francesco Gratteri è
stato condannato a quattro anni, l'ex comandante del primo reparto mobile di
Roma Vincenzo Canterini a cinque anni, l'ex vicedirettore dell'Ucigos Giovanni
Luperi (oggi all'Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna) a quattro
anni, l'ex dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola (ora vicequestore
vicario a Torino) a tre anni e otto mesi, l'ex vicecapo dello Sco Gilberto
Caldarozzi a tre anni e otto mesi. Altri due dirigenti della Polizia, Pietro
Troiani e Michele Burgio, accusati di aver portato le molotov nella scuola, sono
stati condannati a tre anni e nove mesi. Non sono stati dichiarati prescritti i
falsi ideologici e alcuni episodi di lesioni gravi. Sono invece stati dichiarati
prescritti i reati di lesioni lievi, calunnie e arresti illegali. Per i 13
poliziotti condannati in primo grado le pene sono state inasprite.
Il procuratore generale, Pio Macchiavello, aveva
chiesto oltre 110 anni di reclusione per i 27 imputati. In primo grado furono
condannati 13 imputati e ne furono assolti 16, tutti i vertici della catena di
comando. I pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini avevano
chiesto in primo grado 29 condanne per un ammontare complessivo di 109 anni e
nove mesi di carcere. In primo grado furono assolti Francesco Gratteri, ex
direttore dello Sco e oggi capo dell'Antiterrorismo, per il quale il pg ha
chiesto una condanna a 4 anni e 10 mesi; Giovanni Luperi, ex vice direttore
Ucigos e oggi all'Agenzia per le informazioni e sicurezza interna (chiesti 4
anni e 10 mesi); Gilberto Caldarozzi, ex vice dello Sco e oggi capo (4 anni e
sei mesi) e Spartaco Mortola, ex capo della Digos di Genova e oggi questore
vicario a Torino (chiesti 4 anni e sei mesi).
Un urlo si è levato nell'aula del Tribunale di
Genova mentre i magistrati leggevano il dispositivo della sentenza. Erano le
grida dei numerosi stranieri presenti in aula, tedeschi e inglesi in
particolare, vittime dell'assalto. Il giornalista inglese Mark Covell dice che
ancora non si capacita della sentenza: "Stamattina non mi aspettavo niente. E'
una sentenza sensazionale che restituisce forza e coraggio a tanti italiani e
stranieri che durante il G8 hanno subito delle ingiustizie, sono stato
picchiati, torturati, imprigionati". Heidi Giuliani, la mamma di Carlo, commenta
che "il sorriso di Zulkhe è stata la risposta migliore alla sentenza. Avere una
risposta di giustizia fa sempre piacere in questo paese". Zulkhe è la ragazza
tedesca fotografata in barella all'uscita della Diaz dopo il pestaggio e la cui
immagine finì nella copertina dell'inchiesta della procura. Enrica Bartesaghi,
presidente del comitato "Verita' e giustizia" ha commentato: "E' incredibile,
non ci aspettavamo questa sentenza, si riapre uno spiraglio di fiducia in questo
paese. E' stata riconosciuta la catena di comando. Tutti quelli che c'erano sono
responsabili". Soddisfazione è stata espressa anche dagli avvocati difensori dei
manifestanti e delle parti civili. "E' stata confermata la nostra tesi che anche
i vertici sono responsabili dell'operazione. Abbiamo ottenuto il risarcimento
delle spese di primo grado, l'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni"
ha commentato l'avvocato Stefano Bigliazzi. Tra gli altri particolari, è stato
riconosciuto anche il danno subito dai giuristi democratici ai quali furono
sequestrati degli hard disk alla scuola Pascoli.
L'irruzione della polizia nella scuola Diaz di
Genova, la notte del 21 luglio 2001, avvenne il giorno dopo la morte di Carlo
Giuliani, ucciso durante l'assalto a una camionetta dei carabinieri e mentre le
strade di Genova erano devastate dalle violenze dei black bloc. La scuola Diaz
era stata scelta dal Comune di Genova come ostello per i no global arrivati da
tutta Europa. Al termine dell'irruzione dei poliziotti del Reparto Mobile di
Roma guidati da Vincenzo Canterini oltre 60 ragazzi rimasero feriti, alcuni dei
quali in modo grave. La polizia arrestò 93 giovani, tutti poi prosciolti. In
quel frangente, furono sequestrate due bottiglie molotov che erano state trovate
per strada e poi - hanno sancito i giudici - furono portate all'interno della
scuola per giustificare gli arresti.
Le immagini dei volti feriti, dei pestaggi, del
sangue nei locali della scuola devastata fecero il giro del mondo come le parole
del giornalista inglese Mark Covell, che subì lesioni gravissime. Uno dei
funzionari di polizia imputati, Michelangelo Fournier definì in aula la scena
che gli si era parata davanti una "macelleria messicana". Le indagini sono state
affidate a Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini, due dei magistrati di punta
della procura di Genova.
Gli accertamenti sull'irruzione, sulle lesioni,
sugli arresti arbitrari e sull'episodio delle molotov sono stati lunghi e
difficili e i magistrati inquirenti hanno denunciato l'atteggiamento non
collaborativo dei vertici della Polizia. La sentenza di primo grado assolse la
"catena di comando", i sedici dirigenti della Polizia. Tredici furono i
condannati, per complessivi 35 anni e sette mesi di reclusione.
LE VIOLENZE DI NAPOLI
Non solo Genova, però, è un neo indelebile.
Il 17 marzo del 2001, quello
degli scontri in occasione del Global Forum e dei successivi terribili pestaggi
nella caserma «Raniero Virgilio», fu per Napoli (e non solo) un dies horribilis,
scrive Titti Beneduce su "Il
Corriere della Sera".
E’ scritto nelle motivazioni della sentenza con cui, il 22 gennaio 2010, la V
sezione del Tribunale (presidente Clara Donzelli, a latere Alfredo Guardiano e
Rossella Tammaro) ha condannato dieci dei poliziotti che trattennero
un’ottantina di ragazzi nella «sala benessere» della caserma, sottoponendoli a
ogni genere di soprusi e umiliazioni. Tra i condannati, come avevano chiesto i
pm Marco Del Gaudio e Fabio De Cristofaro, anche due funzionari, Fabio
Ciccimarra e Carlo Solimene, cui è stata inflitta la pena di due anni e otto
mesi per sequestro di persona: l’unico reato, questo, non prescritto. Ciò che
avvenne dopo la manifestazione, scrive il giudice Donzelli, estensore della
sentenza, fu, di fatto, un rastrellamento: «Nessuna disposizione normativa
poteva giustificare l’arresto dei giovani trattenuti all’interno della sala
benessere della caserma Virgilio al fine di essere identificati e, prima ancora,
oggetto di quello che può essere agevolmente definito come un vero e proprio
rastrellamento.
Decine i casi eclatanti e odiosi di abuso di
potere citati nelle 112 pagine depositati. C’è, per esempio, quello di un
giovane ipovedente, Stefano C.: «Visibilmente ferito e portatore di handicap,
deriso per la sua andatura precaria e trattato con modi bruschi, vide
ammorbidire l’atteggiamento violento nei suoi confronti solo allorquando gli
venne trovata indosso la tessera dell’Associazione italiana ciechi e venne poi
ricondotto in ospedale». Sconcertante anche la vicenda di Andrea C., giovane
procuratore legale: la sua esperienza «è ricordata peraltro da molti altri
ragazzi, colpiti dal trattamento violento e derisorio riservato al giovane
procuratore definito con spregio l’avvocatino. Questi, proprio in quanto
assertore del suo diritto di essere informato dello status giuridico che aveva
al momento (non risultando nè arrestato nè fermato ed essendo già stato
documentalmente identificato presso il drappello ospedaliero) si vide riservato
un trattamento molto violento. Ebbe addirittura due perquisizioni, oltre a varie
percosse, e ad un certo punto si determinò a non protestare più, ossia a
rinunciare all’esercizio dei propri diritti fondamentali. Tanto, com’è ovvio,
risulta particolarmente inaccettabile per chi del diritto e del primato di esso
sulla barbarie della violenza ha scelto di fare la propria ragione di vita».
Parole molto dure, che certamente faranno discutere. Per i giudici, insomma, i
ragazzi portati in caserma subirono un trattamento «inumano e degradante».
«L’elenco delle condotte criminose in danno delle persone transitate nella
caserma consente di concludere, senza alcun dubbio, come ci si trovi dinanzi a
comportamenti che rivestono, a pieno titolo, i caratteri del trattamento inumano
e degradante. Tali condotte, seppure materialmente commesse da un numero
limitato di autori e in una particolare situazione ambientale, hanno comunque
inferto un vulnus gravissimo, oltre che a coloro che ne sono stati vittime,
anche alla dignità delle forze di polizia di Stato e soprattutto alla fiducia
della quale detta istituzione deve godere, in virtù della meritoria attività
quotidiana svolta dalla stragrande maggioranza dei loro appartenenti, nella
comunità dei cittadini». I giudici criticano, in particolare, il comportamento
dei due funzionari, Ciccimarra e Solimene, i più alti in grado quel giorno nella
caserma: «che essendo presenti ai fatti e potendolo evitare, in quanto dotati di
titolo e competenza, da tanto si sono astenuti, consentendo che altri
infliggessero a inermi cittadini (nei cui confronti nulla risultava allora e non
è risultato in seguito alcun addebito di colpa) violenze e minacce assolutamente
ingiustificate».
Ma non finisce qui. Si tratta di un episodio
sconcertante quello che ha coinvolto il comandante della Polizia Municipale del
Comune di Napoli, Luigi Sementa. L’episodio risale al 5 dicembre 2008, quando un
cronista del «free press» «Il Napoli», Alessandro Migliaccio, subì
un’aggressione fisica proprio da parte di Sementa. Migliaccio, recatosi presso
la sede dei vigili urbani, a seguito di informale convocazione del comandante e
in presenza di due colleghi, ha successivamente denunciato in Questura di aver
ricevuto uno schiaffo sul viso dal comandante Sementa. La reazione sarebbe
scaturita dalla contestazione di un articolo a sua firma, pubblicato sul free
press dal titolo «Gran bazar d’illegalità nel rione del comandante».
L’aggressione è testimoniata da un video, mandato
in onda nel corso della trasmissione di Raitre «Linea Notte» e poi da “Striscia
la Notizia” e “da Le Iene”. Nel filmato, dopo che al cronista viene intimato più
volte di consegnare un documento di identità, si vede l’ex ufficiale dei
carabinieri (oggi generale dei vigili) che si avvicina a Migliaccio e gli dà uno
schiaffo in pieno volto. Solo l’intervento degli altri due giornalisti presenti
evita una nuova aggressione ai danni del cronista. Otto minuti di filmato:
dall’ingresso al comando al colpo proibito.
«È sconcertante che il sindaco
di Napoli, Rosa Russo Iervolino, non abbia sospeso dal servizio il capo della
locale Polizia municipale, Luigi Sementa, il quale ha ritenuto di poter
convocare nel suo ufficio un cronista di E Polis, Alessandro Migliaccio, e di
schiaffeggiarlo perchè era l’autore di un servizio che non risultava gradito non
si capisce bene a chi e a quanti». È il monito del segretario nazionale
dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino.
BANDE IN
DIVISA
Come nei film americani.
Arrestati quattro poliziotti.Violenza sessuale, corruzione, falso e furto.
Sono queste le accuse che hanno portato all’arresto di due ispettori, un
sovrintendente e un assistente della Polizia di Stato. Le quattro ordinanze di
custodia cautelare in carcere, eseguite dalla Squadra Mobile della Questura di
Roma e dalla polizia giudiziaria del Tribunale di Roma, sono state emesse dal
gip presso il Tribunale di Roma. In particolare, sono ritenuti
responsabili di aver trafugato, nel 2009 e 2010, quando
prestavano servizio presso la Squadra Mobile, somme di denaro ad alcuni
commercianti stranieri e di aver preteso elargizioni in cambio di mancate
denunce. Gli arrestati avrebbero anche stuprato delle prostitute dietro la
minaccia dell'arresto. La divisa, e in alcuni casi anche le manette, erano le
“armi” utilizzate per intimorire le vittime. I quattro erano in servizio
presso la Squadra Mobile ma durante l'inchiesta sono stati
trasferiti in ufficio.
Tutto è partito da una denuncia presentata da un commerciante straniero
che mesi fa raccontò in Procura dei soprusi subiti dai quattro che erano
diventati un po' il terrore dei negozianti stranieri di Roma. Gli arrestati
indossavano sempre la divisa, anzi, a dire del denunciante, la usavano proprio
per tenere sotto scacco le vittime. L'uomo raccontò di vessazioni continue
nonostante fosse in regola con i vari permessi sulla sua attività. A volte il
tutto si traduceva in veri e propri furti che i quattro facevano nei negozi che
andavano a controllare. per minacciare i commercianti si mettevano anche a
stilare delle denunce false. Inoltre i poliziotti chiedevano soldi, vere
mazzette di migliaia di euro, minacciando i negozianti di fargli chiudere
l'attività.
“Stupri, ricatti e mazzette".
Con queste accuse sono finiti in carcere i quattro poliziotti della Questura di
Roma: due ispettori, un sovrintendente e un assistente. La squadra mobile ha
eseguito gli arresti dei colleghi dopo le ordinanze emesse dalla sezione di
polizia giudiziaria del Tribunale. Durante l'arresto ai poliziotti sono stati
ritirati sia la pistola che il tesserino. I reati contestati dalla procura della
Repubblica di Roma risalgono agli anni negli anni 2009 e 2010 e sono pesanti:
violenza sessuale, corruzione, falso e furto. In particolare, i poliziotti si
sarebbe fatti consegnare, quando prestavano servizio presso la squadra mobile,
somme di denaro da alcuni commercianti stranieri con la minaccia di far chiudere
la loro attività con denunce per irregolarità inesistenti. Le accuse di stupro
si riferiscono a violenze che avrebbero compiuto verso una donna straniera
fermata per prostituzione, sotto la minaccia dell'arresto immediato. Le indagini
erano scattate dopo una denuncia presentata da un commerciante straniero: mesi
fa ha raccontato in Procura dei taglieggiamenti subiti dai quattro in divisa, e
di non essere l'unica vittima, tanto da aver rivelato che i quattro, che agivano
sempre insieme, erano considerati "il terrore dei negozianti stranieri di Roma".
E i quattro, nel racconto del negoziante, si presentavano sempre in divisa
proprio per tenere ancor più sotto scacco psicologico le vittime. L'uomo ha
parlato di vessazioni continue nonostante fosse in regola con i vari permessi
sulla sua attività, e ha raccontato di veri e propri furti che i quattro
compivano nei negozi che andavano a controllare e di come ricattavano i
negozianti, minacciando di stilare denunce false. E chiedevano continuamente
soldi, mazzette per migliaia di euro. Particolari che emergono anche dalle
intercettazioni pubblicate da “La
Repubblica”. ''Paga o ti facciamo
chiudere il negozio''. Così uno dei quattro poliziotti arrestati minacciava uno
dei commercianti taglieggiati e vessati dalla banda di agenti della Mobile.
Si è
concluso in data 14 luglio 2009 con le condanne
di otto poliziotti a pene fino a 8 anni e mezzo di reclusione il processo che li
vedeva accusati di aver costituito un’associazione per delinquere abusando del
proprio potere mentre erano in servizio alle Volanti o alle Scorte tra il 2002 e
il 2005, scrive "Il
Giorno".
Le condanne
sono state emesse dai giudici della decima
sezione penale del tribunale di Milano, che hanno dichiarato estinto il rapporto
di lavoro con la pubblica amministrazione del promotore dell’organizzazione e
dei due ideatori ed esecutori dei reati.
I
condannati sono agenti che lavoravano presso la
Squadra Volanti della Questura di Milano.
Secondo la ricostruzione dell’accusa, in alcune occasioni si sarebbero
fatti corrompere dagli spacciatori che perseguivano. Nel capo d'imputazione si
legge che sono state eseguiti "una serie indeterminata di delitti, tra i quali
peculati, furti, falsi in atto pubblico e perquisizioni".
A volte
accettavano promesse "di pagamento della metà del
valore dello stupefacente rinvenuto", altre volte "fingevano una regolare
operazione di polizia allo scopo di impossessarsi di stupefacente e del denaro
di prezzo dell’acquisto".
Di stesso
tenore è l’atteggiamento tenuto dal tribunale di Brescia, come scrive "Brescia
Oggi". Nell'ottobre del 2008
la condanna a 2 poliziotti, rispettivamente a 5 anni e 4 mesi e ad un anno e sei
mesi, al termine del processo con il rito abbreviato. In data 13 luglio 2009
altre tre condanne ai poliziotti accusati a vario titolo e con responsabilità
diverse di rapina e estorsione. Tre anni, un anno e 11 mesi, otto mesi. Secondo
l'accusa i poliziotti in forza ai tempi alla questura di Brescia avrebbero
preteso droga e cellulari durante alcuni controlli nei confronti di alcuni
spacciatori.
Ma quanto raccontato da
"L'UNITA' con il titolo "La banda
in divisa" è allucinante.
Quello che stiamo per raccontare è un «processo
nascosto». Un altro processo che - come quello che si tiene a Palermo contro il
generale Mario Mori e il colonnello Obinu - è totalmente uscito dalle cronache.
E anche in questo processo - che si celebra davanti all’ottava corte d’assise di
Milano - tra gli imputati ci sono nomi importanti delle forze dell’ordine.
Uno è, anche qua, il colonnello Obinu. Un altro
nome, il più importante, è quello del generale Giampaolo Ganzer,
comandante del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri. E, se
la sua posizione non fosse stata stralciata, ci sarebbe anche un magistrato:
Mario Conte. In tutto gli imputati sono ventidue, accusati di reati gravissimi:
associazione delinquere armata dedita a importare e vendere enormi quantità di
droga (eroina, coca e hashish) in tutta Italia.
Il primo a
sentire puzza di bruciato fu un giudice Armando Spataro, allora
sostituto procuratore a Milano. Nel gennaio del 1994 ricevette da Ganzer, col
quale all’epoca aveva un rapporto di amicizia e stima, la richiesta di
un’autorizzazione a ritardare il sequestro di una partita di droga. «Mi disse
che il Ros disponeva di un confidente colombiano che aveva rivelato l’arrivo nel
porto di Massa Carrara di un carico di 200 chilogrammi di cocaina. Era destinata
alla piazza di Milano e il confidente era disposto a fornire al Ros le
indicazioni necessarie per seguire il carico fino a destinazione e catturare i
destinatari della merce».
Spataro firmò decreto di ritardato sequestro. Ma i
piani del Ros cambiarono: l’operazione infatti fu messa in atto. Fin qua niente
di strano. Ma, dopo aver compiuto l’operazione, il Ros non diede più
informazioni. Insospettito, Spataro si presentò negli uffici romani del
Raggruppamento operativo speciale e chiese notizie attorno al sequestro dei due
quintali di cocaina. Gli fu mostrata della droga conservata in un armadio. Si
trattava solo di leggerezza nella gestione dei reperti? Di sciatteria? Quando,
molti mesi dopo, Ganzer gli prospettò l’ipotesi di vendere quella droga a uno
spacciatore di Bari, Spataro decise di informare il capo della procura e alcuni
suoi colleghi. E ordinò la distruzione della droga.
Il processo ruota attorno a questi comportamenti.
Il Ros li presentava come tecniche investigative e, in effetti, di tanto in
tanto effettuava operazioni antidroga. Secondo i giudici, invece, gli stessi
carabinieri erano diventati protagonisti del traffico e le «brillanti
operazioni» non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per
gettare fumo negli occhi all’opinione pubblica. Un elemento fondamentale per
l’inchiesta che ha portato al processo fu acquisito nel 1997 a Brescia dal
giudice Fabio Salamone.
Un esponente della malavita, Biagio Rotondo, detto
«Il Rosso» gli raccontò che nel 1991 due carabinieri del Ros lo avvicinare in
carcere e gli proposero di diventare un confidente nel campo della droga. In
realtà, secondo l’accusa, questi confidenti (tra il 1991 e il 1997 ne furono
reclutati in gran numero) venivano utilizzati come agenti provocatori, come
spacciatori, come tramiti con le organizzazioni dei trafficanti.
«Il Ros - scrivono i giudici nel rinvio a giudizio
- instaura contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni
sudamericane e mediorientali dedite al traffico di stupefacenti senza procedere
né alla loro identificazione né alla loro denuncia... ordina quantitativi di
stupefacente da inviare in Italia con mercantili o per via aerea, versando il
corrispettivo con modalità non documentate e utilizzando anche denaro ricavato
dalla vendita in Italia dello stupefacente importato. Denaro di cui viene omesso
il sequestro». «Si tratta - annota la Procura di Milano - di istigazione ad
importare in Italia sostanze stupefacenti». Al giudice Salamone questo quadro è
stato confermato, in alcuni importanti aspetti, da due sottufficiali dei
carabinieri che figurano tra gli imputati.
Sempre secondo l’accusa, i comportamenti illeciti
furono coperti e agevolati dal magistrato Mario Conte, che allora lavorava a
Bergamo: il suo ruolo nelle «operazioni antidroga» era fondamentale perché, con
la sua firma, forniva ai Ros la copertura legale. «Con Obinu e Ganzer - si legge
nella richiesta di rinvio a giudizio - il sostituto procuratore Conte promuove,
costituisce, dirige, organizza l’associazione a delinquere. Ne delinea il modus
operandi. Gestisce la collaborazione dei trafficanti Enrique Luis Tobon Otoya
(colombiano ndr.), Ajaj Jean Chaaya Bou (libanese ndr.) e Biagio Rotondo,
agevolandone l’attività anche durante i periodi di detenzione. Fornisce un
contributo rilevante con direttive e provvedimenti, emessi anche al di fuori
della competenza territoriale. Partecipando personalmente, in più occasioni, ad
interventi operativi».
E c’è di più perché quando l’inchiesta di Salomone
decolla, Conte viene trasferito proprio a Brescia, nell’ufficio accanto a quello
del collega che lo sta indagando. Oggi Conte, rinviato a giudizio nel 2005 con
gli uomini del ROS, per motivi di salute non figura tra gli imputati e sarà
processato a parte.
Non è solo una
storia di droga Secondo l’accusa tra le mani degli ufficiali sono anche
passate molte armi. Come il carico della nave «Bisanzio», giunta Ravenna da
Beirut nel dicembre 1993 che, oltre a migliaia di chili di stupefacente
trasportava 119 kalashnikov, due lanciamissili, quattro missili e numerose
munizioni, venduti in cambio di una somma di denaro di cui si è persa ogni
traccia. Due erano gli acquirenti, la cui posizione è stata archiviata, entrambi
legati alla famiglia mafiosa calabrese dei Macrì-Colautti. Perché è stato fatto
tutto questo?
La procura di Milano lo spiega con poche
inequivocabili parole: «Per pervenire a brillanti operazioni di polizia in
attuazione di un metodo sistematico che consentiva di conseguire visibilità e
successo». Carriera e visibilità. Ma anche soldi. Quasi tre miliardi di lire
provenienti dalla vendita della droga, di cui il PM Conte e gli ufficiali del
ROS, tra i quali Ganzer e Obinu, avrebbero «omesso il sequestro e la
documentazione sulla successiva destinazione, appropriandosene». Simile sorte
sarebbe toccata a svariati chili di stupefacenti che, importati in Italia dagli
uomini in divisa, sarebbero finiti sul mercato.
Il «processo nascosto» era iniziato da quasi due
anni quando, il 29 agosto 2007, il principale teste d’accusa si suicidò nel
carcere di Lucca. Biagio Rotondo, «Il Rosso», era stato arrestato cinque giorni
prima con l’accusa di detenzione abusiva di arma e ricettazione perché, durante
un controllo dei carabinieri, all’esterno del ristorante dove lavorava era stata
trovata una vecchia pistola nascosta in un tovagliolo.
Prima di togliersi la vita, Rotondo scrisse una
lettera indirizzata ai magistrati. Il pubblico ministero Luisa Zanetti l’ha
letta il 20 settembre 2007, nell’aula dove si celebra il processo: «Confermo che
tutto quello che ho detto corrisponde a verità. È un momento tragico per la mia
vita, sono fallito come tutto e ritrovarmi in carcere senza aver fatto nulla è
per me insopportabile. Vi scrivo per farvi che non vi ho mai tradito e che la
fiducia in me è stata ben riposta. Vi chiedo scusa per questo insano gesto...Spero
che mi ricorderete con simpatia».
Dopo questo non si deve dimenticare che è stato condannato a 12 anni, dal
Tribunale di Milano, l'ex generale della Finanza Giuseppe Cerciello, accusato di
corruzione.
VIOLENZA DA STADIO
Di pestaggi e violenza gratuita da parte delle
Forze dell’Ordine ce ne sono stati dimostrati dai media a bizzeffe. In occasione
di manifestazioni politiche (G8 Genova e Global Forum Napoli), sportive e
sindacali. In occasione di arresti, in cui, addirittura, ci sono stati dei
morti. Ma queste sono solo la punta di un iceberg, ossia quelle situazioni in
cui si è potuto dimostrare qualcosa: con filmati o con registrazioni sonore. Per
il resto è come nulla fosse successo, data l’omertà e il corporativismo che
regna nell’ambiente. Inutile denunciare: chi ti crede? Tanto, la testimonianza
delle istituzioni ha maggiore valenza in confronto a quella del semplice
cittadino.
"La mia unica colpa è avere
una maglietta rossa - riporta Elsa Vinci" su "La
Repubblica". Quando mi hanno fermato hanno detto che ero il ragazzo che
cercavano, con la maglietta rossa. E giù cazzotti, subito. Non ho capito niente.
Io manco ci vado allo stadio. E sò della Lazio". Stefano Gugliotta mostra i
segni delle manganellate sulla schiena, su una coscia, all'inguine. Adesso
sorride con due denti di meno ai deputati, ai consiglieri regionali in visita a
Regina Coeli. Il volto dopo sei giorni appare ancora tumefatto. I punti di
sutura chiudono una profonda ferita sulla testa. Stefano è ancora in cella,
nonostante il pestaggio è indagato per resistenza a pubblico ufficiale. Saranno
i suoi venticinque anni, sarà quello che gli è successo, ma passa le ore a
interrogarsi sul senso della vita, sul caso, sulla fatalità. Ha perso il sonno
il giovane picchiato dai poliziotti la sera del 5 maggio 2010 dopo la partita Roma-Inter. Due dei presunti colpevoli sono stati identificati attraverso le
immagini di un video amatoriale, sono stati ascoltati in procura come testimoni,
poi l'iscrizione sul registro degli indagati per lesioni volontarie.
"In un giorno mi è cambiata la
vita. E non riesco a spiegarmi perché... Perché sono ancora qui? Non so darmi
pace". Stefano ricorda, ricostruisce: "Abito a quattrocento metri dallo stadio,
ero con un amico e siamo andati al bar ma, quando siamo arrivati, stava
chiudendo e così abbiamo deciso di tornare a casa mia. In via Pinturicchio gli
agenti hanno fatto segno di fermarci. Non sono scappato. Perché avrei dovuto? Ho
preso un pugno. Sono rimasto fermo perché sò grosso, peso ottanta chili. Pensavo
al mio amico che è secchetto. Temevo che ci restasse, lì sotto le botte. Invece
lui è riuscito ad andare e io sono finito dentro".
Nella cella del reparto medico
dell'antico carcere romano, Stefano Gugliotta non dorme da giorni. I medici lo
aiutano con i farmaci. Prende parecchi tranquillanti. "Non riesco neppure a
guadare più tanto la tv. Appena c'è una notizia di sport ritorna lo choc, rivedo
tutto". Vanno a trovarlo Massimo Pompili deputato del Pd, Luigi Nieri,
consigliere regionale di "Sinistra, ecologia, libertà", Stefano Pedica dell'Idv,
Patrizio Gonnella dell'associazione Antigone. A tutti chiede se è stato
ritrovato il suo orologio, niente di prezioso ma glielo aveva regalato Flavia,
la sua ragazza. "Studia danza. Stiamo insieme da un anno. Io le ho dato
l'anello". Sorride ancora quando dice che ha visto i genitori, che lo ha
"confortato" la mamma. Chi lo ha incontrato dice di averlo trovato tutto sommato
sereno, saldo. "Patisce parecchio lo stress del carcere", dice l'onorevole
Pompili. Sia lui che Pedica chiedono l'immediata scarcerazione. "È assurdo che
rimanga ancora in cella. Dietro le sbarre non ci devono stare gli innocenti".
Solidarietà bipartisan. Il
Viminale promette chiarezza ma il ministro Maroni ammonisce: "No ai processi
sommari. Condanno la violenza ma anche gli attacchi indiscriminati agli uomini e
alle donne delle forze dell'ordine".
In carcere per i disordini del
dopo partita ci sono altre sette persone, due sono studenti fuori sede, arrivano
da un paesino in provincia di Chieti, hanno 19 anni. "Eravamo andati a vedere la
partita - dicono Stefano Carnesale e Emanuele De Gregorio - ci hanno fermati
perché avevamo raccolto da terra un'asta telescopica utile per le bandiere. La
volevamo usare per i mondiali. Siamo juventini non ultras". In infermeria c'è
Daniele Luca con una vertebra rotta. Tutti si chiedono: "Che succederà quando
usciremo?". Hanno paura.
Il pestaggio di Stefano Gugliotta, la notte del 5
maggio 2010 nei pressi dello stadio Olimpico di Roma, per il vigore mediatico
finisce sotto la lente della procura della Capitale che ha aperto un’inchiesta.
Anche il capo della polizia Manganelli
ha ordinato un’ispezione interna, scrive Claudi Daconto su "Panorama".
Ma c’è un altro caso choc. Quello di Daniele Luca, 25 anni, padre
di una bimba di 3, alla sua quarta volta allo stadio. E’ finito in ospedale con
la schiena rotta dopo essere stato investito, secondo il racconto dei suoi
avvocati, da una macchina civetta della polizia.
Intanto è bipartisan la richiesta di far luce
sull’intera vicenda. Molti i politici di entrambi gli schieramenti che hanno
fatto visita a Stefano nel carcere di Regina Coeli dove il giovane era rinchiuso
con l’accusa di essere un ultrà e di aver partecipato agli scontri del dopo
finale di Coppa Italia tra Roma e Inter. Ma Stefano, 25 anni, non è nemmeno
tifoso e si trovava da quelle parti solo per caso. Lo ha ribadito, ancora una
volta, anche al radicale Mario Staderini che lo ha incontrato in carcere.
Staderini, ci dica subito come lo ha
trovato…
Fisicamente ha un dente rotto, una ferita alla testa di 6 centimetri e vasti
ematomi su tutta la parte sinistra della coscia, sul fianco e anche sulla
schiena. Da un punto di vista psicologico l’ho trovato veramente scosso. Non
riesce più a dormire la notte e non si capacita di tutto quanto gli è successo.
Nonostante i tre video girati dagli
inquilini dei palazzi di Viale Pinturicchio che inchiodano i tre agenti,
nonostante i testimoni siano ormai una quindicina, nonostante la disperazione
della mamma Raimonda che minaccia gesti estremi, Stefano comunque resta in
carcere…
L’unica speranza è che il Tribunale del Riesame sia rapidissimo, altrimenti si
tratterà di aspettare altri 15 giorni come prevede il codice di procedura
penale.
Non bastano l’ispezione ordinata da
Manganelli e l’inchiesta aperta dalla Procura di Roma?
No. E’ necessario che sia aperta anche un’inchiesta penale e che siano sospesi
tutti coloro che verranno riconosciuti colpevoli a partire dai dirigenti.
Ricordiamo che qualche giorno fa il ministro Maroni aveva concordato con
Manganelli la linea del pugno di ferro contro le tifoserie nelle quali si
sospetta l’infiltrazione della criminalità organizzata.
C’è anche il caso di Daniele Luca, ci
racconti che è successo…
Daniele si era divincolato, a suo dire (ma anche le immagini lo confermano) da
un eccesso di manganellate, ed è stato investito da una macchina rischiando di
rimanere paralizzato.
Quale macchina?
Una Marea bianca che sembrerebbe trattarsi di una macchina civetta della
polizia.
Poi cosa è successo?
Daniele stesso mi ha raccontato di essere stato trattenuto quella sera presso le
celle dello stadio Olimpico e di fronte alle sue richieste di andare
all’ospedale perché aveva questo dolore alla schiena, gli è stato risposto che
non c’erano i requisiti. Solamente alle 6 del mattino dopo, quando è arrivato in
carcere, i sanitari lo hanno immediatamente mandato al Fatebenefratelli. Ma la
cosa grave è che all’inizio gli sia stato rifiutato di andare a fare le lastre
ben sapendo che, essendo stato investito, Daniele poteva davvero aver riportato
delle fratture gravissime come poi è stato dimostrato.
A conferma del racconto del radicale Mario Staderinisul caso di
Daniele Luca, anche le parole dell’avvocato Lorenzo Contucci, difensore
del 25enne picchiato dalla polizia e investito da un’auto all’esterno dello
stadio Olimpico di Roma, la sera del 5 maggio scorso al termine della finale di
Coppa Italia tra Roma e Inter. «Questo ragazzo era la quarta volta che andava
allo stadio con degli amici e ha avuto la sfortuna di indossare una maglietta
rossa al pari di altri due arrestati. Dal momento che l’autore del lancio di
sassi contro gli agenti aveva questa maglietta rossa, si è scatenata una sorta
di caccia a chiunque vestisse una maglietta rossa. Luca è stato bloccato mentre
andava a prendere il suo motorino, picchiato e investito da un’auto, una Marea
bianca, che credo sia delle forze dell’ordine dal momento che quella era una
zona pedonale».
Questo investimento che cosa gli ha
provocato?
A seguito delle botte che ha ricevuto, non solo dell’investimento, Daniele ha
riportato la frattura di una vertebra dorsale con 30 giorni di prognosi.
Avvocato, lei conferma che per tutta la
notte al ragazzo sono state negate le cure nonostante le sue richieste?
Sì, mi risulta così. La mattina dopo è stato portato a Regina Coeli e da lì
mandato al Fatebenefratelli dove le lastre e la tac hanno confermato la
frattura.
Insomma: le immagini e le testimonianze dimostrano
inequivocabilmente che molti agenti hanno agito con violenza contro dei singoli
cittadini inermi. I malcapitati, oltre che le botte, hanno subito l’affronto del
carcere, con l’ausilio della magistratura, giusto per chiudere il cerchio
dell’ignominia.
PARLIAMO DI
MENZOGNE DI STATO
Il prefetto Gianni De Gennaro
è stato condannato ad un anno e quattro mesi di reclusione dalla Corte d'Appello
del Tribunale di Genova, che lo ha ritenuto colpevole di istigazione alla falsa
testimonianza, scrive Massimo Calandri su "La
Repubblica". Secondo il Tribunale De Gennaro convinse il vecchio questore del
capoluogo ligure, Francesco Colucci, ad "aggiustare" la sua testimonianza
durante il processo per il sanguinario blitz nella scuola Diaz, ultimo capitolo
del G8 del 2001. Il governo, però, si schiera al suo fianco. "Ha la mia piena e
totale fiducia: fino alla sentenza definitiva non cambia nulla, attendiamo
fiduciosi nell'esito del ricorso in Cassazione. Per De Gennaro, come per tutti,
vale la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva" dice il ministro
dell'Interno, Roberto Maroni. "La sua innocenza, fino a condanna definitiva è
sancita dalla Costituzione" aggiunge il ministro della Giustizia Angelino
Alfano.
De Gennaro, che nove anni
prima era il capo della polizia e poi al vertice del Dipartimento per le
Informazioni e la Sicurezza, era stato assolto in primo grado perché le prove di
colpevolezza nei suoi confronti non erano state ritenute sufficienti. Alle 14,
dopo quattro ore di camera di consiglio, la corte presieduta da Maria Rosaria
D'Angelo (giudici a latere Paolo Gallizia e Raffaele Di Gennaro) ha ribaltato la
decisione. Il prefetto è colpevole e con lui anche Spartaco Mortola, divenuto
poi questore vicario di Torino e durante il G8 numero uno della Digos genovese.
Mortola è stato condannato ad un anno e due mesi di reclusione per lo stesso
motivo: pure lui avrebbe "suggerito" a Colucci la versione da fornire in aula,
raccontando in una maniera diversa quello che era stato il coinvolgimento di De
Gennaro nella discussa operazione. Per l'assalto ai 93 no-global della scuola,
massacrati di botte ed arrestati illegalmente, Mortola è già stato condannato in
appello a 3 anni e 6 mesi di reclusione. In questo secondo processo invece De
Gennaro non è mai stato nemmeno indagato. "Siamo sconcertati, esterrefatti.
Andremo in Cassazione", è stato il primo commento di Piergiovanni Lunca,
avvocato di uno degli imputati. "Finalmente è stato possibile dimostrare che
siamo tutti uguali davanti alla legge", gli ha risposto la collega Laura
Tartarini, parte civile in questo procedimento.
Vale la pena di ricordare che
le sentenze di secondo grado per i maxi-processi del G8 si sono tutte chiuse con
pesanti condanne nei confronti della polizia. Tutti colpevoli i 44 imputati
(funzionari, agenti, ufficiali dell'Arma, generali e guardie carcerarie,
militari, medici) per i soprusi e le torture nella caserma di Bolzaneto, dove
transitarono almeno 252 no-global fermati durante gli scontri di piazza.
Colpevoli anche i picchiatori e i mandanti del massacro nella scuola, a partire
dai vertici del Ministero dell'Interno come Giovanni Luperi, attuale
responsabile dell'Aisi, l'ex Sisde, condannato a quattro anni di reclusione e
Francesco Gratteri, oggi capo dell'Antiterrorismo (stessa pena). Tre anni e otto
mesi sono stati inflitti a Gilberto Caldarozzi, che catturò Bernardo Provenzano
e ora dirige il Servizio centrale operativo, cinque anni a Vincenzo Canterini,
allora numero uno di quella "Celere" romana.
Il ministro dell'Interno Roberto Maroni ha
espresso fiducia nei confronti dei 25 poliziotti condannati in appello per
l'irruzione nella scuola Diaz di Genova durante il G8 del 2001. Commentando la
sentenza della Corte d'Appello di Genova il sottosegretario dell'Interno
Mantovano aveva detto che "questi uomini" godono della piena fiducia del sistema
sicurezza e del ministero dell'Interno, e "resteranno quindi al loro posto".
A questo punto vien da presentare un commento, "La
menzogna di Stato", di Francesco
Merlo pubblicato su "Repubblica", che inquadra bene la questione.
Gianni De Gennaro non è un
uomo qualunque, per moltissimi anni è stato un pezzo importante dello Stato
italiano, ha alle spalle una carriera di poliziotto modello, scrive Francesco
Merlo su "La
Repubblica". Ma proprio per
questo la sentenza che lo condanna non dovrebbe spingere nessuno a recitare le
solite tragicommedie del garantismo e del giustizialismo. Un servitore dello
Stato, un ex capo della Polizia poi Signore dei servizi segreti, non può
apparire come un manipolatore di testimoni, non può permettersi una condanna
anche se non definitiva, non può consentire che la gente pensi a lui come a un
bugiardo. Ha ovviamente diritto alla presunzione di innocenza.
E però, più inquietante della
sentenza, c'è la solidarietà meccanica, ideologica, quasi fosse "di partito",
del ministro dell'Interno Maroni e del ministro della Giustizia Alfano. Le loro
dichiarazioni a caldo, istintive e assolutorie finiscono con l'apparire come una
prova involontaria della giustezza della sentenza: come si può essere solidali
con un condannato di questa portata? Che fine ha fatto quell'idea rigorosa di
Stato che un tempo dai suoi servitori esigeva zelo, dedizione, efficienza e
pulizia assoluta?
Insomma, più grave della
sentenza c'è la complicità politica con il reo, l'idea che la politica possa
annullare le ragioni della giustizia. Di sicuro non è bello la scontata
crocifissione ideologica dei soliti nemici di De Gennaro e della polizia, ma si
tratta in fondo di pezzi di un'opposizione di pochissimo peso istituzionale. Ben
più indecente è l'amicizia ammiccante di Maroni e di Alfano. E in tv ci ha
colpito il silenzio del procuratore antimafia Piero Grasso che, seduto per caso
tra Alfano e Maroni che difendevano il condannato, esibiva una impassibilità
disarmante. Cosa avrebbe detto Piero Grasso se fosse stato lui il condannato,
magari pure ingiustamente? Come reagisce un Servitore della Cosa Pubblica se il
suo operato vulnera l'istituzione che rappresenta? Difende se stesso anche a
costo di offendere lo Stato? Tratta se stesso come un uomo qualunque quando
invece è un pezzo di Stato?
Ma voglio essere ancora più
chiaro. A noi piacciono i capi che coprono i loro uomini, capiamo le ragioni
psicologiche e anche professionali, specie di un poliziotto che ha vissuto i
giorni pesanti di Genova, dove però le violenze cieche, di strada, sono
purtroppo risultate alla fine meno cruente delle violenze di Stato, quelle
costruite a freddo contro degli inermi, di cui spesso le cronache ci inondano di
rappresentazioni. De Gennaro insomma lo capiamo senza giustificarlo. Ha le
attenuanti del capo che si compromette in favore dei suoi. C'è una nobiltà nella
ignobiltà che secondo la condanna ha commesso. Ma la solidarietà dei ministri
degli Interni e della Giustizia sconfessa l'operato dei giudici in maniera
sconsiderata, solo perché De Gennaro è uno dei loro, uno come loro. Il messaggio
che arriva agli italiani è che la corporazione, la cricca, la casta e l'amicizia
rendono innocente anche un reo condannato. L'impunità è la peggiore delle
sporcizie di Stato.
INSICUREZZA STRADALE
Sarà quel che sarà, di certo aumentano
esponenzialmente i «lampi blu» che sfrecciano nelle nostre città. Migliaia di
auto di scorta per volti noti che vanno di fretta, scrive Giuseppe Marino su "Il
Giornale".
Non c’è ingorgo che tenga, non c’è fila che possa
rallentare il passo alle nuove caste di potenti e potentini che fanno delle
città la loro personale «Isola dei famosi». Innestano il lampeggiante e via
nella corsia preferenziale, parcheggiati in doppie e triple file protetti dalla
magica luce blu. Il lampeggiante è l’ultimo e più ambito degli status symbol che
dimostrano che «io sono io e voi non siete un c...», come diceva il Marchese del
Grillo. Più ambita dell’auto blu. Quella tutti possono averla, che ci vuole,
basta un posticino in una delle tante nostre munifiche istituzioni locali. Ma
l’auto blu, senza il lampeggiante è come un bell’uccello con le ali spezzate:
può far bella mostra di sé nel traffico, chiudendo un occhio può accompagnare la
moglie a far la spesa, ma senza luce e paletta non può volare al di sopra del
traffico dei paria.
Ma attenzione, perché il fenomeno in questione non
riguarda più solo la personalità straniera in visita, il magistrato sotto
scorta, il ministro in missione ufficiale, insomma coloro che per la natura del
proprio incarico e per questioni di sicurezza hanno necessità di essere
accompagnati da agenti di polizia, pronti ad accendere il lampeggiante ma solo
in caso di emergenza. Da quattro anni in qua il fenomeno è in rapida espansione
e i furbetti del lampeggiante sono diventati una popolazione sempre più folta.
Tutta colpa di un comma, poche righe di una legge
che ha dato la stura al fiume blu. Come spesso succede alle nostre latitudini la
questione è partita da un fatto serissimo e in pochi mesi si è trasformata in
sbracato eccesso. Bisogna risalire al delitto di Marco Biagi, quando il
dibattito sulle scorte ai personaggi a rischio diventa bollente. Per evitare
l’arbitrio nella concessione della tutela da parte delle forze dell’ordine, nel
2003 viene emanato un decreto, il numero 253 (poi convertito in legge), che
istituisce l’Ucis, un ufficio interforze per gestire le scorte. E per cercare di
far fronte a tutte le esigenze senza impegnare troppo personale di polizia, la
legge introduce la possibilità «per esigenze di carattere eccezionale e
temporaneo» di conferire «la qualifica di agente di pubblica sicurezza a
conducenti di veicoli in uso ad alte personalità che rivestono incarichi
istituzionali di governo». In sostanza viene creata la possibilità di
trasformare un semplice autista, purché in possesso di determinati requisiti, in
agente di scorta a tutti gli effetti, cioè con lampeggiante, paletta e licenza
di accelerare in caso di emergenza. Ma attenzione alle parole chiave della
norma: «eccezionale» e «temporaneo». Manco a dirlo. Quando una legge recita così
in Italia si traduce con «per sempre» e «quando ci pare».
Il caso più eclatante è quello di Roma: «Qui il
lampeggiante ormai ce l’hanno tutti - sbotta Pietro Giaccardi, presidente
dell’Osservatorio sui reparti scorta del sindacato di polizia Consap - politici
certo, ma anche funzionari di enti e perfino gente dello spettacolo». A
verificare non ci vuole tanto. Basta mettersi di guardia davanti alle sedi Rai.
Ed è famoso il caso del marzo scorso, quando davanti al palazzo del Coni si
radunarono 40 auto col lampeggiante. Autisti venuti a ritirare i biglietti
gratis per la partita Roma-Arsenal. «Oltretutto - mastica amaro l’agente - in
quelle auto, non essendoci le personalità a bordo, il lampeggiante non poteva
essere attivato». Sai com’è, da personalità a personalismo il passo è breve.
«Almeno cambiassero il colore della luce, così la gente saprebbe che non siamo
noi poliziotti a sfrecciare nelle corsie preferenziali - aggiunge rassegnato
Giaccardi - la beffa è che i professionisti ormai lo usano sempre meno, perché
se sei di scorta a un personaggio veramente a rischio, l’imperativo è non farsi
notare». Il fenomeno è notevole anche a Napoli. A Milano invece i permessi sono
solo una trentina.
La denuncia è tutt’altro che di parte. A
rilasciare le autorizzazione agli autisti sono le prefetture. E Giuseppe
Pecoraro quando si è insediato come prefetto di Roma ha scoperto che i permessi
erano tantissimi, ma non esisteva nemmeno un archivio completo. Ora sta cercando
di invertire la rotta: «Il lampeggiante non può essere uno status symbol - ha
spiegato - purtroppo non sempre viene utilizzato nei termini consentiti». Pare
che gli incarichi «temporanei» siano proliferati tanto che ci sia chi si
«dimentica» di restituire il lampeggiante ».
Polizia, il 70% delle vittime sono deceduti su
strada e non per conflitti a fuoco (10%) o altro: mancanza dell'uso delle
cinture e macchine in stato pietoso sono le cause principali, scrive Vincenzo
Borromeo su "La
Repubblica".
L'incredibile dato arriva dall'inchiesta
pubblicata sul Centauro di giugno 2009, la rivista dell'Asaps, “Associazione
amici polizia stradale”. Ma quanti di questi agenti si sarebbe potuti salvare se
solo avessero indossato le cinture di sicurezza? "Probabilmente molti - spiega
Giordano Biserni, presidente dell'Asaps - perché spesso le "divise" non le
indossano ritenendole d'impaccio per una possibile fase operativa. Inoltre
l'elevata velocità, in emergenze per servizio, sarebbe meglio gestita in termini
sicurezza dopo un'apposita formazione con corsi di guida sicura, che una volta
si facevano, ma che nel tempo si sono persi. A noi preme - continua Biserni - la
sicurezza di tutti, quindi anche degli agenti e la perdita di una vita non in un
conflitto a fuoco, ma in un drammatico incidente stradale non ci consola di più.
Anzi, ci fa ancora più rabbia".
In ogni caso una cosa è certa: il 70% dei casi un
poliziotto perde la vita in un incidente stradale. E stupisce come nessuno si
ponga il problema se una piccola associazione di volontari sia l'unica che
solleva un problema tanto grave: anche queste sono morti bianche e non si può
negare che un uomo o una donna in divisa siano lavoratrici e lavoratori come
tutti gli altri. "Ma quando un difensore dello Stato ci lascia la vita -
spiegano all'Aspas - non è sempre detto che l'evento che ha cagionato un esito
letale non debba essere studiato a fondo per evitarne una dolorosa ripetizione.
Prendiamo il caso di uno spericolato inseguimento: è sempre necessario correre a
rotta di collo per fermare un sospetto?".
CLANDESTINITA'
La partita che l’extracomunitario gioca con lo
Stato italiano è un autentico gioco
dell’oca: un giro dietro l’altro, con tappe e passaggi
obbligati, ritorno al via e ripartenza, scrive "Panorama".
Cerchiamo di capire il perché partendo dalla
prima casella.
Ipotesi, che poi è la realtà di tutti i giorni; la
polizia municipale di Milano ferma un immigrato senza documenti
e senza permesso di soggiorno. Lo chiameremo Mustafà. Come nel 99 per cento dei
casi, Mustafà dichiara generalità
false. Gli uomini del nucleo radiomobile gli prendono le impronte, gli fanno le foto e le portano in questura, nel gabinetto
regionale della polizia scientifica. Se non è già schedato, gli viene assegnato un codice, che diventa la sua vera
identità, il suo vero nome. Perché se invece è già segnalato
nove volte su 10 all’impronta e al codice che corrispondono al nostro Mustafà
sono associati tanti nomi diversi quante le volte in cui è stato fermato.
A questo punto Mustafà si viene a trovare in una delle tre
tipiche fattispecie che riguardano gli immigrati senza
documenti.
1.La prima è la più semplice: è stato
fermato mentre commetteva un altro
reato (o era ricercato per lo stesso), spaccio, furto, rapina.
Mustafà viene processato, condannato e
finisce in carcere. Parallelamente, dall’8 agosto in qua, si
apre per lui anche la procedura per il reato di immigrazione clandestina davanti
al giudice di pace.
2.La seconda
tipologia di eventi in cui rientra Mustafà è quella che abbia
ricevuto in passato un decreto di
espulsione e l’abbia ignorato. Qui bisogna subito capire come mai Mustafà è ancora in Italia.
Il problema alla base è l’incertezza sulla sua identità e la sua provenienza.
Una volta che il prefetto ha emesso il decreto di espulsione e il questore il
susseguente ordine di allontanamento, sarebbe più efficace accompagnarlo alla
frontiera e dirgli addio. Già, ma a
quale frontiera? Ti fidi di quello che ti ha detto e lo porti in
Marocco. Alla dogana,
come minimo i poliziotti locali ti ridono dietro: marocchino? E chi ce lo
assicura che è vero? La strada è impraticabile. Prima di liberare Mustafà e di
pregarlo gentilmente di tornarsene a casa c’è un’altra possibilità: il Cie,
centro di identificazione ed espulsione, a Milano in via Corelli.
Peccato sia sempre pieno, non c’è mai posto. E, anche nella
straordinaria ipotesi che trovi posto, Mustafà verosimilmente ne uscirà con le
sue gambe dopo 180 giorni
(prima del pacchetto sicurezza il termine era 60 giorni): i tempi per risalire
alla sua vera identità aspettando i riscontri di tutti gli stati del Maghreb
sono molto più lunghi. Morale: ordine
di allontanamento dall’Italia entro cinque giorni e liberi tutti.
Torniamo alla seconda fattispecie: Mustafà è stato fermato, identificato, e si è
scoperto che non aveva ancora lasciato l’Italia. Scatta subito l’arresto e il
pubblico ministero dispone l’udienza di convalida entro le canoniche 48 ore.
Primo intoppo: sono
talmente tanti che non si riescono a portare tutti nei processi per
direttissima. In quelli che si svolgono, il giudice convalida l’arresto, concede
i termini al difensore d’ufficio rinviando il processo più o meno di una
settimana e dispone la scarcerazione. Ma il giudice, come abbiamo visto, può
anche accogliere istanza di patteggiamento e svolgere direttamente il processo.
In ogni caso la sostanza non cambia:
entro poche ore di Mustafà non ci sarà più traccia.
3.E veniamo all’ultima fattispecie.
Mustafà non ha commesso altri reati e
non ha alcun ordine di allontanamento pendente. Fino al 7 agosto
andava incontro a una violazione amministrativa con conseguente decreto di
espulsione. Dall’entrata in vigore delle norme contenute nel “pacchetto
sicurezza” è responsabile di reato di
immigrazione clandestina. Il giudice di pace procede in modo
autonomo e parallelo anche se il clandestino è già imputato o condannato in
altri processi (l’unico reato che lo assorbe è quello per inottemperanza al
decreto di espulsione). L’udienza viene fissata non prima di due settimane dal
momento del fermo. Ovvio che Mustafà si presenti solo se è già in carcere per
altri motivi. In ogni caso la sanzione
prevista è l’ammenda da 5 a 10 mila euro che può essere
sostituita con l’espulsione. Esemplare è il caso di un algerino, già a San
Vittore per spaccio di droga, che è stato condannato alla pena pecuniaria di 5
mila euro, sostituita con l’espulsione per cinque anni. Un provvedimento che non può essere eseguito,
secondo il suo avvocato, almeno fino a quando Rouis non sarà giudicato in
appello nel procedimento pendente per spaccio di droga. Solo allora potrà
tornare alla casella di partenza.
RISULTATO: IN DUE MESI FERMATI A MILANO 732. PARTITI: NESSUNO
Denunciati, processati, arrestati, espulsi: di
certo nessuno ha lasciato l’Italia. Di certo per ognuno di loro almeno quattro agenti
sono stati impegnati due giorni. I carabinieri ne hanno identificati 394. La
Guardia di finanza 33. La polizia di Stato 252. Quelli scoperti dalla polizia
municipale sono 68. In diversi casi persone con alle spalle una sfilza di
segnalazioni: una trans brasiliana di
41 anni era già stata fermata 38 volte.
Alla
inefficienza del sistema si aggiunge il boicottaggio dei “magistrati militanti”.
«Troppi magistrati impediscono
l’operatività delle nuove norme sul contrasto all’immigrazione clandestina e
bloccano di fatto le espulsioni».
A lanciare l’allarme sul
boicottaggio della nuova legge da parte di alcune procure è il sottosegretario
all’Interno Alfredo Mantovano, che in un’intervista all’Ansa lancia un appello
ai magistrati che invece vogliono rispettare le norme: «È venuto il momento –
dice il sottosegretario – che faccia sentire la propria voce chi, dall’interno
del mondo giudiziario, non condivide questa visione militante e ideologica del
ruolo del giudice; e che, più in generale, faccia sentire la sua voce chi, di
fronte alle varie ordinanze di presunto contrasto alla Costituzione, non ha
dimenticato che secondo la Costituzione la sovranità appartiene al popolo ed è
espressa dal Parlamento. Non da giudici sedicenti “democratici”».
Secondo Mantovano «si sta
riproponendo il medesimo film proiettato all’indomani della legge Bossi Fini:
«L’11 e 12 settembre 2009 a Lampedusa le “correnti” Md e Movimento per la
giustizia hanno chiamato alla mobilitazione contro le nuove norme. A stretto
giro il procuratore di Torino ha fornito l’indicazione di non priorità dei
processi per il reato di ingresso clandestino, e in vari tribunali d’Italia si
fa a gara a chi impugna prima le nuove disposizioni. Tutto ciò con l’appoggio
militante dell’Anm, la cui tesi singolare è che questi magistrati si
limiterebbero a manifestare il loro pensiero, non a disapplicare la legge».