foto antonio  1.jpgDenuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.

 Dr Antonio Giangrande  

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INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO

 

 

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QUANTE FORZE OCCULTE CI GOVERNANO, OLTRE LE LOBBY E LE CASTE ????

di Antonio Giangrande

(Inchiesta basata su atti pubblici e/o di pubblico dominio. Le fonti sono lincate).


MASSONERIOPOLI

MASSONERIA. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

MASSONERIA: QUELLO CHE NON TI DICONO.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Massoneria non si può non parlare dei tarli che divorano il sistema Italia e le commistioni tra le cosche criminali locali con le lobbies, le caste e le massonerie deviate. Queste detengono il potere politico, economico ed istituzionale e per gli effetti si garantiscono impunità ed immunità. Delle Caste e delle Lobbies si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Della Mafia, si parla dettagliatamente anche in altra inchiesta ed in altro libro.

SOMMARIO

INTRODUZIONE

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

SE NASCI IN ITALIA…

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

SE IL NEMICO NON LO PUOI BATTERE, FATTELO AMICO!

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

MASSONERIA: QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

IL FENOMENO FEMEN.

UN APPROFONDIMENTO, ANCHE LETTERARIO, SULLA MASSONERIA.

LA MASSONERIA TRA CHIESA E 'NDRANGHETA.

MAGISTRATI MASSONI, GIU' IL CAPPUCCIO!!!!

LA MASSONERIA DEL TERZO MILLENNIO. I DELITTI MASSONICI E LE NOTE DI CRONACA.  IL MISTERO DELLA MORTE DI RINO GAETANO, DI MARCO PANTANI E DEGLI ALTRI NOMI NOTI E LO SCANDALO MOSE.

CHI SONO I MAFIOSI? GUERRA IN PROCURA A TARANTO. PIETRO ARGENTINO E MATTEO DI GIORGIO. PROCURATORI DELLA REPUBBLICA ACCOMUNATI DALLO STESSO DESTINO? GUERRA DI TOGHE.

LE CARICHE PUBBLICHE E LA MASSONERIA. FATTI AMICO UN MASSONE DI SINISTRA.

SILVIO E GIORGIO: AFFINITA’ E FRATELLANZA.

CHI NON E’ MASSONE DEVIATO, SCAGLI LA PRIMA PIETRA: MAGISTRATI, POLITICI, MAFIOSI.

LA MASSONERIA ED IL POTERE.

FINANZA E POTERE. IL GRUPPO BILDERBERG E LE TEORIE COMPLOTTISTICHE.

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

AFFARI DEI TEMPLARI LEGHISTI.

PARLIAMO DI MASSONERIA, MAFIA, FINANZA E MAGISTRATURA.

SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.

MASSONI. QUEGLI UOMINI IN NERO NASCOSTI TRA POLITICA, MAGISTRATURA ED AFFARI.

MASSONERIA: GLI INSOLITI NOTI CHE SONO IN MEZZO A NOI.

MAGISTRATI ED AVVOCATI MASSONI?

PARLIAMO DI MASSONERIA.

MASSONERIA – I MAGISTRATI DALLA A ALLA ZETA.

TORINO CAPITALE, COVO DI MASSONI.

PARLIAMO DI MASSONERIA DEVIATA, MAFIA, SERVIZI SEGRETI E SETTE SATANICHE.

PALERMO: DALLA MASSONERIA ALLA MAFIA.

IL MAGISTRATO PAOLO FERRARO E LE SETTE DI STATO.

STORIA DELLA MASSONERIA.

POLITICA E MASSONERIA.

IL MISTERO SULLA MASSONERIA.

LOGGIA PROPAGANDA 2.

GLADIO.

P3 E CRICCHE ANNESSE.

LE P....POTERI OCCULTI, MA NON TROPPO.

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Quello che gli altri non dicono.

Mafia e massoneria per aggiustare processi, il racconto del pentito, scrive “Oltre lo Stretto”. “Cosa Nostra all’interno di ogni loggia massonica deve avere due uomini d’onore. Ci sono province impregnate di questa cosa, come Trapani. Bontade per esempio era sia uomo d’onore, sia massone. Dicevano che anche Madonia era massone. Nella massoneria c’è un potere alternativo al nostro, dove si racchiude il vero potere, politica, economia, magistrati, onorevoli”. Lo ha rivelato il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, parlando dei rapporti esterni alla mafia, interrogato dal pubblico ministero al processo di Firenze sulla strage del treno Rapido 904 il 23 dicembre 1984. Messina ha anche distinto i ruoli di mafia e massoneria: “La massoneria è un’amministrazione del potere differente, intelligente: un dottore non va a sparare per strada, un avvocato, un magistrato, non lo fanno, mentre il potere nostro, quello di mafiosi è il potere della paura, la gente ci rispetta per questo. In Sicilia specie negli anni ’70 non c’era quasi controllo e la gente ci temeva”. Sempre Messina ha detto che i rapporti della mafia con la massoneria in Sicilia servivano ad “aggiustare i processi”. Alla richiesta di raccontare un fatto specifico, Messina ha detto che ”nel mio caso, per un mio processo, mi sono rivolto a un massone che ha parlato con il giudice e si è rivolto anche a un giudice popolare, qualcuno è andato a parlare con loro e sono stato assolto”.

Due uomini d’onore all’interno di ogni loggia: così Cosa Nostra e la massoneria hanno unito le rispettive forze nella medesima strategia criminale, scrive Giuseppe Pipitone su "L'Ora Quotidiano". A raccontarlo il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, boss di San Cataldo, ex braccio destro di Piddu Madonia, già autore di alcune rivelazioni inedite. Era stato Messina il primo a raccontare dei summit nei dintorni di Enna, alla fine del 1991, per mettere a punto la strategia stragista della primavera successiva. Oggi il pentito ha deposto al processo per la strage del Rapido 904, in corso davanti alla corte d’assise di Firenze che sta processando Totò Riina, accusato di essere il mandante dell’eccidio che il 23 dicembre 1984 fece 17 vittime. Durante la sua deposizione, Messina ha descritto nel dettaglio il rapporto tra la mafia e le logge massoniche. “Cosa Nostra – ha detto il pentito – all’interno di ogni loggia massonica deve avere due uomini di onore. Ci sono province impregnate di questa cosa, come Trapani. Bontade per esempio era sia uomo d’onore, sia massone. Dicevano che anche Madonia era massone. Nella massoneria c’è un potere alternativo al nostro, dove si racchiude il vero potere, politica, economia, magistrati, onorevoli”. Un rapporto, quello tra Cosa Nostra e la massoneria, ancora attualissimo. Il boss di Castelvetrano. Matteo Messina Denaro starebbe puntando sulla creazione di nuove logge nella zona di Mazara del Vallo: un escamotage per stringere nuovamente alleanze con professionisti e imprenditori. La nuova strategia di Messina Denaro è descritta nella relazione consegnata dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato al presidente della corte d’appello in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un report, quello di Scarpinato, che s’incrocia con e indagini della procura di Palermo: Messina Denaro, stando ad un’intercettazione telefonica, “si è rifatto tutte cose”, e cioè si sarebbe sottoposto ad un intervento di chirurgia estetica per alterare i suoi connotati. Un interrogativo che da qualche mese impegna gli inquirenti. Quel che è certo, però, è che l’ultima primula rossa di Cosa Nostra sta cercando di inserire uomini a lui fidati nelle logge del trapanese. “I metodi della mafia e della massoneria – ha detto Messina – erano molto simili. La massoneria è un’amministrazione del potere intelligente: un dottore non va a sparare per strada, un avvocato, un magistrato, non lo fanno. Il mafioso invece è il vero potere, é il potere della paura, la gente ci rispettava. In Sicilia specie negli anni ’70 non c’era quasi controllo e la gente ci temeva”. Un elemento importante del rapporto tra Cosa Nostra e la massoneria era quello relativo alle inchieste della magistratura. “Serviva ad aggiustare i processi – ha spiegato il pentito – nel mio caso, per un mio processo, mi sono rivolto a un massone che ha parlato con il giudice e si é rivolto anche a un giudice popolare, qualcuno é andato a parlare con loro. Sono stato assolto. Se ero colpevole? Si, ma loro non avevano le prove”.

Mafia, il pentito Messina: “Volevamo uccidere Bossi per attacchi ai meridionali”, scrive Giuseppe Pipitone su  “Il Fatto Quotidiano”. E' quanto rivelato dal pentito di Cosa Nostra Leonardo Messina, spietato uomo d'onore di Caltanissetta e fedelissimo del boss Piddu Madonia. Umberto Bossi ha rischiato di finire nella lista nera di Cosa Nostra: troppo pesanti le sue posizioni contro il Meridione… Talmente pesanti che avevano infastidito Leonardo Messina, all’epoca spietato uomo d’onore di Caltanissetta e fedelissimo del boss Piddu Madonia. Era il 1991, Tangentopoli e le stragi dovevano ancora fare capolino nella storia italiana, e Messina aveva pensato di assassinare il leader della Lega Nord. “Un giorno c’era Bossi a Catania e io dissi a Borino Micciché: questo ce l’ha con i meridionali: vado e l’ammazzo” ha raccontato l’ex uomo d’onore, oggi collaboratore di giustizia, deponendo come teste al processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa Nostra, in corso all’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. L’idea di assassinare Bossi, però, venne bloccata immediatamente dallo stesso Micciché, all’epoca capomafia di Enna. “Mi disse di fermarmi: questo è solo un pupo, disse. L’uomo forte della Lega è Miglio che è in mano ad Andreotti. Insomma, si sarebbe creata una Lega del Sud e la mafia si sarebbe fatta Stato” ha detto Messina, aggiungendo che “in Cosa nostra si diceva che Andreotti era uomo d’onore, che era punciuto (punto, ovvero affiliato formalmente, ndr) e che ci avrebbe garantito al maxiprocesso: si riteneva che sarebbe finito in barzelletta. Poi quando si seppe che invece a presiedere il collegio giudicante che avrebbe celebrato il maxi sarebbe stato un altro (e non il giudice Corrado Carnevale ndr) si capì che i politici si erano allontanati”. Secondo la ricostruzione dell’accusa, la data che cambia per sempre la storia d’Italia è il 30 gennaio del 1992, quando la Corte di Cassazione mette il bollo sulle condanne del Maxi Processo: è in quel momento che Riina decide di eliminare i politici che non avevano mantenuto i patti e dichiarare quindi guerra allo Stato. Un passaggio cruciale, che Messina aveva già svelato anni fa, quando molte sue dichiarazioni erano finite nel fascicolo sui Sistemi Criminali, l’inchiesta della procura di Palermo sulle strategie eversive di Cosa Nostra e di altre associazioni criminali, poi archiviata nel 2001. “All’inizio degli anni ’90 Cosa nostra era pronta ad acquistare dalla ‘ndrangheta una grossissima partita di armi investendo circa 2 miliardi di lire” ha raccontato Messina. Le sue dichiarazioni sulle spinte eversive della mafia, fanno il paio con quelle dello stesso Gianfranco Miglio, che in un’intervista a Il Giornale, teorizzò la “legalizzazione” di Cosa Nostra. “C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica“­ disse l’ideologo della Lega -­ Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”. E’ per questo motivo che tra il 1992 e il 1993 nascono in tutto il Sud movimenti indipendentisti, omologhi meridionali della Lega Nord. A spingere per le stragi e per un impegno diretto in politica delle associazioni criminali, non è soltanto Cosa Nostra. “Mi venne detto chiaramente, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, che c’era una commissione nazionale che deliberava tutte le decisioni più importanti. Una commissione in cui sedevano i rappresentanti di altre organizzazioni criminali”. Sullo sfondo dell’eversione targata Cosa Nostra, spunta anche l’ombra della massoneria. “Tutti i capi di Cosa nostra facevano parte della massoneria” ha spiegato Messina, che decise di diventare collaboratore di giustizia nel giugno del 1992. Il primo pm a cui affida i suoi segreti è Paolo Borsellino, che lo interroga per l’ultima volta il 17 luglio del 1992. “Quel giorno ­ racconta Messina ­ il dottore Borsellino era molto nervoso, accese un’altra sigaretta e prima di andare via mi disse: signor Messina, è arrivata la mia ora. Non c’è più tempo, la saluto. E non l’ho più visto”. In quel momento l’autobomba da piazzare in via d’Amelio era quasi pronta. 

Trattativa Stato-mafia, Leonardo Messina: “Borsellino mi disse che era arrivata la sua ora”, scrive  Lorenzo Baldo su Antimafia duemila. In udienza il collaboratore di giustizia parla anche di Giulio Andreotti definendolo “punciutu”. “La mia crisi è anche di tipo morale nonostante già mio nonno e molti parenti fossero uomini d’onore non mi riconosco più nell’organizzazione e quando ho sentito in televisione la vedova dell’agente di scorta, Vito Schifani, parlare e pregare gli uomini della mafia, le sue parole mi hanno colpito come macigni e ho deciso di uscire da questa organizzazione nell’unico modo che è possibile, cioè collaborando con la giustizia”. Era il 30 giugno 1992 quando Leonardo Messina rilasciava queste dichiarazioni ai pm di Palermo che lo stavano interrogando. Nei giorni successivi lo stesso Messina aveva chiesto di essere sentito direttamente da Paolo Borsellino. E così era stato. “Borsellino mi disse: a noi serve solo la verità, non le congetture o i pensieri. E così ho iniziato a collaborare parlando per ore mentre lui mi stava ad ascoltare”. Ed è esattamente ricordando quell’ultimo interrogatorio del 17 luglio 1992, appena due giorni prima della strage di via D’Amelio, che lo stesso “Narduzzo” ha fatto rivivere in aula la tensione del giudice dei giorni prima della strage. “Quel giorno – ha raccontato il collaboratore durante l’udienza al processo sulla trattativa – il dottore Borsellino era molto nervoso, fumava in continuazione. Accese un’altra sigaretta e prima di andare via mi disse: ‘signor Messina, non ci vediamo più, è arrivata la mia ora. Non c’è più tempo, la saluto’. Sapeva di morire…”. Seduto tra i banchi c’era anche il fratello del giudice, Salvatore Borsellino. Nel sentire quelle parole è rimasto assorto nei suoi pensieri. L’immagine di Paolo Borsellino che, con piena consapevolezza, affronta la morte ha preso forma. La deposizione di Leonardo Messina si è protratta attraverso un excursus storico che ha aperto uno spaccato importantissimo sulla potenza della mafia del nisseno. “Sono uomo d’onore che ha giurato due volte, la prima da uomo d’onore riservato con Luigi Calì, successivamente c’è stata una guerra di mafia, mi hanno richiamato e ho dovuto giurare pubblicamente con la famiglia San Cataldo nel 1982”. “Dall’82 fino a quando ho collaborato con la giustizia ho rivestito degli incarichi in Cosa Nostra a Caltanissetta. Nel 1985 fui nominato sotto capo”, sottolinea ulteriormente. Nel suo racconto c’è pure un aspetto legato alla sua prima relazione sentimentale. “Sono nato e cresciuto nell’ambiente di Cosa Nostra, in particolare con gli uomini d’onore di Caltanissetta.  Quando mi sono sposato nel 1978 abbiamo fatto con mia moglie un giuramento in chiesa, davanti a Dio, in cui abbiamo giurato di onorare la mafia tutta la vita”. Proseguendo nella sua deposizione l’ex boss ha ricordato di aver vissuto “il trapasso tra la vecchia Cosa Nostra e quella voluta dai corleonesi. Ho assistito al cambiamento – ha specificato – e alla distruzione di Cosa Nostra”. Nel racconto del collaboratore di giustizia è stata ulteriormente approfondita la reazione dei boss mafiosi in merito alla Corte di Cassazione che doveva occuparsi del Maxi processo. “In Cosa Nostra – ha sottolineato Messina –, durante il Maxi processo veniva detto che tutto si sarebbe ridotto in una bolla di sapone. Non ci sarebbero state grandi condanne e tutto sarebbe andato bene”. “Ci veniva detto – ha proseguito – che in Cassazione avrebbero buttato tutto giù. Si riteneva che sarebbe finito in barzelletta. Lillo Rinaldi, che frequentava Piddu Madonia, disse che Andreotti era ‘punciutu’ (punto, cioè affiliato formalmente, ndr), mentre c’era chi diceva che Andreotti fosse il figlio di un Papa”. “Salvo Lima e Andreotti – ha quindi ribadito il collaboratore – erano i politici che dovevano garantire tutto questo e che poi il maxi processo sarebbe stato assegnato al giudice Carnevale in Cassazione e non ci sarebbero stati problemi”. “L’ottimismo cessa quando i politici si allontanano e non riescono a far assegnare il processo al giudice Carnevale – ha spiegato successivamente Messina –. Iniziano le recriminazioni di Cosa Nostra nei confronti del vertice politico nazionale. C’è stato un momento in cui in Cosa Nostra fu deciso di non votare per la Democrazia cristiana ma per i socialisti”. “Io – ha aggiunto – ho ricevuto l’ordine preciso di votare e far votare per i socialisti. L’onorevole Martelli quando è arrivato al potere, scavalcando l’ala craxiana, non ha mantenuto i patti. Io non partecipavo alle riunioni ma venivo messo a conoscenza delle decisioni prese”, ha quindi evidenziato. “Io ero con Borino Miccichè – ha proseguito Messina – e altri uomini d’onore e mi è stato detto chiaramente, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, che c’era una commissione nazionale che deliberava tutte le decisioni più importanti. Una commissione in cui sedevano i rappresentanti di altre organizzazioni criminali e il cui capo era Totò Riina”. “Un giorno c’era Umberto Bossi a Catania. Dissi a Borino Miccichè: ‘questo ce l’ha con i meridionali, vado e l’ammazzo’. Mi disse di fermarmi: ‘questo è solo un pupo. L’uomo forte della Lega è Miglio (Gianfranco, ndr) che è in mano ad Andreotti’. Si sarebbe creata una Lega del Sud e la mafia si sarebbe fatta Stato”. Di tutto ciò Leonardo Messina aveva già parlato ai magistrati in quella famosa inchiesta denominata “Sistemi criminali”, successivamente archiviata, i cui fascicoli sono stati acquisiti al processo sulla trattativa Stato-mafia. Nei faldoni del 2001 c’erano già le sue dichiarazioni nelle quali l’ex uomo d’onore di San Cataldo aveva fatto riferimento a svariate riunioni tra i capi dell’organizzazione, tenutesi tra il ’91 ed il 92, nel corso delle quali discutevano proprio di un “progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud, all’interno di una separazione dell’Italia in tre Stati. In tal modo Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato. Il progetto era stato concepito dalla massoneria. Lo stesso Messina aveva parlato anche di una “Lega Sud”, che sarebbe stata risposta naturale alla Lega Nord. Quest’ultima avrebbe visto proprio Gianfranco Miglio quale suo vero artefice. Dietro di lui spuntavano le ombre di Gelli e Andreotti. E proprio Miglio avrebbe poi raccontato, nel ’99, di essersi trovato a Villa Madama, a trattare di nascosto con Andreotti. Da evidenziare che molte dichiarazioni rilasciate da esponenti di diverse organizzazioni criminali, oltre Cosa Nostra, quali ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita convergono proprio su questi punti. Di fatto Cosa Nostra sembrava a tutti gli effetti intenzionata a sfruttare il successo politico della Lega Nord in modo da favorire la secessione della Sicilia e delle regioni meridionali in genere, con lo scopo di gestire con maggior facilità, a livello politico, gli interessi illeciti della criminalità. “Molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa Nostra”. Era il 14 dicembre 1992 quando Leonardo Messina rendeva queste dichiarazioni davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia. A distanza di 21 anni quelle parole sono tornate ad echeggiare in un’aula di giustizia. Parlando della forza della mafia l’ex boss Messina ha specificato che non ha eguali in quanto detiene “potere economico e potere punitivo”. Sugli spalti ad ascoltare attentamente erano presenti diversi studenti palermitani, alcuni dei quali del Liceo Classico Umberto I; alcuni esponenti delle Agende Rosse (anche da altre parti d’Italia) e dell’associazione studentesca ContrariaMente. Decisamente molto interessante è stato il riferimento del collaboratore di giustizia all’avvocato Raffaele Bevilacqua. Immediatamente è tornata alla memoria la recente inchiesta giudiziaria (successivamente archiviata nel 2004) sull’ex vicepresidente diessino dell’ARS, Vladimiro Crisafulli, sorpreso da un’intercettazione ambientale a parlare di politica e affari proprio con l’avvocato Bevilacqua, già rappresentante di Cosa Nostra nell’ennese, nonché ex consigliere provinciale DC. L’ennesima dimostrazione dello strettissimo connubio Mafia e politica. Del tutto inquietante l’accenno alla “nave piena di armi” nella disponibilità di Cosa Nostra, armi che servivano ad “un sistema” per “fare la guerra”. Ed è proprio nei confronti di quel “sistema criminale” che si continuerà a cercare di fare luce. Le prossime udienze dei giorni 11, 12 e 13 dicembre saranno dedicate all’audizione di Giovanni Brusca in trasferta a Milano.

Messina Denaro, politici e massoni. Un pentito fa tremare mezza Sicilia, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. L'architetto Giuseppe Tuzzolino da mesi collabora con i magistrati e tira in ballo politici, magistrati e superburocrati regionali. Parla degli intrecci fra mafia e massoneria. E sostiene di avere notizie su "Diabolik". In tanti ritengono "fantasiose" le sue dichiarazioni. C'è, però, chi ritiene di dovere andare avanti per non lasciare nulla al caso. Fra questi il procuratore aggiunto Teresa Principato che coordina la caccia al super latitante. Alza il tiro. E di parecchio. L'architetto Giuseppe Tuzzolino, che da alcuni mesi collabora con i magistrati di mezza Sicilia, tira in ballo politici, magistrati e superburocrati regionali. Parla degli intrecci fra la mafia e la massoneria. E sostiene di avere notizie su Matteo Messina Denaro. E così c'è un gran viavai al Palazzo di giustizia di Palermo. Il suo nome finì coinvolto in un'inchiesta giudiziaria nel 2013. Tuzzolino era al centro del malaffare che ruotava attorno al rilascio di una sfilza di concessioni edilizie nel comune di Palma di Montechiaro. Dopo il carcere, l'architetto trentacinquenne patteggiò una condanna e iniziò a parlare con i pubblici ministeri agrigentini. I suoi racconti, però, hanno finito per sconfinare dalla città dei templi ed è stato necessario attivare i magistrati della Direzione distrettuale antimafia palermitana che si occupano delle indagini sulle cosche di Palermo, Trapani e Agrigento. Ma pure dai pm di Caltanissetta competenti quando si tratta di indagare su vicende che riguardano i colleghi palermitani. Il nodo della questione è la credibilità di Tuzzolino. In tanti ritengono "fantasiose" le sue dichiarazioni. C'è, però, chi ritiene di dovere andare avanti per non lasciare nulla al caso. Fra questi il procuratore aggiunto Teresa Principato che coordina la caccia al super latitante di Castelvetrano. La vicenda Tuzzolino è stata oggetto di confronto anche nelle recenti riunioni della Dda. E' proprio sul padrino trapanese che l'architetto ha fornito le ultime indicazioni. Dice di averlo visto alcuni anni fa seduto al tavolo di un ristorante di Castelevetrano. Tuzzolino saprebbe dei contatti fra Messina Denaro e la massoneria. Circostanza non nuova, per la verità. Indica in un palazzo nel centro di Trapani il cuore di una importante loggia di cui ha indicato il simbolo. Un simbolo che è stato trovato anche nella memoria del telefonino di uno dei Guttadauro, parenti di Messina Denaro e arrestati per mafia. Sul capitolo massoneria ha fatto i cognomi di alcuni pezzi grossi della burocrazia siciliana e persino di alcuni magistrati palermitani, raccontando di un vorticoso intreccio di rapporti illeciti. Un groviglio di interessi, favori e intrighi di potere. Chi è davvero Tuzzolino e sono attendibili i suoi racconti? Fino a quando le sue dichiarazioni si sono concentrate su realtà locali agrigentine è stato accertato che l'architetto ha detto la verità. La sua credibilità, però, ha vacillato quando è diventato un fiume in piena. Si è pure beccato una denuncia per calunnia che ha in mano il procuratore aggiunto Maurizio Scalia con tanto di registrazione che farebbe emergere il suo intento di utilizzare le sue dichiarazioni per togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Solo che adesso non si parla più di sassolini. Più si va avanti e più Tuzzolino alza il tiro. E in Procura c'è chi, anche se solo in parte, lo prende sul serio e chiede di mantenere il massimo riserbo sulle sue dichiarazioni.

Il neo pentito, Giuseppe Tuzzolino, lancia pesanti dichiarazioni sconquassando la Sicilia, scrive “Palermomania”. Parla a ruota libera l'architetto Tuzzolino, coinvolgendo svariate sfere della società siciliana, dalla politica, alla magistratura ad "importanti burocrati", tocca il tema delle connivenze tra queste sub strutture e la mafia e ancora tra la stessa mafia e la massoneria, senza lesinare notizie in merito all'argomento centrale della latitanza mafiosa siciliana, la localizzazione del boss Matteo Messina Denaro. Tuzzolino, era finito nei registri degli inquirenti nel 2013, durante un'inchiesta riguardante il rilascio di concessioni edilizie nel comune di Palma di Montechiaro, inchiesta in cui venne condannato al carcere per poi patteggiare una riduzione della pena e divenire collaboratore di giustizia verso i pm di Agrigento. Attualmente, il tribunale interessato alle dichiarazioni del trentacinquenne Tuzzolino è il Palazzo di Giustizia di Palermo, dato che le ultime informazioni, da lui rilasciate, atterrebbero a movimenti non localizzati nel solo agrigentino ma variegati, spazianti da Palermo, a Trapani e Caltanissetta. Il procuratore aggiunto, Teresa Principato, occupantesi della ricerca del boss latitante, Messina Denaro, sembra voler seguire le tracce indicate dal Tuzzolino, ma gran parte della magistratura interessata, e non solo, si chiede quanto possano essere attendibili le dichiarazioni del neo pentito, affermazioni già definite "fantasiose". In merito alla figura di Messina Denaro, sembrerebbe aver indicato un ristorante di Castelvetrano, dove alcuni anni fa avrebbe scorto il boss. Dei contatti tra il super latitante e la massoneria, già si avevano delle conoscenze, notizie che lo stesso Tuzzolino avrebbe confermato indicando un palazzo, situato nel centro di Trapani, sede di un'imponente loggia e il simbolo stesso della loggia, simbolo che venne riscontrato anche nel cellulare di un membro della famiglia Guttadauro arrestato per mafia, parente del boss. Sempre in ambito massoneria avrebbe narrato di intrecci particolarmente tortuosi, e illeciti, che vedrebbero coinvolti magistrati, politici, e "importanti burocrati" siciliani. Il problema dell'attendibilità di Tuzzolino si è aperto nel momento in cui le dichiarazioni sono tracimate, ampliando confini e contenuti, lasciando temere un tentativo di "vendetta" più che una reale presenza di informazioni. Tracimazione che ha già comportato una denuncia per calunnia. Bisogna però dire, che le dichiarazioni dell'architetto, quelle legate all'ambito agrigentino, riguardanti festini con "cocaina e escort", appalti truccati, tangenti e killer, sono risultate esatte, da ciò l'importanza della richiesta di riserbo, da parte delle autorità, e di ulteriori, approfondite indagini su quanto Tuzzolino ha e avrà da dichiarare.

Intervista all'avv. Giuseppe Arnone da parte di iena giudiziaria Marco Benanti su "Le Iene Sicule".

Avv Arnone ci spiega cos'è accaduto in occasione dell'ultima sua clamorosa iniziativa?

“Io dispongo di un balcone, nel mio nuovo studio, che sta proprio difronte al Palazzo di Giustizia, tra il cancello di accesso al Tribunale e il mio balcone vi è una distanza esattamente di 12 metri. Si scende dal marciapiede, si attraversa la carreggiata di vai Mazzini e siamo innanzi al cancello del Tribunale. Volendo col Dott. Ignazio Fonzo potremmo, dai rispettivi studi, prenderci a pietrate con una fionda. Ma ormai, poiché credo fermamente che la legge è uguale per tutti, i colpi di fionda oggi sono formali ed istituzionali. Dal mio balcone ho collocato il primo manifesto che sollecita l’allontanamento nei tempi più rapidi di Fonzo e dei suoi partners in Procura dalla realtà agrigentina. Io prevedo la cacciata dalla Magistratura e processi penali a non finire, per Fonzo e i correi. E più avanti mi soffermerò sui procedimenti che sono già avviati con le indagini a carico di Fonzo e del PM Maggioni, il suo braccio destro. Torniamo alla mattina di martedì 10 marzo. Ho collocato lo striscione da stadio, delle dimensioni di 6 metri per un metro e mezzo. Dopo un po’ è arrivata la Digos in forze, chiedendomi di rimuovere lo striscione. Ho risposto che non se ne parlava nemmeno, sollecitandoli a fare la relazione di servizio inviandola al Ministero e al CSM. Alle loro insistenze verbali, con un ampio sorriso, li ho invitati a tornare con un provvedimento scritto, magari frutto della sapienza giuridica degli scienziati del diritto Fonzo e del procuratore capo Di Natale. Ed ho aggiunto che la mia sapienza giuridica mi consentiva di dire che la Carta Costituzionale  tutela quello striscione. Lo striscione è rimasto esposto. Lo toglierò domani mattina."

Avvocato ci può illustrare fatti e situazioni del processo cosiddetto delle tangenti al comune di Agrigento?

"Lo striscione, come si può agevolmente leggere, fa riferimento al “babbìo” con il quale Fonzo ha affrontato la importantissima indagine sulle tangenti all’ufficio urbanistica del Comune di Agrigento. Dai rapporti della Polizia, in primo luogo Digos, e dalle intercettazioni telefoniche e dalle testimonianze dell’ing. Morreale, tutti elementi acquisiti cinque anni fa o giù di li, a processo dovevano andare innanzitutto il sindaco Zambuto e il suocero on. La Russa, da me definiti il pupo e il puparo. Invece, come si suol dire, sono volati gli stracci, solo i funzionari del Comune, di cui uno – il principale imputato – assolutamente marginale, e pure gravemente malato da tempo. Sembrerebbe che il marciume al Comune di Agrigento fosse rappresentato da un architetto di secondo ordine, che prendeva tangenti di qualche centinaio di euro. Nelle telefonate degli indagati intercettati si faceva riferimento alla mia persona con questi termini: “quel cornuto di Arnone…..quel gran cornuto, quel cornuto che si fa….il cappotto di legno di Arnone”. A fronte di queste telefonate e di decine di mie denunzie nei confronti del capo dell’ufficio urbanistica Di Francesco, oggi pure imputato,  io non sono mai stato sentito come testimone, né nell’indagine preliminare, né innanzi al Tribunale."

Quali distorsioni giudiziarie ha lei denunciato questa volta?

"Proseguo il ragionamento e completo la risposta. La mia deduzione è che la mia testimonianza avrebbe dovuto comportare processo e probabilmente manette – come avvenuto per altri imputati in questa vicenda – per il sindaco Zambuto e il puparo suocero La Russa. Aggiungo che il testo di questa intervista verrà inviato al Procuratore Generale Scarpinato: è il caso che Scarpinato affitti una suite nella Valle dei Templi perché quello che sta combinando qui Fonzo e i suoi partners non ha eguali credo in Europa. Adesso Fonzo è andato a sequestrare di persona gli atti del PRG di Zambuto, sulla base delle informative della Digos di 5 anni addietro. I testi delle informative e queste notizie sono diffuse dal giornale Grandangolo che svolge il ruolo di sostanziale addetto stampa o di gazzetta ufficiale della Procura di Agrigento. La domanda è semplice: perché quelle carte della Digos che andavano dritto dritto ad incastrare il Sindaco Zambuto sono state insabbiate per 5 anni?  Ed ancora all’ufficio urbanistica avviene quello che adesso descriverò. Per tre anni vi è uno scontro durissimo tra me da un lato contro Di Francesco e il sindaco Zambuto e il puparo La Russa dall’altro. Zambuto mantiene a capo dell’urbanistica, con un rapporto fiduciario, l’ing. Di Francesco, in perfetta continuità con la precedente amministrazione berlusconiana. Io insisto perché venga rimosso in quanto dedito all’illecito. Ricevo pressioni soprattutto da La Russa per “riappacificarmi” con Di Francesco. Mando suocero e sindaco a farsi benedire e alla fine ottengo la nomina del vincitore di concorso,  ing. Calogero Morreale e la rimozione di Di Francesco. Incredibile ma vero, dopo sei mesi Zambuto licenzia l’ing. Morreale. Sostiene che non era in grado di far funzionare gli uffici. In effetti il modo di gestire gli uffici tra la persona per bene Morreale e Di Francesco, oggi sotto processo per associazione per delinquere e tangenti, è diversissimo. Ma quello che è incredibile che la Procura di Agrigento innanzi al licenziamento di Morreale sta a guardare: in un altro posto, ove la Giustizia viene amministrata con criterio, sarebbero scattate le manette per sindaco e suocero. Sulla base delle informative della Digos insabbiate e sulla base della testimonianza di Morreale. Aggiungo che vi era pure la testimonianza di un imprenditore del settore delle cooperative che affermava, a verbale, innanzi alla Digos, di aver ricevuto richieste di tangenti anche a nome del puparo La Russa. Ne vogliamo ancora? E ripeto: perché io non sono stato sentito? Malgrado le mie denunzie? Malgrado fossi il più profondo conoscitore di  questi fatti?"

Al di là del merito della contrapposizione sua con il pm Fonzo, questa vicenda è emblematica di una condizione generale della giustizia oppure è un fatto sporadico?

"Preannunzio che questo è il primo striscione. Dal mio balcone ne caleranno altri. Ne ho in mente uno bellissimo, di rilievo turistico. Lo striscione riporterà questo messaggio: “Indicazione turistica di grande rilevanza. Visitate il Palazzo di Giustizia di Agrigento, l’unico d’Italia ove non vige l’obbligatorietà dell’azione penale. Ingresso gratuito. Accesso consentito dalle ore 9.00 alle ore 12.30. Visite guidate previo appuntamento. Chiedere del dott. Ignazio Fonzo”. Un altro striscione proporrà un paragone tra il già presidente della Provincia Eugenio D’Orsi, l’imputato per cui Fonzo ha chiesto 6 anni di carcere e l’interdizione dai pubblici uffici, e lo stesso indagato Ignazio Fonzo. Ricostruirò, comparandole, le azioni che Fonzo, da PM, ha contestato all’imputato D’Orsi, chiedendo appunto ben 6 anni di carcere e l’interdizione dai pubblici uffici, e le azioni illecite commesse da Fonzo e da Maggioni, da me denunziate, e per cui i due magistrati sono oggi indagati a Caltanissetta, con una ordinanza che dispone fior di investigazioni emessa a loro carico, su mia richiesta, dal GIP dott. Testaquadra. Realizzerò un video, in contraddittorio con i giornalisti interessati, e la gente potrà valutare quanti anni di galera meritano Fonzo e Maggioni se D’Orsi ne merita 6. Se il criterio è questo – le accuse a D’Orsi sono bazzecole, spesso ridicole – a Fonzo dovremmo dare 60 anni di carcere, ed interdizione perpetua per 5 o 6 vite. La risposta quindi è netta. Fonzo e Di Natale hanno abrogato ad Agrigento l’obbligo dell’azione penale. Soprattutto per i potenti. L’ex vice ministro Capodicasa, per coincidenza grande amico di Anna Finocchiaro, per coincidenza a sua volta grande amica del magistrato Giuseppe Gennaro, per coincidenza a sua volta grande amico di Ignazio Fonzo ha costruito una splendida villa moltiplicando per 4 volte i volumi in modo illegale e commettendo un mare di reati. Il tutto nell’area super vincolata vicina al Teatro Greco di Eraclea Minoa, sulla fascia costiera. Ho denunziato questi fatti due anni e mezzo addietro, Capodicasa ha denunziato me per calunnia. Non abbiamo notizie. Tutto sotto una tonnellata di sabbia. Nel frattempo però hanno trovato il tempo per mandarmi a processo in una quarantina di procedimenti. Tutti per cose poco serie. Specifico che non voglio dire che Fonzo ha recepito raccomandazioni. Semplicemente che Fonzo, anzi, la Procura e Di Natale, sono molto ma molto attenti alle vicende che riguardano personaggi potentissimi, con amicizie o parentele potenti.  Non intendo, cioè, sostenere che sia intervenuta Anna Finocchiaro per raccomandare Capodicasa, mi limito ad evidenziare una serie di fatti, la cui entità merita ancor più riflessione se consideriamo ciò che dice il collega di Fonzo, PM Fornasier, in ordine ai legami fortissimi costruiti da Fonzo. E più avanti spiegherò cosa si intende. Mi soffermo su Di Natale: suggerisco a qualche docente universitario di diritto penale di disporre una tesi sull’archiviazione dell’inchiesta per associazione mafiosa a beneficio di Mirello Crisafulli. Se Di Natale avesse fatto quell’indagine, in quel modo, su Dell’Utri o su Cuffaro, i giustizialisti di sinistra lo avrebbero messo al rogo. E’ l’archiviazione più scandalosa che si sia mai vista. Di Natale e Fonzo ne hanno fatta una simile per un dirigente medico di vertice dell’ASP che assieme agli altri due massimi vertici firma la delibera di un’affidamento di un appalto che la Procura ritiene truccato. Per gli altri due la Procura chiede l’arresto dei firmatari. Per il terzo non fa nulla. Il GIP rigetta la richiesta di arresto dei due osservando che non si capisce perché si fa questa differenza di trattamento – del tutto priva di motivazione – tra i tre firmatari. Il GIP si è posto una domanda sacrosanta e ha deciso secondo legge. Adesso gli forniamo la probabile risposta. Il terzo firmatario è uno stretto congiunto, uno zio del vice premier Alfano. Conosco bene Alfano e sono disposto a giocarmi le mani che non si è mai mosso per effettuare alcuna raccomandazione alla Procura. Conoscendolo sono certo che ignora la vicenda. Ma il dato è evidentissimo. Quando la Giustizia non funziona ed è interessata a compiacere i potenti, il timore reverenziale si attiva senza che nessuno lo solleciti. Automaticamente. Ma voglio aggiungere qualcosa di clamoroso. Io dispongo di una registrazione ove il PM anziano di Agrigento, Santo Fornasier, prima mi sollecita ad accordarmi con Fonzo e a rinunziare alle denunzie contro di Fonzo, poi, di fronte alla mia risposta negativa, mi minaccia, riporto testualmente, di “brutte mazzate” attraverso gli strumenti “infidi ed invasivi” di cui dispone la Procura, quindi esalta Fonzo dicendo che è un personaggio “potentissimo, fortissimo, per i legami che ha” e conclude con una ammissione che lascia senza parole “Fonzo le ha fatto lo schieramento alle spalle, questo è successo, questo è successo”.

Cosa sarebbe questo schieramento alle spalle? Esistono fatti che possono far ritenere effettivamente realizzato lo schieramento alle spalle ai suoi danni?

"Sì è pacifico che Fonzo e Di Natale hanno posto in essere quello schieramento alle spalle ai miei danni di cui ha parlato il PM Santo Fornasier ignorando di essere audio registrato. Lo schieramento alle spalle lo sintetizzo in poche battute, andando ai fatti più rilevanti. Hanno chiesto in quattro mesi e in quattro processi 9 anni di carcere per me. Hanno preso tutti i processi. Tutti. Sempre assolto. Mi hanno intercettato per 3 mesi, mi hanno pedinato, fotografato, mi hanno mandato un plotone di Carabinieri a perquisire alle 4 di notte la mia villa, la mia abitazione invernale, il mio studio professionale. Hanno sequestrato tutti i computers di casa mia, non solo i miei, ma anche quelli professionali di mia moglie medico e di mio figlio universitario. Mi hanno fatto fare da una neurologa – si da una neurologa, concittadina di Di Natale – una perizia psichiatrica che mi ha qualificato come malato di mente, affetto da un grave disturbo paranoico. Ognuno comprende l’anomalia di far fare una perizia psichiatrica ad una neurologa – democristiana come Di Natale, nissena come Di Natale -, neurologa esperta in tossico dipendenze, invece che ad uno psichiatra. A proposito, la perquisizione alle 4 di notte e il sequestro dei computers è avvenuto sulla baase di telefonate intercettate – incredibile ma vero – ove una mia carissima amica mi chiedeva un prestito di 50 euro per portare la figlia, gravemente malata, da un otorino. Tutto questo è consacrato nelle bobine audio. Poi Fonzo e Maggioni hanno nascosto la principale delle telefonate intercettate, quella che sbriciolava le loro teorie accusatorie. Quella telefonata, di ben 15 minuti, aveva lo stesso valore della telefonate dell’esempio che illustro. Io sono indagato per aver ucciso e occultato il cadavere di mio zio Nino. Mi mettono il telefono sotto controllo e intercettano la telefonata dello zio Nino che mi chiama da Cuba per invitarmi a raggiungerlo per divertirci assieme. Sulla base di quella telefonata l’inchiesta è finita. Se nascondiamo la telefonata possiamo continuare ad intercettare. E le intercettazioni sono come una rete per la pesca a strascico. Parti per scoprire il reato di corruzione di una testimone – pagando la visita medica della figlia malata – e poi magari scopri che l’indagato fa uso di eroina, procura prostitute agli amici, commette qualche leggerezza professionale. Purtroppo per Fonzo, nei tre mesi di intercettazioni è venuto fuori che Peppe Arnone merita solo complimenti e suscita invidie. E adesso sono Fonzo e Maggioni, i magistrati che hanno gestito le intercettazioni ad essere indagati. Dico pure i numeri dei processi: Procura di Caltanissetta, procedimenti n.175 e 178 del 2014, GIP dott. Testaquadra, magistrato molto serio e perbene."

Come ha visto reagire la stampa ad Agrigento? C'è stata qualche anomalia?

"Ad Agrigento la istituzione peggiore, di gran lunga peggiore rispetto a tutte è l’informazione. Il sistema informativo presenta livelli di degrado e di condizionamento che non hanno eguali in Italia. Ed infatti nessun giornale online ha pubblicato la foto dello striscione davanti al Tribunale e tre emittenti su quattro hanno censurato la notizia. I giornali online, con l’esclusione di uno appena nato, hanno ritenuto di non informare totalmente i lettori. In questo momento ho tra le mani una nota di quello che è il maestro di questo tipo di giornalismo, Franco Castaldo. In questa nota Castaldo scrive – rispondendo ad una mia contestazione sulle loro censure – “che non è (ovvero sarà) l’Arnone a dettare i tempi e i modi dell’informazione”. In questa frase vi è tutto: cosa sarebbero i tempi dell’informazione? Il cittadino dovrebbe avere il diritto di essere informato. Non dovrebbero esistere i tempi dell’informazione. Il cittadino dovrebbe avere la notizia in tempo reale, quando il giornalista ne viene in possesso. Ad Agrigento invece le notizie si censurano, si cancellano oppure al contrario, si amplificano. Fonzo è indagato per aver preteso dal giornalista Lelio Castaldo che non andasse in onda una trasmissione di un’ora, programmata da tempo, ed annunciata con quasi un mese di spot – oltre cento spot - , trasmissione che consisteva in una mia intervista relativa ad un’inchiesta a mio carico. Il giornalista Lelio Castaldo la cancella e mi dice testualmente che lui non farà più quella trasmissione su esplicita richiesta di Fonzo. Questo avviene a febbraio del 2012. Sei mesi dopo siamo a luglio, il giornalista Lelio Castaldo – che io assistevo gratuitamente – pubblica un mio comunicato molto ironico sulla partecipazione di Fonzo ad un’udienza contro di me. Il comunicato parlava di Fonzo “descamisados”, perché era sceso dal suo ufficio in udienza in fretta e in furia, in maniche di camicia, per dare man forte al PM d’udienza. Il comunicato compare e dopo poche ore scompare, sradicato pure dall’archivio del giornale. Esattamente come avveniva con lo stalinismo, quando si modificavano le fotografie per cancellare chi era caduto in disgrazia. Come si può comprendere da queste due vicende, il condizionamento che viene operato dalla Procura di Agrigento appare essere pesantissimo. Ovviamente questi cosiddetti giornali censurano pure le notizie delle indagini a carico di Fonzo e del PM Maggioni a Caltanissetta. Questo è il livello della disinformazione ad Agrigento. Possiamo definirla mafia dei colletti bianchi questa gestione del sistema informativo che priva il cittadino di un diritto costituzionalmente garantito? E non parlo delle aggressioni che questa stampa conduce. Sempre il giornale del Franco Castaldo – i Castaldo sono due fratelli, Franco e Lelio, Lelio è quello coinvolto direttamente nei procedimenti a carico di Fonzo – riesce a violare regole deontologiche minimali con comportamenti francamente inediti: le mie collaboratrici vengono definite sul suo giornale “troie, asine e giovenche”, dedite alla monta, io vengo paragonato a Rocco Siffredi o John Holmes. Mi viene augurato di morire di AIDS. Vengo definito in continuazione come iettatore. Ogni settimana abbiamo tre o quattro articoli con firma apocrifa (Attila, Genserico e similari) grondanti di insulti contro di me. Questo è il giornalismo agrigentino. Ma è un giornalismo o qualcosa di diverso? Ecco perché Agrigento è la realtà più degradata della Sicilia e probabilmente d’Italia, quantomeno per quanto riguarda istituzioni formali."

 Lei spesso è criticato perchè secondo taluni dietro le sue clamorose azioni talora ci sarebbero aspirazioni politiche o altro, cosa risponde?

"La mia aspirazione è certamente politica, ma nel senso letterale del termine, migliorare la qualità della vita pubblica, della vita associata nella mia città. Adesso la mia vita, nel senso della mia esistenza, è raccontata da ben tre pentiti, due sono esponenti di primissimo piano di Cosa Nostra, il terzo è una sorta di pentito colletto bianco, che si è pure mosso ai margini di Cosa Nostra. E il racconto che ne viene fuori del ventennio 1990-2010, è semplicemente bellissimo. Per vent’anni Cosa Nostra ha avuto il dubbio se era meglio uccidermi o lasciarmi vivo. Si riunivano frequentemente per parlare di me e del mio omicidio. Ora chi ha questa storia ha l’ambizione di migliorare la propria terra, non ha paura né di Fonzi, né di Di Natali, né di Castaldi. I pentiti raccontano che Cosa Nostra si impegnò con ogni energia per impedire la mia elezione a sindaco nel ’93 e la mia elezione a deputato nel ’94. Persi le due elezioni per poche centinaia di voti. E il super pentito Di Gati racconta che era già stato deciso il mio omicidio, se avessi vinto le elezioni a sindaco del ’93. Il sindaco Arnone suscitava enormi preoccupazioni in Cosa Nostra. Il racconto dei pentiti – si chiamano Maurizio Di Gati, Luigi Putrone e Giuseppe Tuzzolino – riguarda il mio impegno per la legalità e contro gli appalti truccati e gli imprenditori collusi con Cosa Nostra. Adesso è chiaro che non vi è da parte mia un’aspirazione di campagna elettorale, se per politica intendiamo questo, mentre vi è un’aspirazione di altro tipo, ovvero ottenere che le regole dello Stato Italiano valgano anche ad Agrigento. E sino ad ora, con evidenza, non è stato così."

 Ad oggi chi ha risposto ai suoi numerosi appelli sulla giustizia?

"Sino ad’ora io non ho puntato ad avere risposte, cioè ad ottenere interventi. Ritengo di essere il più esperto ed autorevole “guerriero” che si muova in terra siciliana. I pentiti raccontano ciò che ho saputo fare contro Cosa Nostra. Ma vi sono poi gli armadi del Consiglio Superiore della Magistratura, che documentano le mie vittorie nelle battaglie contro magistrati molto molto molto discutibili. Sono stato io che nel ’91 ottenni l’allontanamento del Procuratore capo Giuseppe Vaiola, votato all’unanimità. Ho vinto cause contro il pretore e poi senatore Melchiorre Cirami – sì proprio lui, quello della legge Cirami per Berlusconi - , ho vinto fior di cause contro Stefano Dambruoso, sì proprio lui, l’attuale parlamentare che prende a schiaffi le deputate grilline. Ho provocato l’allontanamento con addebiti pesantissimi del PM di Agrigento Giuseppe Miceli, quello che mi voleva arrestare. Ho pure vinto la battaglia per la nomina a Procuratore capo di Catania di Giovanni Salvi: credo proprio che senza i documenti che io ho inviato al CSM, nell’imminenza della votazione, oggi il Procuratore capo di Catania sarebbe Giuseppe Gennaro. Ho fatto questa premessa perché so come si combattono le battaglie contro poteri di questo livello. Bisogna prima avere tutte le carte in regola, essere inattaccabili. Io amo le metafore storiche. Gli alleati impiegarono molto tempo a preparare lo sbarco in Normandia, ma quando sbarcarono, l’unico dubbio era se Hitler sarebbe stato fucilato o se si suicidava anticipando tutti. Così oggi la battaglia contro ciò che ha rappresentato Fonzo ad Agrigento, è una battaglia vinta. Siamo come gli alleati che sbarcati in Normandia, stanno riconquistando la Francia per arrivare a Berlino. Ed adesso possiamo attivare il sistema mediatico nazionale, certamente interessato a sentire le intercettazioni telefoniche sui prestiti per la visita medica, scambiati come fatti di corruzione che giustificavano perquisizioni alle 4 di notte, e ancor di più, l’ammissione del PM Fornasier che il suo collega Fonzo realizzava schieramenti alle mie spalle. L’Italia è una Democrazia, con tante contraddizioni, ma alla fine se hai ragione e le palle per batterti, se non ti fai intimorire, vinci. Il destino di questi è segnato."

Ci può anticipare sviluppi -se ci saranno- di queste vicende?

"Gli sviluppi sono facili da prevedersi. Penso che appena l’onda mediatica nazionale si occuperà delle cose che ho illustrato, non appena una delle trasmissioni nazionali farà sentire la voce del PM Fornasier che ammette gli schieramenti alle spalle di Fonzo, racconta come Fonzo ha strumentalizzato il suo ruolo per costruire legami fortissimi, e addirittura minaccia le brutte mazzate, interverranno di corsa ad Agrigento ispettori ministeriali e del CSM. E ancora, io voglio far sentire la voce della signora che chiede in prestito 50 euro per la visita medica della figlia o 20 euro per ordinare libri di scuola, e tutto questo viene a giustificare processi per corruzione e perquisizioni alle 4 di notte. Siccome siamo in un paese democratico e Arnone è comunque una personalità che sa farsi valere, non invidio affatto Fonzo, Di Natale, Maggioni e compagnia cantando. Tutti questi magistrati avranno per i prossimi anni problemi gravissimi. E lo ritengo una vittoria della gente per bene. Io adesso non sto punendo costoro solo per i torti che hanno fatto a me, ma soprattutto perché se quello che ho subito io lo avesse subito un cittadino comune, sarebbe stato travolto e distrutto. Fonzo e compagnia bella sono come il branco di iene che ha assalito il rinoceronte. Stavano per farlo fuori, ma il rinoceronte è una bestia molto solida, ha saputo reagire e adesso è lui che sta pestando le iene. Ma se queste iene avessero assaltato una zebra o una gazzella o un’antilope, l’avrebbero distrutta e sbranata senza pietà. Il rinoceronte oggi sta realizzando il diritto di tutti al rispetto della giustizia e delle leggi dello Stato. Gli sviluppi quindi saranno per tutti costoro pesantissimi. A Caltanissetta, per tentare di salvare Fonzo e Maggioni, vi è stata pure la sfilata di testi mendaci, ad esempio il teste Lelio Castaldo ha messo nero su bianco una serie di bugie ridicole, proprio risibili. Ha raccontato che il comunicato di Fonzo “descamisados” sia era cancellato per un guasto al sistema informatico, il Gip ha disposto una perizia su quel sistema informatico. Sempre Lelio Castaldo ha dichiarato al PM di aver cancellato la trasmissione su consiglio del suo avvocato. Peccato che la trasmissione non era stata ancora registrata e l’avvocato non aveva la materia su cui dare pareri giuridici. Se la trasmissione fosse stata già registrata, l’avvocato avrebbe potuto dire: “non la mandare in onda perché questa e quell’altra frase sono diffamatorie”. Non esistendo la trasmissione, questo avvocato su cosa doveva dare il suo parere legale? Tutto ciò viene a rappresentare ulteriormente il quadro di degrado e di inquinamento che ruota attorno a costoro nella realtà agrigentina."

MASSONERIA NELLE ISTITUZIONI. Autorità criminali e culti misterici, scrive Antonella Randazzo. Si parla spesso di “bizzarrie” che appaiono su Internet, ovvero di argomenti su cui aleggia lo spettro della bufala o del contenuto che attrae ma è irreale, singolare o stravagante. Il problema è che a volte si cerca di far rientrare in questa categoria anche argomenti molto importanti per capire il sistema in cui oggi ci troviamo. Un esempio di ciò è l’argomento “culti misterici”. Un culto misterico è un culto riservato a pochi, che prevede riti di iniziazione e di passaggio da un livello più basso ad uno più alto, il più totale segreto relativo al culto, alle cerimonie, e l’idea che il gruppo fornirà conoscenze esoteriche importanti. Non necessariamente i culti misterici sono religioni misteriche, talvolta, come nel caso delle società segrete, si tratta di gruppi che non dichiarano esplicitamente di adorare una precisa divinità. Tuttavia, l’idea che vengano svelate cose “misteriose” che sono appannaggio di pochi, suggerisce l’esistenza di “venerandi”, ovvero di una fonte da cui proverrà la conoscenza esoterica. Nonostante su Internet esistano molte fonti che parlano di sette esoteriche, di massoneria e di gruppi di potere occulti, non bisogna fare l’errore di dare per scontato questi argomenti, sottovalutandoli o scambiandoli per argomenti “sui generis”. Ci sono innumerevoli prove, talvolta date dagli stessi interessati, che gli attuali personaggi al potere si valgono di associazioni o culti misterici per alimentare il loro potere e per scongiurare il pericolo che salgano al potere personaggi non controllabili.
Dunque, studiare con serietà un tale argomento può aggiungere nuove conoscenze su come agiscono i personaggi che oggi esercitano potere sui popoli, su come essi formano il ceto dirigente e come cercano in tutti i modi di tenerlo soggiogato per potersi garantire il dominio sui popoli. Da molti elementi si inferisce che è proprio attraverso le logge, i culti segreti e la mafia che queste persone continuano a tenere sotto controllo le autorità, curandosi di formarle e di obbligarle al segreto circa aspetti del sistema evidentemente inconfessabili. L’uso di queste formazioni conferma, se ce ne fosse bisogno, la natura criminale del sistema, che ha bisogno di manipolare e controllare per continuare ad esistere. I gruppi segreti di natura massonica servirebbero a controllare mentalmente chi è destinato a ricoprire cariche di potere. E’ come se alcune persone dovessero essere “formate” in modo tale da commettere le più gravi cattiverie senza avere scrupoli di coscienza, e magari motivandole truffaldinamente per renderle “legittime”. In effetti, organizzare guerre, uccidere o torturare persone inermi significa distruggere il sentimento umano naturale di empatia con i propri simili, e dunque non sembrerebbe possibile farlo senza un’accurata “formazione”. Per questo motivo sembrerebbe necessario far praticare a chi ricoprirà ruoli importantissimi, culti che disumanizzano, che stimolano gli aspetti più negativi e distruttivi dell’uomo, o che inducono a credere che possano esistere principi, “valori” o ideologie che giustificano i crimini più terribili contro l’umanità. Esisterebbero due tipi principali di culti misterici:

1) quelli che prevedono l’affiliazione di un numero relativamente ampio di adepti, che per la maggior parte ricoprirà livelli bassi, e dunque non raggiungerà mai determinate conoscenze, appannaggio dei pochi che raggiungeranno gli alti livelli;

2) quelli che appaiono come sette vere a proprie, poiché sono destinate soltanto ai rampolli delle grandi famiglie miliardarie o a personaggi “scelti”. In tal caso il personaggio sarà chiamato ad aderirvi come fosse un “eletto”, ad esempio ricevendo una lettera da chi ha creato la setta.

In quest’ultimo caso, i riti talvolta sarebbero agghiaccianti, simili a quelli satanici. Ad esempio, nel gruppo chiamato Skull & Bones gli iniziati dovrebbero masturbarsi nudi in una bara, e successivamente subirebbero anche violenze verbali e fisiche, dovendo lottare nel fango e a subire violenze con altri adepti fino allo sfinimento. Si tratterebbe di tecniche elaborate dalla Cia al fine di indebolire il soggetto attraverso una serie di atti che lo piegheranno fisicamente e mentalmente. Agli adepti verrebbe anche inculcata l’idea di essere superiori e di avere la “missione” di dominare sugli altri. Essi subirebbero dunque umiliazioni sessuali, ma al contempo verrebbero abituati ad esaltare il proprio ego umiliato, per sopperire alla bassa autostima stimolata dalle umiliazioni. Questi rituali non sarebbero casuali, ma creati per influenzare gli adepti in un determinato modo. L’obiettivo sarebbe quello di far emergere aspetti del sé distruttivo, in modo tale che emozionalmente e mentalmente la persona possa diventare più incline a mentire, ad ingannare e a commettere azioni criminali. E’ come “programmare la mente” ai crimini che dovranno commettere quando saliranno al potere. Essi dovranno commetterli non soltanto senza alcun rimorso ma addirittura credendo che ciò sia giusto, e per poter raggiungere questo livello di mistificazione occorre una sorta di percorso “esoterico” atto a manipolare la mente a tal punto da produrre questo effetto. I riti praticati in questi gruppi misterici sono traumatizzanti e violenti, e addirittura per essere resi più agghiaccianti sarebbero utilizzate urla di sottofondo. Questi riti sarebbero collegati a simbologie di vario genere, e servirebbero anche a creare affiliazione a realtà false, per disorientare l’esistenza. Nelle società segrete massoniche viene anche creato un clima di unità e “fratellanza” molto forte, come se gli adepti fossero legati da qualcosa di importante e fondamentale per la loro esistenza. La stessa cosa avviene nella mafia. Sembrano cose talmente assurde da non poter essere vere, ma le prove e le testimonianze a sostegno di ciò sono ormai così numerose che ignorarle significherebbe agire come i personaggi di regime, che vedono soltanto quello che viene detto loro di vedere. Storici come Paolo Mieli direbbero che tutto è casuale, che è casuale che quasi tutte le più importanti autorità inglesi e statunitensi siano membri di alto grado della massoneria, o che addirittura nel 2004, entrambi i candidati alla presidenza degli Stati Uniti appartenessero alla società segreta Skull & Bones (teschio e ossa – detta anche “Fratellanza della morte”). La Skull & Bones fu fondata per “formare” l’èlite di potere statunitense, all’Università di Yale nel 1832, ad opera di William Huntinton Russell, che era colui che all’epoca si occupava della produzione e del commercio di oppio. Questa setta, a detta di molti, praticherebbe rituali simili a quelli praticati nel satanismo. La giornalista Alexandra Robbins è riuscita ad intervistare diversi adepti, ricavando un’immagine della setta a dir poco sconcertante. Gli adepti si riunirebbero in un luogo chiamato “the Tomb” (la Tomba), luogo in cui si svolgerebbero i riti. Il marchio della setta appare in molti oggetti posseduti da coloro che l’hanno creata o che vi appartenevano (o vi appartengono), come John Pierpont Morgan, David Rockefeller, Henry Stimson, Averell Harriman, i Bush, i Taft, ecc. All’interno della setta viene presentata una realtà gravemente squilibrata, eppure i suoi adepti diventano importanti industriali, dirigenti di grandi banche o altre organizzazioni importanti, o addirittura presidenti o consiglieri di presidenti. I membri della setta sono soltanto poche centinaia, reclutati fra le più importanti famiglie miliardarie statunitensi. La Robbins, nel libro “Secrets of the Tomb” descrive alcuni riti che appaiono come un incrocio fra il carnevalesco e il paradossale, che meriterebbero una grossa risata, se non ci fossero risvolti tremendamente seri. Ad esempio, il giovane Bush, nel rito di iniziazione, sarebbe stato incappucciato e condotto da 11 patriarchi della confraternita travestiti come fosse carnevale: uno da Elihu Yale (fondatore dell’Università), uno da Papa, uno da diavolo, ecc. In questo clima farsesco l’iniziato doveva raccontare la propria “storia sessuale”, dopodichè sarebbe dovuto entrare nudo in una bara per masturbarsi. Il tutto veniva abbeverato da quantità esorbitanti di alcolici. Ma secondo la Robbins tutto questo fare settario e bizzarro sarebbe “normale” negli ambienti dei miliardari statunitensi. Ella dichiara: “I più ricchi americani si comportano allo stesso modo quando partecipano a raduni esclusivi come quello che si tiene ogni anno a Sun Valley in Idaho”. Considerato che si tratta di persone che hanno nelle loro mani il destino di milioni di persone, c’è proprio da stare tranquilli…Sia Kerry che Bush, candidati alla presidenza nel 2004, appartenevano alla setta Skull & Bones, e risposero imbarazzati quando un giornalista chiese loro se appartenevano alla setta e quali fossero i principi del gruppo. Bush ammise di appartenere alla setta e alle ulteriori domande rispose: “è così segreto che non possiamo parlarne”. Kerry rispose in modo analogo, ammettendo la sua affiliazione: “non (posso dire) molto perché è un segreto”. Due persone che aspirano a ricoprire una carica politica importantissima che confessano di avere “segreti” da rispettare, che non sono cose che riguardano fatti privati, ma un’affiliazione occulta. Giurare di non rivelare qualcosa all’interno di una setta abitua ad un comportamento poco trasparente, assai pericoloso quando si tratta di ricoprire cariche di potere. La loro fedeltà alla setta avrebbe sovrastato la necessità di agire per il bene del popolo, ponendo il proprio giuramento massonico al di sopra della fedeltà alla nazione. Come diceva Joseph Pulitzer: «Non esiste delitto, inganno, trucco, imbroglio e vizio che non vivano della loro segretezza”. Queste sette impongono il giuramento di “obbedienza totale” e segretezza, assoggettando così la persona al gruppo. Come nel caso della mafia, non si può disobbedire, svelare segreti o uscire dalla setta senza pagare un prezzo molto alto. Le persone che fuoriescono dal controllo saranno giudicate da appositi tribunali che prevedono anche la pena di morte. Oltre al gruppo Skull & Bones ci sarebbero molte altre sette di tipo analogo, come la cosiddetta “Società Boema” che si riunirebbe in California nelle ultime due settimane di luglio, praticando riti satanici che prevedono un’invocazione fatta ad una statua che rappresenta un gufo alto circa 7 metri. Parteciperebbero al rito parecchie importanti autorità, capi di Stato, industriali, ex presidenti statunitensi, ecc. Queste persone vestirebbero con una tunica con relativo cappuccio, ovvero la stessa veste indossata dagli adepti del Ku Klux Klan. Di fatto, negli Usa quasi tutti i presidenti e i vicepresidenti, molti senatori e deputati, giudici e governatori sono massoni. Questo può essere considerato come casuale da persone dotate di razionalità? E’ massone di alto livello l’ex capo di governo inglese Tony Blair, egli è membro della Loggia massonica di Studholme (Londra). La stessa regina sarebbe la “Patrona della massoneria Internazionale”, come un capo su tutti i massoni di alto livello. Di tanto in tanto riunirebbe tali personaggi a Drewery Lane (Londra). Altri membri della Corona inglese, come il Duca di Edimburgo, sono membri di alto grado della massoneria. Il deputato inglese Chris Mullins, attraverso un comitato d’inchiesta scoprì che molte autorità in seno alle forze dell’ordine e alla giustizia erano affiliate a sette segrete. L’agente dell’Fbi ora in pensione, Ted Gunderson, che si occupava di investigare su culti e sette sataniche, scoprì attraverso varie fonti che molti giudici, avvocati, attori, sportivi, medici, deputati e senatori, erano affilati a sette di tipo massonico-satanico. Anche importanti capi di governo del passato, come Winston Churchill, erano massoni di alto grado. I gradi più alti sono di solito raggiunti soltanto da persone di sangue aristocratico o da alti ufficiali delle forze armate. Le persone che appartengono alle sette destinate soltanto a persone di “alto rango” vengono incoraggiate a sposarsi fra loro, per creare maggiore coesione tra i gruppi e per evitare che queste persone entrino a contatto con altre realtà che le “risveglino” e facciano scegliere loro altri percorsi più “normali”. Tutto questo serve anche ad escludere gli “intrusi” dal potere, creando in tal modo un sistema controllato dall’alto e prevedibile. Gli ambienti settari degli stegocrati sono intrisi di un’alta valenza emotiva, che è un misto fra onnipotenza, sete di potere, avidità e paura. Si crea una rappresentazione della realtà alterata che può confondere fra ciò che è vero e ciò che è soltanto finzione. Si crea uno stato emotivo talmente alterato da non permettere alle vittime di avere una vita emotiva indipendente, o di uscire dal giro senza pagare un prezzo molto alto. Molte di queste persone vivranno per tutta la vita esistenze emotivamente alterate, passeranno fra una festa, un rito e un impegno politico ( finanziario o economico) esibendo sorrisi stereotipati o falsi entusiasmi. Racconteranno cose assurde sul “nemico terrorista”, sulla “lotta del bene sul male”, o sul fatto che gli Usa sarebbero “una grande democrazia”. Il gruppo di stegocrati sa che l’unico modo per continuare ad avere potere è quello di controllare la mente di chi avrà ruoli di potere, e un modo efficace, evidentemente, è quello di controllarli attraverso gruppi massonici e satanici. Si tratterebbe dunque di utilizzare tali gruppi come uno strumento di potere sulle menti degli adepti. I capi massonici vengono chiamati “maestri occulti” o “sovrani”. Spiega Jordan Maxwell: “Gli ordini pre-massonici europei sostenevano che ci fosse una piccola teoria, una piccola entità spirituale che forniva una conoscenza per quello che i massoni chiamavano “i nostri maestri occulti”… si riferivano a chi guidava la massoneria mondiale… loro non sanno chi siano. Nessun massone sa realmente chi realmente guida l’organizzazione mondiale. Li chiamano “i nostri maestri occulti”. Molti studiosi ritengono che i riti satanici e massonici siano molto più simili di quello che si crede. Secondo queste persone il Dio dei Massoni avrebbe un nome impronunciabile, ovvero sarebbe lo stesso Dio dei satanisti. La maggior parte dei massoni smentisce questo, ma alcuni, come Albert Pike, lo hanno ammesso. Da laici sarebbe legittimo pensare che i “demoni” da loro adorati non sono altro che aspetti del sé inquietanti, ovvero la cosiddetta “Ombra” descritta da Jung. Tali riti potrebbero dunque avere lo scopo di alimentare questi aspetti per renderli più forti o più presenti, allo scopo di far diventare le persone capaci di comportamenti che altrimenti non avrebbero. In altre parole, si tratta di rafforzare i potenziali criminali al fine di forgiare persone che si comportino in modo utile al sistema, agendo sulla loro mente e instillando convinzioni mistiche o esoteriche che condizioneranno le loro scelte e il loro comportamento. Per questo di solito i riti posseggono un certo livello di violenza, e abituano a calpestare la dignità umana. Qui non si vuole certo sottovalutare il potere del pensiero. Come i fisici più all’avanguardia ci insegnano, il pensiero è energia che può creare demoni e qualsivoglia realtà, rafforzando alcuni aspetti della psiche e indebolendone altri.

I Fratelli d’Italia chiamati a fregare l’Italia. La Massoneria propriamente detta, ovvero quella che permette anche a decine di migliaia di persone di aderire, dal punto di vista ideologico appare come un calderone in cui c’è tutto e il contrario di tutto: si propone come “tollerante” ma di fatto rappresenta un modo efficace per controllare le menti; si presenta come “umanistica” ma risulta soprattutto un modo per spogliare gli umani della loro umanità. Le logge massoniche servono, nonostante il volto rispettabile che può essere dato, non solo a controllare le persone, ma anche ad organizzare e ad attuare una serie di crimini di vario genere: corruzione di funzionari, attentati terroristici, colpi di Stato, eliminazione di personaggi scomodi, ecc.. Anche se le società segrete possono acquisire nomi diversi, esse sono controllate da un unico centro di potere, che fa capo agli stegocrati, ovvero a coloro che hanno nelle loro mani il potere finanziario, economico, politico e mediatico. Credere che queste associazioni possano avere scopi positivi sarebbe come credere che le banche operano per il bene dei popoli. Come tutte le creazioni dell’attuale gruppo di potere, la natura evidente della massoneria risulta l’opposto rispetto alla sua verità, ma la maggior parte degli adepti non se ne accorge, ignorando ciò che avviene ai livelli più elevati. Certamente esistono adepti che non sono affatto criminali, e che, anzi, sono persone per bene che credono con sincerità ad un presunto scopo positivo dell’associazione. Ma non dobbiamo dimenticare che se oggi ci troviamo nella situazione in cui siamo è per la credulità e l’ignoranza (intesa come non conoscenza del vero sistema attuale) di molte persone. Non essere capaci di riconoscere i tanti tranelli messi in atto dal gruppo dominante costa caro a tutti. La maggior parte delle persone che aderiscono alla massoneria crede che i precetti della massoneria siano quelli che vengono loro insegnati, e alcuni ignorano persino che esistano alti livelli in cui i principi propagandati si ribaltano. Quasi tutti gli adepti non vanno oltre il terzo o quarto livello. Evidentemente, c’è una doppia faccia nella massoneria: per la maggior parte è un’associazione storica con principi “liberali” e “umanistici”, ma per chi la crea e la manovra è soltanto una fonte per controllare, formare e dirigere coloro che potranno avere ruoli importanti nei settori chiave del potere. Ad oggi, la massoneria è un argomento poco trattato, che viene ammantato di mistero, come se non fosse possibile capire che molte autorità e personaggi che ricoprono ruoli finanziari, economici, mediatici e politici importanti sono quasi sempre massoni di grado elevato. Anche la mafia è stata per molto tempo ammantata da un alone di mistero, anche quando sapevano tutti che esisteva e quale ruolo avesse. Esiste un forte legame fra mafia e massoneria. I vertici mafiosi, per poter meglio coordinare alcune operazioni, sono strettamente collegati ai servizi segreti come la Cia e l’MI6, e alle logge massoniche. L’Italia è stata messa sotto il controllo della massoneria sin dall’Unità, attraverso personaggi come Garibaldi, che era un noto massone di alto livello. Garibaldi ebbe il 33° grado della massoneria, che gli inglesi concedevano ai dittatori Sud Americani o a coloro che si mettevano completamente ai loro servigi. La spedizione dei Mille fu finanziata dalla massoneria inglese con somme enormi, parecchi milioni di dollari attuali. In realtà la Corona inglese ha utilizzato la massoneria, non per unire l’Italia, come è stato detto, ma per imporre a tutti gli italiani il potere (controllato) dei “Fratelli d’Italia”. Lo storico Salvatore Lupo scrisse che “durante la cospirazione risorgimentale esisteva una rete clandestina ispirata alla massoneria”. Il pentito Antonino Calderone raccontò anche che la massoneria fungeva da canale per stabilire i contatti fra funzionari statali e mafiosi. Secondo il giudice Agostino Cordova la massoneria è da ritenere “‘il tessuto connettivo della gestione del potere”. All’interno di essa si trovano i personaggi più disonesti e corrotti. Negli anni Novanta, in Italia, c’erano 146 massoni indagati per mafia e reati politici, 83 dei quali accusati di riciclaggio di titoli rubati. Fra gli iscritti alle logge figuravano anche diversi poliziotti e carabinieri, accusati da Cordova di “impedire le indagini”. Secondo il pentito Leonardo Messina, la collaborazione fra mafiosi e massoneria non è affatto rara, al contrario, quasi tutti i capimafia frequentano assiduamente le logge massoniche, e l’intero vertice di Cosa Nostra è affiliato alla massoneria. Mutolo parlò delle logge come di “un punto d’incontro per tutti”. Ciò fa emergere la consonanza di interessi, di ruoli e di metodi. La stessa strategia di mascherare, occultare o nascondere appartiene sia alla mafia che ai servizi segreti e alle logge massoniche. Si parla di “servizi deviati” o di massoneria “deviata” per proteggere un presunto ruolo corretto di queste organizzazioni, ma in realtà esse sono per loro natura inclini al segreto e al controllo. Se operano per nascondere significa che hanno qualcosa da nascondere. Pur dovendo constatare gli stretti legami fra massoneria e mafia, occorre fare alcune distinzioni. La mafia, avendo come scopo anche quello di soggiogare la popolazione, non può essere completamente occulta, al contrario, essa deve dare chiari segnali alla popolazione della sua esistenza. Tutti sanno chi sono i mafiosi e dove abitano, e molti sono costretti a prendere atto degli omicidi commessi dalle cosche. I mafiosi continuano ad abitare nelle zone di origine, anche quando ormai sono assai noti, gli unici a non sapere chi sono e dove abitano sono le istituzioni, dato che non li fanno arrestare. Molte famiglie mafiose, come ad esempio quella dei Corleonesi, erano state identificate già negli anni Cinquanta, ma soltanto nel periodo del pool si ebbe una vera strategia per abbattere il loro potere. E’ vero che per molti anni le autorità hanno cercato di negare l’esistenza della mafia, ma nel sud le persone sapevano benissimo che c’era, e dovevano saperlo per esserne soggiogati, o perché erano costrette a pagare il pizzo. Persone come Falcone e Borsellino avevano capito i legami fra mafia e massoneria, e per questo sono state condannate a morte. Più recentemente, anche magistrati come De Magistris e Woodcock hanno scoperto stretti legami fra politici, mafiosi e massoni. Talvolta un personaggio può appartenere a tutte e tre le categorie. Esistono reti di grave corruzione scoperte da De Magistris, che per questo è stato messo nelle condizioni di non poter continuare le sue indagini. La massoneria italiana raccoglie molti personaggi del panorama finanziario, economico, mediatico e politico italiano, in totale segreto, anche se per le nostre leggi è illegale creare associazioni segrete. Come molti sanno, in Italia è stato realizzato il piano della cosiddetta Loggia Propaganda 2, per evitare che gli italiani pretendessero una maggiore apertura democratica. La Legge n.17 del 25 gennaio 1982 (detta Legge Anselmi), fu approvata in seguito allo scandalo della Loggia Propaganda Due, con lo scopo di sciogliere la P2 e rendere illegali tutte le associazioni segrete con obiettivi analoghi. La legge ribadiva un principio presente nella Costituzione Italiana, al secondo comma dell’articolo 18, che considera illegali le associazioni segrete con scopi politici e a carattere militare. Questo faceva apparire il pericolo come scampato e dava l’idea che ormai appartenesse al passato. Di fatto però non si fece nulla per impedire che salissero al potere i personaggi che agivano per realizzare il piano della P2. Il sistema agì come un prestigiatore: mostrava una realtà che non esisteva, mentre ne realizzava un’altra, proprio quella che faceva apparire come smascherata e distrutta. Sotto i nostri occhi ci è stata data la fregatura. Secondo la giornalista Concita De Gregorio, che ha intervistato Licio Gelli, la “strana” attività di questo inquietante personaggio non appartiene certo al passato. Spiega la De Gregorio: “(Gelli) è un uomo… (che) lavora a pieno ritmo, ha vari uffici in cui riceve ospiti ogni giorno… ha un’agenda fittissima e una serie di segretarie che lavorano per lui a tempo pieno. Io l’ho incontrato a villa Wanda, ad Arezzo, nella sua abitazione… è in grande attività, riceve personalità straniere, politici, imprenditori… per la gran parte italiani, ed è un uomo… che ha come un crocevia di affari internazionali… stupisce questo disinteresse che c’è attorno alla figura di Gelli, che è come se appartenesse al passato, in realtà appartiene al presente, è lì e lavora… il suo piano si è realizzato, nell’intervista… ha parlato di uomini politici attualmente in carica, fa dei nomi che sono ancora quelli, la classe politica di allora è la stessa di oggi, è difficile immaginare che anche i progetti, i programmi siano cambiati… alla fine il progetto realizzato è quello di Gelli”. Non è difficile immaginare di che “lavoro” si tratti, visti i precedenti, e nemmeno i personaggi che chiedono le sue “consulenze”. Del resto, lo stesso Gelli non nega il potere che la loggia che egli “dirigeva” ha avuto nel creare, com’era nei piani, un sistema dittatoriale dotato di parvenza democratica. Dunque, non c’è dubbio che anche in Italia i gruppi massonici hanno esercitato ed esercitano un potere antidemocratico, attraverso la creazione di una vasta rete sotterranea che riunisce i personaggi più importanti in molti settori, per “affiliarli” e controllarli. Chi è fedele all’affiliazione è colui che ha più probabilità di avere fama, soldi e potere. Chi è affiliato è una pedina (più o meno importante) controllabile, fedele e manovrabile. Il principio di segretezza della massoneria permette di agire in modo illegale e criminale senza essere perseguiti, e spesso senza far capire chi sono i responsabili e come abbiano agito. Come denunciò John Kennedy poco tempo prima di essere ucciso: “La parola ‘segretezza’ è ripugnante in una società aperta e libera, e noi come popolo ci siamo opposti, intrinsecamente e storicamente, alle società segrete, ai giuramenti segreti, e alle riunioni segrete. Siamo di fronte, in tutto il mondo, ad una cospirazione monolitica e spietata, basata soprattutto su mezzi segreti per espandere la sua sfera d’influenza”. La segretezza protegge le attività criminali delle autorità, e dunque conferisce un potere assoluto ad alcune persone, che potranno commettere qualsiasi crimine senza essere perseguite. Quando viene sollevato seriamente il problema della massoneria e della segretezza, alcune autorità intervistate ci scherzano sopra come a prendere in giro e ad additare come bizzarre tutte le persone che si accorgono di queste realtà. Deridere, etichettare come “cospirazionisti” e “paranoici” o trattare come persone strane e sospettose, sono metodi per far cadere nel vuoto le accuse di chi si accorge che c’è un gruppo di potere che utilizza metodi criminali per continuare a dominare. Cercando di screditare coloro che sollevano il problema cercano anche di evitare di fare la dovuta chiarezza. Anche le autorità vaticane si valgono di un’organizzazione che ricalca la struttura e le funzioni tipiche di un’organizzazione massonica, ovvero l’Opus Dei. Per molti autori si tratta di un centro potentissimo, che, insieme alla Curia Romana si occuperebbe di proteggere ed estendere il potere e gli affari del Vaticano, anche attraverso mezzi di arricchimento finanziario ed eliminando tutto ciò che potrebbe intralciare. L’Opus Dei è diffusa in molti paesi del mondo, e si occuperebbe anche di controllare le cariche ecclesiali di alto grado. Secondo alcuni antropologi i culti misterici contengono ideologie che mirano al potere assoggettando persone che poi saranno utilizzate per i propri scopi. Il satanismo appartiene a questa categoria, come anche le sette segrete che professano altre finalità. Ogni tanto alcuni personaggi, come l’ex Gran Maestro Giuliano di Bernardo, denunciano aspetti strani della massoneria, ma queste persone parlano di “massoneria deviata”, facendo credere che la massoneria in quanto tale sarebbe un’organizzazione accettabile. Si trascura di parlare degli aspetti perlomeno strani di questa organizzazione. Non si spiega il persistere di un’organizzazione segreta che nel passato dichiarava di avere motivazioni “cospirative” contro i regimi dittatoriali e assolutistici dell’epoca. Oggi, che ci dicono di essere in una democrazia, quali scopi avrebbe la segretezza? Quale scopo avrebbe la ritualistica, se non si tratta di una religione? Perché gli alti gradi vengono tenuti nascosti alla maggior parte degli stessi adepti? Perché aderiscono alla massoneria generali, giudici, alte cariche dell’esercito, finanzieri, imprenditori e politici fra i più importanti? Quale sarebbe lo scopo di ciò all’interno di una presunta “democrazia”? E perché la maggior parte di essi nasconde di essere massone, specie se si tratta di persone influenti? Esistono, com’è noto, segni e simboli che svelano l’appartenenza alla massoneria, alcuni dei quali sono riconosciuti soltanto dagli stessi massoni, e fungono da segnali segreti per ricondurre persone di diversa nazionalità o sconosciute fra loro ad uno stesso “territorio”. Esistono segnali scambiati mentre si porge la mano, speciali saluti, oppure piccoli oggetti (anelli, spillette, ecc.) che possono essere posseduti soltanto da massoni. La dottoressa antropologa Cecilia Gatto Trocchi scoprì come personaggi che utilizzavano diverse ideologie poi convergevano con disinvoltura nella massoneria o nei culti esoterici: “Ho scoperto tutta una lunga corrente di persone che sono passate dal marxismo all’esoterismo… nelle logge si legge l’inno a Satana di Carducci… è una visione spiritualista che si contrappone a quella cristiana”. Intervista alla Prof.ssa Cecilia Gatto Trocchi prima che venisse trovata morta “suicida”. Questo proverebbe la funzione manipolatrice delle ideologie dominanti, al pari con i culti misterici di natura massonica. Che razza di persone sono quelle che si mettono nude in una bara, che fanno pratiche sessuali davanti al gruppo o si fanno umiliare sessualmente? Che promettono segretezza e si fanno manipolare mentalmente da un presunto “maestro occulto”? Cosa penseremmo comunemente di persone che si comportano così? Come minimo che hanno qualcosa che non quadra e che dovrebbero farsi seguire da qualcuno, eppure queste persone non soltanto passano per essere “normali”, ma addirittura ricoprono cariche importantissime. Le domande sono: possiamo continuare ad accettare che questo genere di persone governi il mondo? Perché mai dovremmo accettare che persone così squilibrate esercitino un potere enorme sui popoli del mondo? Ci si augura che molte persone non cedano all’inganno di credere che queste cose non siano vere o che chi le solleva è solo un “paranoico complottista”. Non è chi denuncia tutto questo ad essere squilibrato, ma chi lo crea e lo pratica. Per quanto queste cose appaiano assurde e incredibili, purtroppo sono vere: siamo imprigionati in un sistema guidato da persone mentalmente compromesse, che si spacciano per autorevoli personaggi, e le nostre autorità, essendo loro complici, ce le presentano come tali. Chi volesse approfondire l’argomento troverà molti libri di notevole qualità, che chissà perché non vengono mai discussi nei salotti televisivi. L’unica strada percorribile è quella di divenire coscienti della vera realtà, e rigettare completamente tutti gli attuali criminali al potere. Conoscere la natura dell’attuale potere criminale è il solo modo per poter diventare consapevoli e poterlo distruggere. Come qualcuno ha detto, non c’è libertà finché si è soggetti all’inganno.

Perchè leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

SE IL NEMICO NON LO PUOI BATTERE, FATTELO AMICO!

Per non farsi stritolare dai poteri forti la soluzione migliore è entrare a farne parte.

Istruzioni per entrare nella massoneria, scrive “L’Inkiesta”. Vi siete stancati di subire le decisioni dei poteri forti? Cambiate tutto ed entrate anche voi nei poteri forti. Se volete partecipare alle macchinazioni che stabiliscono le sorti del mondo (come impoverire Paesi all’improvviso, creare scandali, simulare crisi economiche, intrecciare complotti e affari), allora dovete entrare nella massoneria. Scoprirete forse che non funziona proprio così, ma almeno vi farete un nuovo giro di amici, che non fa mai male. Come si fa a diventare massone? Non è semplice. Prima di tutto bisogna scegliere la loggia che si preferisce. Esistono Riti diversi (scozzese antico e accettato, di York, di Memphis, etc.), organizzazioni varie, Grandi Orienti. Sceglietene uno a vostro piacimento. In genere è meglio scegliere qualcosa vicino a casa, anche solo per motivi pratici. A differenza di altre organizzazioni, non ci sono tessere né moduli (ma ci sono quote, anche alte, di iscrizione), anche perché non vengono accettate tutte le persone che vorrebbero entrare. C’è una selezione all’ingresso. Come spiega qui il Gran Maestro del Grande Oriente Italiano, «il percorso che porta all’iniziazione può durare mesi e anni». Per cominciare, però, pare che basti mandare una mail. Se volete entrare nel Grande Oriente Italiano gli indirizzi li trovate qui. Poi verranno loro a controllare la vostra moralità, verificare se siete interessati davvero (e non dei perditempo), verificare la vostra tenuta morale e spirituale. Subito dopo, presentare un certificato con i carichi pendenti e il casellario giudiziale. Devono essere puliti. Il nome viene sottoposto al giudizio degli altri membri, che dovranno giudicare sull’ammissione. Una pallina bianca equivale a un sì, una pallina nera equivale al no. Chi vota no poi deve spiegare i motivi del suo rifiuto. Se ci sono più di una pallina nera, la richiesta viene sospesa o addirittura rifiutata. Come vi dicevamo, non è così semplice. La massoneria, a parte le teorie e i complottismi, avrebbe come scopo “il perfezionamento dell’uomo”. Gli incontri sarebbero finalizzati a discutere delle tematiche più importanti per l’umanità, da un punto di vista particolare. Quando arriverà il momento dell’iniziazione, ci saranno rituali diversi: di sicuro ci sarà un breve periodo di isolamento, nel quale si riflette sul passo che sta per compiersi. Poi, arriverà il momento della proclamazione. Lasciamo qui, per descriverlo, spazio a un grande autore come Lev Tolstoj, che racconta l’iniziazione di Pierre Bezuchov in Guerra e Pace: Poco dopo avanzò nella stanza buia, non più il retore di prima, ma il suo mallevadore Willarski, che Pierre riconobbe dalla voce. A nuove domande circa la fermezza del suo proposito Pierre rispose: «Sì, sì, sono d'accordo.» E con un sorriso raggiante infantile, con il grasso petto scoperto, procedendo a passi timidi e ineguali con un piede scalzo e l'altro calzato, si avvicinò alla spada di Willarski puntata contro il suo petto nudo. Dalla stanza lo condussero lungo certi corridoi, facendogli fare varie giravolte avanti e indietro, e infine lo accompagnarono alla porta della loggia. Willarski tossicchiò e gli venne risposto con i colpi massonici di martello. La porta si aprì davanti a loro. Una voce di basso (gli occhi di Pierre erano sempre bendati) gli fece varie domande: chi fosse, dove e quando fosse nato eccetera. Poi loguidarono in qualche altro posto senza levargli la benda dagli occhi e, mentre Pierre camminava, gli parlarono sotto forma allegorica delle fatiche del suo viaggio, della santa amicizia, dell'Eterno Architetto dell'universo, del coraggio col quale avrebbe dovuto sopportare fatiche e pericoli. Durante questa peregrinazione Pierre notò che a volte lo chiamavano il cercatore, a volte il sofferente, a volte il postulante, e nel far questo battevano in modo diverso con i martelli e con le spade. Mentre lo guidavano verso un punto ignoto, si accorse che fra le sue guide si era prodotto un certo turbamento, una certa confusione. Sentì che sottovoce si accendeva tra loro una discussione, e che uno di essi insisteva affinché egli venisse fatto passare su un tappeto. Dopo di che gli presero la mano destra, la posarono su qualcosa e gli ordinarono di appoggiare con la sinistra un compasso sul capezzolo sinistro; infine Pierre dovette pronunciare il giuramento di fedeltà alle leggi dell'ordine, ripetendo le parole che qualcuno leggeva. Poi le candele vennero spente, fu acceso dell'alcool - come Pierre poté indovinare dall'odore - e i massoni dissero che avrebbe visto la piccola luce. Tolsero la benda a Pierre, e questi, come in sogno, alla debole luce della fiamma dell'alcool vide alcuni uomini che, in piedi davanti a lui, indossavano grembiuli simili a quelli del retore e tenevano delle spade puntate contro il suo petto. Fra loro ce n'era uno con la camicia bianca insanguinata. Pierre, a quella vista, si protese in avanti col petto verso le spade, affinché queste lo ferissero. Ma le spade si scostarono da lui e quasi subito la benda gli venne rimessa sugli occhi. «Adesso hai visto la piccola luce,» disse una voce. Poi le candele furono di nuovo accese e i massoni dissero che ora Pierre doveva vedere la luce piena; cosicché ancora la benda gli venne levata, mentre all'improvviso più di dieci voci esclamavano: sic transit gloria mundi. A poco a poco Pierre tornava in sé. Cominciò ad osservare la stanza nella quale si trovava e le persone che gli stavano davanti. Intorno a una lunga tavola, ricoperta da qualcosa di nero, sedevano una dozzina di persone, tutte abbigliate come quelle che aveva visto poco prima. Pierre ne riconobbe alcune appartenenti alla buona società di Pietroburgo. Al posto presidenziale era seduto un giovane a lui sconosciuto, con una strana croce sul petto. Alla sua destra sedeva l'abate italiano che Pierre aveva incontrato due anni prima in casa di Anna Pavlovna. C'erano anche un altissimo dignitario e un precettore svizzero che un tempo era stato dai Kuragin. Tutti tacevano in modo solenne, ascoltando le parole del presidente che reggeva nelle mani il martello. Nel muro era incastrata una stella fiammeggiante; da una parte della tavola si vedeva un piccolo arazzo con varie figure; dall'altra, una specie di altare con un Vangelo e un teschio. Intorno alla tavola, poi, c'erano sette grandi candelabri simili a quelli delle chiese. Due fratelli condussero Pierre fino all'altare, gli disposero i piedi ad angolo retto e gli ordinarono di coricarsi, dicendo che egli doveva prosternarsi alle soglie del tempio. «Prima deve ricevere la cazzuola,» sussurrò uno dei fratelli. «Ah, basta, per piacere,» disse un altro. Senza obbedire, Pierre si guardò attorno, smarrito, con i suoi occhi da miope. A un tratto lo colse un dubbio: «Dove sono? Che cosa faccio? Mi stanno forse prendendo in giro?» Ma questo dubbio durò solo un istante. Egli si volse a guardare i volti austeri delle persone che lo circondavano, si ricordò di tutto ciò per cui era passato fino a quel momento, e comprese che non poteva fermarsi a metà strada. Spaventato dal suo stesso dubbio, cercò di risuscitare in sé il sentimento di commozione che aveva provato prima, e si prosternò alle porte del tempio. In effetti quel sentimento di commozione lo assalì con intensità più forte di prima. Quando ormai era a giacere da qualche tempo, gli fu ordinato di alzarsi e gli fecero indossare un grembiule bianco eguale a quello che portavano gli altri; poi gli posero nelle mani una cazzuola e tre paia di guanti, e a questo punto il grande maestro gli rivolse la parola. Gli disse che doveva sforzarsi di non macchiare in alcun modo il biancore di quel grembiule, simbolo della forza e dell'innocenza; poi, a proposito di quell'inspiegabile cazzuola, disse che egli doveva servirsene per purificare il proprio cuore dai vizi e per lisciare con indulgenza il cuore del suo prossimo. Indi, dei primi guanti, di foggia maschile, disse che Pierre ancora non poteva conoscerne il significato, ma doveva tuttavia conservarli; degli altri, pure maschili, dichiarò che avrebbe dovuto indossarli alle adunanze; infine, a proposito dei terzi guanti, femminili, disse: «Amato fratello, anche questi guanti femminili sono a voi destinati. Consegnateli alla donna che stimerete più di ogni altra. Con questo dono convincerete della purezza del vostro cuore colei che eleggerete a degna compagna nell'ordine dei liberi muratori.» Dopo una breve pausa il gran maestro aggiunse: «Ma procura, amato fratello, che codesti guanti non adornino mani impure.» Mentre il gran maestro pronunciava queste ultime parole, parve a Pierre che il presidente si turbasse. Pierre si turbò ancor più, si fece rosso fino al limite delle lacrime, come arrossiscono i bambini, e cominciò a guardarsi attorno con aria inquieta. Ci fu un silenzio imbarazzato, rotto alla fine da uno dei fratelli che, conducendo Pierre presso l'arazzo, cominciò a leggere da un quaderno la spiegazione delle figure che vi apparivano: il sole, la luna, il martello, l'archipendolo, la cazzuola, una pietra grezza, un'altra squadrata a cubo, una colonna, tre finestre eccetera. Poi assegnarono a Pierre il suo posto, gli mostrarono i segni della loggia, gli rivelarono la parola d'ordine per poter entrare, e finalmente gli concessero di sedersi. Il gran maestro prese a leggere lo statuto. Questo statuto era molto lungo e Pierre, per i diversi sentimenti di gioia, di emozione e di vergogna, non era in grado di capire ciò che veniva letto. Pose mente soltanto alle ultime parole dello statuto, che gli restarono impresse nella memoria. «Nei nostri templi non conosciamo altri ranghi,» leggeva il gran maestro, «se non quelli dati dalla virtù e dal vizio. Guardati dall'operare qualsiasi differenza che possa violare l'eguaglianza. Vola in aiuto del fratello, chiunque egli sia; ammaestra chi sbaglia; risolleva chi cade e non nutrire mai ira o inimicizia contro il fratello. Sii affabile e ospitale. Desta in tutti i cuori il fuoco della virtù. Condividi la felicità del prossimo tuo e mai l'invidia offuschi questa pura gioia. Perdona il tuo nemico, non vendicarti di lui se non, forse, facendogli del bene. Adempiendo in tal modo alla legge suprema, tu ritroverai le tracce della grandezza antica da te perduta,» concluse. Poi si alzò in piedi, abbracciò Pierre e lo baciò. Pierre si guardava attorno con gli occhi colmi di lacrime di gioia e non sapeva con quali parole rispondere alle congratulazioni e alle proteste di antica conoscenza di chi lo circondava. Egli non ammetteva nessuna vecchia conoscenza; in tutte quelle persone ravvisava soltanto dei fratelli coi quali ardeva dall'impazienza di mettersi all'opera. Il gran maestro batté un colpo di martello; tutti sedettero ai loro posti, e uno lesse un sermone sulla necessità di essere umili.

I massoni scendono in campo: pronto il partito dei Maestri, scrive “Libero Quotidiano”. Si prepara a scendere in campo il partito dei Massoni. L'annuncio è arrivato a Milano, in occasione della presentazione del libro Massoni, di Gioele Magaldi, Gran Maestro del movimento massonico "Grande Oriente Democratico" (God) . Una presentazione affollata, quella alla Casa della cultura del capoluogo meneghino, nel corso della quale Magaldi ha annunciato la volontà di varare una rete di "massoni progressisti" pronti a scendere in campo con quello che verrà chiamato Movimento Roosvelt. L'obiettivo programmatico è la difesa dei valori storici delle grandi rivoluzioni, francese ed americana. Si tratterà, spiega sempre Magaldi, di una rete "a difesa di un'Italia lontana dalle tecnocrazie europee e che esalterà il ruolo degli individui e della società civile e della pubblica opinione". Rispondendo al direttore di Affaritaliani.it, Magaldi ha rimarcato: "Sto fondando un movimento meta-partitico ma che è anche politico. L'obiettivo non è creare ulteriori divisioni ma riunire ciò che è sparso. E se riusciamo a migliorare i partiti esistenti bene, altrimenti se ciò non accade nel giro di 2, 3 o 4 anni non escludo di trasformare questa cosa in un vero soggetto politico". Un progetto a medio-lungo termine, dunque, al termine del quale la massoneria potrebbe scendere in campo con il suo partito. Il Gran Maestro aggiunge: "Non ho l'urgenza di fare un partito politico, ma l'orizzonte medio dei partiti attuali è quello di coltivare piccole ambizioni personali, mentre la nostra ambizione è quella collettiva di tante persone. C'è anche una certa spavalderia garibaldina che fa bene, d'altronde - sottolinea - i garibaldini sono stati tutti eroi. Il mio sogno - conclude - è quello di concorrere a declinare in modo globale i diritti universali e quello di promuovere una democrazia sostanziale in Italia, in Europa e nel mondo". Nel corso della presentazione milanese del libro, Magaldi, sollecitato dalle domande dei relatori e del pubblico, ha riletto la storia della Massoneria a partire dal '700 e dalla Rivoluzione francese. Nel suo discorso, ha snocciolato una serie di nomi definiti inaspettatamente "fratelli": tra questi Papa Giovanni e Mario Draghi, ma anche Giorgio Napolitano e Barack Obama. E ancora Vladimir Putin e Margaret Thatcher, Angela Merkel e il califfo del terrore, Abu Bakr Al-Baghdadi, Francois Hollande, Christine Lagarde e addirittura Gandhi e Martin Luther King.

Massoneria, il libro choc di Gioele Magaldi: "Società a responsabilità illimitata", scrive “Libero Quotidiano”. Sarà presentato domani a Roma il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, "Massoni società a responsabilità illimitata" a cura di Gioele Magaldi. L'opera, che ha tutte le carte in regola per figurare come il manoscritto più sconcertante, inaspettato e comunque disorientate dell'anno, esce con il seguente sottotitolo: "La scoperta delle Ur-Lodges", come recita il font bianco su copertina violacea edita da Chiarelettere Editore. Ma cosa sono le Ur-lodges? "Superlogge sovranazionali che vantano l'affiliazione di presidenti, banchieri, industriali" in cui "nessuno sfugge a questi cenacoli" a dirla con Il Fatto quotidiano di oggi che, proprio sul cartaceo di questa mattina, mercoledì 19 novembre, analizza l'opera di Magaldi, presentato dal quotidiano di Antonio Padellaro come "libero muratore di matrice progressista". Ad essere particolarmente interessante è proprio il capitolo finale del libro in cui è presente un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni di queste fantomatiche "Ur-Lodges". Uno di loro, racconta: "Per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi". Mario Draghi, governatore della Bce, sarebbe, a sentire quel che dice Magaldi "affiliato a ben cinque superlogge." Poi nella parte finale del manoscritto,  l'autore snocciola, l'elenco degli italiani inseriti nelle Ur-Lodges, in cui, oltre al già citato Mario Draghi, figurerebbero "Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago".

Massoneria, libro shock del gran maestro Magaldi: “Ecco i potenti nelle logge”. Centinaia di nomi, tra cui Napolitano, Obama, Draghi, Bin Laden e Papa Giovanni XXIII. Tutti "fratelli" secondo l'autore del volume presentato domani a Roma. Che però dice: "Le prove le esibiscono soltanto se me le chiede il giudice", scrivono Gianni Barbacetto e Fabrizio DEsposito su “Il Fatto Quotidiano”. Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Gioele Magaldi, quarantenne libero muratore di matrice progressista, ha consegnato all’editore Chiarelettere (che figura tra gli azionisti di questo giornale) un manoscritto sconcertante e che sarà presentato domani sera alle 21 a Roma, a Fandango Incontro. Il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, è intitolato Massoni società a responsabilità illimitata, ma è nel sottotitolo la chiave di tutto: La scoperta delle Ur-Lodges. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico, in polemica con il Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro Paese, in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli. I documenti che mancano sono a Londra, Parigi e New York. Prima però di addentrarci nelle rivelazioni clamorose di Massoni è d’obbligo precisare, come fa Laura Maragnani, giornalista di Panorama che ha collaborato con Magaldi e ha scritto una lunga prefazione, che l’autore non inserisce alcuna prova o documento a sostegno del suo libro, frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti depositati in studi legali a Londra, Parigi e New York. Detto questo, andiamo al dunque non senza aver specificato che tra le superlogge progressiste la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha. Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges e finanche i vertici della fu Unione Sovietica, a partire da Lenin per terminare a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario. In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: “Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi. E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti”. Altri affiliati: Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy. C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie. “Il vero potere è massone”. E descritto nelle pagine di Magaldi spaventa e fa rizzare i capelli in testa. Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici, persino Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista. L’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan. Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: “Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi”. Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Ecco l’elenco degli italiani nelle Ur-Lodges: Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago. Bisognerà aspettare le “contestazioni”, per vedere le carte di Magaldi.

Ida Magli: "L'Europa è un continente inventato, è il trionfo della massoneria", scrive “Libero Quotidiano”. Nel 2015 compirà 90 anni, gli ultimi 20 passati ad attaccare l'idea e la realizzazione dell'Europa unita. Lei è Ida Magli, la celebre antropologa che 17 anni fa, con il saggio Contro L'Europa, suscitò parecchio scalpore. Ora torna a ribadire le sue accuse in una lunga intervista concessa ad Italia Oggi. C'è chi considera la Maglia una Cassandra, chi invece - per mutuare un termine renziano - una sorta di gufo. Di sicuro, lei, le idee le ha chiare. Tempo fa la Magli chiedeva a gran voce lo stop all'unificazione, ma "oggi - spiega - è difficile. A causa dell'ignoranza tecnica dei politici che, mi creda, è brutale". Secondo l'antropologa, infatti, "c'è un'indifferenza a qualsiasi fatto che possa far ripensare a quello che hanno progettato. Sento citare di nuovo Romano Prodi", ossia "il responsabile del nostro ingresso nella moneta unica". E oggi, continua, "con l'euro siamo tutti più poveri". La Magli, prima ancora che contro la moneta unica, puntava il dito contro il concetto di Europa unita "perché era un progetto sbagliato. L'Europa è giunta a essere quella che è per la storia delle varie nazioni che la compongono". E ancora: "Il punto è che non esiste un'idea di Europa. Guardi, ho fatto tante ricerche ma non ho mai trovato il delinearsi di un popolo europeo". L'unificazione, insomma, è stata un errore poiché "non era possibile farla se non perdendo tutte le ricchezze europee". La Magli prosegue: "Si pensa di poter fare l'unità così. Così come si è pensato di fare lo stesso con la moneta unica, dimenticando che la moneta è lo strumento di un popolo e non la si può imporre fuori dall'economia dei singoli Stati". La Magli, quindi, nell'intervista ritorna su uno dei concetti che più le stanno a cuore, ossia l'idea che l'Europa unita altro non si che un progetto massonico. "Certo - rincara - e ora c'è un libro di un massone, Gioele Magaldi, che lo conferma. L'ho letto e riletto". L'antropologa spiega: "La tesi è la seguente: la massoneria ha vinto, tutti i suoi progetti sono stati realizzati, ora esca allo scoperto e lavori con trasparenza". Una massoneria che per la Magli passa da Romano Prodi e fino ad arrivare a Matteo Renzi e alle sue riforme, imposte dall'Europa e che si rivelano un male per l'Italia: "Le faccio un esempio, tratto dalla Legge di stabilità: la depenalizzazione di alcuni reati". Per la Magli "si vuole l'imbarbarimento degli italiani, dei belgi, degli inglesi". Nell'ultima parte della lunga intervista, dopo l'esplicita stroncatura del premier Renzi, l'antropologa anti-Europa unita dà le pagelle ai politici dell'Italia di oggi. Si parte da Silvio Berlusconi, che "vuole salvare se stesso e s'è messo a praticare le larghe intese, che sono la fine della democrazia". Quindi Beppe Grillo: "All'inizio ci contavo, e invece... Invece si barcamenta pure lui: oggi dice una cosa, domani un'altra. Ecco su di lui mi sono sbagliata". E Matteo Salvini? "Forse ha delle idee, forse. Ma ha anche una presunzione tale che realizzarle sarà difficile". Del tipo? "La conquista del Sud, l'uscita dall'euro. E poi di Salvini ho avuto la misura quando si è messo a nudo...".

Stefano Bisi: «Massoni si nasce. Esserlo è un pregio» In Italia «troppi pregiudizi» contro le logge. Che sono invece «luoghi di incontro e dialogo». Il Gran Maestro Bisi a L43: «Siamo un esempio di trasparenza», scrive Giorgio Velardi su “Lettera 43”. Si intitola Massoni. Società a responsabilità illimitata. È il libro con cui Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico (God), sta scalando le classifiche di vendita in Italia. Un testo corposo, oltre 600 pagine nella quali l’autore bolla i personaggi più influenti della storia contemporanea (da Margareth Tatcher ad Angela Merkel fino a Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Osama Bin Laden e Barack Obama) come massoni. Si tratta, come ha spiegato lo stesso Magaldi, dell’inizio di una trilogia che promette altre «sconcertanti» rivelazioni. Stando alle affermazioni del Gran Maestro del God, oggi «se non sei massone non hai alcuna chance di arrivare al vero potere». Un’impostazione con cui non è d’accordo Stefano Bisi, giornalista, eletto il 2 marzo 2014 scorso Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (la più numerosa comunione massonica del nostro Paese) dopo i 15 anni di gran maestranza di Gustavo Raffi. «Quello dei massoni è un potere spirituale che permette di stare insieme ad altri fratelli favorendo la crescita interiore del singolo individuo», spiega Bisi a Lettera43.it. «Magaldi tiri fuori le prove di quanto ha scritto», incalza. «I nomi che ha citato nel libro? Sicuramente non fanno parte del Grande Oriente d’Italia».

DOMANDA. Ha letto Massoni?

RISPOSTA. No, non l’ho letto.

D. Lo farà?

R. Penso di no.

D. Dal libro emerge un quadro nel quale il governo del mondo sembra essere totalmente conteso dalle Ur-Lodges. È davvero così come scrive Magaldi?

R. Facendomi questa domanda lei hai avuto un moto di sorriso. Provo la sua stessa sensazione…

D. Ancora oggi il termine «massoneria» è legato a fatti o esperienze poco edificanti. Basta pensare alla P2, che si trasformò in un’organizzazione criminale ed eversiva.

R. Non so per quanto tempo ancora ci porteremo dietro la vicenda della P2, che nacque come loggia massonica del Grande d’Oriente d’Italia deviando poi il suo corso. Domando a chi ha questa opinione: cosa dovremmo fare per scrollarcela di dosso?

D. La colpa non deriva dal fatto che, troppo spesso, delle attività svolte dalle logge o dei nomi dei loro associati non si sa nulla?

R. Nel Grande Oriente d’Italia la trasparenza viene già attuata. Chiunque, collegandosi al nostro sito internet, può reperire informazioni sulle attività che svolgiamo quotidianamente in tutto il Paese.

D. Tutto alla luce del sole, quindi.

R. Bisogna avvicinarsi alla libera muratoria del Grande Oriente d’Italia senza pregiudizi: solo in questo modo si possono comprendere i suoi obiettivi.

D. Però i nomi degli iscritti alle logge, compresa la sua, sono segreti.

R. Come lo sono, giustamente, quelli degli aderenti a tutte le altre associazioni o ai partiti. Ognuno ha diritto alla riservatezza. C’è comunque chi, a tutti i costi, vorrebbe avere accesso ai nomi dei massoni.

D. In che modo?

R. Una legge regionale toscana obbliga gli amministratori pubblici a rendere note tutte le associazioni a cui appartengono. In passato il Friuli-Venezia Giulia imponeva a chi era dipendente o amministratore pubblico di dichiarare la non appartenenza alla Massoneria. Nonostante la condannata da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, pochi giorni fa, nella stessa Regione, ai candidati a far parte di una specifica commissione è stato domandato se appartenessero o meno a società di carattere massonico. La trovo una discriminazione notevole e palese.

D. Di cosa dibattete durante le vostre riunioni?

R. Pochi giorni fa ero a Bari, dove sono state innalzate le colonne di una nuova loggia all’interno del Grande Oriente d’Italia. Si è parlato di armonia.

D. Armonia?

R. Il lavoro all’interno di una loggia è educativo. In quelle del Grande Oriente d’Italia si parla uno alla volta, non c’è mai una sovrapposizione delle voci. Non ha ragione chi urla di più, tutti hanno un loro punto di vista e rispettano quello dell’altro. Il metodo educativo delle logge dovrebbe essere applicato a tutti i consessi civili e umani.

D. Lei che, se non sbaglio, non proviene da una famiglia di tradizioni massoniche, come e quando ha capito di voler intraprendere questa esperienza?

R. Nel 1977 lessi su l’Espresso i nomi dei Maestri venerabili delle logge italiane. C’erano anche quelli dei quattro presenti nella mia città, Siena. Persone fra le più brave che esistevano nel contesto cittadino. Questo particolare mi incuriosì e da lì iniziai a leggere testi riguardanti la massoneria.

D. Poi cos’è successo?

R. In questo percorso di lettura incontrai un massone con il quale cominciai a dialogare e il 24 settembre 1982 venni iniziato in una loggia massonica.

D. Il Grande Oriente d’Italia conta circa 22.500 iscritti. Qual è il profilo dei vostri aderenti?

R. Sono rappresentate tutte le categorie sociali: professionisti, impiegati, artigiani, commercianti… È una comunione composita.

D. Ci sono anche giovani?

R. Sì, e il loro numero è in aumento.

D. Quali sono i motivi che oggi spingono un giovane ad entrare a far parte della Massoneria?

R. Nel mondo contemporaneo c’è molta confusione. I giovani vedono nelle logge massoniche luoghi dove si può parlare avendo la sicurezza che chi ti ascolta non ti giudicherà per quello che dici ma anzi sarà disponibile al confronto. Le racconto un episodio.

D. Prego.

R. Alla nostra storica celebrazione del 20 settembre era presente Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente di Montecitorio, che non è iscritto alla Massoneria. Al termine dell’incontro l’esponente Pd è stato inseguito da una giornalista che gli ha chiesto il motivo della sua presenza in quella sede. Lui ha risposto di essere venuto perché dialoga con tutti, aggiungendo di aver sentito parlare di solidarietà e nuovi italiani. «Magari» ha concluso «i partiti discutessero di questi argomenti».

D. Come funziona, tecnicamente, l’ingresso in una loggia?

R. Partiamo da un presupposto: massoni si nasce ma si può non diventare se non si incontra lungo la strada qualcuno che, terminata la fase di osservazione da parte di alcuni fratelli che già appartengono alla loggia, ti fa presentare la domanda di ingresso.

D. Continui.

R. Una volta concluso questo passaggio l’aspirante massone incontrerà più volte i fratelli esperti, poi la loggia voterà per l’ammissione o la non ammissione. In caso di esito positivo si svolgerà la cerimonia di iniziazione, che è ampiamente spiegata nei libri che si sono occupati della massoneria. La mia tegolatura, termine tecnico che indica questo arco temporale, è durata quattro anni. Il primo grado è quello di «apprendista libero muratore».

D. Gli altri?

R. I gradi sono tre: oltre a quello esposto poc’anzi ci sono «Compagno d’arte» e «Maestro». Ogni loggia ha a capo il «Maestro venerabile». Inoltre, a livello nazionale, ci sono il «Gran Maestro» e la giunta. A livello circoscrizionale, infine, figurano i presidenti dei collegi circoscrizionali, cioè i coordinatori delle attività delle logge a livello regionale. 

D. Per i liberi muratori appartenere alla Massoneria comporta dei costi?

R. Sì, 180 euro all’anno più un contributo per l’uso della casa massonica che può variare da città a città.

D. Il suo ruolo prevede un compenso?

R. Il mio compenso è di 129 mila euro lordi.

D. «La Massoneria ha stima, rispetto e considerazione per le donne» però «non le ammette nell’Ordine». Perché?

R. Noi siamo i prosecutori dell’opera dei costruttori di cattedrali, fra i quali non figuravano donne, e ancora oggi viaggiamo lungo questa tradizione storica. Nel mondo la Massoneria considerata regolare è quella dove non sono presenti le donne. Collegati al Grande Oriente d’Italia ci sono però i cosiddetti «capitoli della stelle d’Oriente» di cui fanno parte mogli, figlie e fidanzate dei massoni che svolgono soprattutto un’opera filantropica.

D. Ha parlato di «massoneria regolare». Ne esiste anche una irregolare?

R. Non lo so, ma periodicamente si leggono strani nomi di nuove logge massoniche. Sul termine «Massoneria» non c’è un copyright, quindi ognuno può crearne di non regolari.

D. Veniamo al rapporto con la politica. Nel testo di Magaldi tutti gli uomini più importanti del pianeta, da Angela Merkel a Mario Draghi, risultano iscritti alla Massoneria. Matteo Renzi è definito un «aspirante massone»: il premier vorrebbe entrare a far parte della Three Eyes, loggia di stampo conservatrice alla quale, sempre secondo l’autore, appartengono anche il numero uno della Bce e Giorgio Napolitano. Le risulta?

R. Non ho prove a riguardo. Se Magaldi le ha le tiri fuori. Ciò che posso dire con certezza è che i nomi che mi ha citato non fanno parte del Grande Oriente d’Italia.

D. Si vocifera che l’ex sindaco di Firenze non piaccia troppo ai massoni…

R. Non so chi abbia messo in giro questa voce. Rispondo dicendo che, positiva o negativa che sia, ogni massone del Grande Oriente d’Italia è libero di avere una sua opinione sul premier e di pensare ciò che vuole.  

D. Qual è il suo giudizio sul presidente del Consiglio?

R. Il parere personale di Stefano Bisi su Matteo Renzi non interessa a nessuno, quello di Stefano Bisi su Matteo Renzi in qualità di Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia verrebbe sicuramente strumentalizzato. Preferisco quindi astenermi dal dare giudizi. Noi massoni rispettiamo le istituzioni e chi le governa, abbiamo a cuore solo il bene dell’Italia.

D. Oggi essere un massone è un pregio o un difetto?

R. Personalmente lo ritengo un pregio. Però, purtroppo, nel caso del Friuli-Venezia Giulia di cui ho parlato prima l’appartenenza a una loggia diventa un difetto e crea un danno. È il segno che ancora oggi il pregiudizio è duro a morire.

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo  su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

MASSONERIA: QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

Padre Amorth e la massoneria, scrive “Affari Italiani”. Continua la rubrica di Affaritaliani.it Padre Mariano, curata dal Movimento Sacerdotale Mariano. Riflessioni sulle sacre scritture. Padre Amorth afferma: "la massoneria comanda il mondo" e tra le sue varie attività di controllo, finanzia anche l'arrivo dell'Islamismo in Europa al fine della destabilizzazione. Questa affermazione oltre ad essere sostenuta da più analisti è anche carismatica. Nel caso di padre Amorth presidente degli esorcisti, è sicuramente la conclusione di ciò che Satana lascia trapelare sotto il torchio del "Nome di Gesù" quando viene costretto a rivelare la Verità. Don Gobbi, fondatore del MSM assieme ad altri carismatici su suggerimento della Madonna afferma la stessa cosa.  Questa affermazione ci permette di vedere le vicende anche attuali, con una sguardo diverso e facilitato nella loro interpretazione. Cosa si può dedurre? Da questo punto di vista capiamo che la potente massoneria mondiale riuscirà a realizzare in forma graduale anzitutto un Unico Governo Mondiale, poi una moneta unica, ed ovviamente una religione unica che metterebbe -secondo loro - tutti d'accordo rispondendo così alle esigenze di spiritualità delle persone. Da queste affermazioni dei veggenti comprendiamo tante cose ed esse ci aiutano a prendere coscienza del dovere di svegliarci e chiamare col loro nome le cose. Anzitutto ci è consentito di affermare che i vignettisti di Charlie sono tutti blasfemi. Disegnavano infatti vignette pornografiche e sacrileghe per irridere Gesù, la Madonna e La SS. ma Trinità. Non è difficile immaginare da dove Charlie Hebdo riceveva i finanziamenti, quando si sa che la massoneria ha come primo obbiettivo di porre allo stesso livello tutte le religioni, per farle apparire tutte antiquate e dogmatiche. Per chi non lo sapesse è utile ricordare pure che i massoni ai vertici (al 33° grado) dopo un cammino iniziatico di sempre maggiore obbedienza e sudditanza a qualunque ordine, sono consacrati tutti a Satana. L'obiettivo finale della massoneria internazionale - occorre tenerlo presente sempre - è quello di distruggere la Chiesa Cattolica, infondendo l'idea che tra di essa e l'Islam non vi è grande differenza. Dietro un falso ecumenismo, una falsa tolleranza e l'eresia del pauperismo per annientare la Chiesa Cattolica e il Vaticano ecco che si prepara la strada all'ONU delle religioni. Ovviamente, in quell'ottica, vi è un progetto orchestrato dalle potenti forze anti cristiche, che non sono solo di questo mondo. Tutto ciò è già stato profetizzato come dicevamo! Meno male perché ciò aiuta molto a dipanare la matassa complicata delle forze in campo. Aggiungiamo pure la vittoria enorme della massoneria - dovuta a una grandissima capacità di penetrazione nei gangli del potere - quando si trattò di rinnegare le radici cristiane dell'Europa che pure hanno prodotto quel po' po' di civiltà da sogno. Pia illusione ora pensare di poter fermare l'avanzata dell'Islam contrapponendogli una "fede laica nella dea Ragione". Impossibile comunque sarà e crudele solo pensare  di  sostituire la civiltà cristiana che in duemila anni ha reso ricca, bella e libera la nostra Europa nella multiforme peculiarità e diversità di ogni nazione. Proviamo solo a pensare l' orrore di uno Stato teocratico peggiore di tutti i regimi totalitari che hanno sconquassato l'Europa nel secolo scorso! Poiché non dimentichiamo che "Je suis nigeriano"! Ma ancora ricorriamo alle profezie, che annunziano sì questo tempo di purificazione, ma come preparazione al trionfo del Cuore Immacolato di Maria. La cosa del resto è biblica, Dio ha già permesso ai tempi dell'A.T. che si riversassero popoli infedeli sugli Ebrei per punirli delle loro infedeltà al Vero Dio. Di cosa si tratta quando si parla del trionfo del Cuore Immacolato di Maria? Quello lo vedremo un'altra volta. Intanto la profezia di un "castigo", per avere tolto dal centro dei nostri cuori  il Dio Trinitario di Gesù  che è Amore, comincia a divenirci più chiaro.

"Charlie, strage voluta dalle logge segrete. Ecco perché Obama non è andato a Parigi", scrive Lorenzo Lamperti su “Affari Italiani”. Il legame tra Massoneria e Chiesa, l'azione di Papa Francesco, l'ipotesi Jeb Bush alla Casa Bianca, gli attentati di Parigi, Napolitano, Quirinale, Renzi e il Patto del Nazareno. Sono alcuni dei temi affrontati da Gioele Magaldi, Gran Maestro del movimento massonico Grande Oriente Democratico, in un'intervista a tutto campo ad Affaritaliani.it che anticipa la presentazione del suo libro "Massoni" alla chiesa di Santa Maria in Portico a Roma.

Dopo il successo del libro Massoni e delle precedenti presentazioni, nuovo evento a Roma. Che cosa può dirci di più di questo evento? Chi ci sarà?

«Preferirei che la curiosità sua e di altri suoi colleghi giornalisti li porti a presenziare all’evento, che è a lista di invitati chiusa, ma naturalmente accessibile ai cronisti che vengano a fare il proprio mestiere e a raccontare questo epocale evento con sopralluogo diretto. Certamente ci saranno alte personalità ecclesiastiche, politiche, diplomatiche, militari, intellettuali, imprenditoriali e, in generale, rappresentanti di rilievo della società civile».

Desta stupore il luogo e la presenza di tanti ecclesiastici. Come mai una presenza così massiccia di esponenti della Chiesa? Qual è il legame con la Massoneria?

«I legami tra Chiesa Cattolica e altre chiese e ambienti massonici è sempre stato intenso e fecondo, a prescindere da formali scomuniche e ufficiali, quanto ipocrite e insincere, prese di distanza. Comunque, non sempre coloro che, in ambito ecclesiastico (e dunque essoterico sul piano spirituale) dialogano con gruppi e singoli esponenti della Libera Muratoria (che in quanto “iniziati misteriosofici” coltivano una dimensione esoterica della spiritualità, prediligendo un approccio conoscitivo ad uno fideistico sulle cose umane e divine) sono per forza di cose massoni. Molto spesso vi sono prelati ed ecclesiastici cattolici che, pur non essendo mai stati iniziati liberi muratori, si rapportano con curiosità, apertura mentale ed emotiva, persino simpatia filosofica e culturale, a determinati ambienti della Massoneria. Diverso il caso di eminenti pesi massimi illuminati e progressisti della Cattolicità, come Angelo Roncalli (alias papa Giovanni XXIII) e Carlo Maria Martini, ad esempio. Costoro, come viene raccontato nel libro “Massoni”, hanno voluto essere orgogliosamente sia dei grandi pastori cattolici che dei raffinati iniziati massoni. Cosi come è ancora diverso il caso di un eminente para-massone conservatore molto vicino alla Ur-Lodge “Three Eyes” (la stessa di Giorgio Napolitano, per intenderci), Karol Wojtyla (alias papa Giovanni Paolo II), dei cui legami cripto-latomistici con un “grande fratello” come Zbigniew Brzezinski, pure si parla nel best-seller di Chiarelettere dal sottotitolo “La scoperta delle Ur-Lodges”, e di cui si parlerà ancora meglio negli altri volumi della serie di “Massoni”».

A proposito di Chiesa, nelle scorse settimane c'è stato chi, nel Parlamento (in particolare un deputato di Scelta Civica), ha espresso timori per la vita di Papa Francesco avanzando l'ipotesi che qualcuno possa volergli male per la sua azione di rinnovamento nel Vaticano. Che cosa ne pensa? Quanto può dare fastidio Bergoglio?

«Dell’attuale pontificato di Francesco in relazione alla Massoneria si parlerà diffusamente nel secondo volume di “Massoni”. Intanto posso anticiparle che, per ora, i propositi di rinnovamento di Bergoglio sono rimasti belle intenzioni e suggestioni, ma poco di più. Intendiamoci: personalmente ho grande simpatia per questo papa, che potenzialmente potrebbe fare molto, anche se finora non ha concretizzato granché. Se Bergoglio intende davvero rinnovare la Chiesa Cattolica all’alba del XXI secolo, deve fare come il suo grande predecessore Giovanni XXIII (alias il fratello massone progressista Angelo Roncalli) e indire un Concilio Vaticano III, che perfezioni e porti a compimento migliorativo alcune intuizioni benemerite del Concilio Vaticano II (1962-1965)».

Nel suo libro Massoni afferma che il progetto delle Ur-Lodges reazionarie sia di portare un nuovo Bush alla Casa Bianca nel 2016. Quanto siamo vicini a che ciò accada?

«La partita è ancora tutta da giocare. Se si lascerà che l’Isis e gruppi collegati proseguano la propria opera interna (nei territori occupati di Iraq e Siria) ed esterna di terrorismo in salsa hollywoodiana, senza che nessuno intervenga tempestivamente, prima con intervento militare chirurgico ad estirpare tale Califfato, poi con poderoso intervento civile e politico ad implementare regimi autenticamente democratici, liberali, libertari, laici, pluralisti e socialmente equi in territorio siriano e iracheno, questi due anni che ci attendono di caos, decapitazioni e attentati sanguinari in Occidente, saranno il miglior viatico per la elezione di Jeb Bush, massone reazionario della Hathor Pentalpha, alla Casa Bianca. Questo nuovo-vecchio Bush (Jeb era già attivo ai tempi del Pnac, Project for a New American Century e ai tempi della spregevole tragedia dell’11 settembre 2001) sarà infatti presentato come il nuovo campione di una presunta riscossa american-occidentale contro gli islamici fondamentalisti e cattivoni in quanto tali, secondo lo schema pretestuoso dello scontro di civiltà teorizzato dal massone neo-aristocratico Samuel Huntington già a fine anni ’90. Ma, naturalmente, Jeb Bush e i suoi non porterebbero in Medio Oriente, in Iraq e in Siria, democrazia, libertà, pacificazione, pluralismo, laicità e giustizia sociale, quanto macroscopiche occasioni di lucro economico e politico (autoritariamente gestito) per amici e amici degli amici del consueto complesso miltar-industriale-finanziario legato alle Ur-Lodges globali più reazionarie e spregiudicate. Barack Obama, gli ambienti euro-atlantici e i leader mondiali di tendenza democratico-progressista o almeno moderata, distanti dai progetti “hathor-pentalphiani” dei sostenitori del nuovo-vecchio Bush, dovrebbero intervenire subito, senza perdere tempo, contro l’Isis e a favore delle popolazioni medio-orientali martoriate da questi masnadieri del sedicente Califfato. Ma la partita, lo ripeto e lo spiegherò meglio nel secondo volume di “Massoni”, è estremamente delicata e complessa».

Come vanno interpretati i tragici fatti di Parigi e dell'attentato a Charlie Hebdo? Quale potrebbe essere stato il ruolo di Al Qaeda e Isis?

«Lo ribadisco con molta chiarezza: lo spregevole attentato di Parigi è avvenuto con la complicità di svariate istituzioni di controllo locali, in combutta con manovalanza terroristica e mandanti che si muovono nell’area delle Ur-Lodges Hathor-Pentalpha, Geburah, Amun, Der Ring, ecc.»

C'è chi ipotizza che dietro gli attentati di Parigi ci sia una mano non islamica. Per lei è possibile?

«Gliel’ho appena confermato nella risposta alla sua domanda precedente. Ma non si tratta di ragionare secondo inconsistenti dicotomie del tipo: “si tratta di mani islamiche e medio-orientali, oppure occidentali”. Si tratta di mani sovranazionali e apolidi, che utilizzano i pretesti religiosi come instrumentum regni e armi di manipolazione di massa. Fra coloro che hanno progettato e poi fatto realizzare eventi come gli attentati di Parigi, e come altri che si cercherà di effettuare, ci sono sedicenti islamici e però anche non islamici, cosi come tra i massoni progressisti che cercheranno di prevenire e impedire tali esecrabili crimini contro l’umanità ci sono sinceri islamici e sinceri cristiani, ebrei, indù, buddhisti, ecc: persone nate indifferentemente in Occidente e in Oriente, ma che cominciano a riscoprire l’orgoglio di appartenere a una tradizione latomistica cosmopolita, universale e autenticamente democratica».

In molti hanno polemizzato sull'assenza di Obama a Parigi nell'incontro tra capi di Stato. Secondo lei come va letta questa assenza?

«Il fratello massone progressista (moderato) Barack Obama era perfettamente a conoscenza di quanta ipocrisia si celasse in quell’incontro di capi ed ex- capi di Stato, alcuni dei quali direttamente coinvolti, in modo diretto o indiretto, nei presupposti che hanno propiziato gli stessi attentati terroristici di Parigi e quelli di anni precedenti. Obama ancora non ha trovato il coraggio di fronteggiare efficacemente personaggi del genere, ma con la sua assenza almeno ha mandato un segnale inequivocabile di sdegno e presa di distanza».

Dopo le stragi alcune parti dell'Ue hanno messo in dubbio Schenghen e c'è stato chi ha chiesto a gran voce la pena di morte. A che cosa ci porteranno queste reazioni estreme?

«Sono assolutamente favorevole agli Accordi di Schenghen e al principio universale della libera circolazione delle persone, tanto più in un’Europa che si pretenderebbe unita e integrata (anche se purtroppo, al momento, non lo è su basi democratiche, bensì tecnocratiche e oligarchiche) e sono fermamente contrario al principio della pena di morte applicata da entità statuali su detenuti ormai inermi e messi in condizione di non nuocere. Il back-ground dispotico e fascistoide di Marine Le Pen e di altri è chiaramente venuto allo scoperto proprio con la loro proposta di riattivare la pena di morte. E una torsione dispotica e autoritaria (vedi, negli Usa, l’implementazione del liberticida e anti-democratico Patriot Act) è proprio ciò che i mandanti di questi attentati terroristici vogliono conseguire, anche per il tramite di personaggi alla Le Pen».

Tornando all'Italia, che cosa cambia dopo le dimissioni di Napolitano? Quali sono le forze in gioco nella designazione del successore?

«Altrove, magari nei prossimi giorni, con più calma, spazio e tempo, e con altra intervista ad hoc, mi riservo di rispondere ad Affari Italiani e ad altri operatori mediatici, anche su questo tema, che certamente troverà esaustiva analisi nel secondo volume di Massoni. Società a responsabilità illimitata, sottotitolo: “Globalizzazione e massoneria”, non necessariamente edito da Chiarelettere, e che anzi offrirò pubblicamente alla Casa Editrice (compresa Chiarelettere, certo) italiana o estera che sia in grado di assicurare le migliori garanzie a 360° su vari aspetti della pubblicazione e dell’operazione editoriale e culturale che la sottende. Intanto, posso anticipare che le forze in gioco per la designazione del successore del fratello Napolitano sono ancora e sempre terminali italiani di alcune Ur-Lodges sovranazionali».

C'è chi sostiene che ambienti massonici possano sostenere Amato e portarlo sul Quirinale. Le risulta?

«Certo che alcuni (tra cui lo stesso confratello libero muratore Napolitano) avrebbero gradito il massone fintamente progressista (e autentico tecnocratico e neo-aristocratico) Giuliano Amato al Quirinale, ma si tratta di un candidato provvidenzialmente indebolito da vari fattori. Anche se, nelle “quirinarie” in corso, anche i “cavalli azzoppati” hanno virtuali chanches di recuperare terreno…»

Renzi è riuscito a entrare nelle grazie (e nella Ur-Lodge) di Draghi oppure il suo potere non è ancora a quel livello? Quanto pesa ancora oggi il Patto del Nazareno?

«Su questo tema, la rinvio appunto al secondo volume di Massoni. Società a responsabilità illimitata, sottotitolo: “Globalizzazione e massoneria”, di futura pubblicazione, dove si parlerà, tra le moltissime altre cose, in modo attento e monografico, tanto di Matteo Renzi e delle sue aspirazioni e relazioni massoniche, quanto delle vere ragioni delle dimissioni di Giorgio Napolitano, dei nomi e cognomi dei mandanti della strage di Parigi presso Charlie Hebdo, dei costruttori del Califfato dell’Isis, e dei rapporti passati, presenti e futuri tra il pontificato di Jorge Mario Bergoglio (alias papa Francesco) e la Libera Muratoria argentina e sovranazionale».

Tutto quello che avreste voluto sapere sulla Massoneria, scrive Aldo Forbice  su “Il Giornale di Sicilia”. Un volume di 65o pagine con dati e nomi di personaggi che hanno fatto parte o avuto rapporti con le logge. Sulla massoneria esiste una letteratura sterminata ma nessuno finora aveva cercato di fare chiarezza sulle logge segrete, quelle in chiaroscuro e soprattutto quelle internazionali che nessuno conosce. Il libro appena uscito (Massoni - La scoperta delle Ur - Lodges di Gioele Magaldi, con la collaborazione di Laura Maragnani, Chiarelettere) apre scenari sconvolgenti. Si tratta di un volume di 650 pagine (cui ne seguiranno altri tre) che pubblica documenti finora ritenuti segretissimi. Magaldi è uno storico, politologo, massone da lunga data (ex Maestro Venerabile della loggia «Monte Sion» di Roma, attualmente Maestro Venerabile del Grande Oriente Democratico). C'è chi dice che abbia stipulato una polizza milionaria di assicurazione sulla vita, visto il rischio che corre. Scorrendo le pagine si rimane perplessi e sconcertati ma misteriosamente «incollati» al testo per la grande ricchezza di notizie controcorrente che si apprendono sulla storia dell'ultimo secolo. Ovviamente la «lettura» degli avvenimenti più vicini a noi colpisce particolarmente. Incuriosisce, ad esempio, che papi, presidenti, uomini di Stato e dell'economia, personaggi importanti di tutti i sistemi politici (da Giovanni XXIII ai fratelli Kennedy, a Reagan, Putin, Obama, Deng Xiao Ping, Mandela, Clinton, Blair, Margaret Thatcher, i nostri Agnelli, Napolitano, Padoan, Draghi ecc - in altre parole tutto il mondo del potere politico ed economico abbia fatto parte o avuto rapporti con le logge massoniche, e paramassoniche) del pianeta, distribuito fra quelle conservatrici-reazionarie e quelle progressiste. La «guerra» fra queste logge ha condizionato (e spesso influito pesantemente) il corso degli avvenimenti dell'ultima parte del ’900, sino ad oggi, contendendosi il governo del mondo e premiando quasi sempre il potente sistema militare-industriale. Non possiamo giurare sulla veridicità di questa grande massa di documenti, usciti dagli archivi segreti delle logge. Osserviamo solo che se, anche il dieci per cento delle notizie rese note fosse certificato come verità indiscussa, si dovrebbe riscrivere almeno la storia degli ultimi cinque decenni. Di storia veramente certificata si può parlare col saggio di Emilio Gentile In Italia ai tempi di Mussolini (Mondadori). L'autore è uno storico di fama internazionale per una serie di studi di grande originalità e autorevolezza. In questo saggio racconta un viaggio, cominciato con la Grande Guerra, proseguito con le lotte operaie e contadine del «biennio rosso, con le violenze squadriste, il fascismo e la conquista del potere da parte di Mussolini. Appare molto importante l'analisi dei testi degli osservatori stranieri sui cambiamenti economici e culturali del regime. Un saggio «globale» sull'Italia del ventennio che fa capire come certi nodi e difficoltà di ordine politico ed economico risalgano proprio all'epoca del totalitarismo. A proposito di totalitarismo, un libro di questi giorni getta nuova luce sul regime comunista dell'Urss. Lo ha scritto Svetlana Aleksievic (Tempo di seconda mano, Bompiani), giornalista e scrittrice ucraina. Svetlana ha dato voce a un racconto corale della grande utopia comunista che per 70 anni ha caratterizzato la vita dell'Urss e della Russia. Si tratta di un affresco a tinte fosche di vittime (contadini, ma anche intellettuali, studenti, operai, donne, anziani), di misconosciti eroi sovietici in tempi di pace e di guerra e di carnefici. È un terribile e sconvolgente spaccato della cosiddetta «civiltà sovietica» e di ciò che è rimasto, o meglio dello spirito di adattamento a un «tempo di seconda mano» nella Russia dopo il crollo del comunismo. Infine segnaliamo due libri importanti sugli orrori del nazismo. Il primo, Bombardare Auschwitz di Umberto Gentiloni Silveri (Mondadori) analizza la storica polemica sulla opportunità, da parte degli alleati, di bombardare i lager nazisti. Ancora oggi gli storici si chiedono: come mai quelle «fabbriche di morte» non vennero prese di mira dai bombardieri alleati, visto che gli angloamericani sapevano tutto? L'autore ricostruisce la fitta trama di incomprensioni, scoprendo molte cose inedite sulla tragedia della Shoah. L'altro saggio è di Matteo Marani, un noto giornalista sportivo che nel libro Dallo scudetto ad Auschwitz (Imprimatur editore) ricostruisce la storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo, morto nel 1944 in un lager nazista. L'autore ha lavorato ben tre anni per scoprire la tragica storia dell'allenatore del Bologna, vincitore di ben quattro scudetti tra il 1930 e il 1938. Ne è scaturito un romanzo affascinante che commuove e indigna.

Mafia e massoneria, il pentito Messina: “Almeno due boss in ogni loggia”. “Ci sono province impregnate di questa cosa, come Trapani: c’è un potere alternativo al nostro, dove si racchiude il vero potere, politica, economia, magistrati, onorevoli” ha detto il pentito deponendo al processo sulla strage del Rapido 904. Secondo la relazione del pg Scarpinato, Matteo Messina Denaro sarebbe attualmente impegnato a fondare nuove logge nel trapanese, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano. Due uomini d’onore all’interno di ogni loggia: così Cosa Nostra e la massoneria hanno unito le rispettive forze nella medesima strategia criminale. A raccontarlo il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, boss di San Cataldo, ex braccio destro di Piddu Madonia, già autore di alcune rivelazioni inedite. Era stato Messina il primo a raccontare dei summit nei dintorni di Enna, alla fine del 1991, per mettere a punto la strategia stragista della primavera successiva. Oggi il pentito ha deposto al processo per la strage del Rapido 904, in corso davanti alla corte d’assise di Firenze che sta processando Totò Riina, accusato di essere il mandante dell’eccidio che il 23 dicembre 1984 fece 17 vittime. Durante la sua deposizione, Messina ha descritto nel dettaglio il rapporto tra la mafia e le logge massoniche. “Cosa Nostra – ha detto il pentito – all’interno di ogni loggia massonica deve avere due uomini di onore. Ci sono province impregnate di questa cosa, come Trapani. Bontade per esempio era sia uomo d’onore, sia massone. Dicevano che anche Madonia era massone. Nella massoneria c’è un potere alternativo al nostro, dove si racchiude il vero potere, politica, economia, magistrati, onorevoli”. Un rapporto, quello tra Cosa Nostra e la massoneria, ancora attualissimo. Il boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro starebbe puntando sulla creazione di nuove logge nella zona di Mazara del Vallo: un escamotage per stringere nuovamente alleanze con professionisti e imprenditori. La nuova strategia di Messina Denaro è descritta nella relazione consegnata dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato al presidente della corte d’appello in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. Un report, quello di Scarpinato, che s’incrocia con e indagini della procura di Palermo: Messina Denaro, stando ad un’intercettazione telefonica, “si è rifatto tutte cose”, e cioè si sarebbe sottoposto ad un intervento di chirurgia estetica per alterare i suoi connotati. Un interrogativo che da qualche mese impegna gli inquirenti. Quel che è certo, però, è che l’ultima primula rossa di Cosa Nostra sta cercando di inserire uomini a lui fidati nelle logge del trapanese. “I metodi della mafia e della massoneria – ha detto Messina – erano molto simili. La massoneria è un’amministrazione del potere intelligente: un dottore non va a sparare per strada, un avvocato, un magistrato, non lo fanno. Il mafioso invece è il vero potere, é il potere della paura, la gente ci rispettava. In Sicilia specie negli anni ’70 non c’era quasi controllo e la gente ci temeva”. Un elemento importante del rapporto tra Cosa Nostra e la massoneria era quello relativo alle inchieste della magistratura. “Serviva ad aggiustare i processi – ha spiegato il pentito – nel mio caso, per un mio processo, mi sono rivolto a un massone che ha parlato con il giudice e si é rivolto anche a un giudice popolare, qualcuno é andato a parlare con loro. Sono stato assolto. Se ero colpevole? Si, ma loro non avevano le prove”.

Nella sua rubrica, Guardie o ladri su “Il Sole “24 ore”, Roberto Galullo parla in tre parti della massoneria.

Storia/1. L’ex Gran Maestro Giuliano Di Bernardo in esclusiva su questo blog parla di P2, massoneria, legge Anselmi e deviazioni. Alla fine del 2014, sull’onda di una serie di eventi che hanno chiamato in causa, più o meno propriamente, la massoneria italiana e sulla scia di una serie di indagini della magistratura sul ruolo della stessa in passate o più vicine vicende (dalla Procura di Reggio Calabria a Palermo, da Roma a Catanzaro) ho (senza tante speranze) contattato l’ex Gran Maestro del Goi (Grande Oriente d’Italia, dal ’90 al ‘93) e della Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri, successivamente fino al 2002), Giuliano Di Bernardo. Visto il suo profilo mi incuriosiva conoscere le sue verità e le sue esperienze su alcune vicende che, nel recente passato, hanno attraversato, incrociato o lambito la massoneria. Senza passato è impossibile conoscere il presente. E’ Di Bernardo, infatti, che, nel giro di pochi mesi, nel 2014 è stato prima chiamato dalla Procura di Reggio Calabria e poi da quella di Palermo, a rispondere alle domande dei magistrati su alcune delicatissime vicende storiche i cui contorni sono ancora nebulosi e senza la cui chiarezza è di fatto impossibile capire quanto sta accadendo oggi in Italia. Di Bernardo, ad esempio, ha attraversato il periodo delle stragi mafiose in Italia e la fase immediatamente precedente e successiva, viste da osservatori privilegiati. Con mia sorpresa, a seguito di una serie di domande inviate alla sua attenzione (non certo esaustive e di fatto limitate dalla fallibilità di un giornalista lontano anni luce dalla massoneria, come sempre rigorosamente super partes nel momento in cui scrive) pochi giorni fa ho ricevuto le risposte definitive, nel corso delle quali scoprirete anche il suo percorso massonico attuale. Ne è uscita un’intervista credo interessante, anche se ho l’impressione che alcune cose sono rimaste in punta di risposta (verosimilmente anche per il doveroso e sacrosanto rispetto delle indagini giudiziarie), altre, forse per un riflesso incondizionato, appaiono estremamente generose e assolutorie su un ruolo non sempre condivisibile avuto dalla massoneria in questi anni, in altre ancora ho la sensazione che la diplomazia abbia prevalso sull’opportunità di condividere la conoscenza. Ho cercato di seguire un filo logico nelle domande ma chiedo venia, fin da ora, se qualche involontaria e inconsapevole deviazione logica c’è stata. L’abbrivio era quasi obbligato: la P2 di Licio Gelli dietro la quale ancora troppi misteri si celano che, a mio modesto avviso, mai saranno chiariti nonostante gli straordinari sforzi di pm che, anche per questo, vengono regolarmente sottoposti al rischio di delegittimazione da quei poteri marci che costituiscono sangue e linfa dei sistemi criminali Buona lettura con questa prima puntata.

Cosa rappresentava la P2: massoneria o altro?

«La P2 è stata una loggia regolare del Grande Oriente d’Italia. I Gran Maestri Salvini e Battelli hanno firmato i tesserini che Gelli rilasciava agli affiliati. Se il Grande Oriente d’Italia è massoneria, allora lo è anche la P2».

E’ vero, come vocifera qualche autorevole personaggio politico, che la cosiddetta “legge Anselmi” fu scritta o suggerita da parlamentari e tecnici massoni che riuscirono così a guidare i propositi dell’inconsapevole onorevole Tina Anselmi? Ed è vero, in caso di risposta affermativa, che il risultato sul campo è quello dell’ inapplicabilità o della difficile applicabilità da parte di pm e giudici?

«Non è questa la sede per entrare nel merito della “legge Anselmi”. A me risulta che alla sua formulazione partecipò il professor Paolo Ungari (trovato morto a 66 anni il 6 settembre 1999 per la caduta nella tromba dell’ascensore, avvenuta nel fine settimana precedente, al terzo piano del palazzo in piazza dell’Ara Coeli a Roma in cui aveva sede una delle riviste cui collaborava; la Procura di Roma ha proposto decreto di archiviazione dopo le indagini ma questo non è servito a fugare i sospetti e i dubbi sul decesso, ndr), il quale mi confidò che tale legge tutelerebbe lo Stato dalle trame delle società segrete solo in apparenza, poiché la sua applicazione a casi reali è quasi impossibile. In quegli anni ero Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia e il professor Ungari era molto vicino a me sia come collega universitario sia come massone».

Commentatori, giornalisti, politici e classe dirigente distinguono, doverosamente, tra “massoneria” e “massoneria deviata”. Esiste anche a suo avviso questa differenza e, nel caso di risposta negativa, come giustifica l’esistenza della distinzione, anche atteso il fatto che lei, ancora oggi, è un massone di rilevanza internazionale? Sarebbe, dunque, “deviato” anche lei?

«Sulla distinzione tra “massoneria” e “massoneria deviata” esiste la più grande confusione. E’ importante, perciò, definirla. “Deviare”, in tutte le possibili accezioni, significa “allontanarsi da qualcosa (un fine, un principio, una norma)”. Riferita alla massoneria, è deviata quella massoneria che si allontana dal fine da essa dichiarato. Un esempio tipico di massoneria deviata è la loggia P2, poiché, pur essendo una loggia regolare del Grande Oriente d’Italia, ha perseguito fini che si sono allontanati (hanno deviato) dai fini del Goi.  Da ciò segue che è lecito e logico parlare di “loggia deviata” se, e solo se, tale loggia appartiene a una Obbedienza massonica. Al di fuori dell’Obbedienza, non può esistere una loggia deviata. Parlare di una singola loggia come “loggia deviata” è semplicemente insensato. Per quel che mi riguarda, è vero che mantengo relazioni massoniche internazionali, ma la mia missione è quella di rifondare la massoneria originaria e autentica, al di sopra di tutte le deviazioni storiche ed esoteriche che sono state prodotte in tempi recenti».

Potrebbe chiarire che cosa si intende per massoneria ufficiale?

«Definire la “massoneria ufficiale” in Italia è impresa ardua, poiché dipende dal punto di vista che assumiamo. Una convenzione, generalmente condivisa e operante fin dalle origini moderne della massoneria, stabilisce che è regolare e “ufficiale” in un Paese quella, e soltanto quella, che è stata riconosciuta dalla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. In Italia oggi, l’unica massoneria riconosciuta dall’Inghilterra è la Gran Loggia Regolare d’Italia, da me fondata nel 1993, di cui sono stato Gran Maestro fino al 2002. Da ciò segue che tutte le altre massonerie, inclusa il Grande Oriente d’Italia, non sono regolari. Con questo punto di vista, che privilegia il riconoscimento inglese, solo la Gran Loggia Regolare d’Italia è “ufficiale”. Tutte le altre non lo sono. Preciso che l’Inghilterra, sulla base delle sue Costituzioni, può riconoscere, in Italia e negli altri paesi del mondo, una sola massoneria».

Il Goi è riconosciuto, tuttavia, dalle Gran Logge statunitensi, che non riconoscono la Gran Loggia Regolare d’Italia. Possiamo dire che anche il Goi è massoneria “ufficiale”? E cosa dire delle altre massonerie che non sono riconosciute né dall’Inghilterra né dagli Stati Uniti d’America? Sono anche loro massonerie ufficiali? Poiché ogni Obbedienza cerca di privilegiare il criterio che l’avvantaggia, la confusione regna sovrana.

«Il 3 novembre il gup di Roma, Paola Della Monica ha rinviato a giudizio il senatore di Forza Italia Denis Verdini nell’ambito della cosiddetta P3, una presunta associazione segreta caratterizzata, come hanno scritto i pm, “dalla segretezza degli scopi, dell’attività e della composizione del sodalizio e volta a condizionare il funzionamento di organi costituzionali e di rilevanza costituzionale, nonché apparati della pubblica amministrazione dello Stato e degli enti locali”. Insieme a Verdini è stato rinviato a giudizio anche l’ex sottosegretario all’Economia dell’ultimo governo Berlusconi, Nicola Cosentino».

E’ ridicolo parlare di P3, P4 e via di questo passo, sono insomma invenzioni giornalistiche, oppure è ancora legittimo e reale il rischio (o la concretezza) di associazioni segrete che condizionino lo Stato? E quanto è concreto e reale il rischio?

«Ho presentato la P2 come esempio tipico di loggia deviata. Una caratteristica essenziale che la distingue è la sua appartenenza al Grande Oriente d’Italia. Quando si parla di P3 e di P4, è necessario confrontarle con la P2 e chiedersi a quale obbedienza esse appartengono. Se non si può connetterle a Obbedienze massoniche, queste lobby non hanno proprio nulla a che fare con la massoneria. Sono semplicemente un’invenzione giornalistica, accattivante ma insensata. Anche se i membri di tali presunte logge si riunissero in un tempio, indossassero grembiuli e recitassero rituali, la loro estraneità alla massoneria sarebbe ancora più evidente. L’abito non fa il monaco. Che queste lobby rappresentino un rischio e un pericolo concreto per lo Stato è chiaro ed evidente, a prescindere dalla loro collocazione, dentro o fuori la massoneria».

Può raccontare perché decise di lasciare (o lasciò) il vertice del Goi?

«La risposta presuppone alcune premesse. Io sono stato il primo e forse l’ultimo Gran Maestro filosofo. Coloro che mi hanno preceduto e seguito avevano altri interessi. Per me la massoneria significa condividere una concezione dell’uomo e della vita, come avevo scritto nel mio volume Filosofia della massoneria. Dalla mia iniziazione avvenuta nel 1961, non ho mai cercato cariche e privilegi. Dopo la mia elezione a Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia nel 1990, ho cercato di realizzare quel modello di massoneria in cui credevo. Ero al vertice della più potente massoneria italiana, ma ne ignoravo l’organizzazione e la qualità degli uomini. Convinto che il Goi dovesse essere portato fuori dalle nebbie del passato, diedi inizio all’operazione “trasparenza”, che subito mi portò le prime delusioni. Molti dei massoni alla mia obbedienza non capivano la necessità del cambiamento e restavano ancorati a ciò che credevano fossero antichi privilegi. Il confronto con la massoneria inglese, da me sempre ritenuta la più alta espressione della regolarità massonica, mi faceva avvertire l’arretratezza del Goi, almeno per quanto riguarda l’esoterismo e il fondamento iniziatico. La mia delusione cresceva a mano a mano che ne diventavo sempre più consapevole. Quando ebbe inizio l’indagine contro la massoneria del procuratore Agostino Cordova nel 1992, mi resi definitivamente conto che la massoneria che governavo era in gran parte estranea all’idea che di massoneria mi ero fatto nel corso della mia vita. Incontrai i vertici della massoneria inglese, espressi loro le mie preoccupazioni e chiesi che cosa avrei dovuto fare. La risposta fu semplice: dimettiti dal Grande Oriente d’Italia e fonda una nuova massoneria, che noi riconosceremo. Così è stato. Il resto è storia. Se io mi fossi semplicemente dimesso, la maggioranza dei massoni del Goi avrebbe salutato la mia uscita con un sospiro di sollievo. Ma non fu così perché le mie intenzioni non erano quelle di tornare a insegnare Filosofia della scienza nell’università di Trento. In realtà, io volevo introdurre in Italia, per la prima volta, il modello della massoneria inglese. Per fare questo avrei dovuto difendermi dal Goi che non voleva perdere il riconoscimento inglese. Preciso che la Gran Loggia Unita d’Inghilterra non può riconoscere, nello stesso paese, due o più massonerie. Quindi, doveva scegliere tra il Goi e la Glri. Anche questa è storia: l’8 agosto del 1993 la Gran Loggia Unita d’Inghilterra ritira il riconoscimento al Goi e lo dà, l’8 dicembre dello stesso anno, alla Gran Loggia Regolare d’Italia, la massoneria che avevo appena fondato. Il Grande Oriente d’Italia così perdeva il tanto agognato riconoscimento inglese, che aveva ottenuto nel 1972, 110 anni dopo che il Gran Maestro Costantino Nigra ne aveva fatto richiesta. Questa è la sorgente dell’odio che si scatenò contro di me e che ancora perdura».

Oltre e indipendentemente dalla sua risposta sul punto: alcuni commentatori del blog nel recente passato hanno fatto riferimento a risvolti poco chiari sulla sua uscita dal Goi. Quali furono (se ci furono) questi risvolti poco chiari sulla sua uscita dal Goi secondo la sua ricostruzione dei fatti? Ci furono anche strascichi giudiziari per la sua uscita?

«Ero diventato il “traditore” che doveva essere abbattuto con tutti i mezzi, legali e diffamatori. Sul piano legale fui querelato per diffamazione da Augusto De Megni, Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico e Accettato, e da Licio Gelli. Fui assolto, in entrambi i casi, perché il fatto non sussisteva. Le diffamazioni, che tendevano a offuscare la mia onorabilità, furono di vario genere: dall’accusa di essere un emissario dell’Opus Dei all’espulsione dall’università di Trento per condotta indegna, al ripudio da parte di mia moglie per infedeltà. Nessuna accusa per traffici vari e tangenti perché non sarebbero stati credibili. Solo il Goi dichiarò che avevo ricevuto dal suo Tesoriere una somma non dovuta. Il mio commercialista dimostrò che avrei dovuto ancora avere dal Goi sette milioni di lire. Li sto ancora aspettando. Ancora oggi capita che qualcuno, per sentito dire, mi rivolge accuse infamanti. A costoro io chiedo di accusarmi formalmente e alla luce del sole, così tutti potranno capire la verità».

In che rapporti è, oggi, con il Goi e con le altre obbedienze massoniche?

«Con il Grande Oriente d’Italia, dalle mie dimissioni a oggi, non esistono rapporti di alcun tipo. Restano i rapporti personali con quei fratelli che avevano compreso la necessità e l’urgenza della mia riforma della massoneria italiana. Continuano ancora a sognarla».

Quanti sono i massoni oggi in Italia delle varie comunioni?

«Le voci meglio informate dicono che i massoni italiani sono circa 100.000. Per fare che cosa? La massoneria è entrata in crisi quando, da comunione elitaria, si è trasformata in società di massa. Se in Italia vi fossero 300 massoni, espressione delle élite lungimiranti e carismatiche, con il loro indubitabile sostegno alle istituzioni dello Stato, la vita sociale, economica e culturale degli italiani sarebbe migliore».

Con quali risorse nacque il Goi e grazie a quali risorse, che risulterebbero essere ingentissime se non altro alla luce delle proiezioni persino extraparlamentari che  sembrerebbero aver pervaso alcuni affiliati in determinati periodi storici, vivono e prosperano oggi le logge massoniche? Chi, parlando in altri termini, ha messo i soldi per far diventare così grande il Goi e chi continua a metterli nelle obbedienze?

«Se riferita al Goi, la domanda prende in considerazione un periodo di tempo di circa 150 anni (dalle origini ai nostri giorni). Fino all’avvento del Fascismo, il Goi ha controllato la vita italiana in tutti i suoi più importanti aspetti. Il problema di chi finanziasse non aveva alcun senso, poiché esso poteva avere tutto da tutti. Durante il Fascismo (dalle leggi contro le società segrete del 1925 alla sua caduta) il Gran Maestro Domizio Torregiani ha vissuto in esilio e l’attività delle logge è stata quasi inesistente. Dopo la seconda guerra mondiale, l’intervento degli Stati Uniti d’America è stato determinante per la rinascita della massoneria in Italia. La maggior parte dei finanziamenti proveniva proprio da loro. Con la frantumazione della massoneria in diverse Obbedienze, iniziano percorsi e finanziamenti particolari, nonostante la volontà degli americani di riunire tutte le obbedienze in una sola massoneria. Per quanto riguarda la mia esperienza di Gran Maestro del Goi, dal 1990 al 1993, i finanziamenti provenivano dalle capitazioni (quote annuali) e da contributi straordinari di fratelli benestanti. Se il Goi è diventato grande, le ragioni vanno ricercate nel suo ruolo politico ed economico nella società italiana. Le risorse e i finanziamenti hanno certamente influito ma non in maniera determinante. Dalle mie dimissioni del 1993 a oggi, non ho conoscenza di come avvenga il recupero delle risorse finanziarie, né nel Grande Oriente d’Italia né nella Gran Loggia Regolare d’Italia».

Cosa è il Dignity Order il cui vertice Lei presiede? Un enigma, un mistero, una certezza massonica? Cosa è e quanto potente è la sua influenza? Quali sono le risorse con le quali esercita la sua missione e quanti e chi sono, se è lecito sapere, gli iscritti?

«Nel 2002 avviene il mio ritiro definitivo dalla massoneria. Alla base di tale decisione vi è la convinzione che la massoneria, faro luminoso dell’Occidente, stia perdendo irrimediabilmente la forza propulsiva che ha fatto di essa una guida saggia dell’umanità. Non perché i suoi principi e il fondamento iniziatico che li sorregge abbiano perso la loro rilevanza, quanto, piuttosto, per l’incapacità dei massoni a interpretarli nel senso autentico. La stessa massoneria inglese, madre di tutte le massonerie regolari del mondo, mostrava segni di una profonda crisi che preannunciava scismi e conflitti. Abbandonavo quella massoneria, cui ero stato iniziato nel lontano 1961 e che era stata una guida sicura della mia vita, per fondare l’Accademia Internazionale degli Illuminati. Il mio scopo era quello di riformare la massoneria, ritornando alle sue origini settecentesche, governata dalle élite pensanti. L’Accademia degli Illuminati si ispira, infatti, alla Royal Society inglese. L’Accademia ha successo e si diffonde anche all’estero. Intanto comincia a intravedersi una crisi mondiale non solo economica e finanziaria ma anche morale. La società reale accusa i primi colpi di questa crisi, che si annuncia lunga e dolorosa. Gli Illuminati non bastano più. E’ arrivato il tempo degli Operativi, profondi conoscitori dei livelli concreti  della società. Dal connubio tra Illuminati speculativi e Illuminati operativi, si gettano le fondamenta di un nuovo Tempio dell’umanità, per affrontare le nuove sfide che già si preannunciano all’orizzonte. Nasce così nel 2011 “Dignity. Ordine per la difesa della dignità dell’uomo”. Le principali differenze tra Dignity e la massoneria sono le seguenti.

1.   Dignity è composta da élite, la massoneria da masse.

2.   Dignity ammette le donne, la massoneria le esclude.

3.   Dignity è internazionale, la massoneria è nazionale. La sede internazionale di Dignity è a Vienna, dove si riunisce il Consiglio del Gran Maestro. Dignity nasce in Italia e si diffonde anche all’estero.

4.   Il Rituale di Dignity si ispira alla filosofia, i Rituali della massoneria si ispirano alla religione (Emulation inglese) o a fatti storici (il Goi).

5.   Dignity e la massoneria hanno in comune il riferimento alla Tradizione esoterica dell’umanità, che inizia nel VI secolo a.C. in Grecia con i Misteri orfici. Ne fanno anche parte la Confraternita dei Rosacroce e l’Ordine degli Illuminati.

L’Ordine Dignity nasce e si sviluppa nella più completa trasparenza. Le Associazioni che la governano sono state legalmente costituite e registrate secondo le leggi dei Paesi che le ospitano (Italia e Austria). Essa è, quindi, una certezza esoterica.

Le risorse con cui esercita la sua missione sono le quote annuali (ordinarie e straordinarie) e le donazioni. Gli adepti in Italia sono circa cento. Le riunioni dell’Ordine, denominate “Conventi” (locali, nazionali, internazionali), si svolgono in luoghi non riservati: il Convento internazionale di Primavera-Estate si è svolto all’Hotel Miramonti di Cortina d’Ampezzo, mentre il Convento internazionale d’Autunno ha avuto luogo all’Hotel Royal di San Remo. Ospiti e autorità sono stati invitati alla cena di gala. Nessuno si è nascosto. Tutti hanno mostrato i simboli dell’Ordine».

Bene. Ci fermiamo qui ma domani torno con la seconda puntata.

Storia/2. L’ex Gran Maestro Giuliano Di Bernardo in esclusiva sul blog parla di trasparenza, affiliazioni e decadenza della massoneria. Cari amici di blog, se mi avete seguito ieri sapete che sto pubblicando un’intervista a puntate (vista la complessità delle materie trattate) all’ex Gran Maestro del Goi (Grande Oriente d’Italia, dal ’90 a al ‘93) e Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri, successivamente e fino al 2002) Giuliano Di Bernardo. Visto il suo profilo mi incuriosiva conoscere le sue verità e le sue esperienze su alcune vicende che, nel recente passato, hanno attraversato, incrociato o lambito la massoneria. Senza passato è impossibile conoscere il presente. E’ Di Bernardo, infatti, che, nel giro di pochi mesi, nel 2014 è stato prima chiamato dalla Procura di Reggio Calabria e poi da quella di Palermo, a rispondere alle domande dei magistrati su alcune delicatissime vicende storiche i cui contorni sono ancora nebulosi e senza la cui chiarezza è di fatto impossibile capire quanto sta accadendo oggi in Italia. Di Bernardo, ad esempio, ha attraversato il periodo delle stragi mafiose in Italia e la fase immediatamente precedente e successiva, viste da osservatori privilegiati. Nella parte dell’intervista di ieri Di Bernardo ha inquadrato il suo profilo, parlando a 360 gradi di massoneria, delle sue deviazioni, della legge Anselmi, dei suoi attuali rapporti con le obbedienze massoniche, del Dignity Order che ha fondato nel 2011 e di altre cose ancora. Premesse necessarie (ma non certo sufficienti) per affrontare questa seconda puntata in cui si entrerà ancora più nel vivo. Buona lettura.

A sua diretta conoscenza o certezza acquisita quali alti vertici dello Stato, della politica, dell’economia, della finanza vanta oggi la massoneria?

«Per capire il “peso” della massoneria, è necessario considerarlo nella dimensione temporale: ieri, oggi, domani. Dall’unità d’Italia fino all’avvento del Fascismo, la massoneria ha dominato incontrastata la politica, l’economia, la finanza, le banche, le forze armate, la cultura. Non esisteva allora l’opposizione del Vaticano e della Chiesa Cattolica. Il Fascismo ha dichiarato fuorilegge la massoneria e l’ha esiliata. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è rinata con il sostegno della massoneria statunitense, che impose alcune condizioni destinate a pesare molto sugli sviluppi successivi. Nonostante interventi autorevoli di esponenti di spicco della massoneria statunitense, le guerre tra le rinate comunioni massoniche (più o meno legittime) sono state inevitabili ed è cominciato quel gioco al massacro che ha sempre impedito di avere in Italia una massoneria autorevole e potente. Nell’immediato dopoguerra, il peso complessivo della massoneria italiana è stato quasi irrilevante. Crescerà a dismisura con l’avvento di Licio Gelli e della P2. Non è questa la sede per riconsiderare la natura e il ruolo della loggia P2. Dirò semplicemente che, grazie alla P2, la massoneria italiana è stata proiettata, almeno nell’opinione pubblica, ai vertici della massoneria mondiale. Se non vi fosse stata quell’ intervista di Gelli al Corriere della Sera che rese evidente il pericolo della P2, egli avrebbe controllato tutti i più importanti “luoghi del potere” in Italia. Con la crisi della P2, inizia l’inesorabile decadenza del “potere” massonico, non solo nel Grande Oriente d’Italia che aveva dovuto “risolvere” al proprio interno i danni della P2, ma anche nelle altre Obbedienze. Nel 1990 sono stato eletto Gran Maestro del Goi. La prima cosa che ho fatto è stata quella di “pesare” il suo potere. L’idea che mi son fatto è la seguente: prima di Gelli c’erano i “sergenti”, con Gelli arrivano i “generali”, dopo Gelli si passa ai “caporali”. La discesa è inarrestabile».

Perché allora sempre più persone vogliono iscriversi alla massoneria? Fede o convenienza?

«La massoneria ha sempre esercitato un profondo fascino fin dalle sue origini agli inizi del Settecento. Non solo per il potere che essa emanava, ma anche per le cerimonie di iniziazione, passaggio ed elevazione. Dava, inoltre, un profondo senso di appartenenza che gratificava i suoi adepti. Ma quella massoneria, nata sul modello della monarchia inglese, era costituita da élite pensanti e operanti. Aveva un grande potere che metteva a disposizione dei governanti dello Stato, come risulta nella storia dei Paesi in cui vi è stata una massoneria. Quella massoneria non esiste più. Quel che oggi si chiama massoneria non è massoneria. Dalla fine della seconda guerra mondiale è iniziata una “controiniziazione” che sta profanando e distruggendo il fondamento esoterico della massoneria. Nonostante tutto, la massoneria continua ad attrarre. Perché? Non per le sue cerimonie rituali nel tempio, che ancora vi sono anche se sono state svuotate del loro significato esoterico. La massoneria attrae per interesse materiale. Nell’Italia di oggi, essa è l’ultima spiaggia per trovare un lavoro, per uscire dalla disperazione in cui sono caduti generazioni di giovani che si son visti privare della speranza per il futuro. Non voglio dire che questa sia l’esclusiva ragione per bussare alle porte del tempio massonico, ma ne è oggi la tendenza generale. Nella massoneria italiana, vi sono ancora autentici massoni, i quali però soffrono per la “controiniziazione” che è in atto. Io offro loro una “scialuppa di salvataggio” per riunirli nell’afflato iniziatico. Un esempio tipico, che convalida quanto ho detto sopra, è proprio il boom di massoni in Calabria in tutte le Obbedienze, da quelle storiche a quelle appena nate. In città (Reggio Calabria, ndr), si ridicolizza sul “venerdì massonico”, ma esso è l’espressione più evidente che la massoneria, almeno in Italia, è morta».

Poco si parla, ma a mio modesto avviso molto di dovrebbe invece parlare, di affiliazione alla massoneria di magistrati e alti rappresentanti delle Forze dell’Ordine. Per la sua esperienza, passata e presente, quanto massiccia è la loro presenza e a quali fini?

«Magistrati e rappresentanti delle Forze dell’Ordine hanno sempre avuto accesso nelle logge massoniche. In base alle mie esperienze, direi che oggi la loro presenza è molto limitata. Vorrei riflettere, invece, sull’opportunità della loro appartenenza alla massoneria. E’ chiaro che, dal momento in cui lo Stato riconosce le associazioni massoniche, tutti i cittadini italiani hanno il diritto di farne parte: se magistrati e rappresentanti delle Forze dell’Ordine vogliono diventare massoni, hanno tutto il diritto di farlo. Il punto in discussione, tuttavia, non riguarda tanto il diritto, quanto, piuttosto, l’opportunità. Non intendo entrare nel merito del problema. Cercherò, invece, di chiarirlo con un esempio. Quando Norberto Bobbio venne a sapere che ero diventato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, tramite alcuni colleghi universitari, chiese d’incontrarmi. I miei rapporti con Bobbio risalivano agli anni Settanta, quando eravamo promotori di studi e ricerche sulla Filosofia del diritto e sulla Logica deontica. Bobbio, con la franchezza che lo caratterizzava, mi disse: “Io ho sempre ammirato e in parte condiviso i principi che ispirano la massoneria, ma non ho mai capito (e per questo l’avverso) perché si rifiuta di agire alla luce del sole. Consideriamo il caso in cui tu, io e altri tre professori ordinari siamo in una commissione per valutare alcuni candidati che aspirano a diventare professori ordinari. Di quattro commissari tutti sanno a quale concezione della vita fanno riferimento (laico, cattolico, comunista, liberale) ma di te nessuno sa nulla. Mi sono sempre chiesto a quale mondo tu appartenga. Adesso so, perché l’ho letto sui giornali, che sei massone. Io non ti nego il diritto di essere massone. Ti chiedo però di dirmelo affinchè io possa capire le tue scelte nei concorsi universitari. Se tu, nei lavori della commissione, nascondi i tuoi riferimenti valoriali, io posso anche pensare che tu stia perseguendo finalità contrarie alle istituzioni dello Stato. Posso comprendere che, durante le lotte risorgimentali, i massoni si dovessero nascondere per salvaguardare la loro vita, ma oggi viviamo in una società aperta che tutela tutti. La vostra decisione di continuare a nascondervi fa nascere inevitabilmente timori e pregiudizi che si rivolgono, in definitiva, contro di voi”. Bobbio aveva ragione. Dopo la mia elezione a Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, ho cercato di far uscire la massoneria dalle “catacombe” col progetto denominato “trasparenza”. Fui sconfitto e, con me, si sconfisse anche la massoneria. Da questa premessa, discende un’idea che è andata sempre più sviluppandosi nella mia mente. Oggi io penso che magistrati e rappresentanti delle Forze dell’Ordine non debbano essere affiliati alla massoneria. Il loro ruolo nella società è quello di tutori dello Stato, al di sopra delle parti. Questo vale non solo per la massoneria ma anche per tutte le altre istituzioni. Per la massoneria, almeno per la ragione addotta da Bobbio, la loro ammissione è ulteriormente inopportuna. Questo limite vale, purtroppo, per la massoneria italiana. Se usciamo dall’Italia e andiamo verso Paesi dove la massoneria è trasparente (non si nasconde) come l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America, troviamo magistrati e rappresentanti delle Forze dell’Ordine che ostentano con simboli e atteggiamenti la loro appartenenza alla massoneria. In questi Paesi, non vi sarebbe mai un Bobbio che esprime dubbi sulla massoneria. Io ho cercato, ma inutilmente, di riformare la massoneria italiana per renderla, circa il modo di rapportarsi alla società, simile a quella anglo-americana».

A Suo giudizio qual è e quanto eventualmente grave è l’affiliazione alla massoneria degli uomini dei servizi segreti italiani e internazionali?

«Se ritengo inopportuna l’affiliazione alla massoneria di magistrati e rappresentanti delle Forze dell’Ordine, a maggior ragione ritengo grave l’affiliazione di esponenti dei servizi segreti, nazionali e internazionali. La loggia non può essere il luogo ove avvengono intrighi di ogni tipo. Tanto forte è stata per me tale convinzione che, dopo la mia elezione a Gran Maestro del Goi, ho deciso lo scioglimento della famigerata loggia “Colosseum”, ritrovo di spie di tutto il mondo. La motivazione ufficiale? Non pagavano le capitazioni».

Se davvero massoneria è sinonimo di oltre che di riservatezza, anche di trasparenza, perché mai non vengono forniti i nomi degli iscritti alle Prefetture affinché tutti possano giudicare l’opportunità o meno di certe affiliazioni secondo criteri di buon senso, oltre che di legge?

«I nominativi di massoni delle varie Obbedienze non vengono forniti ufficialmente alle autorità dello Stato (Ministero degli Interni, Prefetture, Questure) poiché si continua a privilegiare il “gioco a nascondino”, con la motivazione che solo così si evitano le “persecuzioni”. E’ semplicemente ridicolo parlare di persecuzioni in uno Stato democratico. Nella realtà, tuttavia, gli elenchi si trovano in molte Questure, ove zelanti massoni, non autorizzati ufficialmente dalle autorità massoniche, li hanno consegnati confidenzialmente, forse per accattivarsi la loro benevolenza. Proprio perché io sono convinto assertore della trasparenza, dopo aver lasciato il Goi e fondato la Gran loggia Regolare d’Italia, ho concordato col Ministro degli Interni la consegna ufficiale di tutti gli iscritti alla Glri: alla fine di gennaio di ogni anno, il Gran Segretario avrebbe consegnato, con la procedura formale, a due Prefetti nominati appositamente per tale scopo dal ministro, l’elenco completo (con le relative generalità) di tutti gli affiliati alla Gran Loggia Regolare d’Italia. L’elenco sarebbe stato preso in consegna e chiuso in una cassaforte, a disposizione delle autorità dello Stato che desiderassero visionarlo. Così è stato per tutti gli anni che ne sono stato Gran Maestro».

Pubblicherebbe dunque i nomi degli iscritti alla sua obbedienza?

«Finché sono stato Gran Maestro della Gran Loggia Regolare d’Italia, ho sempre pubblicato gli elenchi dei massoni alla mia obbedienza, come ho spiegato precedentemente. L’Ordine Dignity, che ho fondato dopo il mio ritiro definitivo dalla massoneria mondiale, non è un’Obbedienza massonica, come spiegherò tra poco. Essa s’ispira ai principi che regolano il percorso esoterico dell’umanità e svolge le sue attività sotto la luce del sole, in piena trasparenza in Italia e all’estero. Se per ipotesi si dovesse rendere necessario pubblicizzare i suoi elenchi, non tarderei un solo istante a farlo».

Ci fermiamo qui ma domani torno con la terza e ultima puntata.

Storia/3. L’ex Gran Maestro massone Giuliano Di Bernardo in esclusiva sul blog parla di Cosa nostra, ‘ndrangheta e dei rischi attuali per la democrazia. Cari amici di blog, se mi avete seguito nei due giorni appena trascorsi, sapete che sto pubblicando un’intervista a puntate (vista la complessità delle materie trattate) all’ex Gran Maestro del Goi (Grande Oriente d’Italia, dal ’90 a al ‘93) e Gran Loggia Regolare d’Italia (Glri, successivamente e fino al 2002) Giuliano Di Bernardo. Visto il suo profilo mi incuriosiva conoscere le sue verità e le sue esperienze su alcune vicende che, nel recente passato, hanno attraversato, incrociato o lambito la massoneria. Senza passato è impossibile conoscere il presente. E’ Di Bernardo, infatti, che, nel giro di pochi mesi, nel 2014 è stato prima chiamato dalla Procura di Reggio Calabria e poi da quella di Palermo, a rispondere alle domande dei magistrati su alcune delicatissime vicende storiche i cui contorni sono ancora nebulosi e senza la cui chiarezza è di fatto impossibile capire quanto sta accadendo oggi in Italia. Di Bernardo, ad esempio, ha attraversato il periodo delle stragi mafiose in Italia e la fase immediatamente precedente e successiva, viste da osservatori privilegiati (rimando alla prima parte con il link a fondo pagina). Nella prima parte dell’intervista di lunedì, Di Bernardo ha inquadrato il suo profilo, parlando a 360 gradi di massoneria, delle sue deviazioni, della legge Anselmi, dei suoi attuali rapporti con le obbedienze massoniche, del Dignity Order che ha fondato nel 2011 e di altre cose ancora. Premesse necessarie (ma non certo sufficienti) per affrontare la seconda puntata in cui si è entrati nel vivo delle affiliazioni, della necessità di trasparenza e della sua visione decadente della e nella massoneria. Oggi entriamo ancora più nel vivo (ripeto: senza alcuna pretesa di esaustività o verità assoluta), con la lettura di Di Bernardo sul rischio (nella migliore delle ipotesi) di infiltrazioni mafiose nelle logge massoniche di varie obbedienze. Una lettura che corre parallela (saranno le indagini a stabilire se si incroceranno in uno o più punti) ad alcune delicatissime indagini che si stanno svolgendo da Palermo a Reggio Calabria, da Catania a Caltanissetta (solo per citare alcune procure). Buona lettura.

Collaboratori di giustizia (cito per tutti il calabro-milanese Antonino Belnome) e uomini di  ‘ndrangheta (cito tra tutti Pantaleone Mancuso) hanno detto o fatto riferimento al fatto che oltre la ‘ndrangheta c’è la massoneria. Come interpreta queste affermazioni? Cosa vogliono dire? Anche alla luce del fatto che già nell’indagine “Sistemi criminali” del ’98 dell’allora pm Roberto Scarpinato, risultava, da dichiarazioni di pentiti, che la massoneria calabrese era la più potente del Sud e tra le più potenti d’Italia.

«Direi che ‘ndrangheta e massoneria si trovano a condividere una rappresentazione verticistica del potere, con modalità esoteriche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta o l’iniziazione alla massoneria segue un rituale che, oltre le specificità storiche e contingenti, ha molte analogie. L’affiliato alla ‘ndrangheta è perciò predisposto a essere massone. Questo spiega, al di sopra degli interessi materiali, l’enorme affluenza nelle logge calabresi. Con questo non voglio dire che essi siano affiliati della ‘ndrangheta, ma che esiste la possibilità teorica che lo siano. Il maggior potere della massoneria calabrese, rispetto alle altre regioni d’Italia, mi sembra un dato acquisito che potrei confermare».

Recentemente la loggia Rocco Verduci di Gerace (Reggio Calabria) è stata dapprima “sospesa” per rischio di infiltrazioni della ‘ndrangheta e poi riammessa dallo stesso Goi nel mese di giugno. Partendo da questo dato puramente di cronaca, a suo giudizio quanto, come e perché sono infiltrate le logge massoniche (indipendentemente dall’obbedienza o comunione alla quale appartengono), della Calabria, della Sicilia, della Campania e, in genere del Sud?

«Delle vicende della loggia Rocco Verduci di Gerace so quello che hanno scritto i giornali. Non avendo una conoscenza diretta e personale non esprimo alcun giudizio. Sull’infiltrazione nelle logge massoniche, non dovrebbe ormai esistere alcun dubbio, anche se, nel concreto, è molto difficile documentarne il “peso”».

Esiste una differenza  – da questo punto di vista – tra rischio di una permeabilità criminale al Nord, al Centro e al Sud?

«Agli inizi degli anni ’90, tale permeabilità esisteva anche se sporadica e limitata. L’inchiesta del dott. Agostino Cordova, procuratore di Palmi, ha avuto inizio con la constatazione che, in molti reati avvenuti in Calabria, erano coinvolti massoni di diverse Obbedienze. A quel tempo, ero Gran Maestro del Goi. Nel 1992, ricevetti a Villa Medici del Vascello, sede nazionale del Goi, la richiesta formale e ufficiale, da parte della Procura di Palmi, di consegnare l’elenco dei massoni calabresi. Essendo impossibile non adempiere la richiesta del magistrato, autorizzai la consegna dell’elenco, sperando che tutto finisse lì. Ma non fu così. Dopo breve tempo, ricevetti un’altra richiesta che riguardava però la consegna dell’elenco di tutti i massoni italiani del GOI, con la motivazione che si voleva verificare le relazioni dei massoni calabresi con i massoni di altre ragioni. Il dott. Cordova sospettava che la massoneria fosse il tramite per favorire attività vietate dalla legge in tutte le regioni italiane. Compresi allora che si stava mettendo sotto inchiesta il Goi e le altre Obbedienze massoniche. Poiché la richiesta non era supportata da un mandato formale, mi rifiutai di consegnare gli elenchi. Come reazione, la Procura di Palmi suggellò il computer e vi mise un agente di guardia, in attesa di procurarsi il mandato per il sequestro. Si parlò dell’”imbavagliamento del computer”. Con un mandato formale di sequestro, null’altro avrei potuto fare per impedirlo. La Procura acquisì gli elenchi e iniziò una farsa all’italiana che si concluse alcuni anni dopo con l’archiviazione dell’inchiesta per decorrenza dei tempi. L’infiltrazione è continuata in quasi tutte le regioni d’Italia. Da quel che dicono i mezzi di comunicazione di massa, sembra che essa abbia raggiunto i vertici delle istituzioni dello Stato. La permeabilità oggi non è un rischio ma una realtà».

In Calabria, un procedimento penale in corso, che corre parallelamente anche a Milano (cosiddetta indagine Breakfast) ipotizza una superloggia calabrese segreta, con forti addentellamenti e radici oltrefrontiera, in grado di condizionare la vita amministrativa, organi dello Stato, economia e finanza, in strettissimo legame con la potente cosca De Stefano. E’ uno scenario possibile a suo giudizio?

«Da quanto ho detto in precedenza, lo scenario è possibile».

Può raccontare, di conseguenza, cosa accadde e quali conseguenze ebbe sul Goi e sulla sua personale vita massonica il viaggio nel Regno Unito a confronto con i vertici della massoneria, a partire dal Duca di Kent, massima autorità massonica, per segnalargli il rischio di ingerenze criminali legate a mafia e ‘ndrangheta? Un incontro, se non erro, che portò quest’ultimo a revocare il riconoscimento al Grande Oriente d’Italia?

«L’inchiesta della Procura di Palmi aveva dato l’avvio a una serie di eventi che mi convinsero a ritenere conclusa la mia esperienza massonica nel Goi. Fu una decisione sofferta dopo 42 anni di appartenenza. Il dado era tratto. Chiesi un incontro con i vertici della massoneria inglese ed esposi la situazione così come l’avevo conosciuta. Chiesi loro cosa avrei dovuto fare. Mi risposero che erano già a conoscenza di quanto contenuto nel mio rapporto (alla Gran Loggia Unita d’Inghilterra non mancano le fonti d’informazioni) e mi fecero intendere la possibile soluzione: dimettermi dal Goi, fondare una nuova Gran Loggia che avrebbe avuto il loro riconoscimento, dopo averlo ritirato al Goi. Tutto si compì in otto mesi: le mie dimissioni formali dal Goi (15 aprile 1993), la fondazione della Gran Loggia Regolare d’Italia (16 aprile 1993), il ritiro del riconoscimento al Goi (8 agosto 1993), il riconoscimento della Gran Loggia Regolare d’Italia (8 dicembre 1993). Ancora oggi la Gran Loggia Regolare d’Italia, di cui sono stato Fondatore e Gran Maestro fino al 2002, detiene il riconoscimento della Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Il Grande Oriente d’Italia, che l’aveva perso nel 1993, non l’ha più riavuto».

Veniamo all’indagine, che corre parallela a quella di Reggio Calabria, di Palermo, nella quale, nel processo sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra i pm sono tornati a rievocare il ruolo della massoneria deviata, della stessa P2, in quel vero o presunto disegno che voleva portare a un nuovo ordine politico, compresa l’eventuale secessione o frammentazione dell’Italia in macroregioni: cosa sa di quanto avvenne in quel periodo ad opera della massoneria deviata in quel progetto folle e allo stesso tempo ambizioso?

«I magistrati che indagano sulla trattativa fra Stato e Cosa nostra hanno deciso di riascoltarmi poiché ritengono che oggi in Italia si stia ripresentando la stessa situazione del ’92, che io ho vissuto in prima linea. Chiedendomi di spiegare ulteriormente quegli eventi, essi pensano, per analogia, di comprendere meglio ciò che sta accadendo ai nostri giorni. Io condivido questa loro impostazione dell’indagine. Sulla base delle mie esperienze personali e delle conseguenze che traggo induttivamente dagli eventi, ritengo che oggi la situazione sia più grave di allora, poiché le deviazioni che in quel tempo esistevano non sono state corrette, sia in massoneria sia nelle istituzioni statali. Per quanto riguarda il presunto progetto della P2 per creare un nuovo ordine politico in Italia, vorrei dire quel che penso. Nella P2, contrariamente a quel che generalmente si pensa, non vi è stato il progetto di dare un nuovo assetto allo Stato italiano, semplicemente perché non rientrava nei suoi interessi fondamentali. Gelli, tuttavia, si era impegnato con il governo statunitense a fare tutto il possibile per impedire che in Italia si realizzasse il sorpasso dei comunisti. Per raggiungere questo scopo, esso aveva dato a Gelli aiuti di ogni tipo, che lo avevano trasformato in un uomo con un potere così grande che nessun altro aveva mai avuto prima. Si aspettavano da lui un progetto, da attuare in tempi brevi, che li facesse dormire con sogni tranquilli. Pressato dai vertici del governo statunitense, Gelli ha improvvisato quel progetto di cui ancora si parla ma sempre più a sproposito. Quando non si riesce a comprendere le ragioni che guidano il mondo in cui si vive, si scambiano di sovente le lucciole per lanterne: così Gelli appare come il Grande vecchio, che tutto vede e tutto comanda. Se si avesse la volontà e la pazienza di entrare dentro questi eventi per conoscerli nella loro realtà, si vedrebbe che essi poggiano sulla palude o sul nulla».

A quanto le risulta c’è il rischio concreto che si riproponga quella oscura stagione con la presenza, ancora una volta di ambienti deviati della massoneria?

«Il rischio c’è ed è grande, ma non solo per l’intervento della massoneria deviata (da intendere però nel senso che ho già spiegato)».

C’è il rischio concreto che la vita di pm e giudici, da Palermo a Caltanissetta, da Catania a Reggio Calabria (solo per citare alcune procure che stanno lavorando sulla stagione delle strage mafiose) sia legata alle decisioni prese da sistemi criminali nei quali le cosche e i clan di mafia sono una quota parte e il resto è composto da pezzi infedeli dello Stato e pezzi deviati della massoneria?

Il rischio che corrono i difensori della legalità dello Stato è grande, non soltanto per le decisioni prese da clan della mafia (il significato di questo termine esce sempre più dal contesto storico e tradizionale per diventare uno “stile di vita”, che ispira i balordi che stanno occupando i luoghi del potere delle nostre città), dalla massoneria deviata (nel senso da me specificato), da rappresentanti infedeli dello Stato. Ma anche per il manifestarsi di un fenomeno sociale nuovo, spesso sottovalutato ma gravido di tremende conseguenze. Lo scenario “classico” della criminalità è stato messo in crisi da una dilagante “anarchia” che si manifesta in tutti i livelli della società italiana. Ne sono coinvolti non solo gli operatori del denaro ma anche i rappresentanti della cultura. Se ci chiediamo dove sta andando il nostro paese, la risposta non può che essere una e soltanto una: verso l’anarchia. Le regole e le leggi che governano la società italiana vengono sempre più disattese. Si sta scivolando, lentamente ma inarrestabilmente, verso lo stato sociale di guerra di tutti contro tutti, descritto dal filosofo Thomas Hobbes nel suo Leviatano. E’ proprio questa dilagante anarchia che fa emergere e dà potere a un livello di criminalità “anonima” che sta devastando la nostra società. Essa sfugge a qualsiasi definizione poiché non ha né regole né un’organizzazione gerarchica del potere. E’ come una nebbia che sale verso l’alto e offusca tutto. Se lo Stato non interverrà per reprimere questa nascente anarchia, rischiamo di vivere in una società senza quei valori che hanno consentito la nascita e lo sviluppo delle civiltà millenarie. Paradossalmente, in quel tempo sempre più prossimo, le organizzazioni criminali che oggi ci preoccupano (mafia, ‘ndrangheta, camorra, massoneria deviata ecc.) potrebbero apparire come aspetti negativi di un sistema sociale tutto sommato vivibile. E forse ne avremo nostalgia. Eppure non mancano, nel nostro Paese, autorevoli personalità che preconizzano l’avvento del tiranno. Se avessero letto Aristotele e analizzato il percorso storico dell’umanità, avrebbero compreso che il tiranno (leviatano) interviene nella società quando lo stato di anarchia è al massimo della sua potenza distruttiva, per riportare l’ordine con tutti i mezzi possibili».

Quanto è alto il rischio di inquinamento delle prove  e di delegittimazione di quanti (pm, giudici, associazioni, giornalisti) sono alla ricerca della verità senza guardare in faccia nessuno?

«Coloro che ricercano la verità, anche mettendo a rischio la propria vita, sono stati da sempre considerati idealisti da non prendere in considerazione o persone pericolose da tenere sotto controllo o da eliminare. Nel tempo in cui viviamo, la seconda possibilità è quella più probabile. Se non vi fosse il loro impegno, la nebbia dell’anarchia sarebbe ancora più impenetrabile. Il loro impegno, tuttavia, dovrebbe essere sorretto dalle istituzioni statali per renderlo più sicuro ed efficace».

Non sarà che quel “Patto del Nazareno”, che secondo il mio ex direttore Ferruccio de Bortoli, puzza di massoneria stantia, è un atto (mi dica eventualmente Lei quale) di una lunga guerra tra obbedienze massoniche per assumere (o dividersi) quel (poco) potere rimasto oggi in Italia?

«La massoneria non ha nulla a che fare con il Patto del Nazareno, che è semplicemente un accordo per far sopravvivere un sistema politico ormai in decomposizione. Come italiano non posso che sperare nel successo di colui che oggi guida il paese. Come conoscitore delle arcane cose, vedo le trappole in cui cercheranno di farlo cadere».

Una domanda finale: ma se la Massoneria è Fratellanza Universale, perché siete così divisi, parcellizzati e, spesso e volentieri, l’un contro l’altro armati?

«La massoneria non è più oggi una Fratellanza Universale. Lo è stata quando in Inghilterra c’era solo la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, in Francia solo Le Grand Orient de France, in Italia solo Il Grande Oriente d’Italia. Oggi, in tutti i Paesi ove esiste la massoneria, sono numerose le Obbedienze massoniche. In Italia, si pensa che siano più di ottanta. Continuano a nascere come funghi in un’estate piovosa. In Romania, nel 1993, ho fondato la Gran Loggia Nazionale di Romania: dopo venti anni, le Obbedienze massoniche sono più di dieci, senza contare un numero imprecisato di Riti e Ordini. Tutte queste massonerie si combattono senza esclusione di colpi (legali e non). Al riguardo, è stata coniata la frase, per intendere i massoni: “Fratelli coltelli”. Ribadisco e continuo a ribadire: questa non è massoneria!!!»

La via femminile della massoneria italiana. Il tema è stato al centro di una conferenza organizzata per il 70° della Loggia Savonarola, scrive Marcello Celeghini su “Estense”. Anche la massoneria italiana scopre una sua ‘via’ femminile. Il rapporto tra il mondo massonico e quello femminile è stato al centro, venerdì pomeriggio alla Sala della Musica in San Paolo, di una conferenza dal titolo “Massoneria del Grande Oriente e Ordine della Stella d’Oriente: storia, finalità e prospettive”, organizzata dalla loggia ferrarese ‘Gerolamo Savonarola’ in occasione delle celebrazioni per il 70° anniversario dalla sua fondazione (1945-2015), a cui hanno partecipato in qualità di relatori Elda Levi, Worthy Grand Matron dell’Ordine della Stella d’Oriente, e Claudio Bonvecchio, docente all’Università dell’Insubria e Grande Oratore del Grande Oriente d’Italia, moderati da Stefano Mandrioli venerabile della Loggia Savonarola. Il tema per il mondo massonico è molto spinoso poiché, secondo quanto stabilito dal padre della massoneria James Anderson nel Settecento, le donne non possono entrare nelle varie comunità massoniche anche se, negli anni, sono state diverse le associazioni massoniche femminili, più o meno riconosciute, che si sono sviluppate. Tra queste, l’unica riconosciuta dalla massoneria regolare, è l’Ordine della Stella d’Oriente che accoglie sia uomini sia donne insieme che testimoniano nella vita un impegno di ricerca iniziatica per un rinnovamento personale ed interiore. L’Ordine però, nato negli Stati Uniti d’America nel 1876, consente l’ingresso solo ai maestri massoni e a donne a loro legate da stretti vincoli di parentela. Le cinque punte della stella simbolo dell’Ordine indicano i cinque ‘ruoli’ che la donna si trova ad assumere nel corso della propria vita e che le permettono di fare parte della massoneria (figlia, sorella, moglie, madre e vedova). Un dibattito, quello sull’impossibilità per le donne di accedere al mondo massonico se non tramite strette parentele maschili, che sta facendo discutere ormai da parecchi anni le comunità massoniche europee. “Ogni giorno oltre cinquanta quotidiani italiani – rivela il Grande Oratore Claudio Bonvecchio – ci riservano attenzione sia per criticarci che per scoprirci. Per questo motivo non dobbiamo astrarci dalla nostra epoca, ma ribadire con forza i nostri valori fondativi basati sulla libertà, la tolleranza, l’uguaglianza e la fratellanza. Sull’apertura al mondo femminile, la Massoneria non deve restare indietro in un tempo in cui anche la più chiusa delle istituzioni, la Chiesa Cattolica, affronta questo tema. Il mio parere personale è quello di creare fratellanze femminili in piena comunione con le fratellanze maschili esistenti ma ben distinte da queste. La distinzione è necessaria per una diversità di genere esistente a livello psicologico e nella percezione della realtà”. “La mia esperienza all’interno dell’Ordine – racconta Elda Levi – è iniziata trent’anni fa. Di solito il percorso iniziatico dura tre anni. Una donna ha il compito, all’interno della fratellanza massonica, di studiare e indagare l’emozionalità umana in tutte le sue sfaccettature. Mi immagino il cielo notturno come un soffitto, ornato da qualche ragazzina romantica con stelle fosforescenti, e una è di sicuro la sua preferita, quella a cui rivolge lo sguardo sognante prima di addormentarsi”.

La via femminile alla massoneria. Sarà l’oggetto del prossimo incontro pubblico alla Sala della Musica con cui la Loggia Savonarola di Ferrara sta celebrando il suo 70° Anniversario, continua la redazione di “Estense”. Continuano gli appuntamenti pubblici con i quali la Loggia “Girolamo Savonarola” di Ferrara si propone di celebrare il suo 70° anniversario di fondazione (1945-2015). La loggia estense, una delle più antiche d’Italia e di gran lunga la più longeva fra quelle tuttora in attività in provincia di Ferrara, si propone con queste iniziative di sintonizzare la propria ricorrenza con la Storia e l’Attualità della società in cui opera da così tanto tempo. Così dopo aver toccato nella precedente conferenza (novembre 2014) il tema della guerra e della pace (“Massoneria e Prima Guerra Mondiale”), per il prossimo incontro, previsto Sabato 24 Gennaio alla Sala della Musica di Ferrara in via Boccaleone 19 alle ore 16.00, la Loggia Savonarola ha deciso di affrontare pubblicamente il rapporto fra la stessa Massoneria e le Donne, e più in particolare “Massoneria del Grande Oriente e Ordine della Stella d’Oriente: storia, finalità e prospettive”. Da notare che quando la Loggia Savonarola venne fondata (nel Settembre del 1945) le donna in Italia ancora non avevano diritto di voto. A quei tempi ancora poche donne avevano la patente di guida, e solo qualche decennio dopo ci sarebbe stata la prima donna sindaco (guarda caso a Ferrara, Luisa Balboni dal 1950 al ‘58), le prime donne vigilesse (ancora a Ferrara), la prima donna conduttrice di autobus (sempre a Ferrara), la prima donna magistrato (ancora una volta una ferrarese), e così via, fino alle donne soldato, alle donne astronauta, ed a tante altre donne in tutti gli altri mestieri e professioni fino ad allora praticati solo da uomini… Il tempo dunque ha prodotto grandi trasformazioni nel contesto della donna nella nostra società. Ma non nella massoneria che continua ad escludere la donna dai propri templi, con la sola eccezione delle “Stelle d’Oriente”, che anche a Ferrara sono presenti da alcuni anni con un proprio Capitolo intestato alla divinità egizia “Osiride”. L’argomento sarà introdotto dall’avvocato Giangiacomo Pezzano, presidente del Collegio dei Maestri Venerabili dell’Emilia Romagna. Interverranno: Elda Levi, Worthy Grand Matron del Gran Capitolo d’Italia, Ordine della Stella d’Oriente; ed il filosofo Claudio Bonvecchio, docente all’Università dell’Insubria e Grande Oratore del Grande Oriente d’Italia. Modererà il dibattito il dottor Stefano Mandrioli, membro della Loggia Savonarola (di cui è stato anche Maestro Venerabile) e Gran Rappresentante dello stesso Grande Oriente. Come si sa le maggiori famiglie massoniche mondiali, fra queste anche il Grande Oriente d’Italia, per tradizionale secolare, forse millenaria, non ammettono le donne nelle proprie logge ed ai propri riti. L’iniziazione femminile è da sempre esclusa. Per varie ragioni: la principale motivazione per tale interdetto viene fatta risalire alle origini “di mestiere” della massoneria, intesa come fratellanza di muratori, scultori, carpentieri, ecc. (i costruttori di cattedrali) da cui appunto deriva la storica definizione di “liberi muratori” con cui si appellano ancora oggi tutti i massoni. L’altra più reiterata giustificazione consiste invece nella “Solarità” della ritualità massonica, prettamente maschile, ritualità che nulla avrebbe a che vedere con gli aspetti “Lunari” attribuiti alla sfera femminile dell’esistenza. Più approfonditamente c’è chi rileva come i riti ed i miti della massoneria maschile siano essenzialmente rivolti al concetto della Morte, ed alle modalità spirituali per vincerne la paura e “conquistarla”, la Morte, anziché farsene sopraffare. In tutto questo non affiorerebbe però alcun aspetto fondante riguardante principi e archetipi tipici della femminilità, quali la Fecondazione e la Fertilità, in altre parole il rovescio della Morte: la Vita. Questa, beninteso, è solo una delle tante controverse tesi su cui la Massoneria dibatte da secoli, su se stessa, sul ruolo della donna nei confronti della Tradizione Iniziatica, e più in generale nella società. Una questione per molti versi speculare a quella del Sacerdozio Femminile in campo Cattolico. Nonostante il perdurare di questa posizione di esclusione della donna da parte della Massoneria ufficiale (ma non di tutta la Massoneria: nel mondo infatti vi sono famiglie massoniche che accettano senza problemi le donne al proprio interno, come ad esempio la Massoneria italiana di Piazza del Gesù, ma che per questo non vengono più riconosciute dalla Loggia Madre d’Inghilterra e non possono più essere definite “massoneria regolare”), nonostante questo, dicevamo, qualche breccia si è aperta da tempo anche per l’iniziazione femminile. La più importante, e l’unica attualmente riconosciuta dai Grandi Orienti “regolari”, è quella delle “Stelle d’Oriente”, ordine iniziatico affine alla massoneria di cui fanno parte “fratelli” e “sorelle”, queste ultime legate da vincoli di parentela a massoni regolari. In pratica possono far parte delle Stelle d’Oriente solo mogli, figlie, sorelle ed altre parenti di massoni maschi. Un vincolo che qualcuno vorrebbe allargare. L’Ordine delle Stelle d’Oriente è nato il secolo scorso negli Stati Uniti, principalmente ad opera di Robert Morris, Gran Maestro della Loggia del Kentucky, raccogliendo il ricordo e la tradizione delle cosiddette “Logge d’Adozione” nate secoli prima in Europa e nella stessa America al seguito di logge militari francesi che consentivano alle consorti degli ufficiali e ad altre donne d’elezione del luogo di riunirsi in forma rituale sotto la direzione di un Maestro Massone. A introdurre le Stelle d’Oriente in Italia nell’ultimo dopoguerra è stato un altro esercito, non più quello francese, bensì quello quello americano. I primi nuclei di “Stelle” italiane si formarono infatti in località vicine a grandi basi militari statunitensi. Il resto è storia che ha portato questo movimento con un intenso cammino fino al presente. Un presente che ha visto recentemente la nascita del Gran Capitolo d’Italia, più autonomo e indipendente. Di tutto questo parlerà ovviamente, nel prossimo incontro di Ferrara, la Whorty Grand Matron, massima autorità, delle Stelle d’Oriente Italiane, Elda Levi. Accanto all’importante storia delle Stelle d’Oriente, in Italia, c’è da dire, esistono, già da prima della Rivoluzione Francese, diversi altri esempi di approccio femminile alla Massoneria: ci fu infatti l’esperienza delle “Giardiniere” (corrispettivo femminile dei Carbonari risorgimentali), seguite dalla società delle “Mopse” creata dalla Contessa Caracciolo sul finire dell’800, per giungere infine ad una vera e propria Gran Loggia Femminile d’Italia, retta a lungo da Marisa e Franca Bettoja, madre e figlia, rispettivamente suocera e moglie di Ugo Tognazzi. Prima dell’attuale Capitolo Osiride delle Stelle d’Oriente, si ha inoltre notizia, a Ferrara, dell’esistenza di una Loggia Femminile intitolata ad “Anita Garibaldi” negli anni immediatamente successivi all’Unità Nazionale, e di un tentativo (generoso, ma infruttuoso) di creare un nucleo locale di Stelle d’Oriente già fra la fine degli Anni Cinquanta ed i primi Anni Sessanta, ad opera di membri della stessa Loggia Savonarola, che oggi dedica ancora una volta alle proprie “Sorelle” un’importante momento del suo 70ennale. E lo fa con pubblicamente, con la massima trasparenza ed onestà intellettuale.

IL FENOMENO FEMEN.

Femen a Roma, atti osceni in piazza San Pietro: scandalo delle Femen, scrive “Contro Campus”. Non passano mai inosservate: sono il movimento delle Femen che continuano a far sentire la propria voce e non solo. E’ infatti difficile non venire la corrente dei gesti compiuti da questo movimento. Come è già spesso accaduto, anche stavolta la battaglia in questione è contro la Chiesa, in particolare contro la figura del Papa. Già il 19 dicembre 2013  scorso una Femen aveva provato a recarsi al Vaticano mostrandosi a seno nudo e con una sola parola dipinta in rosso sul proprio corpo: abortion. In quel caso, la protesta non andò totalmente a buon fine in quanto venne fermata dalla polizia ancor prima di riuscire a recarsi in piazza. Tuttavia, riuscì comunque a creare una certa agitazione e a far sì che i media parlassero dell’avvenimento. Il 14 novembre 2014, presso la basilica di San Pietro, il movimento delle Femen torna a manifestare al fine di ribadire il loro pensiero, ove mai non fosse risultato ancora abbastanza chiaro. Per esprimere la loro volontà di vivere in uno Stato realmente laico – dove gli abitanti siano realmente tutti uguali tra loro e dove non vi siano gerarchie o uguaglianze imposte dalla Chiesa. Tre Femen hanno deciso di recarsi in piazza San Pietro, denudarsi e mostrare innanzitutto le scritte nere dipinte sui propri corpi. Davanti, era possibile leggere la scritta Pope is not a politician – il Papa non è un politico – mentre sulla schiena Keep it inside: tienilo dentro, anteprima del gesto compiuto successivamente che ha generato ulteriore senso di indignazione e lo scandalo vero e proprio. Infatti a quel punto le Femen hanno iniziato a mimare autoerotismo e rapporti sessuali servendosi dei suddetti crocifissi. Immediato è stato l’intervento delle forze dell’ordine che hanno provveduto a portare le tre Femen in commissariato di Borgo di Roma. Ancora una volta l’opinione pubblica è divisa tra chi sostiene il pensiero delle Femen, chi contrario a priori e chi, pur condividendo le loro idee creda che siano stati superati certi limiti.

Il fenomeno Femen: non sarebbero militanti, ma ragazze pagate per fare spettacolo, scrive Renato Berio su “Il Secolo D’Italia”. Quanto vale il logo FF, il Fenomeno Femen, lo spettacolo delle attiviste dei blitz a seno nudo contro leader religiosi e capi di Stato (ultime performance italiane contro Ratzinger e contro Berlusconi)? Mediaticamente il successo è assicurato ma siamo davvero dinanzi ad un movimento che ha a cuore la condizione delle donne? Secondo il Venerdì di Repubblica le “sextremiste” di Femen sono davvero l’ultima provocante faccia del femminismo 2.0. In Italia non hanno ancora molto seguito, anzi sono tenute a distanza dalle veterane del femminismo che, del resto, non potevano prima applaudire la crociata di Lorella Zanardo contro i nudi in tv e poi benedire il topless delle Femen. Il Foglio ci informa che Femen è diventato “il club femminista più influente d’Europa, almeno sul piano dell’immagine. La loro società ha una pagina Facebook con migliaia di contatti, un account su twitter, un sito internet in tre lingue diverse: lì si trovano filmati, interviste, magliette (25 euro), colori per il corpo (un kit 70 euro), felpe, tazze e cappelli (dai 20 ai 60 euro)”. Un marchio, dunque, più che un’ideologia. Che dietro l’organizzazione girino soldi a palate, del resto, lo si sapeva. La notizia era rimbalzata anche in Italia tramite i social network italiani dopo che una giornalista ucraina si era infiltrata nel movimento e aveva rivelato che le attiviste di Femen sono pagate mille euro al giorno e che quando vanno in “missione” non si fanno mancare nulla. Chi paga? La giornalista ipotizza rapporti con due imprenditori tedeschi, Helmut Geier e Beate Schober e con un uomo d’affari americano, Jed Sunden. Secondo il quotidiano francese Le Matin a tirare i fili delle attiviste di Femen ci sarebbe ancora un uomo, Viktor Sviatski, un creativo trentenne che usa le nuove suffragette a seno nudo per diffondere e rendere più solido il marchio Femen, magari per farne un partito, o meglio per fare pressione sulla politica e sugli organi di informazione. La leader ucraina del movimento, Anna Hutsol, che vive ormai tra Kiev e Parigi dove le Femen sono trattate come star, è un’esperta dei meccanismi mediatici che amplificano un messaggio veicolato con parole-choc. Già, ma per conto di chi viene imbastita la messinscena?

Femen, giornalista infiltrata: "Finanziatori dietro al movimento, ricevono 1.000 dollari al mese a testa", scrive “Libero Quotidiano”. Una giornalista di un canale televisivo ucraino è riuscita ad infiltrarsi nel movimento femminista Femen, e ha fatto delle scoperte che, se confermate, getterebbero nello scandalo il gruppo rivoluzionario del gentil sesso. Le scoperte vengono riportate dal sito La voce della Russia. Per settimane la giornalista ucraina è stata addestrata su come avere un comportamento aggressivo e attrarre l'attenzione dei giornalisti. L'inviata sotto copertura è poi entrata a far parte dell'organizzazione nei panni di una convinta sostenitrice delle idee Femen, partecipando personalmente alle azioni di protesta in topless, registrando tutto con una telecamera nascosta.

L'inchiesta - Il debutto in topless della giornalista è avvenuto a Parigi dove Femen ha recentemente aperto un nuovo ufficio di rappresentanza. Alcune attiviste hanno organizzato una manifestazione nel loro stile mostrando il seno davanti al centro culturale islamico parigino. La giornalista era terrorizzata, respirava l’odio della gente che sentiva derisa la propria fede: "L'azione dimostrativa si sta svolgendo presso un centro culturale islamico e riteniamo che la folla sia pronta ad assalirci, ci salvano solo le telecamere dei giornalisti".

Attiviste finanziate - Durante il periodo sotto copertura, la giornalista ha scoperto che dietro gli ideali di emancipazione femminile, in realtà, ci sono finanziatori dell’Europa e degli Stati Uniti, che pagherebbero le ragazze almeno con 1000 dollari al mese, quasi tre volte il salario medio ucraino. La ragazza, per il viaggio, non ha dovuto sborsare un euro: il viaggio a Parigi è stato, infatti, interamente pagato dallo stesso movimento Femen. I biglietti d’aereo, le camere d'albergo, il taxi e i pasti erano stati quantificati in 1.000 euro al giorno; a parte, ma sempre rimborsate, anche le spese per gli estetisti e la cosmetica.

Chi è lo sponsor? - Chi finanzia questo movimento e quale sia lo sponsor che pubblicizzano le ragazze mostrando il loro seno, rimane avvolto nel mistero. Ma la giornalista ucraina suggerisce che alcune note persone si sono incontrate con le leader del movimento. Si tratta del miliardario tedesco Helmut Geier, l’imprenditrice tedesca Beate Schober e l’uomo d'affari americano Jed Sunden. L’ultimo sponsor delle Femen, ipotizza la giornalista, forse è Wikipedia.

UN APPROFONDIMENTO, ANCHE LETTERARIO, SULLA MASSONERIA.

Massoneria, il libro shock di Gioele Magaldi: "Società a responsabilità illimitata", scrive “Libero Quotidiano”. Sarà presentato domani a Roma il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, "Massoni società a responsabilità illimitata" a cura di Gioele Magaldi. L'opera, che ha tutte le carte in regola per figurare come il manoscritto più sconcertante, inaspettato e comunque disorientate dell'anno, esce con il seguente sottotitolo: "La scoperta delle Ur-Lodges", come recita il font bianco su copertina violacea edita da Chiarelettere Editore. Ma cosa sono le Ur-lodges? "Superlogge sovranazionali che vantano l'affiliazione di presidenti, banchieri, industriali" in cui "nessuno sfugge a questi cenacoli" a dirla con Il Fatto quotidiano di oggi che, proprio sul cartaceo di questa mattina, mercoledì 19 novembre, analizza l'opera di Magaldi, presentato dal quotidiano di Antonio Padellaro come "libero muratore di matrice progressista". "Italiani bambinoni deficienti" - Ad essere particolarmente interessante è proprio il capitolo finale del libro in cui è presente un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni di queste fantomatiche "Ur-Lodges". Uno di loro, racconta: "Per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi".

La lista - Mario Draghi, governatore della Bce, sarebbe, a sentire quel che dice Magaldi "affiliato a ben cinque superlogge." Poi nella parte finale del manoscritto,  l'autore snocciola, l'elenco degli italiani inseriti nelle Ur-Lodges, in cui, oltre al già citato Mario Draghi, figurerebbero "Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago".

"Massoni ambivalenti su Renzi. Il vero potere? Napolitano-Draghi" è la presentazione del libro su “Affari Italiani”.

Gioele Magaldi (14 luglio 1971), storico, politologo e filosofo, ex Maestro Venerabile della loggia "Monte Sion di Roma" (Goi), già membro della Ur-Lodge "Thomas Paine", è Gran Maestro del movimento massonico "Grande Oriente Democratico" (God). Fautore di un impegno solare e progressista della massoneria, ha dato vita anche a"Democrazia Radical Popolare" (Drp) e al Movimento Roosevelt (Mr). Tra le sue pubblicazioni: UT PHILOSOPHIA POESIS (Pericle Tangerine) e ALCHIMIA. UN PROBLEMA STORIOGRAFICO ED ERMENEUTICO (Mimesis). Laura Maragnani, giornalista ("Europeo","Panorama"), ha scritto LE RAGAllE DI BENIN CITY (Melampo), ECCE OMO (Rizzoli), I RAGAZZI DEL '76 (Utet).

ANTEPRIMA/ Merkel, Putin, Obama,Xi Jimping, Lagarde, Padoan, Gandhi, Reagan, Mandela, Jfk, Papa Giovanni, Agnelli, Clinton e Blair. Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico rivela le liste delle segretissime Ur-Lodges massoniche. Sconvolgente la teoria sull'Isis: "Il leader Al-Baghdadi liberato dagli Usa dopo essere diventato massone. La jihad è eterodiretta per portare un nuovo Bush alla Casa Bianca e a infinite guerre. E sull'11/9..."


LE TEORIE SU RENZI/ Magaldi: "Il premier vuole entrare nella superloggia conservatrice Three Eyes, la stessa dei veri potenti Napolitano e Draghi. Ma i massoni verso di lui sono ambivalenti e non si fidano della sua ambizione. L'editoriale di De Bortoli? Scritto su richiesta di Draghi..."


Da D'Alema a Passera, da Arpe a Marcegaglia, ecco l'elenco degli italiani nelle Ur-Lodges.....Esce con Chiarelettere il libro "Massoni" di Gioele Magaldi (Grande Oriente Democratico). Un libro che sicuramente farà discutere. Sedetevi e fate un bel respiro: nel libro trovate storia, nomi e obiettivi dei massoni al potere in Italia e nel mondo, raccontati da autorevolissimi insider del network massonico internazionale, che per la prima volta aprono gli archivi riservati delle proprie superlogge (Ur-Lodges). Le liste che leggerete sono sconvolgenti. Una battaglia per la democrazia. Tra le Ur-Lodges neoaristocratiche, che vogliono restaurare il potere degli oligarchi, e quelle progressiste, fedeli al motto "Liberté Égalité Fraternité", è in corso una guerra feroce. L'ultimo atto è già iniziato, come rivela Magaldi con la rottura della pax massonica stilata nel 1981: il patto "United freemasons for globalization". Una rilettura esplosiva del Novecento nei suoi momenti più drammatici - la guerra fredda, gli omicidi dei fratelli Kennedy e di M. L. King, gli attentati a Reagan e a Wojtyla - arrivando fino al massacro dell'11 settembre 2001 e all'avanzata dell'Isis. "Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges" è il primo volume di una trilogia che offre un'inedita radiografia del potere.

LE LISTE - Le liste di presunti massoni fatte da Magaldi nel libro è assolutamente sconvolgente. Si parte dal massone ante litteram Giordano Bruno per arrivare a Napolitano, Draghi, Berlusconi, Hollande, Merkel, Putin, Gandhi, Papa Giovanni XXIII, Mozart, Mazzini, Garibaldi, Obama, Chaplin, Lagarde, Blair, Padoan, Roosevelt e tantissimi altri. Già, perché, afferma Magaldi, "se non sei massone non hai alcuna chance di arrivare al vero potere". Tra i nomi fatti da Magaldi c'è anche Silvio Berlusconi, descritto come "un attento cultore di astrologia, uno studioso di esoterismo egizio,  un frequentatore del milieu massonico internazionale con strette relazioni negli ambienti latomistici angloamericani più conservatori". Secondo Magaldi il pallino in mano, per quanto riguarda l'Italia, ce l'hanno in mano Napolitano e Draghi, che per Magaldi sarebbero massoni, apprezzati e influenti anche a livello internazionale. Discorso diverso per Renzi. Magaldi descrive Renzi come "un aspirante massone elitario" al quale "ancor non è stato accordato l'accesso a una almeno delle superlogge sovranazionali". L'obiettivo di Renzi, secondo Magaldi, sarebbe quello di entrare "non presso il Grande Oriente d'Italia o presso qualche altra comunione massonica ordinaria, su base nazionale italiana o estera. No, il premier italiano punta molto più in alto. Egli vorrebbe essere iniziato presso la Ur-Lodge Three Eyes, la medesima superloggia cui sin dal 1978 fu affiliato Giorgio Napolitano. La stessa superloggia cui è affiliato Mario Draghi". (---) "Il problema è che la sua domanda di affiliazione non è stata ancora accolta perché i vari Dragji, Napolitano, Merkel, Weidmann, Schauble, Trichet, Rutte, Sutherland, eccetera non si fidano di Renzi waanabe massone. Considerano Renzi un narcisista, uno spregiudicato e indisciplinato arrivista. Figuriamoci quanto poco venga apprezzato da questi ambienti l'asse Berlusconi-Renzi, siglato dal Patto del Nazareno. Perciò l'atteggiamento dell'establishment massonico neoaristocratico verso l'attuale premier e segretario Pd è ambivalente. Da un lato ne apprezzano le politiche sostanzialmente prone al paradigma dell'austerità, dall'altro ne temono l'indisciplina e i potenziali voltafaccia", considerandolo smodatamente ambizioso e capace di, persino, se gli convenisse, di passare un giorno armi e bagagli con il network massonico progressista". In quest'ottica, secondo Magaldi, va letto il celebre editoriale del direttore del Corriere della Sera De Bortoli su Renzi e i poteri massonici, scritto proprio in concomitanza della visita newyorkese di Renzi.  Secondo Magaldi l'editoriale aveva il significato di dire al premier: "Caro Renzi, riallineati ai desiderata del Venerabilissimo Maestro Mario Draghi, altrimenti comincio a sputtanarti sul versante massoneria, sia con riferimento ai tuoi inciuci con Berlusconi, sia, se servirà sparando più in alto".

LE UR-LODGES - Magaldi dedica il suo libro alle cosiddette superlogge, definite "i cenacoli massonici protagonisti della storia contemporanea, gruppi e soggetti a orientamento e vocazione strutturalmente sovranazionale e cosmopolita che hanno abbondantemente surclassato l'influenza ormai modesta della massoneria ordinaria". Insomma, coloro che avrebbero in mano il potere vero e il destino del mondo. Magaldi elenca le diverse superlogge, dalla Edmond Burke alla Joseph de Maistre alla White Eagle alla Thomas Paine. E Magaldi sostiene che presso queste Ur-Lodges siano in atto "progetti di involuzione oligarchica, tecnocratica e antidemocratica", progetti che riguarderebbero "l'Italia, l'Europa e l'Occidente intero". Tra gli italiani nelle Ur-Lodges, ecco i nomi citati da Magaldi: mario Draghi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo d'Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passer,a Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio GRilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi invece avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago. Nessun paletto nella massoneria, né geografico né ideologico. Solo potere. Così Magaldi spiega come "l'ascesa di Mussolini o Hitler è avvenuta anche grazie allo spregiudicato sostegno e finanziamento del milieu massonico conservatore angloamericano". Allo stesso modo i conservatori facevano tranquillamente affari con i fratelli massoni sovietici. "Pezzi grossi come il segretario generale del Pcus Leonid Breznev e i suoi successori Andropov e Gorbacev, così come Eltsin, hanno chiesto e tranquillamente ottenuto l'affiliazione presso alcune Ur-Lodges". Secondo Magaldi c'è anche un'ala più democratica e progressista all'interno della massoneria. E il grande esperimento democratico, persino rivoluzionario, fu fatto all'inizio degli anni '60, con l'elezione del primo Papa, secondo Magaldi, massone e di Kennedy. Un progetto finito troppo presto. Un altro massone rivoluzionario sarebbe stato Luther King, anche lui ucciso pochi anni dopo. Da qui inizia quella che Magaldi definisce una "restaurazione neoaristocratica". Una restaurazione guidata dalla superloggia Three Eyes, "una creatura del ricchissimo industriale David Rockefeller, del futuro segretario di Stato Henry Kissinger e del futuro consigliere per la Sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski che nel 1978 sarà il principale artefice dell'elezione a pontefice del polacco Wojtyla". Molti anche gli affiliati italiani, secondo Magaldi, su tutti Gianni Agnelli ma anche Enrico Cuccia e il principe Borghese. E, secondo Magaldi, persino Napolitano... Eventi come l'attentato a Reagan e a Wojtyla rientrano, secondo Magaldi, in lotte di potere tra diverse superlogge. Secondo Magaldi sono sempre le superlogge, nel 1981 a dare il via alla globalizzazione con un progetto segretissimo e sovranazionale. Che conterrebbe questi punti salienti: "Sostegno al fratello Deng Xiaoping e alla sua politica di apertura della Cina al libero mercato, destrutturazione e liquidazione dell'Urss e del Patto di Varsavia grazie all'ascesa del fratello Gorbacev e alla rottamazikone dei vecchi titani del Pcus come il segretario generale Breznev e i suoi più stretti seguaci e successori. Accelerazione del progresso di integrazione economica e politica dell'Europa. Riunificazione tedesca, riconferma della sorella Margaret Thatcher e sabotaggio del Labour Party del Regno Unito, ritorno dell'Argentina alla democrazia, smantellamento progressivo dell'apartheid ein Sudafrica e scarcerazione del fratello Nelson Mandela. Alternanza ovunque, a cominciare dagli Usa, di governi conservatori e progressisti secondo una tabelle di marcia ben precisa. Ovviamente a un patto: che tutti abbiano il rigoroso gradimenti dei grembiulini che contano. Secondo Magaldi c'è una ulteriore superloggia, quella creata da Bush Sr. e altri compagni delle altre superlogge che si sono sentiti esclusi dal progetto United Freemasons e dalla rielezione di Clinton. "La chiamano Hathor Pentalpha", sostiene Magaldi, che la definisce una "loggia della vendetta e della sete di sangue", della quale avrebbe fatto parte persino Osama Bin Laden. Una superloggia che estenderebbe la sua inquietante ombra sugli eventi degli ultimi anni, a partire dall'11 settembre 2001. La risposta progressista è la nuova superloggia "Maat", della quale secondo Magaldi farebbe parte Obama. Ma ora il disegno delle superlogge è quello di far tornare al potere l'ala più conservatrice e guerrafondaia, secondo Magaldi. E per farlo si starebbe servendo della guerra santa dell'Isis. Magaldi sostiene che colui che proclamato il Califfato islamico farebbe parte della Hathor Pentalpha, vale a dire Al-Baghdadi, "imprigionato in Iraq nel 2004 come terrorista pericoloso e che subito dopo l'affiliazione a fil di spada viene liberato". Il tutto mentre viene "ufficiosamente lanciata la candidatura del fratello Jeb Bush alla Casa Bianca". "Da qui al 2016", sostiene Magaldi, grazie all'avanzata dell'Isis, prenderà il via una formidabile campagna planetaria per portare un un nuovo Buish a Washington. L'ennesimo Bush guerrafondaio. Avremo così nuove guerre infinite in Medio Oriente". E ora, scrive Magaldi, resta da capire come pensano di controbattere a questa minaccia i fratelli massoni progressisti...

LEGGI IN ANTEPRIMA LE DEDICHE DI GIOELE MAGALDI CON LE LISTE DEI NOMI (per gentile concessione di Chiarelettere). L'intera trilogia di Massoni. Società a responsabilità illimitata, di cui questo testo rappresenta il primo volume, è dedicata principalmente a Olympe de Gouges (1748-1793) ed Eleanor Roosevelt (1884-1962), le più grandi e coraggiose fra le sorelle muratrici che abbiano mai cinto il grembiuli no lato-mistico e operato con efficacia imperitura al bene e al progresso dell'umanità. Ma come non menzionare, fra le tantissime altre donne «libere e di buoni costumi»' che ispirarono le loro vite ai più nobili e alti principi massonici (pur nell'inevitabile presenza di alcune ombre, frammiste a maggioritarie luci), anche libere muratrici dello spessore di: Mary Wollstonecraft (1759-1797), Sophie de Condorcet (1764-1822), Harriet Taylor Mill (1807-1858), Cristina Trivulzio di Belgiojoso (1808-1871), Marie Adélalde Deraismes (1828-1894), Jesse White Mario (1832-1906), Lucretia Coffin Mott (1793-1880), Mathilde Franziska Anneke (1817-1884), Malwida von Meysenbug (1816-1903), Susan Brownell Anthony (1820-1906), Julia Ward Howe (1819-1910), Elizabeth Cady Stanton (1815-1902), Helena Petrovna Blavatsky (1831-1891), Annie Besant (1847-1933), Emmeline Pankhurst (1858-1928), Marie Curie (1867-1934), Martha Beatrice Webb (1858-1943), Virginia Woolf (1882-1941), Maria Montessori (1870-1952), Golda Meir (1898-1978), Alva Myrdal (1902-1986), Indira Gandhi (1917- 1984) . Una peculiare intestazione dedicatoria va rivolta al massone ante litteram e protomartire della moderna libera muratoria, Giordano Bruno (1548-1600). Peraltro, una dedica sentita deve per forza di cose andare ai seguenti fratelli liberi muratori (anch'essi latori di moltissime luci, in mezzo ad assai più trascurabili opacità): John Locke (1632-1704), Isaac Newton (1642-1727), Jean «John» Theo¬philus Desaguliers (1683-1744), Montesquieu (1689-1755), Voltaire (1694-1778), Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), Giacomo Casa¬nova (1725-1798), Cagliostro (1743-1795), Cesare Beccaria (1738-1794), Benjamin Franklin (1706-1790), George Washington (1732-1799), Thomas Jefferson (1743-1826), Thomas Paine (1737-1809), Nicolas de Condorcet (1743-1794), Honoré Gabriel Riqueti de Mirabeau (1749-1791), Philippe Egalité (1747-1793), Jacques Brissot (1754-1793), Camille Desmoulins (1760-1794), Jean-Baptiste de Lamarck (1744-1829), Gilbert du Motier de La Fayette (1757-1834), Jacques Laffitte (1767-1844), Francisco de Miranda (1750-1816), Napoleone Bonaparte (1769-1821), nella sua fase filorepubblicana, Rafael del Riego (1784-1823), George Gordon Byron (1788-1824), Alessandro Ypsilanti (1792-1828), José de San Martin (1778-1850), Simón Bolívar (1783-1830), Aleksandr Sergeevic Puskin (1799-1837), Samuel Gridley Howe (1801-1876), William Lloyd Garrison (1805-1879), Ralph Waldo Emerson (1803-1882), Thaddeus Stevens (1792-1868), Charles Sumner (1811-1874), Benjamin Wade (1800-1878), William Cullen Bryant (1794-1878), Carl Schurz (1829-1906), Aleksandr Ivanovic Herzen (1812-1870), Giuseppe Mazzini (1805-1872), John Stuart Mill (1806-1873), Giuseppe Garibaldi (1807-1882), Jules Michelet (1798¬1874), il Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865) della maturità, che, pur non abdicando alle migliori istanze del socialismo, comprese l'importanza del libero mercato, della proprietà privata e della società civile come altrettanti freni libertari e pluralisti alla potenziale invadenza autoritaria del potere statuale, Louis Blanc (1811-1882), Victor Hugo (1802-1885), Lajos Kossuth (1802-1894), Charles Darwin (1809-1882), José Martí (1853-1895), Lev Nicolàevic Tolstòj (1828-1910), Giosuè Carducci (1835-1907), Max Weber (1864-1920), John Dewey (1859-1952), Leonard Hobhouse (1864-1929), Sigmund Freud (1856-1939), Theodore Roosevelt (1858-1919), Thomas Woodrow Wilson (1856-1924), Eduard Bernstein (1850-1932), George Bernard Shaw (1856-1950), Mustafa Kemal Ataturk (1881-1938), Gerard Swope (1872-1957), John Maynard Keynes (1883-1946), Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), Mohandas Karamchand Gandhi detto «il Mahatma» (1869-1948), Aleksandr Fédorovic Kerenskij (1881-1970), George Orwell (1903-1950), Carl Gustav Jung (1875-1961), Albert Einstein (1879-1955), George Marshall (1880-1959), Clement Attlee (1883-1967), Harry Truman (1884-1972), William Beveridge (1879-1963), Charlie Chaplin (1889-1977), Angelo Giuseppe Roncalli divenuto Giovanni XXIII (1881-1963), Antonio de Curtis detto Totò (1898-1967), Martin Luther King (1929-1968), Meuccio Ruini (1877-1970), Federico Caffé (1914-1987), Karl Popper (1902-1994), Altiero Spinelli (1907-1986), Gunnar Myrdal (1898-1987), Paul Feyerabend (1924-1994), Harold Wilson (1916-1995), Thomas Kuhn (1922-1996), Robert William Komer (1922-2000), John Rawls (1921-2002), John Kenneth Galbraith (1908-2006), James Hillman (1926-2011), Arthur Schlesinger Jr. (1917-2007), senza dimenticare molti altri, di analoga sensibilità progressista — contestualmente al tempo in cui vissero —, che pure saranno menzionati nel corso della trilogia di Massoni. Una dedica speciale e a parte, al di là di tutte le incomprensioni, le delusioni e i litigi, al di là del tempo e dello spazio, va a Giuseppe «Pino» Abramo (1933-2014). Inoltre, una dedica importante va anche a Ivan Mosca (1915-2005), Franco Cuomo (1938-2007), Ted Kennedy (1932-2009), Antonio Giolitti (1915- 2010), Michele Raffi (1968-2013), Rosario «Rino» Morbegno (1930-2013), Carlo Maria Martini (1927-2012), Ernest Borgnine (1917-2012), Rita Levi Montalcini (1909-2012), Hugo Chavez (1954-2013), Nelson Mandela (1918-2013), Arnoldo Foà (1916-2014), Gabriel Garda Marquez (192-¬2014), Italo Libri, Enrico Simoni e a tutti quei massoni di ogni latitudine geografica passati di recente all'Oriente Eterno, i quali, con il loro pensiero e le loro azioni, hanno incarnato pregi e difetti, grandezze e miserie, fragilità e punti di forza della via iniziatica libero-muratoria.

Massoneria, libro shock del gran maestro Magaldi: “Ecco i potenti nelle logge”, scrivono Gianni Barbacetto e Fabrizio D'Esposito su Il Fatto Quotidiano. Centinaia di nomi, tra cui Napolitano, Obama, Draghi, Bin Laden e Papa Giovanni XXIII. Tutti "fratelli" secondo l'autore del volume presentato domani a Roma. Che però dice: "Le prove le esibiscono soltanto se me le chiede il giudice". Esistono i massoni e i supermassoni, le logge e le superlogge. Gioele Magaldi, quarantenne libero muratore di matrice progressista, ha consegnato all’editore Chiarelettere (che figura tra gli azionisti di questo giornale) un manoscritto sconcertante e che sarà presentato domani sera alle 21 a Roma, a Fandango Incontro. Il libro, anticipato ieri dal sito affaritaliani.it, è intitolato Massoni società a responsabilità illimitata, ma è nel sottotitolo la chiave di tutto: La scoperta delle Ur-Lodges. Magaldi, che anni fa ha fondato in Italia il Grande Oriente Democratico, in polemica con il Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica del nostro Paese, in 656 pagine apre ai profani un mondo segreto e invisibile: tutto quello che accade di importante e decisivo nel potere è da ricondurre a una cupola di superlogge sovranazionali, le Ur-Lodges, appunto, che vantano l’affiliazione di presidenti, banchieri, industriali. Non sfugge nessuno a questi cenacoli. Le Ur-Lodges citate sono 36 e si dividono tra progressiste e conservatrici e da loro dipendono le associazioni paramassoniche tipo la Trilateral Commission o il Bilderberg Group. Altra cosa infine sono le varie gran logge nazionali, ma queste nel racconto del libro occupano un ruolo marginalissimo. Tranne in un caso, quello della P2 del Venerabile Licio Gelli. I documenti che mancano sono a Londra, Parigi e New York. Prima però di addentrarci nelle rivelazioni clamorose di Massoni è d’obbligo precisare, come fa Laura Maragnani, giornalista di Panorama che ha collaborato con Magaldi e ha scritto una lunga prefazione, che l’autore non inserisce alcuna prova o documento a sostegno del suo libro, frutto di un lavoro durato quattro anni, nei quali ha consultato gli archivi di varie Ur-Lodges. Tuttavia, come scrive l’editore nella nota iniziale, in caso di “contestazioni” Magaldi si impegna a rendere pubblici gli atti segreti depositati in studi legali a Londra, Parigi e New York. Detto questo, andiamo al dunque non senza aver specificato che tra le superlogge progressiste la più antica e prestigiosa è la Thomas Paine (cui è stato iniziato lo stesso Magaldi) mentre tra le neoaristocratiche e oligarchiche, vero fulcro del volume, si segnalano la Edmund Burke, la Compass Star-Rose, la Leviathan, la Three Eyes, la White Eagle, la Hathor Pentalpha. Tutto il potere del mondo sarebbe contenuto in queste Ur-Lodges e finanche i vertici della fu Unione Sovietica, a partire da Lenin per terminare a Breznev, sarebbero stati superfratelli di una loggia conservatrice, la Joseph de Maistre, creata in Svizzera proprio da Lenin. Può sembrare una contraddizione, un paradosso, ma nella commedia delle apparenze e dei doppi e tripli giochi dei grembiulini può finire che il più grande rivoluzionario comunista della storia fondi un cenacolo in onore di un caposaldo del pensiero reazionario. In questo filone, secondo Magaldi, s’inserisce pure l’iniziazione alla Three Eyes, a lungo la più potente Ur-Lodges conservatrice, di Giorgio Napolitano, attuale presidente della Repubblica e per mezzo secolo esponente di punta della destra del Pci: “Tale affiliazione avvenne nello stesso anno il 1978, nel quale divenne apprendista muratore Silvio Berlusconi. E mentre Berlusconi venne iniziato a Roma in seno alla P2 guidata da Licio Gelli nel gennaio, Napolitano fu cooptato dalla prestigiosa Ur-Lodge sovranazionale denominata Three Architects o Three Eyes appunto nell’aprile del 1978, nel corso del suo primo viaggio negli Stati Uniti”. Altri affiliati: Papa Giovanni XXIII, Bin Laden e l’Isis, Martin Luther King e i Kennedy. C’è da aggiungere, dettaglio fondamentale, che nel libro di Magaldi la P2 gelliana è figlia dei progetti della stessa Three Eyes, quando dopo il ‘68 e il doppio assassinio di Martin Luther King e Robert Kennedy, le superlogge conservatrici vanno all’attacco con una strategia universale di destabilizzazione per favorire svolte autoritarie e un controllo più generale delle democrazie. “Il vero potere è massone”. E descritto nelle pagine di Magaldi spaventa e fa rizzare i capelli in testa. Dal fascismo al nazismo, dai colonnelli in Grecia alla tecnocrazia dell’Ue, tutto sarebbe venuto fuori dagli esperimenti di questi superlaboratori massonici, persino Giovanni XXIII (“il primo papa massone”), Osama bin Laden e il più recente fenomeno dell’Isis. In Italia, se abbiamo evitato tre colpi di Stato avallati da Kissinger lo dobbiamo a Schlesinger jr., massone progressista. L’elenco di tutti gli italiani attuali spiccano D’Alema, Passera e Padoan. Il capitolo finale è un colloquio tra Magaldi e altri confratelli collaboratori con quattro supermassoni delle Ur-Lodges. Racconta uno di loro, a proposito del patto unitario tra grembiulini per la globalizzazione: “Ma per far inghiottire simili riforme idiote e antipopolari alla cittadinanza, la devi spaventare come si fa con i bambini. Altrimenti gli italiani, se non fossero stati dei bambinoni deficienti, non avrebbero accolto con le fanfare i tre commissari dissimulati che abbiamo inviato loro in successione: il fratello Mario Monti, il parafratello Enrico Letta, l’aspirante fratello Matteo Renzi”. Per non parlare del “venerabilissimo” Mario Draghi, governatore della Bce, affiliato a ben cinque superlogge. Ecco l’elenco degli italiani nelle Ur-Lodges: Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Massimo D’Alema, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalco, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Enrico Tommaso Cucchiani, Alfredo Ambrosetti, Carlo Secchi, Emma Marcegaglia, Matteo Arpe, Vittorio Grilli, Giampaolo Di Paola, Federica Guidi. Berlusconi, invece, avrebbe creato una Ur-Lodge personale, la Loggia del Drago.

Bisognerà aspettare le Massoneria, che ruolo hanno le logge sovranazionali?Scrive Alessio Liberati, Magistrato, su “Il Fatto Quotidiano”. In questo periodo si fa un gran parlare (spesso con confusione) di massoneria, Trilateral Commission, Club Bilderberg e altri sodalizi più o meno riservati, cui sono stati “ricondotti” anche alcuni notissimi volti della nostra politica ed economia attuale. La realtà, però, potrebbe essere più complessa di quanto appaia dai titoli dei giornali e dai libri di inchiesta usciti negli ultimi anni ed una giusta analisi del back office dei cosiddetti poteri forti potrebbe rappresentare la giusta chiave di lettura degli episodi più rilevanti degli ultimi decenni: dall’11 settembre all’attentato al Papa, dalla moneta unica alla crisi attuale, dalle grandi alle piccole guerre degli ultimi anni, e così via. Questa almeno è la prospettiva con cui Gioele Magaldi, il maestro venerabile e fondatore del Grande Oriente Democratico – un movimento di pensiero che si ripromette di recuperare la morale e la finalità latomistica originaria – rilegge nel suo libro gli ultimi cento anni di storia, riscrivendo episodi ed eventi che hanno in qualche modo segnato la vita di tutti noi e riconducendoli in un unico filo conduttore. Una fonte attenta e interna a quel mondo, quasi inaccessibile ai più, e per questo motivo da vagliare con grande considerazione. Il volume è peraltro il primo di una serie che si ripromette di illustrare ancor meglio alcuni punti che vengono solo accennati. Sullo sfondo si muovono i grandi personaggi dell’era moderna e contemporanea (italiani e stranieri), di cui vengono rivelate appartenenze e obiettivi perseguiti. Una descrizione sorprendente e interessantissima, che a tratti lascia senza fiato e che aiuta a leggere con occhi diversi il mondo della massoneria internazionale – almeno per chi vuole credere alla analitica visione che ne è prospettata – nei confronti della quale alcuni sodalizi che possono sembrare tanto potenti quanto influenti appaiono ben piccola cosa, aprendo al contempo gli occhi ad una impronta sovranazionale. Quali le fonti? Quali i grandi della terra coinvolti? Quali gli indicibili accordi? Non voglio dire di più, non essendo ancora uscito in libreria il volume di cui sto parlando e volendo rimettere ogni valutazione a chi leggerà quelle pagine. Per chi volesse approfondire l’argomento, intanto, l’appuntamento è per giovedì 20 novembre, a Roma (libreria Fandango, h. 21) con l’autore del libro Gioele Magaldi, Sabina Guzzanti, alcuni noti giornalisti e me, o, dal giorno dopo, nelle principali librerie con il libro Massoni: la scoperta delle UR-lodges.

Massoneria: i deliri del “fratello democratico” Magaldi, scrive Paolo Signorelli su “L’Ultima Ribattuta”. Che la Massoneria sia tuttora viva e vegeta non è un mistero. Che centinaia di logge, soprattutto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia, siano attivissime nel condizionare la vita economica e finanziaria dei cinque continenti, è un altro dato di fatto. E che i “Fratelli” si diano molto da fare anche in Italia lo ammettono in molti; ne ha fatto cenno in un editoriale il direttore del “Corriere della Sera”, Ferruccio de Bortoli e lo aveva ammesso, senza mezzi termini, un banchiere per tutte le stagione come Cesare Geronzi. Ma che adesso tutto rischi di finire in una sorta di burletta, dando di massoni a ruota libera e senza fornire uno straccio di prova, non è accettabile. C’è uno strano personaggio, autonominatosi fondatore del “Grande Oriente Democratico”, che merita di essere portato via in ambulanza dal 118 e sottoporsi a un TSO (trattamento sanitario obbligatorio). Si chiama Gioele Magaldi, poco più che quarantenne. Dopo aver bersagliato per mesi e mesi, attraverso il sito della sua loggia privata i presunti “massoni deviati”, ora ha dato addirittura alle stampe un volume nel quale elenca un incredibile serie di “fratelli illustri”. E dà da pensare che anche un quotidiano serio come “il Fatto Quotidiano”, pur con tutte le cautele del caso, gli stia dando credito. Perché in questo caso non si tratta di libertà di stampa, ma di frescacce a ruota libera. Nell’elenco c’è Papa Giovanni XXIII (il primo “Papa massone”), ma anche Osama Bin Laden. Poi ci sono i Kennedy, Martin Luther King e i membri dell’Isis. Presente anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano e il premier Matteo Renzi, i politici italiani Massimo D’Alema, Mario Draghi, Mario Monti. Enrico Letta, Fabrizio Saccomanni, Pier Carlo Padoan, Gianfelice Rocca, Domenico Siniscalchi, Giuseppe Recchi, Marta Dassù, Corrado Passera, Ignazio Visco, Vittorio Grilli, Federica Guidi, Matteo Arpe, Tommaso Cucchiani, Carlo Secchi e Emma Marcegaglia. Insomma, ci sono proprio tutti. Magaldi affronta poi la questione delle “logge segrete” tra le quali figurano la “Thomas Paine”, la “Edmun Burke”, la “Leviathan”, la “White Eagle” e la super loggia conservatrice la “Joseph de Maistre”, cui avrebbero fatto parte Lenin e Breznev. Un delirio di onnipotenza e di follia quello di Magaldi. Che qualcuno lo fermi.

LA MASSONERIA TRA CHIESA E 'NDRANGHETA.

La massoneria in Vaticano. La Biblioteca apostolica ha acquistato un "classico" della letteratura massonica: il "Purgatorio ragionato" di Francesco Longano, scrive Ignazio Ingrao suPanorama”. Siamo in pieno ‘700, un giovane molisano di umili origini, Francesco Longano decide di intraprendere la carriera del sacerdozio. Come confesserà candidamente anni dopo nella sua autobiografia, lo fa unicamente per poter continuare a studiare. Appassionato di filosofia ed etica, succede al suo maestro Antonio Genovesi, alla cattedra di commercio dell’Università di Napoli ma i suoi scritti di filosofia morale, influenzati dall’atmosfera illuminista e anticlericale, gli attirano le ostilità delle gerarchie ecclesiastiche. Longano prosegue sulla sua strada e si imbatte nella massoneria. Decide di affiliarsi a ben tre logge, pur essendo sacerdote, nonostante la massoneria sia già fuori legge nel Regno delle due Sicilie e sia severamente condannata dalla Chiesa. Nel frattempo un editore austriaco gli chiede di scrivere un saggio sul Purgatorio che sarebbe dovuto essere pubblicato in tre lingue: italiano, latino e francese. Nasce così il «Purgatorio ragionato» che non riuscirà a superare i rigori della censura del tempo ma due secoli e mezzo dopo approderà nel luogo più inatteso: la Biblioteca apostolica vaticana. Uno studioso appassionato di quel periodo, Francesco Lepore ha pubblicato un approfondito ed erudito saggio su quel testo che è stato pubblicato nientemeno che nella «Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae», la pubblicazione ufficiale della «biblioteca del Papa». In occasione dell’uscita di questo studio, la Biblioteca del Grande Oriente d’Italia ha organizzato una tavola rotonda che si terrà a Roma, presso Casa Nathan, il 6 novembre con la partecipazione di storici ed esperti di quel periodo: Ruggiero di Castiglione, Antonio Trampus, Gianni Eugenio Viola e il giornalista Paolo Rodari.

Un manoscritto che si credeva perduto. «Nel 2005 un privato offrì alla Biblioteca apostolica vaticana l’acquisto del manoscritto di Longano che si credeva ormai perduto da due secoli e mezzo», racconta Lepore. «Il prezzo era molto contenuto: appena tremila euro. Perciò la Biblioteca decise di procedere all’acquisto e di inserire l’opera nel fondo “Vaticani Latini”. Si tratta del manoscritto originale con le correzioni dell’autore». Infatti, «quando nel 1779 un editore di Vienna propose a Longano di scrivere questo saggio, il sacerdote si mise subito all’opera e, come racconta nell’autobiografia, terminò la stesura in un mese. Il testo venne sottoposto al censore ecclesiastico e a quello regio per ottenere l’imprimatur. Questi chiesero di effettuare dei cambiamenti. Completate le correzioni, Longano diede via libera alla stampa. Ma quando questa non era ancora conclusa, uscì un pamphlet dell’ex gesuita Francesco Antonio Zaccaria che accusava il lavoro di Longano di essere “ereticale” e “infettato di anticlericalismo”. Il testo perciò venne ritirato e non vide più la luce». Perché era stato ritenuto tanto pericoloso? «Longano aveva voluto fare un trattato sul Purgatorio senza ricorrere a riferimenti biblici o dottrinali, ma solo alla luce della ragione. Anche riguardo alle opere di suffragio per le anime del purgatorio la posizione dell’autore è originalissima. Anziché raccomandare Messe, Rosari e indulgenze, propone azioni di impronta etica: abbattere le differenze sociali, promuovere le virtù sociali, difendere la giustizia e l’uguaglianza. Sono elementi di chiara derivazione dal catechismo massonico a cui si rifà Longano e che, naturalmente, gli procurano l’ostilità ecclesiastica». Oggi però il frutto delle sue fatiche riposa proprio nel cuore del Vaticano.

"Io, vescovo rimosso dalla Santa Sede per la mia lotta contro mafia e massoni". Il caso di Francesco Miccichè, alto prelato di Trapani, rimosso dal suo incarico nonostante per i magistrati sia "parte lesa". Mentre la curia della città siciliana è al centro di uno scandalo sulla gestione di fondi e beni ecclesiastici. In una trama che vede protagonista anche lo Ior, scrive Piero Messina “L’Espresso”. "Il Vaticano ha sentenziato la mia condanna dipingendomi come un essere immorale da tenere alla larga, mi ha rottamato come pastore indegno, mi ha classificato mafioso, truffaldino e inaffidabile, mi ha trattato peggio di un delinquente, condannato all’inazione come un minus habens, un incapace”. Le parole sgorgano come pietre dal memoriale di Francesco Miccichè, documento di oltre cento pagine, redatto del vescovo alla guida della Diocesi di Trapani dal 1998 sino al 16 maggio 2012. Quel giorno la rimozione arriva, a firma di Adriano Bernardini, Nunzio Apostolico in Italia. E’ l’obbligo alle dimissioni. La nota inviata dalla Santa Sede – e classificata con il bollo di "segretissima” – ha il sapore della minaccia: senza  l’abbandono immediato della Diocesi, la destituzione si sarebbe celebrata con la pubblicazione sull’Osservatore Romano, entro 72 ore. Per un religioso, peggio di una fucilazione. Da quel momento, Monsignor Miccichè tenterà in tutti modi di aprire un canale con la Santa Sede, prima con Papa Benedetto XVI e poi con il Santo Padre Francesco. Senza ottenere nulla, se non un brevissimo incontro, alla fine dello scorso anno con Papa Bergoglio: "Ho chiesto al Papa udienza per poter raccontare la mia storia – ammette il prelato – e il Santo Padre mi ha pregato di rivolgere la richiesta al suo segretario particolare”. Non è successo nulla: Città del Vaticano, sul caso Miccichè, ha eretto il classico muro di gomma. Ora, in quel memoriale, il vescovo messo ai margini della comunità religiosa ripercorre la sua via crucis laica. Da oltre tre anni la Curia di Trapani è l’epicentro di una serie di inchieste giudiziarie che ruotano attorno alla gestione dei fondi e dei beni ecclesiastici. Sullo sfondo di quelle carte giudiziarie si intravede la lotta per il potere e per il controllo delle Diocesi siciliane, l’inviolabilità dello Ior e l’immancabile ipotesi di inquinamento mafioso. Con in più l’ombra della massoneria deviata. Dossier anonimi, lettere false, bonifici bancari transitati sui conti dello Ior e transazioni con firme apocrife sono gli ingredienti di questo plot Vaticano in salsa siciliana, racchiuso nel dossier del vescovo. Ora che la Procura di Trapani, guidata da Marcello Viola, si avvia a chiudere le indagini, resta l’interrogativo di quella rimozione ex abrupto di Monsignor Miccichè dalla Diocesi. Perché il vescovo siciliano, secondo la ricostruzione dei magistrati, è considerato, almeno sino ad ora, "parte lesa” in quei procedimenti giudiziari. Miccichè è convinto di pagare un conto dalla genesi antica. Sin dall’arrivo nella Diocesi, il vescovo siciliano ha messo nel mirino mafia e grembiulini. Nel marzo del 2000, attacca così le logge trapanesi e la mafia: ''La massoneria ha messo radici profonde nella nostra città, condizionandone la vita e lo sviluppo. Le Diocesi della Sicilia occidentale, tra le quali quella di Trapani, vivono in un territorio che è storicamente la culla del fenomeno malavitoso tristemente noto con il nome di mafia”. Scoppia un putiferio, con la massoneria italiana che accusa il monsignore di oscurantismo. Miccichè sarà minacciato: "mi venne detto – da un padre della Società religiosa di San Paolo, ndr - che se non mi fossi convertito e iscritto alla massoneria avrei fatto una brutta fine. Tragica profezia”. Il vescovo di Trapani chiederà aiuto al Vaticano: "Chiesi udienza al Cardinale Joseph Ratzinger allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e fui ricevuto dall’allora Segretario della stessa congregazione Sua Eccellenza Mons. Tarcisio Bertone al quale riferii quanto mi era successo e a lui chiesi lumi su come comportarmi… Alla mia obiezione come mai non si mettesse un freno ai preti che andavano in tutta Italia a fare conferenze in favore della massoneria, Bertone mi rispondeva candidamente: Ma cosa vuole, Eccellenza, anche in Vaticano ci sono cardinali, vescovi e prelati iscritti alla massoneria”. Schizzi di fango colpiranno l’episcopato di Miccichè a Trapani di nuovo nel 2009, quando un esposto anonimo, il primo di una lunga serie, sarà recapitato alla Procura nazionale antimafia, allora retta da Piero Grasso, al Cardinale Bertone e al Cardinale Re. In quel documento si accusa Miccichè di avere al suo fianco come "segretario vescovile” un esponente di una famiglia della mafia rurale di Alcamo. In quel documento, per la prima volta, viene citata anche la Fondazione Auxilium, struttura sanitaria guidata dalla Diocesi di Trapani e convenzionata con la Regione siciliana. Miccichè respingerà ogni accusa e dimostrerà che quel "segretario”, era in realtà solo l’autista dalla Diocesi di Trapani, assunto prima del suo arrivo. Miccichè non nega di avere subito pressioni dalla mafia: "Anch’io da subito arrivato in Diocesi fui avvicinato da persone di questo genere che mi chiesero con fare perentorio di interessarmi in loro favore presso la Procura di Trapani che aveva sequestrato i loro beni, reputandoli prestanome di potenti mafiosi di Alcamo. Il mio diniego fu secco e l’atteggiamento e le parole degli interessati suonarono come una minaccia, ma non mi pento affatto di avere agito come ho agito e di non essermi piegato ai loro dictat”. Nel mese di febbraio del 2011 la Diocesi di Trapani finisce al centro di uno scandalo finanziario. Si ipotizza un buco milionario nei conti della Curia. Sotto la lente delle Fiamme gialle finisce anche la gestione di due fondazioni della curia siciliana, la Auxilium e la Campanile, già fuse nel 2007. Auxilium è una struttura sanitaria con oltre 300 dipendenti e conta su una convenzione dal valore di 5 milioni di euro con la sanità regionale. Miccichè, nel 2009, ha nominato suo cognato come procuratore della fondazione. La giustizia italiana e quella vaticana si mettono in moto. Le indagini puntano anche al direttore degli uffici amministrativi della curia di Trapani, padre Ninni Treppiedi. Alla fine, nell’inchiesta della Procura di Trapani risulteranno 14 indagati con ipotesi di reato che vanno da diffamazione, calunnia e falso, a truffa, appropriazione e riciclaggio. Treppiedi avrebbe aperto conti correnti allo Ior: da semplice sacerdote non li avrebbe potuti tenere. Su quelle transazioni la Procura di Trapani avvia una rogatoria internazionale, ancora oggi ferma su un binario morto. Il nome di Treppiedi apparirebbe anche nel memoriale dell’ex direttore generale dello Ior, Gotti Tedeschi. Sulla base di quelle indagini "laiche” Miccichè sospende a divinis don Treppiedi. La procedura verrà confermata e rafforzata da un decreto della  Congregazione del Clero del Vaticano. Tra le spese di quella gestione anche l’acquisto di auto di lusso, donate a cardinali delle alte sfere vaticane. Alla fine, Treppiede – legato un tempo a personaggi della politica siciliana come l’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì – deciderà di collaborare con la giustizia. Un contributo, affermano dalla Procura di Trapani, "di assoluto valore”. Ma intanto contro Miccichè si scatena l’inferno. Treppiedi , dopo la sospensione a divinis, sporge denuncia contro il vescovo Miccichè, accusato di avere svuotato i conti della curia. Il Vaticano invia un visitatore apostolico, Monsignor Domenico Mogavero. Miccichè non potrà mai leggere il contenuto della relazione che porterà alla sua rimozione. Accusato di aver depredato la Curia, Miccichè si difende e mostra gli estratti bancari: "altro che senza un soldo, quando ho lasciato la Diocesi di Trapani sul conto c’era più di un milione di euro, mentre la Fondazione Auxilium disponeva di oltre otto milioni di euro”. Sempre in quel periodo, il vescovo deve difendersi da una campagna denigratoria costruita ad arte. Viene diffusa una lettera su carta intestata della Diocesi di Trapani. E’ indirizzata a Luigi Bisignani, l’uomo al centro dello scandalo P4. Nella missiva che reca la firma di Miccichè, si chiede l’intercessione in Vaticano da parte di Bisignani perché  "il Papa - a quel tempo Benedetto XVI, ndr - non è in grado di decidere più nulla e il potere è demandato nelle mani dei Salesiani e in particolare del Cardinale Bertone che lo esercita in modo delinquenziale e spregiudicato”. Quella lettera – lo dimostreranno i magistrati - è un falso. Monsignor Miccichè tenta la difesa e veste i panni dell’investigatore: si mette sulle tracce dell’attività svolta da Treppiedi allo Ior. In più, aiuta i magistrati ad accedere nei luoghi di culto coinvolti nell’indagine per  transazioni immobiliari sospette. Per la Santa Sede sono peccati mortali. Nel memoriale del vescovo siciliano appiedato dal Vaticano si legge: "Io stesso mi sono recato allo Ior per conoscere se in qualche modo la stessa Diocesi di Trapani o la mia persona fossero stati coinvolti, a mia insaputa, in operazioni di riciclaggio. Allo Ior non ho ottenuto alcuna informazione. Sono stato indirizzato dal Sostituto della Segreteria di Stato, Sua Eccellenza Mons. Giovanni Angelo Becciu, il quale non ha reputato opportuno ricevermi. Dalla mia visita presso lo Ior ho potuto accertare, però, che molti presso questo istituto conoscevano don Treppiedi. Per loro era capo ufficio alla Congregazione di Propaganda Fide”.

'Ndrangheta, massoneria e il "salto di qualità": che cos'è la Santa? Scrive IBTimes Italia. Tra le mafie storiche che operano in Italia da più di un secolo la 'ndrangheta è quella meno raccontata e, di riflesso, meno capita. Il video registrato dai Carabinieri del ROS, in cui durante un rito di affiliazione si citano Garibaldi, Mazzini e Lamarmora, descritto quasi fosse una novità assoluta, in effetti non lo è. Essendo le 'ndrine diventate mediaticamente famose solo negli ultimi anni, mentre sono state ignorate, catalogate sotto la voce mafia di serie b , per tanto, troppo tempo, ci si è persi qualche passaggio. In questo modo l'opinione pubblica resta all'oscuro di 'concetti' come la Santa o del motivo per cui protagonisti del Risorgimento italiano vengano inseriti nei riti della criminalità organizzata. La prima volta che fu sequestrato un codice in cui si fa riferimento ai tre risale al 1989, nel covo del latitante Giuseppe Chilà a Pellaro (Reggio Calabria). Lo ricorda Roberto Galullo sul Sole 24 Ore che, non a caso, cita la bibliografia prodotta in questi anni da Nicola Gratteri, il procuratore aggiunto della DDA reggina, e Antonio Nicaso, storico delle organizzazioni criminali e ritenuto uno dei massimi esperti mondiali della criminalità organizzata calabrese che IBTimes ebbe modo di intervistare lo scorso anno. Libri come Fratelli di sangue che ripercorrono la storia della 'ndrangheta, ma soprattutto spiegano riti e codici di quella che è da tempo la mafia più potente e ricca che opera oggi in Italia, cresciuta nel disinteresse dei media, coltivando rapporti con politica, imprenditoria e 'poteri forti' fin dagli anni Settanta. In merito al video diffuso ieri, Nicaso ha commentato su Facebook: "Sono conformi al rituale. Nessuno strappo alla regola a conferma della grande capacità della 'ndrangheta di coniugare vecchio e nuovo, tradizione e innovazione".  Garibaldi, Mazzini e Lamarmora sono riferimenti massoni, utilizzati nel codice di affiliazione alla Santa, a Osso, Mastrosso e Carcagnosso, i cavalieri spagnoli che secondo la leggenda hanno fondato le tre principali organizzazioni criminali in Italia.  

LA SANTA

Il giuramento che si ascolta nel video è relativo al grado di santista. Cos'è la Santa? È dove la mafia calabrese incontra i poteri forti, citati a sproposito quando non c'entrano nulla e dimenticati se invece operano davvero sul campo. Fino agli anni Settanta la 'ndrangheta è subalterna alle altre organizzazioni criminali: opera soprattutto sul territorio calabrese, ha un raggio di azione limitato. Poi ecco il salto di qualità. "La mafia calabrese è stata spesso subalterna alla politica, utilizzata da essa per raccogliere e organizzare il voto - spiega Nicaso - Negli anni Settanta è riuscita a ribaltare questa subordinazione con l'introduzione del grado della Santa, una zona d'élite che permetteva una doppia affiliazione, quella alle 'ndrine e quella alla massoneria deviata. Con essa la 'ndrangheta ha iniziato a votare e far votare, a selezionare i candidati, a gestire consenso, ad entrare nel giro di appalti e subappalti e gestire risorse pubbliche". Gli stessi concetti sono stati espressi lo scorso aprile da Nicola Gratteri, sentito in audizione davanti alla Commissione Parlamentare Antimafia: "L'evoluzione della 'ndrangheta è avvenuta nel 1969 , quando c'è stata una rivoluzione interna alla 'ndrangheta con la creazione della Santa. La Santa consiste nella possibilità per uno 'ndranghetista di essere affiliato anche alla massoneria deviata. Questo è servito alla 'ndrangheta per avere contatti con i quadri della pubblica amministrazione e, quindi, con medici, ingegneri e avvocati.  Un collaboratore di giustizia ci ha spiegato che «all'orecchio del Gran Maestro» possono essere affiliati tre incappucciati. Ciò vuol dire che questi sono conosciuti solo al Gran Maestro. Lo stesso collaboratore ci ha spiegato che anche alcuni magistrati hanno partecipato a riunioni della Santa. Su questo, però, non siamo riusciti ad avere riscontri". Anche alla luce di questa svolta, si spiega il successo delle 'ndrine negli anni successivi: l'espansione in tutta Italia, compreso il ricco Nord che ha scoperto di essere stato colonizzato con 20 anni di ritardo. Mentre gli occhi dell'opinione pubblica erano puntati altrove, soprattutto su Cosa nostra che faceva saltare in aria magistrati e scorte, la 'ndrangheta prosperava in silenzio e, grazie alla sua struttura (i vincoli di sangue che rendono difficile il fenomeno del pentitismo, ma hanno favorito lo stringere rapporti con i cartelli della droga sudamericani) è diventata il punto di riferimento del traffico di stupefacenti in Europa, accumulando capitali da capogiro, poi investiti nel grande gioco degli appalti pubblici.

Durante il giuramento per il conferimento della Santa, registrato dai Carabinieri nell’operazione della Dda di Milano in Lombardia che ha portato all’arresto di 40 presunti ‘ndranghetisti, si fa riferimento a Mazzini, Garibaldi e La Marmora. Garibaldi, nella ricostruzione degli investigatori, rappresenta il capo del Locale di ‘ndrangheta (l’organizzazione locale), Mazzini il contabile e La Marmora riveste invece la carica di “236 mastro di giornata”, tra le più alte dell’associazione. Nei video i segreti del giuramento alla ‘ndrangheta, ma anche le soluzioni estreme in caso di “errori” di grande entità. Recitati parte in italiano e parte in dialetto le parole sono comunque raccapriccianti. Nel video, registrato dagli investigatori a Castello di Brianza, in provincia di Lecco, si sente e si vede:  “Buon Vespero e Santa sera ai Santisti”, iniziano a recitare, “Giustappunto questa santa sera nel silenzio della notte e sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna, formo la santa catena! Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora con parole di umiltà formo la santa società. Dite dopo di me: Giuro di rinnegare tutto fino alla settima generazione, tutta la società criminale da me fino ad oggi riconosciuta per salvaguardare l’onore dei miei saggi fratelli. Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora, passo la mia prima, seconda, e terza votazione su … Se prima lo conoscevo come un saggio fratello fatto e non fidelizzato, da questo momento lo conosco per un mio saggio fratello. Sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna sformo la santa catena. Nel nome di Garibaldi, Mazzini e Lamarmora con parole di umiltà è sformata la santa società”.

MAGISTRATI MASSONI, GIU' IL CAPPUCCIO!!!!

Magistrati massoni, giù il cappuccio, scrive “Karakteria”. In Basilicata e in particolar modo nel tribunale di Matera esiste la presenza di un forte gruppo di avvocati e magistrati iscritti alla stessa loggia massonica? Non sono in pochi a rispondere affermativamente a questa domanda, altri lo negano perentoriamente.  Alcuni altri sono disposti a mettere la mano sul fuoco, mentre altri ancora semplicemente lo sospettano sulla base di ricostruzioni di fatti e documentazioni, ma non avendone certezza chiedono alle autorità competenti di soddisfare il diritto dei cittadini a sapere se esiste un gruppo di massoni nei tribunali di Basilicata. Fino ad ora questa elementare richiesta non è stata soddisfatta, nonostante le pressioni dell'Indipendente Lucano e di Nicola Piccenna in particolare.  L'unico elenco di lucani iscritti alla massoneria di cui disponiamo risale ad un'inchiesta del 1992: Elenco dei residenti in Basilicata iscritti nella "Lista dei Massoni dell'inchiesta Cordova 1992".

Magistrati italiani appartenenti alla Massoneria - Petizione al Capo dello Stato, nella sua veste di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura - chiediamo a tutti i magistrati Italiani se sono affiliati alla Massoneria: Ecc.mi Presidente e Vice-Presidente del CSM, Le domanda circa l'appartenenza alla Massoneria non può mai ottenere risposta affermativa. Il perché è ben spiegato dalle parole stesse del giuramento che gli aspiranti Massoni pronunciano durante il rito d'iniziazione: «prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra». Pertanto risulta quantomeno improbabile che un magistrato Massone si adoperi "motu proprio" nel dichiarare un'appartenenza che lo espone alle terribili conseguenze che quella dichiarazione comporta. D'altro canto, però, Come la mettiamo, con quei confratelli Massoni che sono magistrati? Basta insomma, per fare un esempio: come si comporterà il magistrato libero muratore in Tribunale se l’imputato – o, più spesso, l’avvocato di quest’ultimo – è un grembiulino come lui? Il Consiglio Superiore della Magistratura, ha il dovere di garantire la intangibilità della fiducia dei cittadini nell'istituzione giudiziaria e quindi di rendere disponibile un'informazione pubblica sui magistrati appartenenti alla Massoneria poiché lo stringente giuramento innanzi riportato comporta la promessa "di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra" potrebbe far dubitare dell'imparzialità del magistrato massone qualora, in un procedimento giudiziario, fra tutti i liberi muratori della terra, ve ne fosse uno coinvolto direttamente o indirettamente nei fatti soggetti al suo giudizio. Per quanto innanzi, invitiamo il Presidente ed il Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura a disporre un formale atto d'interpello da notificare a tutti i magistrati Italiani attualmente in servizio del seguente tenore: "Ill.mo Dr./Ill.ma D.ssa, Lei ha aderito alla Massoneria? Se risponde affermativamente, può indicare lo stato attuale della sua appartenenza e la documentazione che lo comprova? Per completezza si allega un estratto di sentenza del COnsiglio di Stato che esclude l'esimente della riservatezza in tema di appartenenza alla Massoneria del Pubblico Ufficiale o Pubblico Incaricato: Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 06.10.2003 n° 5881. Il Consiglio di Stato ha stabilito che è legittima una legge regionale che impone ad un soggetto l'obbligo di comunicare l'appartenenza ad una loggia massonica ai fini del conferimento di un incarico pubblico. Con la sentenza n. 5881 del 6 ottobre 2003 i giudici di Palazzo Spada affermano che tale obbligo non viola il diritto di riservatenza in quanto è correlato alla particolare posizione funzionale rivestita dal soggetto designato o nominato ad una pubblica funzione ed è giustificato da preminenti interessi pubblici e generali direttamente assistiti da garanzia costituzionale. Nella motivazione della sentenza il giudice amministrativo precisa inoltre che il diritto alla riservatezza, pur integrando un aspetto di non secondaria rilevanza della proiezione della persona, non è un valore assoluto che trova diretta tutela nella Carta costituzionale vigente come bene primario ed inviolabile ed è destinato perciò a soccombere di fronte al principio di buon andamento dell'amministrazione, postulato a livello costituzionale dell'art. 97".

Magistrati massoni: ecco 21 nomi al CSM. Giovanni Conso chiede provvedimenti disciplinari per 19 magistrati e propone trasferimenti d' ufficio per i legami con associazioni segrete e logge massoniche. la strenna: un volume coi segreti dei " fratelli ", scrive “Il Corriere della Sera”. Giudici affiliati alla massoneria: ecco i nomi. Il Guardasigilli Giovanni Conso ha inviato le carte al Consiglio Superiore della magistratura: chiede provvedimenti disciplinari per 19 magistrati. E propone tre trasferimenti d'ufficio per incompatibilità ambientale. A Palazzo dei Marescialli si precisa che per gli altri 53 nominativi contenuti negli elenchi forniti dalla procura di Palmi, il ministro di Grazia e Giustizia ha chiesto "soluzioni liberatorie": non risultano accertati nei loro confronti legami con logge massoniche. La parola passa ora al procuratore generale della Cassazione Sgroi, cui spetta attivare il "Tribunale dei giudici" del Consiglio per il gruppo dei 19. La prima commissione referente del Csm si occuperà dei tre per i quali Conso chiede il trasferimento. All'elenco dei 19 appartengono Angelo Massimo Maestri (giudice del tribunale di La Spezia), Salvatore Di Blasi (giudice del Tribunale di Milano), Riccardo Romagnoli (giudice del tribunale di Roma), Massimo Vitali (pretore di Milano), Vincenzo Tessa (procuratore della Repubblica di Sanremo), Mauro Monti (sostituto procuratore di Bologna), David Monti (sostituto procuratore circondariale di Firenze), Stefano Scarafoni (giudice del Tribunale di Tolmezzo), Vincenzo Serianni (presidente di sezione della corte d'appello di Torino), Nicolò Franciosi (consigliere della corte d'appello di Milano), Renato La Serra (pretore di Trani), Giuseppe Armani (consigliere di corte d'appello di Bologna), Alfredo Arioti (sostituto procuratore generale a Perugia), Francesco Pinello (presidente del tribunale di sorveglianza di Palermo), Antonio Spina (pretore dirigente di Sciacca), Luciano D'Agostino (sostituto procuratore di Lamezia Terme), Fabio Mondello (giudice del tribunale di Roma), Salvatore Marino (presidente di sezione del tribunale di Mistretta) e Paolo Nannarone (presidente di sezione del tribunale di Perugia). Paolo Nannarone è anche uno dei tre magistrati per i quali il ministro di Grazia e Giustizia ha chiesto l'avvio di un procedimento per il trasferimento d'ufficio in base all'articolo 2 della legge sulle guarentigie dei giudici. Gli altri due che dovrebbero essere sottoposti a tale procedimento sono Antonino Giubilaro (giudice del tribunale di Pesaro) e Nicola Restivo (procuratore della Repubblica di Perugia). Il consigliere laico del Pds Franco Coccia ha osservato che "la relazione ispettiva licenziata dal ministro fa propria interamente l'impostazione e l'analisi della delibera del Csm e su questa base è stata eseguita una complessa e laboriosa indagine sui magistrati, risultanti dagli elenchi, al fine di accertare la configurazione di concreti indizi di iscrizione di magistrati ad associazioni segrete". Sulla vicenda interviene il Grande Oriente d'Italia. Secondo il "Grande Oriente" Gustavo Raffi la relazione di Conso al Csm sui magistrati massoni "circoscrive la richiesta di provvedimenti disciplinari a quanti sono risultati iscritti a "logge coperte". Viene, pertanto, confermata l'assoluta estraneità di affiliati al Grande Oriente d' Italia, dal momento che simili strutture non solo sono bandite, ma inesistenti nell'ambito della massoneria regolare di Palazzo Giustiniani".

MASSONERIA – I MAGISTRATI DALLA A ALLA ZETA

di Rita Pennarola (pubblicato il 7 gennaio 2010).

Può un magistrato venir meno al vincolo di fedeltà giurato, pena la morte, per entrare in massoneria? E quali prove possono addurre quei giudici o PM che affermano di esserne usciti? Qui sentiamo alcuni esperti e passiamo in rassegna le carriere di tante toghe che sicuramente quel patto di sangue lo avevano sottoscritto. Molti sono ancora in servizio. E rivestono ruoli apicali. Gli italiani lo hanno capito da tempo, a reggere davvero le sorti del Paese non sono né le banche né le istituzioni democratiche e nemmeno la magistratura: sono i massoni – regolari o, quasi sempre, appartenenti a logge coperte – che proprio in quei tre ambiti sono capillarmente infiltrati. A confermare questa consapevolezza arriva, da ultimo, il sondaggio lanciato sul sito della Voce, al quale hanno partecipato 466 lettori: un piccolo ma significativo campione, secondo il quale (56,8%) sono sempre loro, i confratelli, a detenere saldamente le leve del potere. E tutto attraverso quel vincolo di segretezza che, dopo l’iniziazione, si può cancellare solo con la morte. Lo dicono, chiaro e tondo, le parole stesse del giuramento: «prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra». Chiaro, no? Come la mettiamo, allora, con quei confratelli che rivestono ruoli apicali in settori nei quali è richiesta la loro facoltà decisionale? Basta insomma, per fare un esempio, che qualche magistrato se la cavi dicendo frasi del tipo «La massoneria? Io l’ho lasciata da tempo…», senza poterlo in alcun modo provare? E come si comporterà se l’imputato – o, più spesso, l’avvocato di quest’ultimo – è un grembiulino come lui? Cominciamo dal primo quesito. Giuseppe De Lutiis, uno fra i più autorevoli studiosi di eversione e di poteri occulti, consulente di numerose Procure della Repubblica, non ha dubbi: «dalla Massoneria si esce solo nel caso in cui si venga espulsi. Altrimenti si rimane “in sonno”, una condizione comunque revocabile in qualsiasi momento». Aggiunge un altro consulente, più volte fin dagli anni ‘80 al fianco dei PM in indagini sulle Logge segrete: «accade con una certa frequenza che un massone in sonno decida di rientrare tra i confratelli attivi, anche perché spesso la scelta dell’“assonnamento” è dovuta all’assunzione di cariche pubbliche. Il suo ritorno viene vissuto come una festa: non solo non occorre rifare tutti i complessi rituali dell’iniziazione, ma spesso riceve in dono il passaggio ad un grado superiore rispetto a quello che aveva lasciato. Questo indica che dalla massoneria non ci si può “dimettere”: loro lo vivono come un battesimo, che non prevede alcuna possibilità di “sbattezzarsi”». Tutto ciò riguarda le Logge regolari, con tanto di elenchi depositati, mentre sulle eventuali “norme” vigenti fra i massoni coperti non è possibile azzardare ipotesi. Di sicuro, il giuramento non viene meno né potrà essere mai svelata l’identità dei confratelli. Quali siano le “punizioni” per chi trasgredisce, si può a questo punto solo immaginarlo. È sulla base di questa premessa che siamo andati a cercare chi sono, dove sono ora e cosa fanno alcuni magistrati sulla cui originaria affiliazione massonica non ci sono dubbi. I 37 nomi che qui di seguito proponiamo, infatti, sono presi per buona parte dagli unici elenchi (comprensivi delle Logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ‘92 dall’allora procuratore capo di Palmi Agostino Cordova. Altri nomi li abbiamo invece ricavati dall’elenco ufficiale dei massoni pubblicato nel 2008 dalla Voce, che non include la consistente fascia di vip affiliati ad obbedienze cosiddette “non regolari”, ma assai più potenti e generalmente riconosciute da Logge estere. Sulla cima della piramide ci sarebbe in questo periodo, per fare un esempio, la “Gran Loggia Italiana Massonica”, i cui adepti, che si definiscono «un gruppo di Fratelli Massoni provenienti da varie Obbedienze, (G.O.I., Piazza del Gesù, Gran Loggia Regolare d’Italia, Gran Loggia Massonica Italiana, Logge di San Giovanni, Gran Loggia della Repubblica di San Marino)», adducono a fondamento della loro scelta la risibile motivazione di poter affiliare anche le esponenti del gentil sesso (facoltà ampiamente prevista da una delle due principali obbedienze regolari, vale a dire la Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi). Fondata ad Arezzo nel marzo 2002, la nuova compagine non poteva che essere benedetta da Licio Gelli in persona. Nessun problema, se non fosse per un piccolo particolare venuto a galla in un articolo della Nazione di fine 2006: la donazione fatta dal venerabile e dai suoi confratelli ai poveri del Sacro Cuore di Arezzo. Racconta al quotidiano il parroco, don Angelo Chiasserini: «Quello che valuto è la finalità dell’iniziativa, che è di beneficenza. È stato Tiberio Terzuoli, gran maestro della Serenissima Gran Loggia Nazionale, a contattarmi, spiegandomi successivamente che all’iniziativa avevano contribuito anche Gelli e Giuseppe Sabato, sovrano della Gran Loggia Massonica Italiana». Che di lì a poco si sarebbe invece ribattezzata Gran Loggia Italiana Massonica. Ma chi è Giuseppe Sabato il “sovrano”? Non sarà per caso lo stesso rampante manager di Banca Esperia, la holding finanziaria che fa capo a Silvio Berlusconi? Impossibile affermarlo con certezza, visto il segreto assoluto che vige nella neo-Loggia aretina. Di sicuro, però, oggi a dominar la scena sotto i cappucci sono i maghi dell’alta finanza. Come accade a Napoli, dove dominus incontrastato della Loggia Bovio è il commercialista Giovanni Esposito, assurto nell’olimpo supermassonico dell’Arco Reale, rito di York. «Il baricentro – dice ancora il nostro esperto – ai livelli medio-alti si sta spostando dalle Logge coperte a queste consorterie non riconosciute dalle obbedienze tradizionali, ma gemellate con compagini estere come la Loggia Montecarlo, che ha sede nel Principato di Monaco». Se questi sono ora gli assetti finanziari “globalizzati” dei confratelli, non meno interessante sarebbe definire quali e quanti magistrati vestono oggi il grembiule sotto la toga. Missione quasi impossibile, dal momento che a scoprire le carte dovrebbero essere i loro stessi colleghi, come in perfetto isolamento fece Cordova nel ‘92 e come, intorno al 2000, aveva provato a fare a Napoli un altro PM-coraggio, Luigi De Ficchy, attuale procuratore capo a Tivoli e all’epoca impegnato nell’inchiesta sulla Loggia deviata Spinello, naufragata nelle nebbie della Procura capitolina. Mentre i circa mille faldoni dell’inchiesta Cordova marciscono ancora nei sotterranei di piazzale Clodio, a Roma. Eppure, provando a scorrere le carriere delle toghe messe a nudo dal mastino di Palmi, più qualche nome venuto fuori in elenchi recenti, le sorprese non mancano. Ecco allora qui di seguito, in ordine alfabetico, alcuni esempi significativi fra i tanti magistrati che avevano giurato fedeltà alla massoneria.

ABBADESSA Lorenzo – Classe 1939, nato a Napoli (dove gli Abbadessa sono conosciuti come influente famiglia di medici), dal 2006 si è iscritto all’albo degli avvocati e risulta avere lo studio a Soverato, perla costiera della provincia di Catanzaro. Con la qualifica di “Magistrato” lo si ritrova invece negli elenchi dei massoni aggiornati a tutto dicembre 2007 e pubblicati dalla Voce nel 2008. Lorenzo Abbadessa è attualmente responsabile, proprio a Catanzaro, della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello, in via Falcone e Borsellino.

ALIBRANDI Tommaso – Nato a Roma l’8 agosto del 1933, è iscritto negli elenchi ufficiali della massoneria aggiornati a tutto il 2007 con la qualifica di “Magistrato al Consiglio di Stato”. Negli anni ‘90 era stato invece attivo presso la Corte dei Conti. Nel ‘93 il suo nome è fra gli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla telefonia dal PM della capitale Guglielmo Muntoni (giudice Maria Cordova) insieme – fra gli altri – a Carlo De Benedetti, al costruttore Mario Lodigiani e all’ex ministro Paolo Cirino Pomicino. In quegli anni Alibrandi era stato capo dell’ufficio legislativo del Ministero dei Beni Culturali, presidente del TAR della Val D’Aosta nonché ex “uomo ombra” dell’allora ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì. Di provata fede PRI è anche Alibrandi (già senatore del partito di Giorgio La Malfa), che nel 2003 ritroviamo in pista fra i promotori della resuscitata Voce Repubblicana. Dal 2008 esercita la professione di conciliatore bancario.

ARIOTI Alfredo – Un Alfredo Arioti nato a novembre del 1941 compare con la dicitura esplicita di “magistrato” negli elenchi ufficiali degli iscritti alla massoneria di Perugia a tutto dicembre 2007. Si tratta dello stesso Alfredo Arioti Branciforti presente nell’organico della magistratura italiana come “nato a Palermo il 26 novembre 1941”. Il che risulta fra l’altro dal suo curriculum pubblicato da E-Campus, formazione universitaria a distanza, nel quale viene specificato che «dopo essere stato uditore presso la Procura della Repubblica ed il Tribunale di Roma, veniva nominato pretore in Valle D’Aosta a Donnaz». Nel 1969 «si trasferiva a Perugia, dove svolgeva le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale». Dal 1981 Arioti è «sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Perugia. In tali funzioni esplicava numerose e delicatissime inchieste anche nei confronti di varie organizzazioni terroristiche quali Brigate Rosse, NAR, Prima Linea, Ordine Nuovo, talché subiva un attentato terroristico, perpetrato da una organizzazione eversiva, concretizzatosi in esplosioni di colpi di arma da fuoco nei confronti della sua abitazione». Al CSM Arioti aveva dichiarato di essersi allontanato dalla Massoneria fin dal 1992, dopo che per ben due volte l’organo di autogoverno lo aveva dichiarato non idoneo a funzioni superiori proprio a causa di quella affiliazione, che gli aveva fra l’altro fatto meritare consistenti avanzamenti all’interno del sodalizio muratorio. Ne dava notizia, nel 2004, il bollettino di Magistratura Democratica, senza peraltro precisare quali prove avesse addotto il magistrato a riprova del suo allontanamento dalla massoneria, visto che il nome compare ancora negli elenchi 2007. Di Alfredo Arioti si sono comunque più recentemente occupate le cronache locali. È accaduto nel 2008, quando il coordinatore PdL Fabrizio Cicchitto (piduista) lo voleva come candidato a sindaco di Perugia; poi il diretto interessato preferì restare in magistratura – ci informa la Nazione il 19 novembre – e non se ne fece nulla.

ARMANI Giuseppe – Classe 1937, nato a Reggio Emilia, Armani è ancora presente in quanto “Magistrato” negli elenchi degli affiliati 2007, benché abbia da tempo lasciato la toga. Il suo nome venne alla luce già col sequestro Cordova nei primi anni ‘90 insieme a quelli di una ventina fra giudici, pretori e pubblici ministeri, tutti poi sottoposti al giudizio del CSM. Dedicatosi in seguito prevalentemente agli studi giuridici, Armani è autore di libri sulla Costituzione in uso negli istituti superiori. Nel 2006 ha pubblicato a Bologna un volume nel quale vagheggia l’idea di un’Italia laica e liberale.

CASOLI Giorgio – Compare negli elenchi 2007 pure Giorgio Casoli di Perugia, nato il 12 settembre del 1928. Anche il suo nome era rimbalzato alle cronache (e al Consiglio Superiore della Magistratura) dopo i sequestri del ‘92. Intrapresa la carriera come pretore ad Assisi e a Perugia, è a Milano come giudice di Corte d’Appello negli anni del terrorismo; passa poi in Cassazione dove diventa presidente di sezione. Di qui comincia anche la carriera politica: sindaco di Perugia dall’80 all’87, lo stesso anno entra a Palazzo Madama col PSI, dove siede nella giunta delle immunità parlamentari e nella commissione giustizia; sarà poi sottosegretario alle Poste nel governo presieduto da Giuliano Amato. Casoli torna alla ribalta nel 1996, quando conferma ai PM milanesi molte delle accuse lanciate dalla superteste Stefania Ariosto, cui è legato da antica amicizia. Soprannominato dagli amici “il Pertini dell’Umbria”, è considerato oggi in area PD, dopo l’avvicinamento di qualche anno fa al Partito Popolare.

D’AGOSTINO Luciano – La sua affiliazione esplode come una bomba nel ‘92, quando il napoletano D’Agostino, classe 1955, è PM a Locri. «Sono sconcertato – dichiara ai giornali – queste fughe di notizie sono inammissibili». Il vero problema era che il suo nome compariva negli elenchi di una Loggia coperta, la Luigi Ferrer del capoluogo partenopeo. Anche nel caso di D’Agostino assistiamo alle affermazioni – peraltro senza prove – su una presunta uscita dalla massoneria, proprio come si fa per dimettersi da un Cral: «prima di prendere servizio a Lamezia Terme avevo scritto alla loggia Luigi Ferrer di Napoli, regolare del Grande Oriente d’Italia, per segnalare che ritenevo l’esercizio di funzioni giurisdizionali non compatibile con l’appartenenza alla massoneria. Da allora non ho avuto alcun rapporto con i massoni». Basta la parola. Sapeva che era una Loggia coperta?, gli chiede il cronista del Corriere della Sera. E lui: «Un grande oratore del GOI ha detto che è una loggia coperta. Nel breve periodo in cui ne ho fatto parte, non lo era». Non riesce a convincere il CSM, che nel ‘95 gli infligge una sanzione disciplinare, dichiarando che l’appartenenza alla massoneria è lesiva dell’imparzialità dell’ordine giudiziario. Fino a inizio anni 2000 D’Agostino è sostituto procuratore a Catanzaro (dove si occupa, fra l’altro, della delicata questione del testimone di giustizia Pino Masciari), nel 2002 passa alle sezioni giudicanti dello stesso Tribunale. Dal 2007 è tornato a Locri, dove attualmente è giudice per l’udienza preliminare. Nel frattempo era stato alle prese come imputato in un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Salerno. L’accusa (condanna in primo grado per peculato e assoluzione in appello) riguardava l’affidamento ad una ditta dell’incarico di eseguire intercettazioni telefoniche, quando D’Agostino era in servizio alla DDA di Catanzaro.

DI BLASI Salvatore – Attualmente giudice al Tribunale civile di Milano, Di Blasi era fra le toghe iscritte alla massoneria dell’elenco Cordova. Nel 2001 aveva assunto anche il delicato incarico di presidente di sezione in seno alla Commissione Tributaria della Lombardia. In questo periodo il giudice Di Blasi si sta occupando invece della vicenda INNSE, la fabbrica milanese del legno a rischio chiusura.

FRANCIOSI Nicolò – Anche lui presente negli elenchi Cordova del lontano ‘92, oggi il giudice Franciosi, napoletano, classe 1942, è consigliere della Corte d’Appello a Milano. Nel 2003 fa parte della terna giudicante che respinge la richiesta avanzata dai legali di Cesare Previti di ricusazione dei giudici nel processo IMI-SIR. Turbolente le vicissitudini del giudice Franciosi dinanzi al CSM per quell’antica affiliazione: dopo la sanzione disciplinare fa ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Strasburgo condanna al risarcimento in favore di Franciosi non il CSM ma lo Stato italiano, reo di scarsa chiarezza sulle norme che regolano l’appartenenza alla massoneria nel caso di un magistrato. Il Consiglio Superiore, però, nel 2002 respinge la richiesta avanzata da Franciosi di revisione della sentenza di sanzione e, due anni dopo, dice no anche all’inserimento della sentenza europea nel suo fascicolo personale.

LA SERRA Renato – Ecco un magistrato-confratello di cui si sono praticamente perse le tracce. Le ultime notizie che lo riguardano risalgono al 1998 quando, nell’ambito dell’inchiesta a carico dell’ex procuratore generale di Roma Vittorio Mele e del ras della sanità pugliese Francesco Cavallari, vennero a galla i viaggi generosamente offerti dall’imprenditore agli amici in toga, compresa la leggendaria trasferta a Parigi cui prese parte anche l’allora pretore di Trani Renato La Serra. La sua affiliazione alle Logge, emersa negli elenchi Cordova del ‘92, gli era costata, due anni dopo, una sanzione disciplinare dinanzi al CSM.

MAESTRI Angelo Massimo – Classe 1944, originario della provincia milanese, è in servizio alla Corte d’Appello del Tribunale di Palermo. Un caso, il suo, analogo a quello di Nicolò Franciosi: dopo la scoperta dell’affiliazione attraverso il sequestro Cordova, riceve la sanzione disciplinare dal CSM, che sarà confermata anche in Cassazione. Nel 2004 la Corte di Strasburgo condanna lo Stato italiano a risarcire Maestri con 10.000 euro. I problemi, nella carriera di Maestri, però, sono stati anche altri: il suo trasferimento da La Spezia (dove era stato per lunghi anni pretore) a Palermo, era stato infatti disposto nel 2001 dal CSM, che lo accusava di aver ricevuto fidi bancari di consistente importo senza garanzie. Situazione che, sommata alle contestazioni per la affiliazione massonica, non solo determinò il trasferimento, ma anche la destinazione dell’ex pretore “ad un organo collegiale”.

MARSILI Mario – Carriera brillantissima per il genero del Venerabile Licio Gelli, del quale aveva sposato la figlia Maria Grazia. Venuto allo scoperto come massone in sonno nella P2 dopo il sequestro di Castiglion Fibocchi, il dottor Marsili si è gettato alle spalle l’onta di quello scandalo, ottenendo perfino una promozione dal CSM (nell’89), fino a balzare nel ruolo apicale che riveste oggi: sostituto procuratore generale al Tribunale di Roma. Una Procura del resto, quella di piazzale Clodio, che per anni aveva visto al vertice un altro piduista di fama, il massone Carmelo Spagnuolo. Prima giudice istruttore ad Arezzo, poi alle sezioni giudicanti del Tribunale di Perugia, Marsili ebbe solo un piccolo incidente di percorso nell’84, quando fu sottoposto a procedimento penale dinanzi al Tribunale di Verona (per accuse relative alla sua carriera di piduista) e, per questo, gli fu sospeso lo stipendio. In seguito all’assoluzione, riprese la sua escalation nei ranghi della giustizia italiana. Tanto che furono affidate proprio a Marsili le indagini sull’eversione nera di stampo neofascista, comprese quelle a carico di Mario Tuti e l’inchiesta sulla strage dell’Italicus. Come sono andate a finire, lo sappiamo.

MEZZATESTA Michele – No, non era un’affiliazione massonica qualsiasi, quella del magistrato Michele Mezzatesta, nei primi anni ‘90 presidente del Tribunale fallimentare di Palermo. Perché alla stessa Loggia del capoluogo siciliano facevano capo anche fior di mafiosi (fra cui il “ragioniere” di Cosa Nostra Pino Mandalari e Salvatore Greco, fratello del “papa” Michele Greco), politici ed affaristi. “La pietra entra grezza ed esce levigata”, si leggeva all’ingresso di quel tempio, cui gli inquirenti erano arrivati seguendo le tracce di un narcotrafficante agrigentino. La questione si è riaperta in qualche modo nei mesi scorsi, dopo che i pubblici ministeri di Caltanissetta hanno chiesto all’AISI, attuale sancta sanctorum dei servizi segreti italiani, di visionare gli archivi sulla strage di Capaci. In compenso Mezzatesta non figura più nei ranghi della magistratura italiana.

MONDELLO Fabio – Consigliere di Corte d’Appello a Roma, dopo il clamore seguito al ritrovamento del suo nome fra i massoni del sequestro Cordova, nel ‘96 Mondello finisce nuovamente nei guai a causa di un processo che lo vede imputato insieme all’allora presidente di Cassazione Filippo Verde per aver usufruito di viaggi offerti dalla Canon ad alti esponenti del Ministero di via Arenula, dove i due magistrati avevano prestato servizio nei primi anni ‘90. Il nome di Mondello rimbalzò contemporaneamente anche nell’ambito di un altro scottante procedimento, quello che vide coinvolto il gip della capitale Renato Squillante e l’avvocato Attilio Pacifico. In seguito alla condanna in primo grado riportata a Perugia per la vicenda Canon, Mondello ha lasciato la magistratura.

MONTI David – Un caso davvero spinoso, quello di David Monti, il cui nome è legato all’inchiesta, condotta quando era PM ad Aosta, denominata Phoney Money ed incentrata su traffici internazionali che coinvolgevano massoni, alti prelati e pezzi dello Stato. Correva l’anno 1996 e nessuno si ricordava più che il nome di David Monti era negli elenchi sequestrati da Agostino Cordova. Anche Monti, all’epoca, aveva fatto ricorso alla solita scusa: «la mia iscrizione alla massoneria? Una semplice curiosità giovanile». Sarebbe interessante sapere come ha fatto il magistrato (e con lui diversi altri colleghi) a cancellare il complesso rituale dell’affiliazione ma, soprattutto, a rinnegare il giuramento di sangue fatto dinanzi ai confratelli. Una bella letterina di dimissioni, come al circolo del golf? Di sicuro Monti ha proseguito senza impedimenti la sua carriera nell’ordinamento della magistratura italiana. Ed oggi è GIP a Firenze.

MONTI Mauro – Classe 1947, riveste attualmente l’alta carica di sostituto procuratore aggiunto al Tribunale di Bologna, la città dove è nato. Dopo la scoperta del suo nome negli elenchi sequestrati da Cordova, di Mauro Monti le cronache non si erano più occupate. Tornano a farlo ad agosto 2009 quando, su richiesta dello stesso Monti, il Tribunale accoglie le istanze avanzate in appello dai difensori di Saverio Masellis e Francesco Cardamone, esponenti del clan dei casalesi accusati per aver gestito bische clandestine nel riminese. Risultato: per i due la sentenza di condanna è stata annullata e gli atti tornano al GUP.

NANNARONE Paolo – I problemi cominciano fin dall’83, perché il nome di Nannarone è già lì, negli elenchi della Loggia Propaganda 2, insieme a quelli di altri magistrati. A differenza dei colleghi, Nannarone viene assolto dal CSM. E benché lo si ritrovi nuovamente negli elenchi Cordova del ‘92, il magistrato continua la sua carriera senza problemi; quello stesso anno presiede al Tribunale di Perugia (dove ha svolto la gran parte della sua attività) la Corte d’Appello che proscioglie il finanziere “a un passo da Dio” Pierfrancesco Pacini Battaglia, difeso dall’attuale parlamentare di AN Giulia Bongiorno. Nel ‘96 ritroviamo Nannarone a capo della Corte d’Assise chiamata a pronunciarsi sul delitto del giornalista Mino Pecorelli. Ritenuto incompatibile, sarà sostituito dal collega Giancarlo Orzella. Nel 2000, sempre a Perugia, pronuncia una storica sentenza: i clienti delle prostitute non sono punibili per favoreggiamento. Classe 1939, lasciata la magistratura Nannarone è oggi nell’organigramma di vertice della Banca Popolare di Cortona.

PINELLO Francesco – Classe 1932, presidente del Tribunale di sorveglianza di Palermo, nel 2005 fa parlare di sé per il regime di semilibertà concesso al pluriomicida del Circeo Angelo Izzo, tanto che l’allora guardasigilli Roberto Castelli decise di inviare gli ispettori in Sicilia. In precedenza il nome di Pinello era balzato alle cronache negli elenchi massonici del ‘92, che gli costarono un procedimento disciplinare del CSM a suo carico.

PONE Domenico – In quegli elenchi del ‘92 c’era anche Domenico Pone: una cosa da poco rispetto alla scoperta, avvenuta nel lontano 1983, della sua contemporanea affiliazione alla P2, proprio mentre prestava servizio alla suprema Corte di Cassazione. Segretario, all’epoca, di Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe, Pone rappresenta uno fra i pochissimi casi di magistrati rimossi dall’ordinamento giudiziario per appartenenza alla Loggia fondata da Licio Gelli.

RESTIVO Nicola – È giudice per le indagini preliminari a Perugia, Nicola Restivo. Una delle ultime operazioni che portano la sua firma risale a maggio 2009, quando convalida il sequestro di biomasse trasportate illecitamente nelle campagne umbre. Nel 2007 un altro blitz, questa volta a carico di operatori assenteisti nella locale azienda ospedaliera. Nel ‘92, quando era procuratore capo a Perugia, il suo nome rimbalzò fra quelli dei massoni nelle liste Cordova. Il che, come abbiamo visto, non ha intralciato la sua brillante carriera.

RINAUDO Antonio – Anche la iscrizione di Rinaudo alla massoneria viene a galla con gli elenchi del ‘92. Attualmente in servizio a Torino (la città in cui è nato nel 1948) come pubblico ministero, si è recentemente occupato dell’ex giocatore della Juve Michele Padovano, sotto accusa per un presunto traffico di droga col Marocco. Nel 2006 le intercettazioni a carico di Luciano Moggi disposte dalla Procura partenopea portano alla luce la frequentazione assidua fra l’ex plenipotenziario del calcio italiano ed il PM Rinaudo, fra cene con signore e scambi di regali natalizi. Ai magistrati napoletani che lo interrogano sulla sua possibile affiliazione alle Logge, Moggi risponderà: «Massone io? Mai»…

ROMAGNOLI Riccardo – È in servizio al Tribunale civile di Roma il dottor Romagnoli, che a gennaio dello scorso anno ha pronunciato una storica sentenza riguardante Poste Italiane. Nel 1996, a seguito del ritrovamento del suo nome negli elenchi massonici del ‘92, a Riccardo Romagnoli il CSM inflisse la perdita di due anni d’anzianità. Il che scatenò la vibrata protesta del Grande Oriente d’Italia.

ROMANO Guido – È presidente del TAR della Calabria, il magistrato Guido Romano. La sua affiliazione – il nome era presente negli elenchi del ‘92 – non ha dunque turbato una carriera piena di soddisfazioni professionali. La decisione dell’allora guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi.

SALEMI Guido – Consigliere di Stato, giudice al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche e componente della Commissione Tributaria Centrale. Queste le attuali qualifiche di Guido Salemi, che al Consiglio di Stato ha pronunciato nel corso degli anni numerose e rilevanti sentenze. La sua iscrizione in massoneria venne alla luce con gli elenchi del ‘92.

SCARAFONI Stefano – Fra quelle carte c’era anche il nome di Stefano Scarafoni. Romano, classe 1961, all’epoca giudice al Tribunale di Tolmezzo, Scarafoni doveva essersi iscritto giovanissimo alla massoneria. Oggi è in servizio come magistrato fra i più attivi alla sezione fallimentare del Tribunale di Tivoli.

SERGIO Ferdinando – Il suo nome – al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini – venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati, quando nel ‘77 erano stati eletti ai vertici della ANM.

SERIANNI Vincenzo – Originario di Motta Santa Lucia, in provincia di Catanzaro, fino al 2001 è stato presidente di Corte d’Appello a Milano. Presente negli elenchi del ‘92 (quando presiedeva una sezione giudicante al Tribunale di Torino), l’anziano magistrato calabrese, classe 1929, risiede da anni nella zona di Casale Monferrato, dove frequenta il locale Rotary e presiede la Giunta esecutiva alla Camera di Commercio.

SPINA Antonio – Ad aprile ‘95 il CSM gli commina la sanzione disciplinare per l’affiliazione alla massoneria, venuta alla luce con gli elenchi del ‘92, mentre Spina esercitava la funzione di pretore a Sciacca, in Sicilia. Attualmente non risulta presente nei ranghi della magistratura.

TONINI Paolo – Il nome di Tonini era compreso nella lista dei magistrati trovata nella villa sudamericana di Gelli (vedi Ferdinando Sergio). Da tempo Tonini è passato nei ranghi accademici come docente di diritto processuale penale, che insegna all’Università di Firenze. In tale veste organizza incontri patrocinati dal CSM per la formazione e il tirocinio delle nuove leve in magistratura.

TRAPANESE Mario – A lungo presidente di sezione al Tribunale di Ancona, dopo il ritrovamento del suo nome negli elenchi del ‘92 fu deferito – insieme ai colleghi-confratelli – alla sezione disciplinare del CSM dall’allora ministro Conso. Origini napoletane, l’anziano magistrato si dedica oggi, sempre ad Ancona, a sostenere le sorti di un’associazione benefica, la Lega del Filo d’Oro.

VELLA Angelo – Ha fatto epoca, nel 1990, la decisione di Palazzo dei Marescialli, che aveva bloccato la promozione di Vella a presidente di sezione del Tribunale felsineo per la sua dichiarata appartenenza alla massoneria. Un parere che scatenò le ire di Francesco Cossiga. Nel 1974 il giudice Vella si era occupato della strage dell’Italicus. In anni più recenti, almeno fino al 2001, è stato membro della Corte di Cassazione.

VITALI Massimo – Era sostituto procuratore a Brescia ai tempi della strage di Piazza della Loggia e proprio a lui, insieme ad altri due colleghi, furono affidate le indagini su una tragica vicenda della quale ancor oggi si cerca una verità. La affiliazione di Vitali alla Massoneria verrà alla luce solo con gli elenchi del ‘92. Cosa fa ora? Classe 1946, originario di Grosseto, Vitali è in servizio. Sempre a Brescia. Come consigliere di Corte d’Appello.

Una annotazione finale: diamo per scontato che tutti i magistrati qui elencati e le centinaia di colleghi iscritti alla massoneria svolgano il loro lavoro con diligenza e professionalità. Quello che il cittadino (vittima, imputato, parte offesa, imprenditore a rischio fallimento) ha il diritto di sapere è che restano legati fino alla morte a quel giuramento. Che la massoneria non è un gioco di società dal quale si esce a piacimento. E che violare quel patto ha significato, per molti, perdere la vita.

Correzione dalla Voce delle Voci dell’articolo su magistrati e massoneria. Dalla Voce delle Voci in edicola.

C’e’ un caso di omonimia nella nostra inchiesta di gennaio 2010 sui “Magistrati Massoni”. A seguito della lettera che qui di seguito pubblichiamo integralmente, precisiamo che il dottor Guido Romano, attualmente consigliere di Stato e gia’ presidente di sezione al Tar della Calabria, NON E’ l’omonimo magistrato ordinario Guido Romano il cui nome fu ritrovato, insieme a quelli di altri magistrati, fra le carte sequestrate nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Il dottor Guido Romano consigliere di Stato, residente a Roma, non ha mai fatto parte della massoneria ne’, come ipotizzavamo nell’articolo, e’ mai passato dai ranghi della magistratura ordinaria a quelli della magistratura amministrativa, dal momento che ha prestato servizio sempre e solo nella magistratura amministrativa. Ce ne scusiamo col diretto interessato, pregando i colleghi dei siti internet che avessero ripreso il nostro articolo di apportare al più presto – come già abbiamo fatto noi – la correzione e la rettifica.

Oggetto: richiesta di smentita ai sensi e per gli effetti della legge n. 47 del 8 febbraio 1948, nel testo vigente;

Lo scrivente Guido Romano, nato ad Aversa (Caserta) l’11 luglio 1945 e residente a Roma, via Nepi n. 28, nominato Giudice Amministrativo nel settembre 1984, quale vincitore di pubblico concorso, ha svolto le relative funzioni nei TT.AA.RR. della Lombardia, sede di Brescia, dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, della Campania, sede di Napoli, del Lazio, sede di Roma, e della Calabria, sede di Catanzaro, nonchè dal settembre 2007 presso il Consiglio di Stato ove tuttora esercita le funzioni giurisdizionali. Esso scrivente è venuto a conoscenza che nel n,1 dell’anno 2010 della versione cartacea del mensile “La Voce delle Voci” appare, in copertina, a lettere cubitali, il titolo “Magistrati Massoni” ed all’interno e’ inserito articolo a firma del condirettore Rita Pennarola nel quale vengono elencati, in ordine alfabetico, i nomi di magistrati che, per affermazione dell’articolista, sarebbero affiliati alla massoneria. In detto articolo è inserito il nome di “Romano Guido” che, essendo immediatamente seguito dalla precisazione “… è Presidente del Tar della Calabria…”, non può che riferirsi alla persona dello scrivente, tenuto conto che in tale sede giudiziaria amministrativa lo stesso scrivente ha prestato servizio per circa due anni, esercitando la funzione di Presidente della Seconda Sezione (e non anche di Presidente dell’intero TAR, come invece e’ affermato nell’articolo) e che nella storia del TAR Calabro nessun altro magistrato amministrativo, avente nome e cognome identico allo scrivente, vi ha mai prestato servizio fino ad oggi. Peraltro, tale oggettivo, quanto falso, riferimento alla persona dello scrivente ha trovato conferma anche nel fatto che numerosi colleghi, amici e conoscenti, specialmente nelle Regioni Campania e Calabria, hanno immediatamente manifestato allarme, incredulità e stupore per la notizia appresa nella lettura dell’articolo in questione, pubblicato anche sul sito Internet della “Voce delle Voci” e ripreso da altri siti Internet quali, per quel che allo stato consta, “Facebook” e “Terracina Social Forum”.

Ciò premesso, lo scrivente precisa al riguardo, innanzi tutto, che:

1) non è stato mai affiliato alla massoneria (ne’ coperta ne’ scoperta) e non lo è tuttora:

2) non ha mai fatto parte della Magistratura Ordinaria, ma soltanto della (distinta e autonoma) Magistratura Amministrativa, nei cui ruoli è iscritto dal 1984 a seguito di pubblico concorso;

3) ha esercitato dal 1968 l’attività di “praticante procuratore legale”, prima di accedere, dal 16 gennaio 1972, sempre a seguito di pubblico concorso, al ruolo dei “funzionari direttivi” del Ministero della Pubblica Istruzione, dal quale è, poi, transitato nella magistratura amministrativa (TAR).

Contesta, conseguentemente, ad ogni effetto di legge, che il riferimento alla propria persona, cosi’ come operato nell’articolo in questione, quale iscritto nell’elenco dei magistrati massoni, e’ certamente falsa ed e’ frutto del comportamento del tutto poco accorto e non diligente dell’autore dell’articolo predetto, tenuto conto che l’autrice non si e’ preoccupata, evidentemente, di operare alcuna verifica degli elementi utilizzati.

Infatti sarebbe stato sufficiente verificare se il nominativo “Guido Romano” – che si afferma nello stesso articolo essere contenuto, come gli altri nominativi di magistrati, negli “… unii elenchi (comprensivi delle logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ’92 dall’allora Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova…” – fosse l’unico esistente nei distinti ruoli delle varie Magistrature, per cui non poteva non essere quello del magistrato amministrativo individuato nell’articolo in questione come “…Presidente del TAR della Calabria…”, ovvero esistesse nel 1977 (data riportata nella lettera ritrovata nella villa uruguaiana di Licio Gelli e riferita al presunto finanziamento per l’elezione della A.N.M.) e nello stesso 1992 (data di redazione dei citati elenchi Cordova) altro magistrato ordinario con lo stesso nome e cognome; sarebbe stato sufficiente, altresì, ricorrere a nozioni di comune conoscenza quale la notoria distinzione dei magistrati amministrativi del TAR (quale lo scrivente dal 1984 e nel 1992) dai magistrati ordinari (civili e penali), amministrati da distinti organi di autogoverno (C.P.G.A. per i giudici amministrativi e C.S.M. per i magistrati ordinari). Inoltre, l’autrice dell’articolo non si è evidentemente preoccupata neppure di leggere il contenuto complessivo del proprio scritto poichè, diversamente, si sarebbe resa conto che il riferimento operato alla mia persona, attraverso lo specifico e qualificante richiamo alle funzioni di “…Presidente del TAR della Calabria…” contraddiceva, in maniera del tutto oggettiva, le altre notizie ed affermazioni contenute nello stesso articolo e cioe’, sia il successivo riferimento, operato sempre nello stesso contesto descrittivo della mia persona, al fatto che “… la decisione dell’allora Guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi…”, essendo notoriamente competente il predetto Guardasigilli soltanto per i magistrati ordinari, e non anche per quelli amministrativi, diversamente governati dal citato apposito organo di autonomia, sia l’affermazione, questa volta operata nel contesto del profilo descrittivo di altro magistrato ordinario citato dallo stesso articolista nell’elenco (Sergio Ferdinando), che quest’ultimo, “… al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini… (omissis) … venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati quando nel ’77 erano stati eletti ai vertici dell’ANM…”.

E’ evidente, in sintesi, che nel 1977 lo scrivente, in quanto funzionario direttivo dei ruoli del Ministero della Pubblica Istruzione, non apparteneva (come non ha mai appartenuto) alla magistratura ordinaria e, quindi, non poteva ne’ candidarsi, ne’ essere eletto nel direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati, del quale ha, invece, fatto parte l’omonimo “… magistrato ordinario Guido Romano”, citato nella lettera ritrovata nella villa di Gelli in Uruguay ed inserito negli elenchi “… sequestrati nel ’92 dall’allora Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova”.

Orbene, per tutto quanti sin qui precisato, lo scrivente chiede che venga, immediatamente, effettuata puntuale ed adeguata smentita – con le modalità prescritte dall’art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, nel testo vigente – della notizia contenuta nell’articolo di stampa in questione, concernente la mia persona, con la quale dovrà essere chiarito, con tutte le necessarie puntualizzazioni e senza alcuna possibilità di equivoco, che il nome del magistrato Guido Romano che appare nell’elenco riportato in detto articolo (pubblicato sia sul mensile cartaceo La Voce delle Voci n. 1 del 2010 e sia sul corrispondente sito Internet www.lavocedellevoci.it) non e’ in alcun modo riferibile al dottor Guido Romano, nato ad Aversa l’11 luglio 1945 e residente a Roma, via Nepi n. 28, già Presidente della Seconda Sezione del TAR Calabria ed attuale Consigliere di Stato, trattandosi all’evidenza di caso di mera omonimia con altro magistrato ordinario.

Alla rettifica, così come impone la citata norma di legge, dovrà essere dato il dovuto risalto. Attraverso collocazione, caratteri e dimensioni grafiche eguali a quelli utilizzati per la redazione dell’articolo in questione, e dovrà essere pubblicata non soltanto nel numero cartaceo del mensile La Voce delle Voci di febbraio 2010, ma anche, ed immediatamente, sul sito Internet sopra indicato, con speciale avvertenza degli effetti della citata legge, risultando esso, allo stato, certamente ripreso, come gia’ segnalato piu’ innanzi, da altri siti Internet quali “Facebook” e “Terracina Social Forum”. Lo scrivente, infine, resta in attesa di un pronto riscontro che assicuri l’immediata pubblicazione della rettifica richiesta, salvo e riservato ogni altro diritto ed azione a tutela della propria dignità ed onorabilità. Guido Romano.

Diffamazione, chiude “la Voce delle Voci”. Ma scatta indagine sul giudice che l’ha condannata. 

Nel 2008 i giornalisti del mensile campano scrivono un articolo sull'insegnante di Di Pietro Junior, poi diventata coordinatrice dell'Idv. Nel 2013 vengono condannati in primo grado a un maxi risarcimento che costringe la testata a chiudere dopo 30 anni. Inutili gli appelli al Quirinale (che salvò Sallusti). I giornalisti però nel 2014 denunciano il giudice che li ha condannati, ora indagato per abuso d'ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai loro danni. La decisione del Gip a giorni. E il caso rilancia il tema della censura dell'informazione attraverso il ricatto economico, scrive
 il 14 luglio 2015 su “Il Fatto Quotidiano”.
In Parlamento torna una gran voglia di “legge bavaglio”, pochi però si preoccupano delle manette che bloccano le rotative della libera informazione. Brandendo come una clava l’istituto della diffamazione. A farne le spese, in ultimo, è il mensile campano “la Voce delle Voci” che è in edicola da trent’anni e si è fatto largo nel panorama delle notizie con inchieste scomode su vari fronti, dalle infiltrazioni della camorra negli uffici pubblici ai fatti di corruzione e fino al coinvolgimento di logge massoniche in affari poco chiari. La storia è ingarbugliata ma emblematica. Al cuore di tutto c’è una sentenza emessa a marzo 2013 dal Tribunale  di Sulmona che ha imposto un risarcimento danni di 69 mila euro (più gli interessi) a favore dell’attuale coordinatrice dell’IdV del capoluogo abruzzese, Annita Zinni. La Zinni voleva avere soddisfazione per un articolo scritto nel 2008,  e successivamente parzialmente rettificato, che riguardava il suo ruolo per la formazione del figlio di Antonio di Pietro, Cristiano. La condanna emessa cinque anni dopo ha avuto conseguenze catastrofiche per il giornale, ridotto sul lastrico: per riscuotere la somma i legali della signora Zinni hanno pignorato i conti personali dei giornalisti e anche i contributi dello Stato, pari a 21mila euro, che la cooperativa editrice doveva ancora riscuotere. Il legale della Voce, l’avvocato Michele Bonetti, si era opposto affermando che quelli sequestrati sono fondi pubblici che lo Stato eroga per garantire un bene comune prezioso: il diritto ad essere informati andando oltre ciò che diffondono le veline dei Palazzi. Niente da fare. E alla fine è stata pignorata anche la testata giornalistica, costringendo il mensile a sospendere le pubblicazioni.Ma c’è di più. I giornalisti, in attesa che si celebri l’appello all’Aquila, hanno sporto denuncia contro Massimo Marasca, il magistrato di Sulmona che il 25 marzo 2013 ha pronunciato la sentenza di morte del mensile. Alla Procura generale della Cassazione, al ministero della Giustizia, al Csm e alla Procura di Campobasso hanno denunciato l’inerzia investigativa degli uffici giudiziari che fanno capo al magistrato sul cui tavolo era finita la vicenda Zinni. Marasca è ora indagato per abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai danni dei giornalisti Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola. Tocca ora a un giudice del Tribunale di Campobasso, Maria Rosaria Rinaldi, il delicato compito di pronunciarsi sulla condotta di un collega e stabilire se le indagini a suo carico debbano proseguire. Al termine della camera di consiglio del 7 luglio scorso, il Gip ha rinviato la decisione ai prossimi giorni. Così l’esistenza del mensile resta appesa a un filo, nel silenzio generale. Poche infatti sono le voci che si sono levate per rilevare l’evidente “sproporzione” tra l’errore contestato ai giornalisti, le dimensioni della testata, la capacità economica dei condannati  la condanna a morte della loro testata. Non ha prodotto i frutti sperati, ad esempio, il tentativo di interessare della vicenda Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Repubblica e del Consiglio superiore della Magistratura, l’organo competente a valutare le condotte dei singoli magistrati”. Al Capo dello Stato si erano rivolti i giornalisti de la Voce delle Voci il 22 aprile 2014. Con una lettera gli chiedevano di correggere gli effetti di una sentenza abnorme che determinava la cessazione delle pubblicazioni della testata. Infondo, avranno pensato, Napolitano si era dimostrato attento al delicato rapporto tra stampa e giustizia:  non erano passati due anni da ché aveva commutato il carcere in sanzione pecuniaria per Sallusti. Ma Napolitano non rispose mai direttamente. Lo fece il direttore dell’Ufficio per gli Affari dell’Amministrazione della Giustizia del Quirinale, Ernesto Lupo: “Pur nella migliore comprensione, non rientra tra le attribuzioni costituzionali del Capo dello Stato l’intervento su questioni appartenenti alla competenza dell’autorità giudiziaria”. L’esposto finì sul tavolo del Csm, e lì è rimasto. A tenere viva l’attenzione sul caso, invece, è l’Osservatorio “Ossigeno per l’Informazione”, promosso dalla Federazione Nazionale della Stampa e dall’Ordine dei giornalisti per monitorare casi di censura e minaccia a danni dei giornalisti. “Attendiamo con vivo interesse la decisione del gip” ha dichiarato il direttore Alberto Spampinato. “L’iter di questo processo – aggiunge – dimostra in modo plateale che le norme vigenti in Italia in materia di diffamazione a mezzo stampa consentono punizioni e censure che vanno ben oltre la previsione della pena detentiva e che non hanno nulla a che vedere con la difesa della reputazione personale. Ci dice poi che queste norme consentono di fare sparire un giornale dalle edicole e di ridurre sul lastrico chi è ritenuto colpevole di aver sbagliato. Il nostro interesse al caso della Voce delle voci è accresciuto dall’emergere dell’ipotesi di condotta scorretta del giudice che ha pronunciato siffatta sentenza. Penso perciò che il giudice per le indagini preliminari di Campobasso abbia fatto bene a riservarsi la decisione che deve dimostrare che la magistratura è capace di indagare sulla correttezza dei suoi stessi membri e di giudicare i loro comportamenti con la stessa severità con cui giudica quelli degli altri cittadini. Egregio giudice, faccia con calma, prenda il tempo che le serve per fare la cosa giusta”. Infine il messaggio a Parlamento e Governo: “Se la magistratura deve impedire le conseguenze ultronee delle sue sentenze, Parlamento e Governo devono correggere senza ulteriori indugi le norme sulla diffamazione che tuttora prevedono il carcere per i giornalisti per evitare che esse limitino il diritto di informare e di essere informati. Se  un giornalista e il suo giornale devono mettere in palio  tutto ciò possiedono, e anche la possibilità di proseguire la loro attività, ogni volta che pubblicano una notizia controversa, in questo paese non c’è più spazio per l’informazione giornalistica”.

Basilicata: magistrati e avvocati massoni? Si chiede Franco Venerabile su Indipendente Lucano riportato da “Karakteria”. Non ci sarebbe nulla di male, sia beninteso. Lo stesso presidente Napolitano usa esprimere familiari auguri e sentimenti cordiali al Gran Maestro di turno. Ma sarebbe utile capire, avere qualche risposta a questioni che aleggiano da alcuni anni. Almeno dal 2007, da quando, in una telefonata intercettata tra un giornalista di cui il PM Annunziata Cazzetta ed il Gip Angelo Onorati erano all'affannosa ricerca delle fonti, qualcuno disse che Vincenzo Autera (magistrato della Corte d'Appello di Potenza) ed Emilio Nicola Buccico (avvocato materano) erano in forza ad una loggia estera. La fonte, in quel caso, era un appartenente alla Massoneria noto per questa sua legittima adesione, ma nessuno ritenne di approfondire la questione e tutto rimase in un nastro ed in qualche foglio di trascrizione. Sembra che solo a nominarla, la Massoneria crei imbarazzo. Poi, molto poi, si accertò che tutte quelle intercettazioni, Cazzetta ed Onorati le avevano disposte e tenute illecitamente e nel giugno 2012 un giudice stabilì di trasferire il procedimento a Catanzaro. Anche lì, Vincenzo Autera aveva un precedente: indagato per associazione mafiosa dal 2007 al 2009 (ma l'iscrizione originaria, a Firenze, era del 2005), procedimento archiviato. In quei quattro anni, nessuno aveva comunicato l'iscrizione di una ipotesi di reato così grave alla Procura presso la Corte di Cassazione. Il che è gravissimo, pare! Anche Cazzetta era ben nota a Catanzaro, alcune decine di procedimenti la vedevano indagata per reati anche gravissimi. Quasi tutti definiti con archiviazione, alcuni pendenti. Ma tutti senza alcuna attività d'indagine, almeno tutti quelli tenuti dal PM Paolo Petrolo: più che un magistrato inquirente si potrebbe definire un magistrato paragnosta. Tranne che per l'identità degli indagati (se magistrati), che suole iscrivere nell'imminenza della formulazione della richiesta di archiviazione, per il resto i fascicoli appaiono scevri di qualsivoglia attività ma motivati da potenti precognizioni. Significativo il caso in cui si accertò la mancanza di oltre cento faldoni che, secondo il Gip, non avrebbero potuto contenere alcun elemento utile a modificare la decisione di archiviare. Quasi che quegli atti d'indagine che nessuno aveva potuto visionare fossero carta straccia. Che a Catanzaro la preveggenza non sia una virtù, lo si scopre attraverso una recentissima inchiesta della Procura di Salerno. "La 'ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria. Abbiamo amicizie: medici, avvocati, politici, giudici, commissari", la frase è di un noto boss della 'ndrangheta ed è intercettata dalle microspie dei Carabinieri del ROS di Salerno. Il collante è proprio l'appartenenza alla massoneria. Massone è anche il magistrato /Gip) Giancarlo Bianchi che di favori, secondo la Procura di Salerno, ne distribuisce più d'uno. E qui ritroviamo il PM Paolo Petrolo, parte de "l'ingranaggio" a disposizione della  'ndrangheta. Un sistema di contatti, che ruota attorno al giudice Bianchi e a due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro: Giampaolo Boninsegna e Paolo Petrolo. Per questi tre magistrati, il PM di Salerno aveva chiesto l'interdizione: negata! Se fossero stati semplici poliziotti sarebbero stati arrestati ma non tutti nascono col cappuccio. Resta un'ultima domanda, questa al Dr. Paolo Petrolo: scusi, lei è massone?

Potenza, le accuse del giudice: «Processi lenti, patti con avvocati». Indagato il procuratore generale, scrive Carlo Vulpio su “Il Corriere della Sera”. Qui non si parla di intercettazioni, o di racconti di «pentiti». Qui si parla di magistrati che davanti al Csm e poi davanti a un altro magistrato denunciano fatti che oggi riguardano la Basilicata, ma che domani (o già oggi, com' è accaduto in Umbria) potrebbero toccare gran parte della magistratura italiana e costringerla a «guardarsi dentro». Ma non allontaniamoci dalla Basilicata, dove la domanda è: c' è o no un «comitato», una «cabina di regia» che gestisce i processi e ne determina l'esito? Sì, secondo il gip di Potenza, Rocco Pavese, le cui dichiarazioni hanno contribuito a fare iscrivere nel registro degli indagati presso la procura di Catanzaro anche il procuratore generale di Potenza, Vincenzo Tufano. Ecco come funzionerebbe il presunto «comitato». «I magistrati della Dda - dice Pavese - devono essere addetti ai procedimenti di mafia, lo dice il Csm, salvo eccezionali esigenze da motivare caso per caso. A Potenza questo invece non avveniva. Numerosi fascicoli relativi a reati di pubblica amministrazione o reati commessi da pubblici ufficiali, sono sempre stati trattati, oltre che da altri magistrati, anche da Giuseppe Galante e Felicia Genovese (capo e vicario della procura antimafia di Potenza, ndr) spesso in co-delega. Insomma, quando si tratta di fare il lavoro duro, ordinario, per esempio andare in applicazione a Lagonegro, si eccepiva questa riserva a favore della Dda. Quando invece si trattava di fare procedimenti, guarda caso sempre e sistematicamente di pubblica amministrazione, lì questa riserva non veniva fatta valere». Il procuratore generale, Vincenzo Tufano, sarebbe dovuto intervenire. Invece, «nemmeno un rilievo o un appunto». «Il pg contro i magistrati» Secondo il gip Pavese, Tufano «in consonanza con una parte dell' avvocatura, ha come bersaglio i magistrati che fanno il proprio dovere senza guardare in faccia nessuno». Un esempio è il procedimento «Iena« (il primo grosso procedimento in Basilicata che ha visto coinvolti numerosi politici, ndr), che provocò «una serie di polemiche molto virulente, anche sulla stampa locale, che si schierò pressoché unanimemente contro la magistratura e a favore della classe politica. In realtà non è che la classe politica lucana era tutta sotto accusa in quel procedimento. C'erano singole persone indagate: colletti bianchi, imprenditori, delinquenti di strada e anche Renato Martorano, forse il più importante esponente della mafia lucana, vicino alla 'ndrangheta, che ha una condanna per associazione mafiosa passata in giudicato. Emergevano insomma chiaramente collegamenti tra il Martorano e i suoi accoliti con questi colletti bianchi e imprenditori». Il club degli avvocati Gli avvocati con i quali il procuratore generale Tufano sarebbe «in consonanza», al punto da consigliarli come difensori anche a imputati di gravi reati, sono gli stessi che hanno prodotto un «libro bianco» contro i magistrati che Tufano non mancava di «rampognare». Questo «club» tra avvocati e procuratore generale, «il quale più volte, anche pubblicamente, ha preso le parti dei suoi amici avvocati contro alcuni magistrati», ha poi portato alla nascita a Potenza, caso forse unico in Italia, di una seconda Camera penale. Eppure, dice Pavese, «Tufano non ha mai avuto nulla da ridire sulla spropositata durata dei dibattimenti collegiali, com' è accaduto nel processo per mafia detto I Basilischi». Continua Pavese: «Decine di persone arrestate ad aprile 1999, cinquanta rinvii a giudizio a marzo 2000 e un dibattimento che oggi non è ancora finito! Con danni erariali gravissimi: spese di traduzione, verbalizzazione, videoconferenza, oneri per i gratuiti patrocini e così via. E poi inevitabilmente, alla fine, a prescindere dal merito processuale, ci saranno gli indennizzi per eccessiva durata del processo ai sensi della legge Pinto. E questo è un problema che è sotto gli occhi di tutti. Devo ritenere che faccia comodo. Il dottor Tufano, questo, non lo ha mai rilevato». I brogli elettorali Un caso importante di cui si è occupato il gip Rocco Pavese riguarda i brogli elettorali alle elezioni amministrative del 2005, comunali e regionali, di Scanzano Jonico. In quella vicenda, ricorda il gip, il pm era Felicia Genovese. Ci furono arresti, «ma non per quelli che avevano attivamente preso parte alla designazione dei presidenti di seggio compiacenti, nonostante le intercettazioni, che io ricordo bene, in cui era coinvolto anche un cancelliere della corte di Appello di Potenza, e in cui si diceva: "Nomina questo, nomina quell' altro", e si facevano nomi e cognomi. Insomma, non ci fu richiesta cautelare a carico di coloro che avevano avuto un ruolo importante in tutta la vicenda». E ancora: «Uno degli interlocutori era proprio l' avvocato Labriola, che notoriamente è assai vicino, a Matera e in tutta la Basilicata, all' avvocato Buccico, importante esponente di An. È chiaro che io intesi questo fatto come un atto di riguardo nei confronti di un livello politico amministrativo, del notabilato di un livello superiore che non era il caso di toccare. Questo, senza volere fare illazioni, mi pare che sia proprio in re ipsa». Non manca la massoneria deviata, che in Basilicata sembra aver messo le zampe nelle vicende più oscure. «A giudicare da come funzionano giustizia e amministrazione della politica - sostiene Pavese - sembra che chi ha degli agganci riesce a risolvere i propri problemi, chi non li ha, pur avendo ragione da vendere, non li risolve. Si potrebbe dire che la vicenda "Iena" è uno dei casi in cui questi legami, amicizie, vicinanze, si sono poi estrinsecate in condotte concrete, perché ci fu all' unisono una reazione della stampa contro la magistratura che procedeva, sia inquirente sia giudicante». Il caso di Elisa Claps. Quando in Basilicata si parla di legami massonici, si parla di ' ndrangheta e di almeno di una decina di omicidi insoluti negli ultimi vent' anni. Tra i quali, la misteriosa scomparsa, nel 1993, della studentessa sedicenne Elisa Claps. Del caso Claps si occupò anche il pm Genovese, cioè la moglie di Michele Cannizzaro. Questi, poi diventato direttore generale dell' ospedale di Potenza, era stato sospettato di aver aiutato a «coprire» Danilo Restivo, il giovane accusato di aver fatto sparire Elisa. Al di là dei tanti altri buchi neri di quella scomparsa, il gip Pavese si sofferma su un punto in particolare: l' insistenza del pm Genovese di imputare Danilo Restivo, nei cui confronti l' accusa di omicidio venne archiviata, per false dichiarazioni rese al pm. Così il presunto omicida sarebbe diventato un presunto falso testimone. Una vicenda che fa dire a Pavese: «È assolutamente non condivisibile che colui che è il principale sospettato di essere l' autore dei reati nella scomparsa della ragazza venga ad essere imputato di false dichiarazioni al pm. Questa è una cosa concettualmente incompatibile con la partecipazione, o meglio, con gli indizi di partecipazione al reato principale. Perché se io dico una persona è sospettata di aver commesso un reato, e ci sono degli indizi, va trattata quale indagato, non lo si può sentire quale informatore». Il pm Genovese sembrava anche molto attiva nell' archiviare denunce per reati contro la pubblica amministrazione. «A me sono capitate quasi tutte le richieste di archiviazione del pm Genovese - dice Pavese -. Ne ricordo una per un procedimento contro Filippo Bubbico (Ds), presidente della giunta regionale, per una questione di finanziamenti a un Comune. Una per Antonino Imbesi (FI), consigliere comunale a Potenza, in questo caso pm era anche Galante. Per Roberto Schettini, capo dell' Ufficio tecnico di Tramutola, in provincia di Potenza, ci furono varie richieste di archiviazione per abusi edilizi, che io non accolsi, e sfociarono in un' imputazione coattiva da parte mia. Il pm era ancora la Genovese. E ancora, una richiesta di archiviazione per quattro vigili urbani di Potenza accusati di falso per non aver fotografato una costruzione abusiva. Anche in questo caso, io non ho accolto la richiesta di archiviazione e ho formulato l' imputazione coattiva». Un altro esempio è il processo a carico della giunta regionale per il siluramento del direttore generale della Asl di Venosa, Giuseppe Panio, sostituito da Giancarlo Vainieri, «sponsorizzato» da Bubbico e Vito De Filippo (Margherita), cioè l' ex «governatore» e quello in carica. «Le richieste di archiviazione proposte dal tandem Galante-Genovese non sono state accolte». Le archiviazioni del procuratore Infine, il caso del «pentito» Gennaro Cappiello. «Esemplare», dice Pavese. Cappiello accusa Cannizzaro di essere il mandante del duplice omicidio dei coniugi Gianfredi-Santarsiero (avvenuto nel 1997) e poi viene arrestato (nel 2004) con l' accusa di essere lui l' omicida. Cannizzaro nel ' 99 aveva denunciato per calunnia Cappiello, che aveva da poco cominciato a collaborare con la giustizia. «Eppure questo procedimento per calunnia rimase a carico di persona non identificata - dice Pavese -. Una cosa molto strana, perché di Cappiello Gennaro che collabora con l'autorità giudiziaria, non solo a Potenza ma in tutta Italia, ce n' è uno solo. Invece Cappiello fu identificato soltanto alla fine di giugno 2004». Cioè solo quando venne arrestato. Ci sarebbe anche Galante, che dopo questo terremoto ha preferito lasciare il posto di capo della procura di Potenza. Per lui, le parole di Pavese suonano come un epitaffio. «Il suo lavoro era prevalentemente quello di archiviazione contro ignoti». La studentessa sedicenne Elisa Clapsscomparve misteriosamente a Potenza il 12 settembre del 1993. Non venne mai più ritrovata Del caso Claps, tuttora insoluto, si occupò anche il pm Felicia Genovese. Il marito della Genovese, Michele Cannizzaro, venne sospettato di aver aiutato a «coprire» Danilo Restivo, il giovane accusato di aver fatto sparire Elisa, con la quale aveva appuntamento il giorno della scomparsa. Secondo il gip Rocco Pavese sarebbe sospetta l' insistenza del pm Genovese di imputare Danilo Restivo per false dichiarazioni, trasformando così il presunto omicida in un presunto falso testimone.

Il presidente del Tar? E' un massone. L'incredibile nomina in Calabria. Il nuovo presidente del tribunale amministrativo regionale, Guido Salemi, è stato iscritto per anni a una loggia. E, nonostante la legge vieti espressamente a un magistrato di indossare il "grembiulino", la promozione è arrivata lo stesso, scrive Emiliano Fittipaldi su  “L’Espresso”. Nella Regione a maggior densità massonica d’Italia era logico che, come nuovo presidente del Tar, fosse nominato un massone. Sembra una battuta, ma non è così: a capo del Tar della Calabria c’è ora un massone “in sonno”. Guido Salemi, ex consigliere di Stato, è stato iscritto per anni alla loggia “Giustizia e Libertà” facente parte del Grande Oriente d’Italia. Nel 1996 contro di lui fu aperto pure un procedimento disciplinare, visto che - nonostante per un magistrato esista il divieto di indossare grembiuli - aveva mantenuto l’iscrizione fino al 1994. Alla fine il procedimento fu archiviato, perché la condotta di Salemi fu considerata «in buona fede». L’affiliazione del magistrato era stata scoperta nel 1992 dall’allora pm Agostino Cordova, che in un’inchiesta choc individuò una quarantina di togati iscritti a logge coperte e non. Ma il passato massonico di Salemi è stato tirato fuori anche dal giudice Alessio Liberati, che tre anni fa denunciò pubblicamente Salemi e un altro consigliere di Stato: Filoreto D’Agostino, finito in un elenco massonico. Come Salemi, anche D’Agostino ha fatto carriera: nel 2011 è diventato presidente del Tar Sicilia. Massoni in sonno, ma svegli a cogliere le occasioni.

Giudici amministrativi: ancora scandali legati alla massoneria, scrive Alessio Liberati (magistrato) su “Il Fatto Quotidiano”. Ho da poco scritto un post sulle infiltrazioni massoniche occulte nella giustizia amministrativa che mi tocca già scriverne un aggiornamento. Questa volta la notizia è che un magistrato del TAR Palermo avrebbe (il condizionale è d’obbligo) addirittura dettato i ricorsi per far vincere le cause ad alcune parti. Nicolò Marino, assessore all’Energia ed ex magistrato, avrebbe in proposito affermato che il commissario Ferdinando Buceti era troppo “scomodo” e che un magistrato del Tar di Palermo, iscritto alla massoneria avrebbe suggerito alla società ricorrente il testo “vincente” per eliminarne la nomina. Quello che avrebbe avuto maggiori chance di essere accolto. E il ricorso, effettivamente, è stato accolto, bloccando i commissariamenti. E costringendo l’assessore a produrre una nuova direttiva. Il magistrato in questione risulterebbe iscritto (almeno sino al febbraio 2013) alla massoneria, sempre Marino. Una decisione, quella del Tar, sempre secondo Marino, dagli effetti devastanti, visto che avrebbe determinato un vuoto totale nella gestione del Servizio idrico integrato in tutto il territorio siciliano. Sono state preannunciate anche le dovute segnalazioni al Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa (CPGA, cioè il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa). È doveroso allora ricordare che già in passato io stesso chiesi al CPGA di accertare presunte appartenenze massoniche di alcuni magistrati del Consiglio di Stato, ricevendo per tutta risposta la proposta di un procedimento disciplinare … a mio carico! Nulla invece ai massoni (dichiaratisi in sonno) accertati effettivamente tali, uno dei quali addirittura promosso Presidente di TAR. Di certo tale decisione “disciplinare” (proposta dalla commissione allora presieduta dal prof. Nicolò Zanon, cioè lo stesso membro del CSM attuale che ha redatto il parere pro veritate contrario alla decadenza di Berlusconi e contestualmente ha chiesto l’apertura di una pratica contro il giudice Esposito, presidente del collegio che ha preso la decisione sul caso Mediaset) non è davvero un incentivo per i magistrati a denunciare appartenenze massoniche (che sono vietate per i giudici). Personalmente condivido le preoccupazioni del gran maestro del Grande Oriente Democratico, ven. Gioele Magaldi, circa il rischio di compressione della libertà di associazione (contro la massoneria), ma va anche detto che, come lo stesso GOD denuncia, le deviazioni dall’ethos massonico sembrano essere davvero troppe. Non a caso si sente parlare di massoneria, relativamente ai giudici TAR, solo con riferimento a scandali più o meno gravi. Speriamo allora che il nuovo CPGA, nel quale sono stati eletti proprio ieri i membri laici (tra cui la moglie del prof. Zanon, la prof.ssa Maria Elisa D’Amico) cambi orientamento in tema di massoneria e sanzioni duramente la violazione del divieto di appartenenza e la mancata dichiarazione di tale status di massone in sonno.

Affari sull'acqua, Marino accusa: "Un magistrato massone dettava i ricorsi", scrive Accursio Sabella su “Live Sicilia”. L'assessore all'Energia racconta una vicenda che ha dell'incredibile: "Un giudice del Tar di Palermo, iscritto alla Massoneria, ha suggerito alla Sai 8, società che gestisce il servizio idrico in provincia di Siracusa, il testo del ricorso col quale allontanare un commissario scomodo". Un magistrato massone. Che ha suggerito a una società come vincere un ricorso. L'accusa ha del clamoroso. E a lanciarla è Nicolò Marino, assessore all'Energia e sopratutto ex magistrato. Il teatro dell'incredibile scontro di poteri è l'Ato idrico di Siracusa, dove una società ha avanzato ricorso contro il commissariamento dell'Ambito territoriale deciso dalla Regione. Lì, a Siracusa, secondo Marino, il commissario Ferdinando Buceti era troppo scomodo. E un magistrato del Tar di Palermo, iscritto alla massoneria avrebbe suggerito alla società ricorrente il testo “vincente”. Quello che avrebbe avuto maggiori chance di essere accolto. E il ricorso, effettivamente, è stato accolto, bloccando i commissariamenti. E costringendo l'assessore a produrre una nuova direttiva. “Sono stato costretto – racconta Marino - lo scorso 11 settembre a reiterare la direttiva concernente la nomina dei Commissari liquidatori degli Ato idrici in Sicilia, eliminati in pochi minuti da un intervento adottato da un magistrato del Tar di Palermo che in questa sede ometto di indicare. Il magistrato in questione, - prosegue Marnio - come riscontro dalla relazione redatta dai legali dell’amministrazione Ato idrico di Siracusa, risulta avere suggerito alla parte privata, la Società Sai 8 che gestisce il servizio idrico in quella provincia, il percorso giuridico da seguire al fine di bloccare l’operatività del Commissario dell’Ato idrico aretuseo. Così, - va avanti l'incredibile racconto dell'assessore - in pochi minuti, i difensori della citata società, a penna, hanno predisposto e immediatamente presentato il ricorso secondo le indicazioni ricevute dal giudice, ricorso naturalmente accolto”. Una decisione, quella del Tar, spiega Marino, dagli effetti devastanti, visto che ha determinato “un vuoto totale nella gestione del Servizio idrico integrato in tutto il territorio siciliano”. Circa la condotta del magistrato – affonda Marino - saranno effettuate le dovute segnalazioni al Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa. Il magistrato in questione risulta iscritto (almeno sino al febbraio 2013) alla massoneria; pur potendo ciascun cittadino della Repubblica autodeterminarsi liberamente, ritengo da uomo delle istituzioni che un appartenente alla magistratura non possa prestare due giuramenti, uno per la Repubblica italiana altro per diverse entità. Giova ricordare – aggiunge Marino - che le vicende della Società SAI 8 si inseriscono in un complesso contesto giudiziario e amministrativo, caratterizzato da plurime segnalazioni effettuate dal Commissario liquidatore dell’Ato idrico di Siracusa, Ferdinando Buceti, presso svariate sedi giudiziarie”. Denunce che avrebbero spinto, sempre secondo il racconto dell'assessore, la Sai 8 a trovare “un sistema” per allontanare quel commissario. “Di recente – spiega Marino - la Procura della repubblica di Siracusa ha già chiesto il rinvio a giudizio dei vertici della predetta società, penalmente responsabili, secondo le operate contestazioni, di gravissimi fatti di reato ambientali e di frode nelle pubbliche forniture, nell’ambito della gestione del servizio. Lo stesso Ufficio di Procura ed il citato commissario dell’ Ato hanno, inoltre, proposto istanza di fallimento della Società Sai 8, alla quale è stata ritirata la concessione”. Il Cga inoltre, ricorda Marino, il 30 marzo del 2011 avava già “affermato che l’affidamento del servizio in favore di Sai 8 era in palese contrasto con l’interesse pubblico e, pertanto non doveva essere stipulata la relativa convenzione”. E non finisce qua. Marino denuncia anche una “posizione di favore” nei confronti della Sai, da parte della Banca Intesa San Paolo: “Il Commissario liquidatore dell’Ato idrico di Siracusa – attacca Marino - ha chiesto alla Banca Intesa San Paolo, garante della Società Sai 8, a fronte delle innumerevoli inadempienze contrattuali di quest’ultima, la restituzione della cauzione (polizza fideiussoria) pari a tre milioni di euro, richiesta correttamente formulata. La banca, con un comportamento inqualificabile sul piano dei rapporti bancari e qualificabile sul piano giuridico – conclude Marino - come palese inadempimento, sta reiteratamente omettendo di effettuare il pagamento”.

Questa la replica dell'azienda Sai8 s.p.a in merito alle dichiarazioni dell'assessore Marino: "In merito alle dichiarazioni dell’assessore Nicolò Marino, apparse sulla testata giornalistica La Sicilia in data odierna, Sai8 vuole nuovamente ribadire quanto già precisato per l’articolo apparso sul sito web livesicilia.it e sull’edizione di Siracusa del Giornale di Sicilia del 14.9.2013. Gli atti compiuti dall’assessore Marino e le prime pronunce giurisdizionali intervenute sugli stessi hanno qualificato, sino ad ieri, l’attuale titolare dell’assessorato dell’energia e servizi di pubblica utilità come autore di una serie di provvedimenti amministrativi viziati da gravi violazioni di legge, in danno, tra l’altro, della nostra società. Le inqualificabili dichiarazioni diffuse a mezzo stampa il 13 ed il 14 settembre, ove ne fosse confermata la paternità, aggiungerebbero al quadro, già di per sé sconfortante, sinora emerso un sovrappiù di inammissibile arroganza e di insofferenza rispetto al controllo di legittimità esercitato dai Giudici amministrativi. Ci rendiamo conto che il decreto presidenziale adottato dal TAR Sicilia lo scorso 5 settembre ha avuto l’effetto – sicuramente devastante per la credibilità dell’azione di governo dell’assessore, sinora sbandierata come pretesa azione di legalità – di rendere evidenti, sia pure ancora solo in sede cautelare, le numerose e patenti violazioni di norme costituzionali e di legge, che inficiano l’azione amministrativa sinora svolta. Ci rendiamo anche conto che l’essere entrato a gamba tesa nella gestione del S.I.I., tramite gli atti del dott. Buceti e personalmente nel corso di una memorabile conferenza stampa a Siracusa, convocata al dichiarato fine di smascherare presunte illegalità di SAI8 (il cui accertamento non compete di certo all’assessore regionale), e l’essersi ritrovato – proprio nel momento in cui è in discussione la conferma del proprio incarico governativo – solo con l’accertamento di illegittimità proprie, può sortire un effetto destabilizzante. Ci rendiamo conto, ancora, che la restaurazione di un quadro di piena legittimità amministrativa non potrà che coincidere con il pressoché completo azzeramento di un discutibile sistema di gestione del Servizio Idrico Integrato in Sicilia, messo in piedi dall’assessore Marino, in ostentato spregio alle norme di legge regolanti la materia. Ma pur rendendoci conto di quanto sopra, non possiamo esimerci dal rilevare come la mistificante e distorta prospettazione offerta a mezzo stampa dall’assessore:

a) ignori il fatto che il ricorso, in relazione al quale il TAR Palermo ha interinalmente accolto la domanda cautelare avanzata da Sai8, era stato notificato e depositato, corredato da specifica domanda cautelare, quasi un mese prima della camera di consiglio del 5 settembre;

b) taccia sul fatto che, solo nell’approssimarsi della camera di consiglio, la difesa del Consorzio, all’unico plausibile fine di determinare un rinvio nella trattazione dell’istanza cautelare avanzata da Sai8, sollevava una strumentale ed infondata eccezione di incompetenza, in quanto tale poi respinta dal TAR;

c) trascuri di riferire come il decreto presidenziale rappresentasse, a quel punto, l’unico strumento processuale invocabile da parte di Sai8 per evitare che le già da tempo manifestate esigenze di tutela cautelare rimanessero del tutto disattese;

d) ometta di riferire che l’intero iter procedurale si è svolto nel contraddittorio tra le parti ed in particolare alla presenza della difesa del Consorzio ATO, in persona di idoneo sostituto processuale del procuratore costituito, la quale non ha ritenuto di nulla osservare od eccepire, salvo poi (a quanto risulterebbe dalle dichiarazioni dell’assessore Marino) prodursi in inattendibili ricostruzioni e relazioni, postume rispetto al negativo risultato professionale.

Pur nel turbamento determinato da episodi quale quello registrato, Sai8 conferma la propria piena fiducia nelle istituzioni, di cui si sente parte in quanto investita di un pubblico servizio, e segnatamente nell’operato della Magistratura, che – si confida – una volta ristabilita la verità dei fatti saprà decidere e valutare serenamente, al riparo da ogni forma di indebito condizionamento esterno e di velata intimidazione. L’unico intento della Società rimane quello di poter fornire un servizio di qualità agli utenti della provincia di Siracusa con il proposito di continuare a migliorarlo e per cui continua a lavorare proficuamente. Difatti, la concessione è tutt’ora valida, almeno fino a pronunciamenti giudiziari contrari. Sai8 ha già dato mandato ai suoi legali al fine di tutelare nelle sedi opportune sia i propri diritti che la propria immagine".

Sentenze taroccate al Tar. L'aiutino costa 50mila euro, scrive Valeria Pacelli da il Fatto quotidiano riportate da “Infonodo”. Vendita della funzione giudicante, è la definizione degli inquirenti che racconta il sistema corruttivo che nelle stanze del Tribunale amministrativo Regionale di Roma, non aveva alcun rispetto di quella giustizia che dovrebbe fare da padrona. Soldi contanti negli uffici di un giudice, sentenze decise in un ristorante chic e procedimenti manipolati. È tutto nero su bianco nell'ordinanza di custodia cautelare emessa nei confronti di 7 persone. In cella ci sono finiti il giudice del Tar Franco Angelo Maria De Bernardi (già arrestato a maggio scorso a Palermo nell'ambito di un'inchiesta su un traffico di lingotti d'oro, ma l'ordinanza è stata annullata e lui è tornato a fare il giudice), l'avvocato amministrativista Matilde De Paola e l'uomo d'affari Giorgio Cerruti, noto per i suoi legami con la massoneria e Flavio Carboni. Ai domiciliari invece ci sono finiti l'ex presidente della Banca Popolare di Spoleto, Giovannino Antonini, insieme ad altri tre. L’inchiesta è dei magistrati romani Nello Rossi, Stefano Pesci e Alberto Pioletti, che in un anno di indagine hanno scoperto come un giudice intervenisse nelle sentenze del Tar, in accordo con un’avvocatessa che seguiva i casi da trattare e soprattutto dietro lauto compenso. Accordi corruttivi che sono finiti nei nastri delle intercettazioni ambientali o telefoniche captate dal Noe, guidato dal colonnello Sergio de Caprio, alias Ultimo, mentre a seguire direttamente l'indagine è il capitano Pietro Rajola Pescarini. A pagare le “tangenti”, invece era chi desiderava sentenze favorevoli, tanto che molti sono finiti iscritti nel registro degli indagati. Come il costruttore Claudio Salini e due ufficiali, l'ammiraglio di squadra Marcantonio Trevisani, e il suo collega Luciano Callini, ai vertici dello stato maggiore della Difesa, nei mesi scorsi consulente del caso dei due marò indagati in India per omicidio. In questi ultimi due casi, De Bernardi avrebbe curato i ricorsi percependo un compenso di circa 10mila euro. Ma sono molteplici i casi scoperti dagli inquirenti. Uno di questi riguarda il ricorso della Spoleto Credito e Servizi, sottoposta a procedura di amministrazione straordinaria. Per vincere la causa contro il ministero dell'Economia, che aveva commissariato la banca per un buco di diversi milioni di euro, però sarebbe servita la promessa di 50 mila euro da parte dell'ex presidente della Popolare di Spoleto, Antonini. Una vittoria decisa davanti ad una cacio e pepe del ristorante romano «Il Caminetto», in zona Parioli. Il 25 febbraio scorso infatti Giorgio Cerruti, che fa da tramite, cena al ristorante con il giudice un monsignore. Si tratta di Don Manlio Sodi, presidente della Pontificia Accademia della Teologia, anche questi indagato e già coinvolto in un’altra inchiesta sul crac dei salesiani. La conversazione al ristorante viene intercettata. De Bernardi: “non è che gli devi chiedere qualche centinaio di euro perché fa ridere i polli” Cerruti: “ma non esiste..lascia perdere. Ma io te lo faccio passare tramite il monsignore” De Bernardi: “quindi semmai sentiamo quali sono le esigenze del monsignore, no?” Cerruti: “tu non ti preoccupare,(..) tu mi devi dire, guarda Giorgio qui ci vogliono 50mila euro, faccio per dire adesso. Poi se monsignore ne aggiunge 10 sopra sono cavoli suoi (..) Il monsignore che c'ha questa onlus.. ha avuto un contributo dalla fondazione non dalla banca, a livelli di beneficenza, insomma, gli hanno dato sessanta mila euro”. Tra gli indagati per aver ricorso al giudice c'è anche Claudio Salini, azionista con i fratelli e il padre Francesco Saverio della Salini Costruttori. È anche presidente e ad della Ics Grandi Lavori, la società da lui fondata nel 2005. Questa società è arrivata seconda alla gara per il Ponte della Scafa, a Roma. Per questo viene fatto ricorso al fine di annullare la gara. Anche in questo caso, sarebbe intervenuto il giudice De Bernardi e “tramite Francesco Clemente, la Ics Grandi Lavori spa avrebbe promesso il pagamento di imprecisate somme di denaro”, come è scritto nell’ordinanza. Al vaglio degli inquirenti ci sono finiti anche tre ricorsi per gli esiti del concorso notarile. Uno di questi è il ricorso “Molinari”. Stavolta le sollecitazioni, è scritto nelle carte, sarebbero arrivate da “persone legate al giudice in relazione ad un progetto politico, vale a dire la creazione di un partito che supportasse Mezzaroma Roberto (ex eurodeputato di Forza Italia, ndr) nella sua attività politica”. A fare da tramite per questo ricorso, De Santis, che si reca nell'ufficio del giudice. Nei nastri del Noe, si registra il fruscio del denaro che viene contato. “Si parla di banconote tutte da 50 -scrive il gip nell’ordinanza- e, poi, di "40": il che è compatibile sia con il conteggio di 40 banconote da 50 euro (vale a dire 2.000 euro in tutto), sia con la somma di 40.000 euro in banconote da 50 euro. La seconda opzione è quella più credibile, perché più in linea con le tariff’ generalmente praticate”.

L’occasione buona fa il giudice ingordo, scrive Chiara Paolin su il Fatto quotidiano. Il giudice De Bernardi non si sentirà solo nel ruolo dell’accusato, al Tar di Roma. Il collega presidente della terza sezione, Franco Bianchi, è finito sotto indagine pochi giorni fa con l’accusa di aver favorito un certo Adolfo Repice quando stava a Torino, nel 2010. La tesi del gup è semplice: Repice voleva star tranquillo sull’esito di un ricorso assegnato a Bianchi, il quale aveva invece bisogno di introdurre il figliolo (di mestiere regista) ad Agostino Saccà, ex dg Rai. Dato che Repice conosceva Saccà, il colloquio fu combinato, e ora la procura di Torino dovrà capire se si trattò di corruzione. Peccatucci d’amor paterno se confrontati agli affari di Pasquale De Lise, per decenni insider nei ministeri che contano (lavoro, infrastrutture, poste, sanità), poi presidente del Tar del Lazio e nel 2012 presidente del Consiglio di Stato, cioè l’organo che funge da corte d’appello per le sentenze del Tar, nonchè gestore supremo di interessi e conflitti della cosa pubblica. Ebbene, il potente De Lise si ritrovò svergognato nel 2010 per colpa della famosa cricca. I giornali riportarono le conversazioni del 2009 con Angelo Balducci, il ras delle opere pubbliche. “Uno di questi giorni... c’ho una carta che volevo farti vedere... quando ti riesce, ti volevo vedere cinque minuti” diceva amichevolmente De Lise a Balducci. Aggiungendo, su un rigetto relativo al Salaria Village: “Quella cosa non stava né in cielo né in terra... quindi insomma… e appunto… io l’ho seguita un po', quella storia là... ma non... eh... appunto... assolutamente”. Risposta di Balducci: “Grazie”. Un’inchiestaccia che sviluppò una protuberanza lombarda: il genero di De Lise, l’avvocato Patrizio Leozappa, fu beccato in conversazioni hot mentre tentava di intervenire su un giudizio incardinato al Tar di Milano. In questo caso l’obiettivo era riassegnare un appalto da 1 miliardo e 800 milioni di euro, per il quale servì anche una consulenza di Balducci. Ci andò di mezzo il presidente della corte lombarda, Piermaria Piacentini, indagato per abuso d’ufficio e corruzione, quasi tenero mentre balbetta: “Tu mi manderai a... ma io ti devo chiedere di rimandarmi via e-mail... se è possibile subito... l’appunto su... il modulo di ordinanza perché non so se me lo sono dimenticato a Roma eccetera e volevo sistemare, ci siamo capiti”. Leozappa, che sovrintende il traffico, è furibondo: non si può mandare in giro via mail roba così pericolosa, “la pulisco dai! la pulisco, così evitiamo...”. Storie complicate dai soldi che abbondano tra appalti, giudizi, ricorsi, sospensioni, pressioni, favori, tangenti, partiti, nomine, poltrone. Storie incredibili, come quella del presidente del Tar Marche, Luigi Passanisi, che continua a lavorare nonostante una condanna in primo grado per aver venduto una sentenza quand’era in Calabria (ci sono voluti 3 mesi per sospenderlo). Storie appena nate, come le indagini per abuso d’ufficio partire un mese fa sul presidente della sezione leccese del Tar Puglia, Antonio Cavallari. Storie a lieto fine: Piacentini, mai condannato, fu nominato nel 2000 presidente della Commissione consultiva per il rilascio del Soa, certificazione necessaria alle aziende che vogliano partecipare alle gare pubbliche. L’Autorità per la vigilanza sui contratti della Pa ha avuto fiducia in lui, ancora una volta.

Quegli intrecci inconfessabili tra magistrati e massoneria, scrive Alessio Liberati su Il Fatto Quotidiano. Consiglio di Stato, quanti massoni ci sono? L’ultimo di cui si è avuta notizia, in ordine di tempo, è Antonio Maccanico, fratello massone e contestualmente consigliere di Stato, oltre che segretario generale della Presidenza della Repubblica (incarico ricoperto peraltro anche da molti altri consiglieri di Stato, come Gaetano Gifuni, recentemente condannato per peculato e abuso di ufficio e l’attuale pagatissimo Donato Marra). Ma non è il solo ad aver indossato il grembiulino. La mia curiosità per i rapporti tra massoneria e Consiglio di Stato – che ha avuto inizio per caso, quando cioè tre magistrati appartenenti a tale istituzione (Roberto Giovagnoli, Claudio Contessa e Raffaele Greco) presentarono un esposto disciplinare nei miei confronti, lamentando che un mio articolo scientifico, ove facevo tra l’altro affermazioni tanto generiche quanto banali sulla degenerazione dei concorso pubblici, non mancando di citare i condizionamenti da parte della massoneria e dell’Opus Dei, fosse offensivo nei confronti della giustizia amministrativa, per profili che non ho mai compreso – ha portato infatti a molti riscontri, di cui ho già parlato anche in questo blog. Rinvio, in proposito, oltre che agli elenchi della P2, ad un mio articolo più in generale sul presidente Pasquale de Lise, ad altro relativo all’ex consigliere di Stato Carlo Malinconico (oggi agli arresti domiciliari per gravi fatti corruttivi) ed anche a quanto richiesto in sede di interrogazione parlamentare dopo una mia denuncia relativa a quanto accertato nei confronti di uno degli ex presidenti dell’associazione dei consiglieri di Stato e ad altri magistrati in servizio nella giustizia amministrativa di appello. Tuttavia, ogni volta che viene fuori il nome di un ulteriore Consigliere di Stato occultamente appartenente alla massoneria, mi pongo le stesse domande, che rimangono inevitabilmente senza risposta. Quanti sono i massoni che indossano grembiulino e toga da consigliere di Stato? Quanti di questi sono ricattabili (visto che vige un divieto espresso per i magistrati amministrativi di appartenere a logge massoniche) da avvocati o terze persone che ne sono a conoscenza? Perché l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa, da me sollecitato più volte, si è rifiutato di imporre l’obbligo di una dichiarazione espressa di non appartenenza a logge massoniche, nonostante molti dei suoi componenti avessero preso un espresso impegno in tal senso (Luca Cestaro, Umberto Maiello, Antonio Plaisant, Roberto Pupilella, ecc.), poi disatteso? Non sarebbe ora di costringere i giudici amministrativi (le cui decisioni condizionano pesantemente la vita economica di questo Paese) a rendere pubbliche queste appartenenze, per evitare anche il solo rischio o sospetto che possano esservi ricatti a carico di questi magistrati? Non sarebbe l’ora di affrontare definitivamente, eventualmente in senso positivo, il tema della compatibilità tra appartenenza massonica e magistratura, al fine di evitare che si creino appartenenze occulte, con i rischi sopra descritti? Del tema, emerso nuovamente durante il periodo in cui era presidente dell’associazione dei consiglieri di Stato Filippo Patroni Griffi, non si è voluto occupare né quest’ultimo, né il suo successore Roberto Chieppa, né l’ex presidente Paolo Salvatore, né tanto meno il predetto De Lise. Speriamo che almeno il nuovo presidente, Giorgio Giovannini, voglia affrontare il tema, seppur con incomprensibile ritardo…

I segreti dei giudici amministrativi. Avevo già raccontato la vicenda relativa alla scarsa trasparenza della Giustizia Amministrativa riguardo ai comportamenti disciplinarmente rilevanti dei Consiglieri di Stato e dei magistrati del TAR, scrive ancora Alessio Liberati su Il Fatto Quotidiano. Le attenzioni mediatiche recentemente rivolte ad alcuni consiglieri di Stato ed ex consiglieri di Stato, quali Filippo Patroni Griffi, Carlo Malinconico, Pasquale De Lise, Paolo Salvatore , Franco Frattini , solo per citare i più noti, rendono opportuno un aggiornamento sulla questione. È bene anche rammentare che il Consiglio di Stato è l’organo deputato ad assicurare – nella Repubblica Italiana – la trasparenza delle pubbliche amministrazioni e l’accesso agli atti di queste ultime, in base alle norme vigenti. L’organo di autogoverno della giustizia amministrativa (il CPGA, cioè il “CSM” dei giudici TAR e del Consiglio di Stato), invece, è presieduto proprio dal Presidente del Consiglio di Stato. Orbene, ben tre presidenti di tale massimo organo giurisdizionale amministrativo (Paolo Salvatore, Pasquale De Lise e Giancarlo Coraggio) si sono sottratti, quali presidenti del CPGA all’obbligo di esibire i precedenti disciplinari a carico dei magistrati amministrativi. In particolare, il TAR del Lazio li ha prima condannati (sentenza n. 13848/2010 ) ad esibire i precedenti disciplinari , posto che il CPGA si rifiutava illegittimamente di ostenderli e poi, addirittura, è intervenuto per censurare nuovamente l’organo presieduto dal Presidente del Consiglio di Stato, perché non aveva ottemperato alla sentenza, avendola anzi elusa con una artificiosa distinzione (sconfessata dal TAR) tra procedimenti per i quali era stata esercitata l’azione disciplinare (consentendone l’accesso … una trentina in tutto in molti anni!) e procedimenti per i quali non era stata esercitata. Perché negare l’accesso a procedimenti che, teoricamente, dovrebbero essere meno gravi? Quali segreti si celeranno mai in quelle carte? E, soprattutto, cambierà qualcosa con il Governo Monti, visto che il Presidente del Consiglio dei Ministri (e non il Ministro della Giustizia, come per i magistrati ordinari, civili e penali) è il responsabile titolare dell’azione disciplinare dei magistrati amministrativi? Il prossimo appuntamento è per il 7 marzo, data in cui il TAR del Lazio dovrà addirittura decidere, in caso di perdurante inadempienza dell’organo presieduto dal Presidente del Consiglio di Stato, se “commissariare” (con la nomina di un commissario ad acta) il “CSM” dei giudici amministrativi, sostituendolo con un soggetto che garantisca il rispetto della sentenza. Non sarebbe opportuno che il presidente del CPGA e del Consiglio di Stato, cioè l’organo preposto ad assicurare la trasparenza e l’accesso agli atti di tutte le amministrazioni della Repubblica, fosse il primo ad adeguarsi (almeno!) ad una sentenza che già lo condanna per la mancata esibizione agli atti (fatto che già, di per sé, desta perplessità) e ad una successiva decisione che ne censura il comportamento per non aver ottemperanza alla pregressa sentenza di condanna?

LA MASSONERIA DEL TERZO MILLENNIO. I DELITTI MASSONICI E LE NOTE DI CRONACA.  IL MISTERO DELLA MORTE DI RINO GAETANO, DI MARCO PANTANI E DEGLI ALTRI NOMI NOTI E LO SCANDALO MOSE.

La Massoneria, nobile e bistrattata istituzione, scrive Alessandro Ruzzi su “Informarezzo”. I am a Master Mason. In italiano, sono un Maestro Massone (o un Maestro Muratore). Non sono in logge italiane: ormai da diversi anni sono solo membro di logge della UGLoE, la Gran Loggia Unita di Inghilterra, ritenuta la più importante istituzione massonica, che vanta origini certe sin dal 1717. Deriva dalla corporazione (craft) dei costruttori di cattedrali gotiche del medioevo. Non per questo mi definisco un sapiente riguardo ai temi massonici, poiché è proprio della Massoneria riconoscere che la verità definitiva è un concetto astratto. Occorre essere consapevoli che il perfezionamento cui tende il massone è una ricerca senza fine, un percorso individuale che si basa sulla cautela circa la verità, specie se imposta come il dogma, e sull'incertezza di un sentiero mutevole come la conoscenza umana. Una forma mentis che gli attuali ritmi (televisivi) non rispettano: in loggia si parla uno alla volta, senza interrompere, in rotazione. Quando non si condivide ciò che un fratello esprime non lo si infama. Essere massoni porta ad uno specifico stato mentale, in una palestra del pensiero e dell'agire correttamente ed educatamente: tolleranza alle opinioni senza lasciarsi sopraffare dalle passioni. Talvolta si sintetizza dicendo che la Massoneria rifugge le parole che iniziano con “pre”: pre-concetto, pre-giudizio, pre-varicazione etc. Una scuola per individui maturi, desiderosi di conoscenza, con disponibilità di tempo e di qualche centinaio di euro: tramite silenzio e studio, giungere ad una crescente consapevolezza. La mia vita attuale non mi porta più all'estero come prima, vivo in Italia e ne seguo gli umori sociali, linee di pensiero raccolte attraverso i vari metodi di comunicazione: mi indispone la superficialità con cui alcuni individui indicano nella massoneria -generica- la causa di molti mali, la matrice di episodi oscuri, la  nutrice del potere più infido ed infimo. Bersaglio proprio del complottismo che le si addebita. Leggo anche di bufale clamorose, illuminati o savi di sion, templari e santo graal, cui i più sprovveduti, ignoranti ed influenzabili abboccano. Altri le sfruttano ai loro fini. Nella  grande maggioranza dei casi ritengo che taluni individui parlino senza alcuna conoscenza dei fatti, giudicando dall'esterno sulla base di sentito dire, luoghi comuni o interesse personale. Oppure parlano individui che si dichiarano ex-massoni o massoni pentiti, a conferma che una loro eventuale appartenenza è viziata da  gravi errori di fondo o condizionata da ripicche personali o interessi malcelati. Tuttavia un aspetto richiede una mia netta asserzione: la Massoneria, sic et simpliciter, unica ed omogenea, non esiste in tutto il globo poiché ce ne sono vari metodi di individuazione e di pratica. Me lo confermano anche i miei rapporti massonici internazionali. Le nazioni in cui questa istituzione ha mantenuto, per cause storico- sociali- culturali, una identità coerente possono vantare una istituzione massonica largamente diffusa e univoca. Mi riferisco per esempio ad Inghilterra, Scozia, Irlanda, Svezia. Monarchie, perlopiù. Ma in quasi tre secoli essa si è sviluppata molto anche al di fuori dell'alveo originale, con la nascita di realtà parallele o distorte. Altre nazioni hanno visto crescere massonerie nel 18° e 19° secolo, principalmente sull'onda britannica: Stati Uniti, Italia e Francia, ad esempio. In questi paesi coesistono massonerie aderenti all'idea iniziale o altre situazioni (non saprei come definirle meglio) che niente hanno a che vedere col vero ed intimo significato della Massoneria. Vengono definite simil-massonerie, para-massonerie, pseudo-massonerie etc. Frequentemente vi vengono coinvolte persone in assoluta buona-fede. Come troppo spesso accade, degne persone, ma non preparate sull'argomento, vengono associate: ritengono di fare parte della massoneria universale. Questa non è semplicemente quella definita dai rapporti fra le Grandi Logge (cioè quelle strutture amministrative a cui una loggia fa riferimento), ma da una serie di precetti che permeano la vita del singolo massone e che lo pongono in sintonia con altro massone, sia esso in un diverso continente od il vicino della porta accanto. Non ho timore di ammettere che particolarmente in Italia sono fiorite innumerevoli conventicole (come le definì un papa, quando scomunicò tutti i massoni o presunti tali) che si pongono scopi estranei alla tradizione massonica degli albori. Ad Arezzo ne esistono diverse. Scimmiottano, nel nome e nelle riunioni, temi massonici, convincono gli aderenti, spesso avvicinati per motivi di convenienza, di essere parte della massoneria, ma indulgono su temi prosaici, assai terreni, di interesse economico- politico. Questa non è Massoneria, è associazionismo (senza offesa per il termine) clientelare. Da questi gruppi possono svilupparsi infezioni da cui la società civile deve guardarsi. Purtroppo in passato un focolaio di malattia seria ha interessato anche la più diffusa organizzazione massonica italiana, che ha dilapidato in pochi anni e per colpa di pochi, un capitale di serietà ed impegno, espresso nel risorgimento. Dal Canada alla Norvegia, a spiegare che la P2 non era massoneria, ma un cancro. Che non si deve ripresentare, infiltrandosi come un germe. Alcuni gruppetti italiani, che imitano la massoneria, prediligono il mutuo sostegno fra gli aderenti, senza se e senza ma, anche davanti a situazioni inconciliabili con i cardini della tradizione anglosassone che ho riportato sotto il titolo. La conoscenza dei segreti massonici (che riguardano solo i metodi di riconoscimento) non è sufficiente a rendere massoni. Tanto meno il rispetto di talune consuetudini massoniche. Li reputo anti-massoni, l'esemplare peggiore del campionario. Tuttavia, anche in gruppi non regolarmente costituiti possono trovarsi persone con cui condividere lo spirito massonico. Non giudico semplicemente per appartenenza, bensì per aderenza all'ideale massonico, per comportamento. Dove vedo clientelismo, affarismo, interesse non vedo massoneria. In Italia mi sono trovato in contrasto con queste tendenze ed ho avuto la ventura di approdare nel porto sicuro costituito dalla Gran Bretagna, dove questi scarrocciamenti non sono diffusi, dove si opera nei tre gradi tradizionali della Massoneria azzurra. Tuttavia questi non sono episodi da criminalizzare automaticamente, perché parimenti le famiglie italiane lo sarebbero per l'affetto che le porta a sostenere i loro cari. Ma davanti ad una qualsivoglia ingiustizia occorre che il diritto trionfi, senza favoritismi: ed in ciò l'impegno massonico non ammette deroghe. Esistono massoni anche al di fuori delle istituzioni massoniche, il loro comportamento li contraddistingue; esistono non-massoni dentro serie istituzioni massoniche, purtroppo hanno sbagliato posto ed arrecano danni; quindi generalizzare è un errore marchiano o doloso. L'impegno massonico prevede la indiscussa aderenza alle leggi. Richiede la credenza in una entità superiore, a seconda delle convinzioni individuali, genericamente definita Grande Architetto. Non tratta di politica o religione in loggia. Non prevede segretezza se non nei modi di riconoscimento: una società iniziatica con segreti, non una società segreta. Molte altre associazioni non danno pubblicità alla lista degli aderenti, purtroppo confondere riservatezza con segreto e malaffare è un errore doloso diffuso. La compresenza femminile nelle logge regolari è esclusa, secondo gli  antichi principi fondativi: esistono massonerie esclusivamente femminili, da secoli, ma chi fa polemica si astiene dal sottolinearlo. I massoni non sono misogini, evitano la promiscuità in loggia. Quando qualcuno blatera genericamente di massoneria tenga presente questi significativi particolari, perché diversamente offende persone che si applicano nella ricerca individuale del perfezionamento, nel perimetro dell'amore fraterno, del sollievo nelle difficoltà, della verità. Virtù privata, pubblica prosperità: secondo le parole del primo presidente statunitense, George Washington, “being persuaded that a just application of the principles, on which the Masonic Fraternity is founded, must be promote of private virtue and public prosperity, I shall always be happy to advance the interests of the Society”. Persone capaci di un mondo migliore. Siano Massoni o profani (come usiamo definirli, in quanto non iniziati) fortunatamente esistono. Umili verso gli ultimi, duri verso i prepotenti, attenti ai bisogni delle famiglie dei fratelli. Operano silenziosamente, ma sanno emergere quando occorre. E non meritano di essere confusi da improvvidi chiaccheroni.

Eppure non mancano punte di criticità. Molti scrittori sono astiosi, a torto od a ragione, contro la Massoneria. La rete riporta spesso articoli o libri che preludono a misteri dietro le più eclatanti note di cronaca. E' doveroso riportare nella storia anche l'altra faccia della cronaca.

"Leggete i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava". L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi". Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”.

"Rino Gaetano era vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese, morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe) metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni" le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.

Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?

«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen».

E allora?

«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli».

Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?

«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria».

Cioè?

«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia».

E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.

«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva».

Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?

«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio».

Ne faccia un altro.

«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori».

E quindi?

«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva».

Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.

«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi».

E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?

«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense».

Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?

«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica».

Perché?

«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo».

Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?

«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi».

Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.

«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento».

La tesi choc di un avvocato: "Rino Gaetano è stato ucciso dalla massoneria", scrive Fabio Frabetti su “Affari Italiani”. «Rino Gaetano fu ucciso dalla massoneria deviata». La dinamica della morte del geniale cantautore che continua a trascinare vecchie e nuove generazioni potrebbe non essere così scontata come si è pensato finora. L'avvocato Bruno Mautone, ex sindaco di Agropoli, sta per dare alle stampe un libro in cui è riuscito a decriptare nei testi delle canzoni di Gaetano tutti i misteri della sua morte. Affaritaliani.it lo ha incontrato. Si intitola “Rino Gaetano, assassinio di un cantautore” ed uscirà nelle prossime settimane per le edizioni Gli occhi di Argo.

Come è nata l'idea di scrivere un libro del genere?

«Da tanti anni per passatempo conduco programmi radiofonici e Rino Gaetano è uno dei miei autori preferiti. Ascoltando alcuni suoi brani poco conosciuti mi sono accorto che c'erano dei significati interpretabili in maniera non letterale. Non ritengo di avere il Vangelo in tasca ma penso di avere individuato, partendo dal lavoro in passato svolto da Gabriella Carlizzi e Paolo Franceschetti, una serie di canzoni in cui vengono lanciati degli importanti messaggi sulla storia italiana dal dopoguerra in poi. La morte di Rino Gaetano non è stata casuale, si trattò di una macchinazione per metterlo a tacere. In alcuni suoi testi ci sono messaggi inquietanti ed angoscianti. In altri, frasi di scherno che progressivamente vengono inseriti di disco in disco. Lui era un vero e proprio genio e la massoneria è da sempre interessata a fare entrare nuove leve di alto valore intellettivo. Così probabilmente lui fu fatto entrare molto giovane e così era venuto a conoscenze di segreti e verità apprese nell'ambito di specifiche consorterie massoniche. Nei primi dischi sembra esserci entusiasmo nei confronti di questo mondo, poi pian piano subentrò il disincanto e poi il distacco. Lo spirito di ideali e di giustizia lo spinse a rivelare con le sue canzoni alcuni di quei segreti. Messaggi che seppur criptici hanno indotto la massoneria deviata ad ucciderlo. Ha composto poco più di sessanta canzoni, nel 100% delle sue composizioni ha sempre messo qualche riferimento a fatti o situazioni collegabili alla massoneria. In altre ha individuato e rivelato segreti inquietanti della storia italiana».

«C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio! Io non li temo! Non ci riusciranno! Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni! Che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Capiranno e apriranno gli occhi, anziché averli pieni di sale! E si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta». Rino Gaetano pronuncia questa criptica frase in un concerto del 1979. Sta per eseguire uno dei suoi brani più celebri Nuntereggae più. Proprio nel testo di questa canzone salta di nuovo fuori la stessa spiaggia: «il pitrentotto sulla spiaggia di Capocotta». In quella spiaggia si era consumato nel 1953 il delitto di Wilma Montesi...

«Quando avvenne quell'omicidio, Rino aveva poco più di due anni. Quello che aveva raccontato di quel tragico evento nei concerti e nelle sue canzoni lo aveva quindi sicuramente conosciuto nelle frequentazioni di tipo massonico: tramite le sue parole si può quindi ricostruire cosa avvenne esattamente in quella spiaggia. I segreti che aveva appreso riguardavano però molti aspetti della cronaca e della politica italiana. L'aspetto inedito del libro è proprio questo: aver dimostrato che nelle sue canzoni insieme ad apparenti nonsense si raccontavano i retroscena di molti scandali: i casi Sindona, banco Ambrosiano, Franklin Bank, vicenda Mattei. Addirittura Rino Gaetano era arrivato a pronosticare come sarebbe finito il processo per la bomba a Piazza Fontana a Milano e ad annunciare i reali colpevoli dello scandalo Lockheed».

Rino Gaetano morì il 2 giugno 1981 dopo un incidente stradale sulla via Nomentana a Roma. La sua auto finì addosso ad un camion: perse la vita per le gravi ferite riportate dopo che ben tre ospedali di fatto rifiutarono il suo ricovero. La cosa incredibile è che lo stesso cantautore 11 anni prima aveva raccontato la morte di un uomo dopo essere stato rifiutato da tre ospedali e anche dal cimitero. Nel brano “La ballata di Renzo” si legge: Quando Renzo morì io ero al bar la strada era buia si andò al S.Camillo e lì non l'accettarono forse per l'orario si pregò tutti i Santi ma s'andò al S.Giovanni e li non lo vollero per lo sciopero. Quando Renzo morì io ero al bar era ormai l'alba e andarono al Policlinico ma lo si mandò via perché mancava il vicecapo c'era in alto il sole,si disse che Renzo era morto ma neanche al Verano c'era posto. Una somiglianza notevole con quello che sarebbe accaduto allo stesso Gaetano.

«I primi tre ospedali citati nel brano sono proprio quelli che non ebbero la capacità o la volontà di curarlo in maniera non professionale od idonea dopo l'incidente. Non abbiamo alcuna prova che il soccorso sia stato tempestivo. I telefonini non esistevano. Sarebbe interessante capire chi allertò i soccorsi, a che ora e con quale modalità. Tra le altre cose, lui non fu degente in tre ospedali diversi. Rimase al Policlinico Umberto I, con motivazioni mai veramente chiarite ed emerse. Non c'era il reparto di traumatologia cranica funzionante e gli ospedali disperatamente contattati dal medico di turno facevano quasi a gara a non prestare soccorso a Rino. Così morì agonizzante al Policlinico per il grave trauma cranico riportato. Lui aveva avuto un altro strano incidente nel 1979 a cui era miracolosamente sopravvissuto. Una jeep speronò la Volvo in cui viaggiava insieme ad un amico. La macchina si distrusse e chi aveva causato l'incidente riuscì a defilarsi e non si seppe mai chi fosse alla guida. Questo incidente avviene nello stesso anno in cui Rino Gaetano aveva fatto quelle rivelazioni su Capocotta. Nelle sue canzoni preconizzava una morte prematura, sapeva i rischi che stava correndo. Per questo probabilmente non aveva messo al corrente le persone a lui care delle frequentazioni che aveva avuto. Voleva preservarle da possibili rischi».

Un altro brano che fa pensare è “Al compleanno della zia Rosina” in cui si legge: “vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia che ce l'ha con me”.

«In quella canzone c'è una emblematica citazione storica di Cleme, che sta per Clemente Rino Gaetano si voleva riferire ai tre papi (Clemente V, Clemente XII e Clemente XVI) che in momenti storici diversi emanarono provvedimenti religiosi nei confronti di movimenti legati alla massoneria. Uno di questi papi emanò il primo editto contro la massoneria, un altro aveva sciolto la Compagnia di Gesù ed il terzo sciolse i Templari. Lui in sostanza sta dicendo: me ne frego se verrò portato a spalla da gente che bestemmierà, evocando queste figure che avevano scomunicato per prime alcune diramazioni massoniche. Lui consultava enciclopedie, libri di storia e di cultura. Nel mio lavoro penso di avere colto dei significati che non era facile afferrare di primo acchito. Rino Gaetano era un generoso ed un idealista, non riusciva a trattenere nell'ambito dei propri pensieri le tante porcherie che erano state combinate in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Nelle sue canzoni parla anche di storia, di Risorgimento, di Hitler e di una miriade di cose. Anche di numerologia. C'è di tutto celato nella sua musica. Anche il mistero della sua morte».

Rino Gaetano e i messaggi in bottiglia. Qualche appunto a margine del vergognoso film della RAI su Rino Gaetano, scrivono Paolo Franceschetti e Stefania Nicoletti. Come abbiamo descritto molte volte nel nostro blog, il nostro è un sistema che uccide e strangola tutti coloro che ne sono al di fuori e non vogliono essere coinvolti nei giochi illeciti del potere massonico. Il sistema, però, non penalizza solo chi ne è fuori, ma anche chi ne è dentro e ne riceve i vantaggi. Perché il problema è che una volta entrati nel sistema, tutto ciò che ti viene dato ti viene chiesto in restituzione sotto altre forme. Se fai carriera grazie al sistema, ad un certo punto arriverà qualcuno che ti chiederà il conto; ti chiederanno di fare uno sgarbo ad un vecchio amico che vogliono rovinare; ti chiederanno di falsificare un documento o farlo sparire, ti chiederanno di accollarti una responsabilità penale per salvare altri, di essere condannato ad un anno con la condizionale e di spendere la tua faccia su tutti i giornali per fare da capro espiatorio. Ribellarsi al sistema è quasi impossibile per la perfezione che esso ha. Tanti, troppi, sono caduti nella trappola. Le promesse che ti fanno sono allettanti: potere, denaro, conoscenza dei meccanismi reali del potere. Ma il conto è salato, perché non si è più liberi di fare ciò che si vuole, e si è in costante stato di ricatto. Ritengo, ad esempio, che molti esponenti della sinistra attuale, a suo tempo, abbiano fatto il cosiddetto “patto col diavolo”, pensando semplicemente di accettare un compromesso in più per fare carriera; e si sono poi trovati invischiati in un gioco di potere più grande di loro, perdendo ogni capacità decisionale reale; ed ecco il motivo per cui la sinistra di questi ultimi anni ha fatto delle cose senza alcuna logica, come se volesse realmente perdere le elezioni e consegnare – come hanno fatto di recente – il paese definitivamente alla destra. In realtà alcuni provano a ribellarsi. Ribellarsi in modo esplicito, in un attacco frontale, non è possibile altrimenti si muore (la lista dei morti è lunghissima; Falcone e Borsellino, Occorsio, Pecorelli, Tobagi, Mauro De Mauro, Cosco, Pasolini, Cecilia Gatto Trocchi, Ilaria Alapi, Graziella De Palo, e tutti coloro che hanno provato a testimoniare coraggiosamente in processi importanti, morti suicidi o in incidenti stradali). Molti però provano a ribellarsi non apertamente, lanciando una serie di messaggi in bottiglia. Come delle tracce, per chi le vorrà cogliere un giorno. Ricordo un'archiviazione vergognosa che aveva a che fare con un soggetto che si era suicidato con "una coltellata sulla schiena". Il magistrato archiviò dicendo delle cose che li per li mi parvero incomprensibili; mischiava citazioni di Dante a frasi demenziali del tipo "la prova che si sia trattato di un suicidio è nel fatto che sul coltello piantato nella schiena furono trovate le impronte digitali della vittima". Dopo anni di rabbia in cui non capivo l'assurdità di quel provvedimento, ho capito che la citazione di Dante era un chiaro riferimento alla legge del contrappasso, utilizzata dalla Rosa Rossa per i suoi omicidi. Mentre con la frase in cui parlava delle impronte digitali voleva dire esattamente il contrario.... Tra l'altro fu uno dei provvedimenti il cui studio e la cui lettura approfondita mi hanno permesso di arrivare alla regola del contrappasso da noi descritta negli articoli sull'omicidio massonico. A mio parere si trovano molti messaggi in bottiglia anche in molti libri, articoli di giornale, e opere attuali, ma evitiamo di indicarli per non mettere in pericolo le persone coinvolte. Rino Gaetano era una di queste persone che si erano ribellate al sistema in modo vistoso. Non poteva denunciare il sistema direttamente, perchè non gli avrebbe dato voce nessuno, allora lasciò una serie di tracce nelle sue canzoni, che sarebbero state raccolte dalle generazioni successive. Rino Gaetano ci parla della Rosa Rossa, dei crimini commessi dai potenti, dei meccanismi segreti di questa associazione e dei loro metodi. Vediamone qualcuna.

Le canzoni. C’è un album di Rino, in particolare, che pare dedicato proprio alla Rosa Rossa. Nello stesso album, infatti troviamo ben tre canzoni: Rosita, Cogli la mia Rosa d’amore, e Al compleanno della zia Rosina. Una trilogia a nostro parere non casuale. In Rosita ci dice che la Rosa Rossa, quanto te la presentano, sembra bellissima... onori, gloria, soldi, potere... poi però un giorno scopri la verità. E allora la tua vita cambia completamente perchè sei in trappola.

Ieri ho incontrato Rosita, perciò questa vita valore non ha,

Come era bella rosita di bianco vestita più bella che mai.

Nella canzone “Al compleanno della zia Rosina” ci spiega che nel linguaggio criptato della Rosa Rossa, Santa Rita è in realtà la Rosa Rossa; e ci spiega che un giorno capiranno che sta svelando questi messaggi, e quindi lo uccideranno.

La vita la vita, e Rita s'è sposata, al compleanno della zia Rosina.

Vedo già la mia salma portata a spalle da gente che bestemmia e che ce l'ha con me.

Questa frase apparentemente incomprensibile vuole dire probabilmente che gli appartenenti alla massoneria rosacrociana della Rosa Rossa al suo funerale porteranno a spalla la sua bara (ai funerali delle vittime i mandanti sono sempre presenti tra i partecipanti); ma bestemmieranno, perchè in realtà una caratteristica della massoneria della Rosa Rossa è di stravolgere i simboli e i riti Cristiani per interpretarli al contrario. Infine, in “Cogli la mia rosa d’amore” lancia un messaggio molto chiaro:

cogli la mia rosa d’amore,

regala il suo profumo alla gente;

cogli la mia rosa di niente.


Non credo sia un caso anche il titolo del disco: "mio fratello è figlio unico", perché sapeva che questo scherzetto gli sarebbe costato la vita. Nella canzone “Nun Te Reggae più” parla della spiaggia di Capocotta. E, ad un concerto, disse:

"C'è qualcuno che vuole mettermi il bavaglio. Io non li temo. Non ci riusciranno. Sento che in futuro le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni. E che grazie alla comunicazione di massa, capiranno cosa voglio dire questa sera! Apriranno gli occhi e si chiederanno cosa succedeva sulla spiaggia di Capocotta".

Vediamo cosa succedeva nella spiaggia di Capocotta, prendendo le notizie da Wikipedia.

La spiaggia di Capocotta. OMICIDIO DI WILMA MONTESI (1953, vigilia di Pasqua). La vicenda coinvolse il musicista Piero Piccioni, figlio del vicepresidente del consiglio della DC, e altri noti esponenti della nobiltà, politici e personaggi famosi... Inizialmente fu presa in considerazione l'ipotesi di un banale incidente, ipotesi che fu considerata attendibile dalla polizia, e il caso venne chiuso. I giornali, L'Espresso su tutti, invece si mostravano scettici. Il Roma, quotidiano monarchico napoletano, il 4 maggio cominciò ad avanzare l'ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica; l'ipotesi presentata nell'articolo Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi? a firma Riccardo Giannini ebbe largo seguito. A capo di questa campagna stampa, vi erano prestigiose testate nazionali, quali Corriere della Sera e Paese Sera, e piccole testate scandalistiche, quali Attualità, ma la notizia si diffuse su quasi tutte le testate locali e nazionali. Il 24 maggio del 1953 un articolo di Marco Cesarini Sforza pubblicato sul giornale comunista Vie Nuove creò molto scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito "il biondino", venne identificato con Piero Piccioni. Piccioni era un noto musicista jazz (col nome d'arte Piero Morgan), fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, il Vicepresidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e massimo esponente della Democrazia Cristiana. Il nome di "biondino" era stato attribuito al giovane da Paese Sera, in un articolo del 5 maggio, in cui si raccontava di come il giovane avesse portato in questura gli indumenti mancanti alla ragazza assassinata. L'identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai svelata l'identità al grande pubblico. Su Il merlo giallo, testata neofascista, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta satirica in cui un reggicalze veniva portato in questura da un piccione, un chiaro riferimento al politico e al delitto. La notizia suscitò clamore perché venne pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1953. Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore del giornale, Fidia Gambetti. Cesarini Sforza venne sottoposto ad un duro interrogatorio. Lo stesso PCI, movimento di riferimento del giornale e unico beneficiario dello scandalo, disconobbe il giornalista, che venne accusato di "sensazionalismo" e minacciato di licenziamento. (QUINDI ANCHE LO STESSO PCI SEMBRA VOLER COPRIRE E INSABBIARE TUTTO... CHISSA' COME MAI?). Nemmeno sotto interrogatorio Cesarini Sforza citò mai direttamente il nome della fonte da cui ufficialmente veniva la notizia, limitandosi ad affermare che provenisse da "ambienti dei fedeli di De Gasperi". Anche il padre del giornalista, un influente docente di filosofia all'Università degli Studi di Roma "La Sapienza", suggerì al figlio di ritrattare, consiglio vivamente sostenuto anche dal celeberrimo "principe del foro" Francesco Carnelutti che aveva preso le parti dell'accusa per conto di Piccioni. L'avvocato di Sforza, Giuseppe Sotgiu (già presidente dell'Amministrazione provinciale di Roma ed esponente del PCI) si accordò col collega e il 31 maggio, Cesarini Sforza fu costretto a ritrattare le sue affermazioni. Come ammenda, versò 50 mila lire in beneficenza alla Casa di amicizia fraterna per i liberati dal carcere, ed in cambio Piccioni fece cadere l'accusa. Il 6 ottobre 1953, sul periodico scandalistico Attualità, il giornalista e direttore della testata Silvano Muto pubblicò un articolo, La verità sul caso Montesi. Muto aveva condotto un'indagine giornalistica nel "bel mondo" romano, basandosi sul racconto di una attricetta ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tal Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma ad un'orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castelporziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell'occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici della giovane Repubblica Italiana. Continuano ad essere ritrovati corpi di donne su quella spiaggia. Forse è questo che voleva dire Rino. Non si riferiva solo al caso Montesi, ma a decine di altri casi che evidentemente continuano a verificarsi a Capocotta... O forse voleva dire che è una situazione "emblematica" di tutto quello che succede in Italia. Ma sono solo nostre deduzioni. Potremmo continuare perchè ci sono altre canzoni molto più significative e piene di messaggi, come Gianna. Ma terminiamo qui perchè per capire queste canzoni occorre avere una conoscenza specifica di determinati fatti e situazioni.  Forse però non molti sanno che la canzone Nuntereggaepiù, che nomina molti personaggi della politica, dello spettacolo, dello sport, della televisione... è stata censurata. Inizialmente infatti l'elenco conteneva, tra gli altri, i nomi del finanziere Nino Rovelli, del banchiere Ferdinando Ventriglia, di Camillo Crociani (scandalo Lockheed e loggia P2), di Amintore Fanfani, di Guido Carli... e persino di Aldo Moro e Michele Sindona. Questi nomi vennero cancellati dal testo della canzone. Evidentemente perché ancora più scomodi di quelli che furono lasciati. Un personaggio come Rino non poteva vivere a lungo, e perse infatti la vita il 2 giugno del 1981 in un incidente d'auto. Poco tempo prima, come abbiamo già raccontato altrove, aveva avuto un incidente analogo, ma si era salvato. Aveva ricomprato un’ auto identica ed ebbe un incidente dello stesso tipo; morì non tanto per l'incidente in sè, quanto per il ritardo con cui fu curato perchè negli ospedali della zona nessuno volle accoglierlo. Ben 5 ospedali si rifiutarono di curarlo, così come lui aveva scritto in una sua canzone, La ballata di Renzo. Cioè, è stata applicata ,nel suo caso la regola del contrappasso di cui ci siamo occupati in altri articoli. La ballata di Renzo è un brano inedito, di cui peraltro si scoprì l'esistenza solo qualche anno fa. Dunque, all'epoca, solo gli "addetti ai lavori" (i produttori e le persone che lavoravano insieme al cantante) erano a conoscenza di quel brano. E solo chi conosceva la canzone poteva fare in modo che si realizzasse nella pratica, e in modo così dettagliato. Quando qualche anno fa uscì la notizia della scoperta del brano inedito, i media si affrettarono subito a definirla una "profezia". I giornali scrissero che ne La ballata di Renzo "Rino aveva previsto e messo in musica, dieci anni prima, la propria morte". Ma sarebbe invece più oppurtuno affermare il contrario: la morte del cantautore è avvenuta esattamente come nella sua canzone non perché quel brano fosse una profezia, ma perché qualcuno l'ha usata per applicare la regola del contrappasso.

Il film. Di recente la RAI ha prodotto un film su Rino Gaetano. Vediamo cosa dice la presentazione ufficiale del film sul sito Rai. "Ci sono film su personaggi della musica che riescono a descrivere compiutamente lo spirito di un'epoca. È questo l'obiettivo della fiction Rino Gaetano. Ma il cielo è sempre più blu, una produzione Rai Fiction realizzata da Claudia Mori per la Ciao Ragazzi. L'interesse per Rino Gaetano e per la sua musica si è riacceso negli ultimi anni, soprattutto tra i giovani, al punto di farne una figura di culto oltre la sua epoca. La fiction, che racconta in due puntate la sua biografia e la genesi delle canzoni più popolari, è uno spaccato della sua generazione, e trasmette un messaggio che può valicare i confini nazionali italiani, perché ancora oggi modernissimo". In realtà guardando il film si capisce che è stato scritto al solo scopo di infangare l’immagine del cantautore. La sorella di Rino e la ex fidanzata, intervistate, diranno che il film racconta qualcun altro rispetto al protagonista. Quello non era Rino, non era la storia d'amore tra lui e la fidanzata. Vediamo perchè. Anzitutto il film si apre con la scena di lui che sviene per aver bevuto troppo. E si chiude con le immagini di lui, ubriaco, che vaga senza meta alla ricerca di amici che oramai lo hanno abbandonato. Il messaggio è chiaro. Era un ubriacone. Altre scene salienti del film sono queste:

1) Dopo aver chiesto alla fidanzata di accompagnarlo a Stromboli per scrivere una canzone, dopo alcuni giorni in cui non combinava nulla tranne trattare male gli amici musicisti, e ubriacarsi continuamente, inveisce contro la fidanzata e la tratta male dicendo che non si sente capito

2) Geniale poi come presentano il suo rapporto con le donne. Si fidanza. Mette le corna alla ragazza (Irene) con un altra ragazza, stupenda e che lo adora, di nome Chiara. Irene li scopre a letto e lui che fa? Esce dalla stanza, parla con Irene e le dice “non preoccuparti, era solo una scopata”. Poi abbandona Chiara senza dirle una parola nè salutarla, dopo giorni di idillio romantico. Dopo qualche anno incontra nuovamente Chiara. Mette nuovamente le corna alla fidanzata e abbandona nuovamente Chiara, ancora una volta senza una spiegazione e senza una parola. Verso la fine del film, abbrutito dall’alcol e senza una meta, tenta di recuperare il rapporto con Chiara e con Irene (tutte e due in contemporanea), ma entrambe lo abbandonano. Per giunta tenta di baciare Chiara proprio un giorno che lei lo trova ubriaco già al mattino presto. Chiaro è il messaggio: Gaetano era un superficiale.

3) Altrettanto geniale poi come viene delineato il suo rapporto col padre. In una delle scene clou del film lui, all’apice del successo, mostra una casa al padre, ma il padre la rifiuta, perché non vuole la sua elemosina. E lui risponde arrabbiato “ma come, finalmente ora possiamo permetterci una casa come la gente normale e non uno schifoso sottoscala”. Il messaggio qui è molto sottile ed è duplice: la gente che vive in un sottoscala non è normale. Un sottoscala fa schifo. Ma dietro a questo messaggio ce n’è un altro, molto più sottile: Gaetano, come tutti, una volta che ha avuto un po’ di soldi e si è arricchito, non ha più rispetto per le condizioni della gente più povera che infatti viene definita “non normale”. E infatti rinfaccia al padre di essere un poveraccio: "io non volevo diventare come te e ci sono riuscito... non vi voglio più vedere in quel sottoscala schifoso.. e aggiunge: "sei orgoglioso come tutti gli ignoranti". Dopodichè al padre prende anche un infarto. Quando il padre uscirà dall'ospedale Rino ancora una volta lo tratterà malissimo e gli causerà un altro malore. In altre parole, lo descrivono come un pessimo personaggio, indelicato e ignorante che arriva a far ammalare il povero padre.

Altro aspetto curioso del film è che Rino ha una sorella, che nel film però non compare mai. Non compare mai neanche quando, nella parte finale del film, bussa alla porta di tutti gli amici, ubriaco e disperato, lasciato solo da tutti. Strano che Rino quel giorno non abbia pensato di telefonare anche alla sorella no? Come è strana un'altra circostanza. Rino morì pochi giorni prima del suo matrimonio. Doveva sposarsi. In questo indegno e vergognoso film, invece, l'ultima scena del film mostra lui disperato e abbandonato da tutti. Nessun cenno alla figura della sorella. Nessun cenno al matrimonio, ma anzi, viene presentata una fattispecie completamente opposta. Insomma, per essere un film che voleva valorizzare la figura del cantautore, la trama presenta tali e tanti inesattezze, buchi ed omissioni, che rimane una sola certezza: che il film è stato fatto unicamente per oscurare le ragioni della sua morte e il valore delle sue canzoni. Per infangarne la memoria quindi. Chi ha prodotto il film, inoltre, ha appositamente evitato di inserire la figura della sorella, forse perchè è l'unica della famiglia rimasta ancora viva, e che avrebbe potuto creare guai giudiziari agli autori del film se la sua immagine fosse apparsa troppo deformata dalla fiction. In conclusione, cosa rimane dopo la visione del film? L’idea che fosse un ubriacone, anche egoista, non troppo intelligente, che ha scritto canzoni superficiali e senza senso. Così non ci si stupisce se muore in un incidente. E se un giorno qualcuno dirà che è stato ucciso, la gente dirà: "ucciso? ma come? Era stato un incidente perchè beveva ed era ubriaco". Come succede per Pantani: "era un drogato, si è suicidato". Che poi le perizie abbiano dimostrato che il suo cuore era intatto non conta, per questo mondo dei mass media asservito ad una criminalità senza scrupoli. E che la sorella e la fidanzata di Rino dicano che quello non era Rino, che conta? L'obiettivo è riuscito. Milioni di italiani lo considerano un ubriacone che scriveva canzoni senza senso. Il film è stato confezionato ad arte probabilmente per screditare la figura di un artista, proprio in un periodo particolare, ovverosia gli anni in cui, a seguito dei delitti del mostro di Firenze, si comincia a parlare della Rosa Rossa e dei suoi delitti. D'altronde, una bella coincidenza che il film sia prodotto dalla Ciao Ragazzi, società che porta, guarda caso, l'acronimo dei RosaCroce e di Cristian Rosenkreutz (CR).  Di recente poi è uscito un dvd "Figlio unico", uscito insieme alla raccolta il 02.11.2007. Giorno dei morti e data a somma 13. Un altro bello scherzetto combinato ai danni di Rino. Tanto per mettere di nuovo una firma, se ce ne fosse bisogno. Il dvd contiene molti filmati, tra cui quello con Morandi: Rino a un certo punto dice: "Io conosco anche il profumo dei ministri". Una frase senza senso per i più. Un non sense, appunto, di quelli tipici di Rino. E invece no. Infatti Morandi si guarda intorno impaurito e cambia subito discorso, spostandosi di nuovo sull'ironia. "Qui non possiamo parlare di ministri, parliamo solo di canzoni. No, ma parliamo della tua ironia". Ma noi che conosciamo il sistema, riteniamo che il film sia l’ulteriore vittoria di Rino Gaetano. Rino era così grande e così bello, che hanno cercato di distruggerlo anche da morto. Perché indubbiamente le sue canzoni, come del resto aveva predetto anche lui, fanno più paura ora che quando era vivo. Ora infatti le possiamo capire. E a Venditti che, in questi ultimi tempi, ha affermato che la causa della morte di Rino è stata la cocaina (se ne è ricordato dopo quasi trenta anni) possiamo rispondere una cosa. Strano, Antonello, che ti ricordi dopo tanti anni della cocaina. In realtà la sai bene quale è la verità: lui ha avuto quel coraggio che pochi hanno, di andare contro il sistema fino a farsi uccidere per non rinnegare i suoi ideali. Quel coraggio che molti di quelli che oggi hanno successo certamente non hanno avuto.

La ballata di Renzo

Quel giorno Renzo uscì,

andò lungo quella strada

quando un’auto veloce lo investì

quell'uomo lo aiutò

e Renzo allora partì

verso un ospedale che lo curasse per guarìr.

Quando Renzo morì io ero al bar

La strada era buia

si andò al San Camillo

e lì non l'accettarono

forse per l'orario

si pregò tutti i Santi

ma s'andò al San Giovanni

e lì non lo vollero per lo sciopero

Quando Renzo morì

io ero al bar era ormai l'alba andarono al policlinico

ma lo si mandò via perchè mancava il vicecapo

c'era in alto il sole

si disse che Renzo era morto

ma neanche al Verano c'era posto

Quando Renzo morì

io ero al bar,

al bar con gli amici bevevo un caffè.

Anche il delitto di Marco Pantani si è tinto di giallo.

Giallo, la morte di Pantani e i misteri della Rosa Rossa. Strano suicidio, quello di Marco Pantani. Così strano da spingere la magistratura a riaprire l’inchiesta a dieci anni di distanza da quel 14 febbraio 2004. Più che un suicidio, scrive l’avvocato Paolo Franceschetti, sembra un omicidio “firmato”, con implacabile precisione, dall’ “Ordine della Rossa Rossa”. Fantomatica organizzazione segreta internazionale, secondo alcuni studiosi sarebbe una potentissima cupola eversiva di tipo esoterico, con fini di potere, dedita anche all’oscura pratica dell’omicidio rituale. «Un’ipotesi sempre scartata come irrealistica dagli inquirenti», scrive nel suo blog lo stesso Franceschetti, autore di studi sulla presunta relazione tra crimini e occultismo iniziatico, incluso il caso del cosiddetto “mostro di Firenze”. Di matrice rosacrociana, fondata sul simbolismo della Cabala e dell’ebraico antico come la londinese “Golden Dawn” rinverdita dal “mago” Aleister Crowley, secondo alcuni saggisti la “Rosa Rossa” sarebbe una sorta di super-massoneria deviata e criminale. Problema: non esiste una sola prova che questa organizzazione esista davvero. Solo indizi, benché numerosi. Chi esegue una sentenza rituale di morte, per “punire” in modo altamente simbolico un presunto “colpevole” o addirittura perché pensa – magicamente – di “acquisire potere” dall’uccisione “satanica” di un innocente, secondo Franceschetti ricorre sistematicamente a pratiche sempre identiche: in particolare la morte per impiccagione (la corda di Giuda, traditore di Cristo), con la vittima fatta ritrovare inginocchiata, e la morte per avvelenamento (o overdose di droga). Decine di casi di cronaca, tutti contrassegnati da circostanze ricorrenti: manca sempre un movente plausibile, non si trova l’arma del delitto, i nomi delle vittime hanno spesso origine biblica, la somma dei “numeri” (data di morte, data di nascita) riconduce a numeri speciali, per la Cabala, come l’11 e i suoi multipli. Oppure il 13, il numero della morte dei tarocchi. E poi, la “firma”: Pantani fu ritrovato morto a Rimini all’hotel “Le Rose”. Accanto al corpo, un biglietto in codice dal significato criptico: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Sul caso Pantani, sono stati scritti fiumi di parole, reportage, libri. Tra chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio c’è un giornalista come Andrea Scanzi, che sul “Fatto Quotidiano” scrive: «Troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?)». Inoltre, il campione aveva chiamato per ben due volte la reception, parlando di «due persone che lo molestavano», ma l’aneddoto è stato catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”. In più, Pantani «fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio)». Uniche tracce di cocaina, quelle ritrovate su palline di mollica di pane. Indagini superficiali: «Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza». Dettaglio macabro e particolarmente strano, il destino del cuore di Pantani: «Venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno», scrive Scanzi. Prima di morire, a Rimini il ciclista aveva trascorso cinque giorni, «per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano?». Altre domande: «Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato?». Certo, aggiunge Scanzi, Pantani morì per overdose di cocaina, «ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena». L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, «segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti». E poi, tutte quelle “incongruenze”, reperibili in libri-denuncia come “Vie et mort de Marco Pantani” (Grasset, 2007) e “Era mio figlio” (Mondadori, 2008). E poi, soprattutto: «Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere?». Colori e rose, “la rosa rossa è la più contata”. Anche i suoi amici, ricorda Franceschetti, dissero che la morte di Pantani in quell’hotel non può esser stata casuale: forse Marco voleva «lasciare un messaggio a qualcuno», perché «era un uomo che non faceva nulla a caso». Meglio ancora: «Non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso», chiosa l’avvocato, sempre attento ai possibili “segni invisibili”: «Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata». Pantani “costretto” ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse “firmato”? «Ovviamente, dire che dietro un delitto c’è la “Rosa Rossa” significa poco: essendo la “Rosa Rossa” un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra». Un’affermazione «talmente generica da essere pressoché inutile a fini investigativi». Tuttavia, «dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio». Franceschetti considera «evidente» l’origine «massonica» degli attacchi a Pantani, citando l’anomalo incidente che, anni prima, lo vide protagonista a Torino: fu travolto da un’auto che era penetrata in un’area interdetta al traffico, lungo la discesa della collina di Superga, quella dove si schiantò l’aereo del Grande Torino. La basilica di Superga, sull’altura che domina la città, fu costruita nel 1717, «anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria». Basta questo, all’avvocato, per concludere che si tratta di «una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente». Tra gli “incidenti non casuali”, Franceschetti inserisce pure quello ai danni del cantante Rino Gaetano: come anticipato in modo inquietante dal testo di una sua canzone, “La ballata di Renzo”, peraltro gremita di “rose rosse”, l’artista morì a Roma nella notte del 2 giugno 1981 dopo esser stato rifiutato da 5 diversi ospedali. «Statisticamente, le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono… nulle». Molto strana, aggiunge Franceschetti, è anche la tragica fine del ciclista Valentino Fois, della stessa squadra di Pantani: anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano subito di overdose, «e già questo fa venire qualche sospetto». Premessa: in Italia, muoiono per omicidio circa 2.500 persone all’anno. E altrettante finiscono suicide. Giornali e Tv si disinteressano della stragrande maggioranza di questi episodi. «Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda: perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois?». Premesso che nello sport professionistico il doping (entro certi limiti) è pressoché inevitabile, Franceschetti sospetta che Fois sia morto «per aver “tradito”, come Pantani». Ovvero, i due avrebbero «pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano». Secondo Franceschetti, c’è anche «non il sospetto, ma la certezza» che la verità non verrà mai a galla. Del resto, «la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità, la maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio». E racconta: «Io stesso, dopo il primo incidente che mi capitò, pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole, potevo morire senza sapere neanche perché, e pochi avrebbero sospettato qualcosa». E aggiunge: «Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un’auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una Procura come è successo al capo dei vigili testimone della Thyssen Krupp». La storia italiana, aggiunge l’avvocato, è troppo gremita di “coincidenze”, depistaggi e collusioni: le bombe nelle piazze, Ustica, Moby Prince. «In quei casi i familiari delle vittime ormai hanno capito, ma negli altri?». La storia infinita del “mostro di Firenze”, ad esempio, sembra il frutto di un “normale” serial killer solitario. Secondo Franceschetti, invece, tutti quegli omicidi non sono altro che precise esecuzioni rituali, settarie ed esoteriche, meticolosamente pianificate da un clan criminale protetto da amicizie potenti. «Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo», scriveva Franceschetti nel 2008. «Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio». Continua Franceschetti: «Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte”, mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto: “Sì, Paolo, lo sapevo. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista di medico-legale”». L’esoterismo «è un linguaggio: se non lo conosci è come camminare per le strade di una nazione straniera, vedi le scritte ma non ti dicono nulla, sembrano segni innocui e invece sono messaggi precisi”». Difficile parlarne, «perché ti prendono per matto». E il guaio è che, «quando capisci il sistema», è problematico «continuare a fare la vita di sempre senza impazzire».

Strano suicidio, quello di Marco Pantani, scrive “Libreidee”. Così strano da spingere la magistratura a riaprire l’inchiesta a dieci anni di distanza da quel 14 febbraio 2004. Più che un suicidio, scrive l’avvocato Paolo Franceschetti, sembra un omicidio “firmato”, con implacabile precisione, dall’ “Ordine della Rossa Rossa”. Fantomatica organizzazione segreta internazionale, secondo alcuni studiosi sarebbe una potentissima cupola eversiva di tipo esoterico, con fini di potere, dedita anche all’oscura pratica dell’omicidio rituale. «Un’ipotesi sempre scartata come irrealistica dagli inquirenti», scrive nel suo blog lo stesso Franceschetti, autore di studi sulla presunta relazione tra crimini e occultismo iniziatico, incluso il caso del cosiddetto “mostro di Firenze”. Di matrice rosacrociana, fondata sul simbolismo della Cabala e dell’ebraico antico come la londinese “Golden Dawn” rinverdita dal “mago” Aleister Crowley, secondo alcuni saggisti la “Rosa Rossa” sarebbe una sorta di super-massoneria deviata e criminale. Problema: non esiste una sola prova che questa organizzazione esista davvero. Solo indizi, benché numerosi. Chi esegue una sentenza rituale di morte, per “punire” in modo altamente simbolico un presunto “colpevole” o addirittura perché pensa – magicamente – di “acquisire potere” dall’uccisione “satanica” di un innocente, secondo Franceschetti ricorre sistematicamente a pratiche sempre identiche: in particolare la morte per impiccagione (la corda di Giuda, traditore di Cristo), con la vittima fatta ritrovare inginocchiata, e la morte per avvelenamento (o overdose di droga). Decine di casi di cronaca, tutti contrassegnati da circostanze ricorrenti: manca sempre un movente plausibile, non si trova l’arma del delitto, i nomi delle vittime hanno spesso origine biblica, la somma dei “numeri” (data di morte, data di nascita) riconduce a numeri speciali, per la Cabala, come l’11 e i suoi multipli. Oppure il 13, il numero della morte dei tarocchi. E poi, la “firma”: Pantani fu ritrovato morto a Rimini all’hotel “Le Rose”. Accanto al corpo, un biglietto in codice dal significato criptico: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”.

Sul caso Pantani, sono stati scritti fiumi di parole, reportage, libri. Tra chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio c’è un giornalista come Andrea Scanzi, che sul “Fatto Quotidiano” scrive: «Troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?)». Inoltre, il campione aveva chiamato per ben due volte la reception, parlando di «due persone che lo molestavano», ma l’aneddoto è stato catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”. In più, Pantani «fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio)». Uniche tracce di cocaina, quelle ritrovate su palline di mollica di pane. Indagini superficiali: «Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza». Dettaglio macabro e particolarmente strano, il destino del cuore di Pantani: «Venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno», scrive Scanzi. Prima di morire, a Rimini il ciclista aveva trascorso cinque giorni, «per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano?». Altre domande: «Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato?». Certo, aggiunge Scanzi, Pantani morì per overdose di cocaina, «ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena». L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, «segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti». E poi, tutte quelle “incongruenze”, reperibili in libri-denuncia come “Vie et mort de Marco Pantani” (Grasset, 2007) e “Era mio figlio” (Mondadori, 2008). E poi, soprattutto: «Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere?». Colori e rose, “la rosa rossa è la più contata”. Anche i suoi amici, ricorda Franceschetti, dissero che la morte di Pantani in quell’hotel non poteva esser stata casuale: forse Marco voleva «lasciare un messaggio a qualcuno», perché «era un uomo che non faceva nulla a caso». Meglio ancora: «Non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso», chiosa l’avvocato, sempre attento ai possibili “segni invisibili”: «Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata». Pantani “costretto” ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse “firmato”? «Ovviamente, dire che dietro un delitto c’è la “Rosa Rossa” significa poco: essendo la “Rosa Rossa” un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra». Un’affermazione «talmente generica da essere pressoché inutile a fini investigativi». Tuttavia, «dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio». Franceschetti considera «evidente» l’origine «massonica» degli attacchi a Pantani, citando l’anomalo incidente che, anni prima, lo vide protagonista a Torino: fu travolto da un’auto che era penetrata in un’area interdetta al traffico, lungo la discesa della collina di Superga, quella dove si schiantò l’aereo del Grande Torino. La basilica di Superga, sull’altura che domina la città, fu costruita nel 1717, «anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria». Basta questo, all’avvocato, per concludere che si tratta di «una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente». Tra gli “incidenti non casuali”, Franceschetti inserisce pure quello ai danni del cantante Rino Gaetano: come anticipato in modo inquietante dal testo di una sua canzone, “La ballata di Renzo”, peraltro gremita di “rose rosse”, l’artista morì a Roma nella notte del 2 giugno 1981 dopo esser stato rifiutato da 5 diversi ospedali. «Statisticamente, le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono… nulle». Molto strana, aggiunge Franceschetti, è anche la tragica fine del ciclista Valentino Fois, della stessa squadra di Pantani: anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano subito di overdose, «e già questo fa venire qualche sospetto». Premessa: in Italia, muoiono per omicidio circa 2.500 persone all’anno. E altrettante finiscono suicide. Giornali e Tv si disinteressano della stragrande maggioranza di questi episodi. «Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda: perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois?». Premesso che nello sport professionistico il doping (entro certi limiti) è pressoché inevitabile, Franceschetti sospetta che Fois sia morto «per aver “tradito”, come Pantani». Ovvero, i due avrebbero «pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano». Secondo Franceschetti, c’è anche «non il sospetto, ma la certezza» che la verità non verrà mai a galla. Del resto, «la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità, la maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio». E racconta: «Io stesso, dopo il primo incidente che mi capitò, pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole, potevo morire senza sapere neanche perché, e pochi avrebbero sospettato qualcosa». E aggiunge: «Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un’auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una Procura come è successo al capo dei vigili testimone della Thyssen Krupp». La storia italiana, aggiunge l’avvocato, è troppo gremita di “coincidenze”, depistaggi e collusioni: le bombe nelle piazze, Ustica, Moby Prince. «In quei casi i familiari delle vittime ormai hanno capito, ma negli altri?».

La storia infinita del “mostro di Firenze”, ad esempio, sembra il frutto di un “normale” serial killer solitario. Secondo Franceschetti, invece, tutti quegli omicidi non sono altro che precise esecuzioni rituali, settarie ed esoteriche, meticolosamente pianificate da un clan criminale protetto da amicizie potenti. «Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo», scriveva Franceschetti nel 2008. «Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio». Continua Franceschetti: «Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte”, mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto: “Sì, Paolo, lo sapevo. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista medico-legale”». L’esoterismo «è un linguaggio: se non lo conosci è come camminare per le strade di una nazione straniera, vedi le scritte ma non ti dicono nulla, sembrano segni innocui e invece sono messaggi precisi». Difficile parlarne, «perché ti prendono per matto». E il guaio è che, «quando capisci il sistema», è problematico «continuare a fare la vita di sempre senza impazzire».

Marco Pantani per Paolo Franceschetti fu ucciso da un complotto, scrive Sonia Paolin su “Delitti”. E’ la tesi di Paolo Franceschetti, esperto di massoneria ed esoterismo Marco Pantani aveva dato fastidio a molti poteri forti che si sono uniti per eliminarlo. La morte di Marco Pantani? Frutto di un complotto che pare da lontano e che mescola misteri ed esoterismo, medicina, poteri forti e massoneria. A sostenerlo è Paolo Franceschetti, noto esperto della materia che insieme a Fabio Frabetti e Stefania Nicoletti da qualche tempo ha anche aperto un blog specifico, "Indagine sulla morte di Marco Pantani". Diverse le colpe di cui si sarebbe macchiato il campione, tutte punite con la sua morte: parlava senza peli sulla lingua senza aver timore di nessuno, infangando il sistema del doping, delle case farmaceutiche e delle sponsorizzazioni; vinceva troppo, non voleva piegarsi alle regole del gioco, e non permetteva a nessuno di dirgli quando e come vincere; destabilizzava anche gli equilibri geopolitici internazionali. Ora, intervistato sul blog di Vice, la trasmissione di approfondimento e inchiesta di Sky Tg24, Franceschetti ha chiarito i suoi sospetti: “La stranezza di questo caso è sempre stata considerare la morte di Marco come un suicidio e non un omicidio. La morte di Marco è un stato un omicidio eccellente, con coperture e depistaggi eccellenti. È sempre stato chiaro, a chiunque, non solo a me. Credo proprio che in questo momento qualcuno stia tremando. Magari stanno pensando a un cambio di potere, ai vertici, qualcosa così. I gruppi di potere a cui dava fastidio Pantani. Basta vedere la sua storia per vederlo. Nella sua vita si è messo contro un sacco di gente. con battaglie, anche in tribunale. Pantani era scomodo, sosteneva verità che normalmente nel mondo dello sport non vengono portate avanti”. E cita fatti già noti, peraltro già accantonati da molti: “Il declino di Pantani iniziò quando rifiutò la sponsorizzazione della Fiat (divenne testimonial di Citroen, ndr). Quella decisione gli è costata cara. C’è la droga poi, il doping, ma anche altro. Tanto per dirtene una c’è anche la pista americana. Marco vinceva tutto, forse troppo. Gli americani tengono parecchio alla loro immagine nel mondo e in quel momento avrebbero voluto che Armstrong diventasse il loro nuovo numero uno. Pantani si era messo in mezzo”. E qui si arriva ai mandanti: “C’è la firma dell’organizzazione che ha commissionato il fatto, che è l’ordine della Rosa Rossa. E’ uno degli ordini più potenti nel mondo, e i suoi componenti di grado più elevato sono ai vertici di banche, multinazionali, istituzioni di alto livello. Non sono teppisti da quattro soldi. Sono ovunque. Pantani muore all’hotel Le Rose, di fianco al cadavere, sul comodino, la polizia trova un bigliettino su cui c’è scritta una sorta di poesia, di filastrocca. “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata.” Poi c’è la data del delitto. Marco muore il giorno di San Valentino. San Valentino è il santo dell’amore e quindi delle rose, e se fai la somma dei numeri che compongono la data, uno per uno, il numero finale è 13. Se guardi i tarocchi il tredici corrisponde alla morte, e i tarocchi sono ovviamente un’espressione dell’esoterismo”.

L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti, scrive Paolo Franceschetti. Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati. Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso. Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo. Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze). Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale. I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente. Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore. L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande. Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)? Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti). Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro? Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso. Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo? La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore. Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti. Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre. Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente. Senz’altro queste due motivazioni ci sono. Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente. La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo). Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta. E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso. Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa. Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato. E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso. Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo. Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime. La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani. Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina. Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave. Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca. Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani). Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico). Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina. Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”). Il mio articolo termina qui. Non voglio approfondire per vari motivi. In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho. Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire. E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto. La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi. Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce. Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra. Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce. Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa. Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo. E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti. (Io speriamo che non mi suicido).

L’omicidio massonico - Il caso Pantani e il caso Fois, scrive ancora Paolo Franceschetti.

Premessa. In questo articolo approfondiamo alcuni degli argomenti trattati nel precedente articolo sull’omicidio massonico e chiariamo alcuni dubbi che l’articolo aveva suscitato specialmente in merito al caso Pantani. In primo luogo l’articolo precedente terminava con una domanda. Mi chiedevo cioè il motivo dell’immenso numero di persone “suicidate” (come si dice in gergo) mediante impiccagione, e facendo toccare alla maggioranza di essere le ginocchia per terra. Voglio poi rispondere alle molte domande che mi vengono spesso rivolte: come si distingue l’omicidio massonico? E perché dico che Pantani fu quasi sicuramente ucciso?

Impiccagioni e avvelenamenti, overdose. In primo luogo un lettore mi ha inviato la sua spiegazione. il "suicidio in ginocchio" rappresenta "l'omicidio consacrato" cioè la morte per "volere divino"... cosi come si viene investiti degli onori alla vita, cosi si viene investiti degli onori alla morte. Mi è pervenuto inoltre uno scritto, tratto dal libro di un esoterista che ha, appunto, trattato questo argomento che riportiamo. Il libro è di Lino Lista e si intitola: “Raimondo di Sangro. Il principe dei veli di pietra”. In forma romanzata vengono rivelati alcuni aspetti del ritualismo massonico che hanno quindi dato una risposta alla mia domanda sul motivo dei tanti impiccati. La corda e l’impiccagione sono i simboli di Giuda e del tradimento di Cristo. Ma il lavoro di Lino Lista svela anche un altro mistero. Un’altra modalità frequente di uccisione, tanto frequente da gettare più di un sospetto, ad esempio, è quella dell’avvelenamento da overdose, in cui sono incappati, per fare qualche nome, il ciclista Pantani, poi di recente un altro componente della sua squadra, il ciclista Valentino Fois, e a Viterbo il medico Manca, ovvero il medico che pare abbia curato il boss mafioso Bernardo Provenzano. Muoiono poi avvelenati anche molti testimoni di processi importanti. Morì avvelenato in carcere Sindona. E poi molti “malori” improvvisi, talvolta nell’anticamera di un giudice, in un tribunale, o nella buovette di Montecitorio come capitò al generale Giorgio Manes. Voglio citare integralmente il passo del libro di Lino Lista: La corda...(omissis)...è il segno dominante, che mai deve mancare, di una vendetta massonica. Con riferimento alla leggenda di Hiram, volendo spandere un maggior numero d’indizi, convenientemente si potrebbero lasciare accanto al cadavere del giustiziato, seppur di veleno: dell’acqua, in ricordo della fontana alla quale il Vendicatore smorzò la sete; un osso spezzato di cane, in onore dell’Incognito che si mutò in tal bestia; un abito nero, in memoria del lutto per Padre Hiram. Volendo eccedere, ma mai una società segreta dovrebbe eccedere perchè troppi indizi talvolta sono considerati alla stregua di una prova, si potrebbe collocare sulla salma del traditore un mattone, simbolo muratorio. Queste morti da overdose, quindi, non sono un caso. Anche l’avvelenamento è una modalità “massonica” perché simboleggia la morte per mano del serpente, simbolo dell’infedeltà e dell’inganno. Ecco quindi perché Pantani morirà dopo aver ingerito diverse dosi di coca. Perché sostengo che sia un omicidio? Perché ogni qualvolta l’incidente, o il malore, o il suicidio, sono provocati, e sono quindi un omicidio, immancabilmente partono, a seguito del fatto, i depistaggi e gli occultamenti che solo un potere come quello massonico è in grado di fornire: sparizione dei fascicoli dai tribunali, morte dei testimoni, la pervicace volontà degli inquirenti nell’ignorare determinate prove (per collusione, paura, o per la mancata conoscenza del problema), le irregolarità procedurali, ecc…

Il caso Pantani. Esaminiamo il caso Pantani, così come ce lo descrive un giornalista, Philippe Brunel, in un recente libro “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” su cui ci basiamo per la nostra ricostruzione. E’ noto che Pantani morirà all’hotel Le rose di Rimini per una presunta overdose da cocaina. Anche qui troviamo tutti gli elementi di un omicidio massonico, ovverosia le firme, nonchè tutte le modalità procedurali investigative che gli inquirenti seguono quando il delitto è massonico.

Ad esempio troveremo:

- testimoni che cambieranno versione;

- gli inquirenti che ignorano particolari fondamentali nell’indagine: ad esempio nel cestino dei rifiuti della stanza dell’hotel verranno rivenuti resti di una cena presa da un ristorante cinese. Ma Pantani non mangiava cibo cinese. Allora chi c’era con lui quell’ultima notte?

- Sul corpo compaiono segni di colluttazione ma nessuno accerterà mai se, ad esempio, sotto le unghie compaiano o meno dei resti di DNA altrui per verificare se Pantani fu forzato a ingerire cocaina (v. pag. 278).

- Errori e omissioni varie nelle autopsie.

- Una volante della polizia, con due agenti, interverrà sul luogo dell’incidente, ma non redigerà mai il verbale relativo. Perché questa irregolarità nelle procedure?

- Le varie perizie medico legali fanno una gran confusione sull’ora della morte che collocano tra le 11,30 (la perizia del dottor Fortuni) e le 19 (il medico Toni).

Dire esattamente quanti siano i massoni a Bologna è difficile, per quanto si parli di circa 450 affiliati. Vicino alla massoneria viene indicato il medico legale Giuseppe Fortuni, che si occupò di alcune perizie sulla morte del ciclista Marco Pantani, stroncato da un’overdose di cocaina il 14 febbraio 2001 in un residence di Rimini, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. E lo stesso accade per l’imprenditore Vittorio Casale, uomo di Massimo D’Alema e che, tra le molte opere di cui si è occupato, ha partecipato a progetti di ristrutturazione del patrimonio di Propaganda Fides e di enti religiosi.

- Il medico legale che dopo l’autopsia si accorge di essere seguito.

- La camera fu trovata in disordine come se ci fosse stato un corpo a corpo.

Poi ci sono le domande irrisolte.

- Perché Pantani, volendosi suicidare, prende una stanza in un albergo a pochi chilometri dalla casa dove abitava?

- Perché prima di suicidarsi ci resta qualche giorno? Cosa lo fa rimanere in una stanza di albergo quando aveva la sua abitazione lì vicino?

- Uno degli inquirenti dichiara al giornalista di avere avuto pressioni dal Ministero dall’interno per concludere in fretta l’indagine. Ma il ministero non dovrebbe avere fretta di concludere; casomai dovrebbe avere la volontà di accertare la verità senza lasciare dubbi. Curioso poi che il Ministero si disinteressi del fatto che dopo decenni non sia mai venuta fuori la verità per stragi come Ustica, o per il sequestro Moro, e improvvisamente abbia fretta di concludere per un personaggio come Pantani. Difficile pensare che sotto ci sia una voglia di arrivare velocemente alla verità, dato che l’occultamento della verità è sistematico nella storia giudiziaria italiana. Mai abbiamo sentito un politico affermare che nel programma elettorale c’era la volontà di scoprire la verità sulle tante stragi impunite per dare giustizia alle migliaia di morti e alle decine di migliaia di famiglie delle vittime delle stragi. Mai. Anzi, in compenso alcuni degli autori di crimini assurdi, come l’ex terrorista D’Elia, hanno addirittura avuto incarichi istituzionali (sottosegretario alla camera nel governo Prodi). Personaggi che hanno avuto pesanti responsabilità in vicende come il sequestro Moro verranno addirittura fatti presidenti della Repubblica (Cossiga). Nessuna fretta di scoprire chi ha abbattuto l’aereo di Ustica, nessuna fretta di arrivare alla verità sul Moby Prince, nessuna fretta di scoprire chi c’è dietro ai delitti del Mostro di Firenze, dietro ai Georgofili, dietro a Piazza Fontana, dietro alla strage di Bologna. Ma una gran fretta di chiudere il caso Pantani. Curioso no? Tutte queste contraddizioni, depistaggi, ecc., sono sempre l’indizio sicuro della presenza della massoneria. In alternativa può ipotizzarsi che si tratti di incuria o superficialità nell’indagine. Ma si tratta di incuria e superficialità troppo ricorrenti per essere casuali. Poi ci sono le firme. Quelle firme che chi non si è mai occupato di massoneria non riesce a vedere. Ma immediatamente visibili per chi vive in mezzo a queste vicende. Anzitutto Pantani muore all’hotel Le Rose, il cui nome potrebbe non essere casuale ma essere la firma della Rosa Rossa. D’altronde anche i suoi amici diranno che la morte di Pantani in quell’hotel non deve essere un caso, ma forse voleva lasciare un messaggio a qualcuno perché lui era un uomo che non faceva nulla a caso (pag. 52). Forse, aggiungo io, non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso. E poi viene trovato accanto al corpo un biglietto con una frase apparentemente senza senso: Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata. Non sono in grado di capire il senso di questo biglietto; ci vorrebbe un esperto e pochi in Italia sono in grado di capire questi messaggi. Ma indubbiamente sembra un messaggio in codice. Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata. Qualcuno ipotizza che abbia un senso anche la data della sua morte: 14/02/2004, data la cui somma fa 13, che nelle carte dei tarocchi non a caso è la carta della morte. Nonostante non sia in grado di decodificare tutti i particolari è evidente però che Pantani fu in qualche modo costretto ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse firmato. Ovviamente dire che dietro un delitto c’è la Rosa Rossa significa poco. Essendo la Rosa Rossa un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra. Cioè significa affermare una cosa talmente generica da essere pressocchè inutile a fini investigativi, e tuttavia dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio. D’altronde che gli attacchi a Pantani provenissero da ambienti massonici risulta evidente dal fatto che qualche anno prima ebbe un incidente anomalo nella discesa di Superga. Un auto entrò nella zona vietata al traffico e investì Pantani e altre due persone. Un incidente casuale? Difficile, da pensarsi, perché sulla collina di Superga sorge quella cattedrale omonima, che venne costruita nel 1717, anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria. Una basilica e una collina, insomma, che hanno un particolare significato per la massoneria. Per chi sa anche solo poche cose sulla massoneria si tratta di una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente (inspiegabile ad esempio è come avesse fatto la macchina a inserirsi nella zona vietata, tanto che Pantani fece causa alla città di Torino per questo fatto).

La parola ai testimoni. Per chi conosce le vicende delle stragi italiane gli incidenti stradali per rottura dei freni o dello sterzo, non sono una novità, I testimoni di queste stragi, i personaggi scomodi, muoiono sempre così: non solo impiccati e avvelenati, ma anche in incidenti banali in cui l’auto (o la moto) escono di strada all’improvviso per un malfunzionamento. Qualcuno ogni tanto si salva. Ricordo a memoria – tra gli scampati - il carabiniere Placanica (implicato nei fatti del G8), il giudice Forleo (ma non così fu per i genitori, che morirono in un incidente analogo senza ovviamente che gli inquirenti volessero indagare). Persino il famoso Enrico Berlinguer disse di aver avuto un incidente da cui si era salvato per miracolo, durante un suo viaggio in Bulgaria nel 1973, in cui morirono però altre due persone; disse che l’incidente era voluto, ma nessuno gli credette. Di recente Fabio Piselli, scampato al rogo della sua auto, più volte nominato nei miei articoli. Ma in tanti hanno avuto “incidenti anomali” e non si sono salvati. Ne abbiamo parlato in precedenti articoli e non voglio ripetermi. Voglio invece ricordare alcuni morti del mondo dello sport e dello spettacolo. Ayrton Senna, cui fu montato male lo sterzo della sua formula 1. Per non parlare del Torino Calcio; l’aereo ebbe un guasto imprecisato e si schiantò contro – guarda tu che caso - la collina di Superga. Il cantante Rino Gaetano che ebbe due incidenti identici, con la stessa auto; nel primo incidente si salvò; nel secondo morì, anche perché 5 ospedali si rifiutarono (misteriosamente) di prenderlo in cura. Il cantante morì il 2 giugno 1981 nello stesso identico modo in cui muore il protagonista di una sua canzone, La ballata di Renzo. Statisticamente le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono…. nulle. E statisticamente, le probabilità che qualcuno svolga veramente delle indagini sono le stesse di questi incidenti: nulle.

Mass Media e delitti. Molta strana è anche la morte del ciclista Valentino Fois, della squadra di Pantani. Anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano di overdose. E già questo fa venire qualche sospetto, in quanto probabilmente muore nello stesso modo del suo ex amico. Occorre a questo punto fare una considerazione di ordine generale sui mass media in Italia. In Italia muoiono per omicidio circa 2500 persone all'anno. E altrettante ne muoiono suicide. Giornali e Tv si disinteressano di questi fatti, selezionando accuratamente solo le notizie che piacciono e sono funzionali al sistema. Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda. Perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois? E perché poi, nei pochi secondi che i TG dedicano alla notizia, occorre precisare che era implicato in un furto di portatili? Quand’anche si voglia dar risalto alla morte di un uomo, non c’è alcuna necessità di informare il pubblico che costui – forse – aveva rubato dei PC. In primo luogo perché la notizia è generica e posta in forma dubitativa. In secondo luogo perché non si capisce quale collegamento possa sussistere tra un furto di PC e una morte per overdose. Il sospetto che sia un omicidio, e che la televisione abbia volutamente voluto riportare l’immagine di una persona drogata e dedita al furto, è molto forte. Il messaggio che si vuole trasmettere è questo: è morto un ladro e per giunta drogato e depresso. Ma chi invece ha capito come funziona l’informazione in Italia capisce chiaramente un altro messaggio: probabilmente si tratta di un omicidio e c’è sotto qualcosa. E allora il pensiero corre al fatto che qualche prima avesse rilasciato un intervista alle jene. Aggiungiamo poi una cosa. Chi frequenta a livello professionistico il mondo dello sport sa che il doping è un fenomeno assolutamente diffuso, nel senso che probabilmente non è possibile partecipare a qualsiasi tipo di sport senza doparsi. Nella mia esperienza del passato, per anni ho praticato Body Building e ho seguito corsi per diventare istruttore di questa disciplina. E il doping era una materia di studio assolutamente ufficiale, nel senso che nella preparazione atletica di uno sportivo professionista non si poteva prescindere dal doping. Il problema era solo come eludere i controlli, stare attenti ai tempi di eliminazione della sostanza ecc... C’è quindi il forte sospetto che Fois sia morto in questo modo per aver “tradito”, come Pantani, e che i due abbiano pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano.

Considerazioni finali. C’è anche (non il sospetto ma) la certezza, che la verità non verrà mai a galla. Anzi, a dire queste cose, purtroppo, si rischia di passare per matti o visionari. La cosa che mi dà tristezza, in tutta questa vicenda, non è la gravità delle collusioni istituzionali a tutti i livelli, né la scarsa preparazione di molti inquirenti in materia che si traduce in una mancata tutela del cittadino. Questo ho imparato ad accettarlo, perché viviamo in una democrazia troppo giovane perché sia veramente una democrazia. Le mentalità e i costumi di secoli non possono cambiare in pochi anni. L’oligarchia mascherata in cui viviamo, in fondo, un giorno dovrà finire per dare spazio ad una nuova era. Ciò che mi dà tristezza è pensare che la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità. La maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio. Io stesso dopo il primo incidente che mi capitò pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole; potevo morire senza sapere neanche perché e pochi avrebbero sospettato qualcosa. Solo dopo qualche tempo mi spiegarono chi ce l’aveva come me e perché. Ora, perlomeno, so che mi potrebbe succedere qualcosa e so anche il perché. Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una procura come è successo al capo dei vigili testimone della Tyssen Krupp. Ma all’epoca dei primi incidenti, non avevo neanche il sospetto di essere stato “condannato a morte”. Perché non ero consapevole di quale colpa avessi commesso e di quale peccato mi fossi macchiato.
Mi domando se Senna sapeva il destino che lo aspettava, se i familiari avranno capito. I familiari del Torino Calcio cosa penseranno di quell’incidente terribile? E i genitori di Fois? E la Forleo, cui scrissi “una lettera aperta” dalle pagine di questo blog… avrà capito esattamente cosa le è successo oppure penserà che il suo incidente d’auto sia stato casuale? I familiari delle vittime di via dei Goergofili, di Ustica, del Moby Prince, hanno capito. Lì sono troppo grosse le collusioni, troppo evidenti gli omicidi e i depistaggi perché qualcuno non capisca. Ma gli altri? I familiari dei testimoni di processi apparentemente normali, come quelli della Tyssen Krupp, o del Mostro di Firenze, che apparentemente sembra un normale caso di un serial Killer? E i familiari di tutte quelle persone che parevano condurre una vita normale, perché il delitto è maturato in un luogo ove nessuno sospetterebbe l’ingerenza così pesante dei cosiddetti poteri occulti, come il mondo sportivo? Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo. Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio. Allora voglio ricordare le parole dell’onorevole Falco Accame, a proposito degli incidenti anomali (come quello capitato ai genitori del giudice Forleo) o dei suicidi dei vari testimoni di processi importanti. Parlavamo dell’incidente capitato al giudice Forleo, e mi disse “inizialmente, quando mi occupai di queste cose, credevo al caso. Non volevo credere che fosse una cosa voluta perché mi pareva fantascienza. Poi, quando mi accorsi che i testimoni morivano tutti, sistematicamente, ho capito… E’ una cosa che è difficile da accettare.” Questo articolo, come il precedente, è scritto per tutti i familiari di persone suicidate, impiccate, morte in incidenti inspiegabili che hanno sempre capito che la versione ufficiale data dagli inquirenti non quadrava, affinchè perlomeno loro sappiano la verità. Oramai sono troppe le vittime sparse per la penisola, perché non si cominci a sospettare. E sono troppi i sopravvissuti perché qualcosa prima o poi non venga fuori. Oramai parlo con tante persone esperte e mi confronto. Molti, tanti, hanno capito. Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte” mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto “si Paolo, lo sapevo. Lo sapevo perché da medico legale mi rendo conto quando ci prendono in giro in TV e sui giornali. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista di medico legale. Analizzando alcuni dei più importanti casi dal punto di vista medico legale mi sono accorto che ci prendono in giro. E poi sono un appassionato di esoterismo, e quindi i loro simboli e messaggi io li vedo. Vedi? L’esoterismo è un linguaggio. Se non lo conosci è come camminare per strade di una nazione straniera; vedi la gente, vedi le scritte, ma non ti dicono nulla; in certi casi potrebbero sembrarti innocui disegnini. Ma se invece lo conosci allora riesci a leggere oltre la superficie e capire i messaggi profondi che vengono lanciati e gli innocui disegnino diventano frasi precise. Capisci tutto, ma con la maggior parte delle persone non puoi parlare perché ti prendono per matto. E il problema principale, quando capisci il sistema, è continuare a fare la vita di sempre senza impazzire”. Questo, signori, è il sistema in cui viviamo ma con un po’ di studio e di intuito si può imparare a capirlo. Il paradosso è che non sono mai stato un appassionato né di gialli, né di spionaggio, né di esoterismo; ma credo che neanche la più fervida fantasia di qualsiasi scrittore abbia mai immaginato un sistema del genere. La realtà, per chi la vuole vedere, supera sempre di gran lunga la fantasia. Anche quella di Stephen king, che forse non a caso ha scritto una serie di telefilm che si intitola The Red Rose, e che forse per i suoi libri non si è ispirato alla sua sola fantasia (ad es. nei “Lupi del Calla”, occorre proteggere una sola rosa rossa che sta in una Torre nera; e se la Rosa venisse distrutta per qualche motivo la Torre cadrebbe insieme alla Rosa). Ps finale. Quando facevo il quarto ginnasio rubai tre biscotti (erano dei Ringo per la precisione) al mio miglior amico, Daniele. Voglio precisare, in caso di suicidio da parte mia, che i due fatti non sono collegati, al fine di evitare che i media mi facciano lo scherzo di Fois e che riportino la notizia facendomi passare per un ladro di biscotti. Peraltro confessai il mio crimine a Daniele, il quale dopo 25 anni non manca mai di ricordarmelo.

L'omicidio massonico. L'omicidio rituale e le difficoltà di accertamento, scrive Paolo Franceschetti. Il delitto rituale e la giustizia. Cenni al delitto di Cogne e quello di Erba. 1. Premessa. 2. L’omicidio rituale: concetto. 3. Come riconoscere l’omicidio rituale. 4. Il calcolo della data 5. Due esempi pratici. I Delitti di Cogne ed Erba. 6. Problematiche di accertamento dell’omicidio rituale. 7. Ragioni storiche e culturali dell’attuale situazione. 8. Un aneddoto conclusivo.

Premessa. L’omicidio rituale è uno degli omicidi più diffusi da secoli. Tutt’oggi sono delitti rituali molti dei delitti “inspiegabili” della nostra cronaca quotidiana; tali delitti sono inspiegabili e misteriosi infatti solo perché per una serie di motivi (coperture ad alti livelli, disinformazione da parte della gente comune, ecc.) vengono trattati come delitti comuni. Da qui le contraddizioni nelle indagini, gli aspetti oscuri in vicende che sono quasi quotidianamente all’attenzione dei mass media come i delitti di Cogne, Erba, Meredith e Garlasco. Inoltre, a parlare di omicidi rituali, si finisce per essere presi per matti, quindi quei pochi che intravedono la verità spesso tacciono, mentre quelli che ne parlano apertamente come Gabriella Carlizzi, vengono considerati dei visionari.

L’omicidio rituale. Concetto. Vediamo cos’è l’omicidio rituale, per poi capire il motivo dell’apparente disinteresse degli apparati investigativi e della letteratura scientifica (sia essa psichiatrica o forense). L’omicidio rituale è quello compiuto non per motivi contingenti e variabili, ma per una finalità precisa, ulteriore al delitto stesso, e funzionale agli interessi di un gruppo organizzato (religioso, sociale, o di altro tipo) o del singolo. Per essere annoverato nella categoria degli omicidi rituali il fatto deve presentare delle caratteristiche costanti, funzionali al raggiungimento dello scopo finale. In tal senso sono omicidi rituali, oltre ai delitti di gruppi satanici, molti delitti di mafia (non tutti), i delitti di un serial killer, e i delitti massonici. Nei delitti di mafia, ad esempio, gli omicidi seguono spesso una precisa ritualistica quando si tratta di eliminare un affiliato che ha parlato troppo o ha tradito. Nel libro “Gomorra” Roberto Saviano descrive ad esempio l’uccisione da parte della camorra di un affiliato che si era pentito, che viene ritrovato in mezzo alla strada, col corpo martoriato in modo terribile e la lingua mozzata. Il traditore, in altre parole, non può morire in un modo qualsiasi, ma deve morire seguendo un preciso rituale che serva da deterrente per i delatori futuri, e serva al tempo stesso da sfoggio di potenza da parte dell’organizzazione. Sono delitti rituali quelli commessi da organizzazioni sataniche, come le cosiddette Bestie di Satana, una delle poche sette che sono incappate nella maglie della giustizia (le altre invece sono libere di agire come a loro pare, grazie alla cospicua letteratura scientifica di esperti famosi che insistono nel sostenere che il satanismo sia un fenomeno poco diffuso, in cui al massimo si sgozza qualche gallina; esperti che però non forniscono mai una risposta alla domanda “che fine fanno le centinaia di bambini italiani che spariscono nel nulla senza lasciare traccia, secondo i dati ufficiali della polizia di stato?”). Assolutamente mai trattato, nella letteratura, è l’omicidio massonico, così come noi lo abbiamo esposto in articoli precedenti. Eppure l’omicidio massonico vanta una tradizione secolare, sussurrata, ma mai analizzata a fondo. Una tradizione che vede tra le vittime illustri persone come Mozart (si pensa che venne avvelenato perché nella sua opera il Flauto magico aveva rivelato alcuni segreti massonici; e si racconta che il suo requiem è un’opera incompiuta perché lui la stava scrivendo per se stesso, sapendo che lo avrebbero ucciso), e imperatori come Ludovico II di Baviera che non a caso muore in una data ammantata di simbologia rituale massonica: 13 giugno 1886, data il cui valore numerico è – non a caso – 33 (1+3+6+1+8+8+6). La cosa che colpisce di più è che manca una trattazione degli omicidi rituali anche in opere specialistiche; ad esempio nel manuale “Crime Classification Manual”, cioè il manuale dell’FBI sulla classificazione e investigazione dei crimini violenti, manca totalmente una voce corrispondente a “omicidio rituale”. Troveremo “omicidio domestico”, “omicidio domestico spontaneo”, addirittura “omcidio a sfondo sessuale di donna anziana”, ma neanche un accenno a omicidi rituali di altro tipo. Una dimenticanza non casuale, probabilmente, dato che il rapporto tra omicidi a sfondo sessuale di donna anziana, contro gli omicidi rituali satanici nel nostro paese, è di 1:1000. Mentre digitando in Internet la voce “omicidio rituale”, oppure cercando dei libri specifici sull’argomento, troverete una marea di libri e informazioni sull’ “Omicidio rituale ebraico”, con tutte le polemiche recenti sul libro di Ariel Toaff “Pasqua di sangue”; poi migliaia di pagine sull’omicidio del Piccolo Simonino da Trento avvenuto nel 1475; ma nulla sull’omicidio rituale dei nostri giorni. Silenzio assoluto. Non c’è da meravigliarsi poi se le indagini sugli omicidi rituali, come i dodici omicidi presi in considerazione nell’articolo precedente a questo, non vengano riconosciuti come tali. Perché delle due l’una: o chi indaga appartiene all’organizzazione, quindi quando riconosce la simbologia avrà cura di non rivelarla. Oppure chi indaga non la conosce, e inevitabilmente gli parrà fantascienza l’idea di trovarsi davanti ad un’organizzazione tanto complessa da avere collegamenti e radici ovunque, in grado di bloccare ogni indagine in virtù del giuramento di segretezza che vincola gli appartenenti a queste organizzazioni in ogni grado.

Come riconoscere l’omicidio rituale. L’omicidio rituale si riconosce da alcuni indizi. Un indizio è la data. Poi un indizio importante, nei delitti della Rosa Rossa, è il mancato ritrovamento dell’arma del delitto, che viene acquisita per gli scopi esoterici dell’organizzazione. Un ulteriore indizio è dato dal ritrovamento sulla scena del delitto di oggetti simbolici, come una rosa, dei cerchi, piramidi (nei delitti del mostro di Firenze ad es.) e altro ancora. Talvolta il simbolo non è in un oggetto ritrovato, ma nel luogo del delitto, o addirittura nel nome degli assassini. Un esempio di luogo simbolico: nel delitto Pantani il ciclista viene trovato all’hotel “Le Rose”. Un esempio di delitto ove la firma è nel nome: nell’omicidio di Annalaura Pedron avvenuto nel 1988, gli indagati sono Rosalinda Bizzo e suo figlio David Rosset (quindi la madre dovrebbe chiamarsi Rosalinda Rosset, RR, cioè la firma della Rosa Rossa). Una bella coincidenza. E – ulteriore coincidenza – i due sospettati facevano parte di un’associazione esoterica denominata “Cenacolo 33”. Ce ne sarebbe a sufficienza, solo leggendo un semplice articolo con questi dati, per approfondire la pista del delitto rituale. Poi ci sono ulteriori indizi: i depistaggi, la sistematica eliminazione dei testimoni, l’appartenenza dei familiari a gruppi esoterici, ecc… Spesso in alcuni delitti, come quello di Cogne e di Erba, ad es. gli indizi che fanno concludere per la ritualità dell’omicidio sono ben più che i classici tre indizi che fanno prova.

Il calcolo della data. Ma soffermiamoci sul metodo di calcolo delle date. I numeri utilizzati negli omicidi sono in genere i seguenti:

- 7, il numero perfetto. Il numero che, secondo Oswald Wirth ha una particolarità in quanto nel sigillo di Salomone tutti i numeri opposti riconducono al sette, secondo la “legge del settenario” (Oswald Wirth, pag. 82);

- 8 (che nella cabala simboleggia la giustizia, quindi uccidere qualcuno significa fare giustizia);

- 11 (che ha assunto lo stesso significato dell’8 nella ritualistica rosacrociana della Golden Dawn; fu infatti la Golden Dawn – ai cui rituali si rifà la Rosa Rossa - che cambiò il significato di questo numero, attribuendogli quello della giustizia);

- 13 (che simboleggia la morte e la trasformazione). Il 13 ricorre in particolare, oltre che nei delitti della Rosa Rossa, anche nei delitti di gruppi satanici organizzati. Nei delitti satanici talvolta ricorre anche il 18, perché 18 non è altro che 6 per tre, cioè 666;

- infine quasi tutti i multipli di 11, in particolare il 33, che oltre ad essere il numero 11 moltiplicato per tre, è anche il numero del massimo grado dell’iniziazione massonica.

Occorre infine ricordare che, a parte i multipli dell’ 11 e il numero 13, tutti gli altri numeri vanno sempre ricondotti a un numero di una cifra (ad esempio se il valore numerico di una data è 25, occorre poi sommare nuovamente 2 e 5 e il risultato è 7). Alcune date sono poi particolarmente simboliche perché ricorrono due o tre simboli numerici in contemporanea. I numeri infatti possono essere combinati anche in modo differente dalla semplice somma aritmetica (Papus, "La scienza dei numeri"). Ad esempio nell’omicidio di Ludovico II di Baviera (13.6.1886) ricorre il 13 iniziale, numero della morte, con il 33, numero della più alta iniziazione massonica; come dire: morte massonica. La sua morte fu archiviata come suicidio per annegamento, ma in epoca contemporanea si è accertato che è stato vittima di un complotto. Oppure, facendo un esempio recente, Cecilia Gatto Trocchi (una delle maggiori esperte di esoterismo italiane, che aveva spesso parlato del satanismo dei cosiddetti “colletti bianchi” e dei potenti uomini di stato) muore il 11.7.2005. Sommando solo le ultime cifre, 2 e 5, si ottiene un sette; cosicché i simboli numerici che si leggono sono 11.77. Cioè: 11: giustizia; e 77, simbolo che troviamo spesso nei delitti satanici. Inoltre il valore numerico della data nel suo complesso è 7 (1+1+7+2+5 uguale 16 cioè 1-6 che fa 7) simbolo di perfezione ma anche numero della Rosa Rossa. In altre parole già analizzando la data, e considerando gli argomenti di cui si occupava la dottoressa, si può ipotizzare un omicidio e ci sarebbero sufficienti questi spunti per indagare ancora; ma è inutile dire che il caso è stato archiviato come un suicidio.

Due esempi pratici. Cogne e Erba. I delitti di Cogne e di Erba per chi è esperto di esoterismo sono chiaramente dei delitti rituali. Non sono però riconosciuti e trattati come tali per una serie di motivi. Vediamo come giungiamo a questa affermazione. Iniziamo dalla data. Erba: 11.12.2006. Valore numerico 13. Da notare che il giorno è l’11, altro numero altamente simbolico negli omicidi. Cogne: 30.1.2002. Valore numerico: 8. Poi abbiamo altri indizi. Le armi del delitto non vengono ritrovate; ora, se questo è un fatto teoricamente possibile nel delitto di Erba, dove gli assassini avevano una certa libertà di movimento per far scomparire l’arma, più difficile è capire come sia possibile che Anna Maria Franzoni abbia fatto sparire l’arma del delitto in pochi minuti in una località isolata come quella di Cogne. Altro indizio. La grande quantità di sangue sparsa ovunque. Al bambino addirittura viene sfondato il cranio, e da un buco fuoriesce materia cerebrale; considerando che la Rosa Rossa utilizza parti di cadavere per i suoi riti, viene il dubbio che quella violenza non derivi dalla brutalità della madre o da quella di un maniaco assassino, quanto dalla volontà di asportare un feticcio da utilizzare per i riti esoterici successivi. Notevoli poi le similitudini tra questi delitti e quelli esaminati nell’articolo precedenti, delle dodici morti romane: oltre al valore numerico delle data, l’assenza dell’arma del delitto e la grande quantità di sangue persa dalle vittime. Poi ci sono tanti altri fatti e accadimenti, tutti trascurati dagli inquirenti. Un mese prima del delitto di Cogne, Gabriella Carlizzi – l’investigatrice che più di ogni altra si è occupata di questa organizzazione - aveva avvertito alcuni inquirenti che la Rosa Rossa avrebbe colpito e ucciso un bambino di tre anni dal nome biblico, in una località che richiama il Paradiso. Questo perchè l'investigatrice, da anni ha decriptato i codici con cui gli affiliati alla Rosa Rossa si scambiano i messaggi sui giornali e sulle TV. Quindi aveva previsto con esattezza il fatto. Ma si sa - si sa - la Carlizzi è pazza, e in tempi moderni un uomo razionale e intelligente non può credere a queste idiozie da superstiziosi. Figuriamoci se questa organizzazione può davvero cominciare tramite giornali e TV!!! Pare fantascienza no????? Però guarda tu che coincidenza… Il delitto è avvenuto proprio come anticipato e previsto dalla Carlizzi e la questione è ben raccontata in alcuni articoli apparsi sulla rivista Disinformazione. Poi abbiamo un’altra coincidenza curiosa, rilevata da un criminologo, Carmelo Lavorino. Costui è uno dei criminologi più famosi in Italia, e si è occupato di molti casi importanti, dal mostro di Firenze al giallo di Arce. Egli, analizzando la scena del delitto, è giunto alla conclusione che non poteva essere stata la madre a uccidere, ma il delitto è stato compiuto da qualcuno di esterno. Inoltre la vicenda dei coniugi di Cogne (dal loro trasferimento in una località di montagna, all’uccisione del bambino) è stranamente identica a quella narrata nel racconto di un autore francese, Charles Ramuz, morto nel 1947: due coniugi si trasferiscono in una località di montagna con i due figli di sette e tre anni; il piccolo, che si chiama Celeste, muore in modo analogo a Samuele, nel momento in cui la mamma si allontana per un po’ da casa.. Curiosa coincidenza, vero? Coincidenze che avrebbero meritato ben altri approfondimenti e – a tacer d’altro – avrebbero dovuto perlomeno portare ad un’assoluzione della Franzoni per non essere raggiunta la piena prova della sua colpevolezza. Ma coincidenze sulle quali nessuno ha voluto lavorare, né lavorerà. Dati questi indizi si tratta di trovare la firma, sia essa la firma della Rosa Rossa o di un’altra organizzazione. Bene. Nel delitto di Cogne, la località presenta un particolare curioso; essa sorge nel massiccio del Gran Paradiso, a poca distanza dal Monte Rosa. Mentre nel delitto di Erba l’omicida si chiama Rosa Bazzi, coniugata con Olindo Romano. Ovverosia il suo nome è Rosa Romano. Ancora una volta ricorre RR, senza considerare gli altri riferimenti simbolici e rituali, come la città (Erba… e l’erba richiama il verde, colore per eccellenza dei Rosacroce) o il nome di una delle vittime, Valeria Cherubini: apparentemente un nome come un altro, per chi ritiene l’esoterismo un mucchio di sciocchezze per superstiziosi. Ma un nome che indica molto di più a chi conosce la disputa teologica tra Rosacroce e Chiesa Cattolica. Non siamo gli unici visionari a pensare che il delitto di Cogne sia un delitto rituale, in realtà. Lo pensa anche Giuseppe Cosco (un investigatore esperto in sette sataniche e criminali) che in un suo articolo reperibile in Internet sostiene la tesi del delitto satanico e ritiene che il significato della data consista nel fatto che il 2 febbraio è la festa della candelora, una festa importante per il calendario satanico. La tesi, pur essendo plausibile, non mi convince, a fronte di tutti gli altri indizi, ben più numerosi, che riconducono, appunto, alla Rosa Rossa, a cominciare dalla data e dal luogo, nonché scorrendo anche i nomi degli affiliati a questa organizzazione che, negli anni, si sono occupati di questa vicenda in veste di esperti. La nostra, ovviamente, è solo una tesi, suscettibile di approfondimento. Alla luce di quello che diciamo, però, si spiegherebbero bene tutte le contraddizioni apparenti di questa inchiesta. Come mai il padre, pur sapendo che la madre ha ucciso il figlio, decide di mettere al mondo un altro figlio e le sta vicino per tutto questo tempo? Come mai la madre non ha mai ceduto né confessato? Se ha commesso il fatto in un momento di follia, come mai ha retto psicologicamente senza mai cedere? E se è sana di mente, perché ha ucciso il figlio? Come mai l’arma del delitto non fu trovata? Queste e altre domande troverebbero una risposta molto semplice: il padre sa bene la verità e la conosce anche la Franzoni. Ma se la dicessero, chi crederebbe loro? E se qualcuno gli credesse, quanto resterebbero al loro posto di lavoro, o addirittura quanto potrebbero restare in vita gli inquirenti che provassero ad approfondire la questione? Ma soprattutto… quanti – anche tra coloro che leggono – sono disposti ad approfondire una simile ipotesi di lavoro, che nessun autore, neanche Dan Brown o Stephen King hanno mai ipotizzato? Sarebbe interessante poi notare le similitudini tra questi delitti, i dodici precedenti, e quello di Meredith ad esempio dove, guarda tu che coincidenza, non viene trovata l’arma del delitto e il valore numerico della data fa ancora una volta – altra coincidenza – 13. E dove la Rosa Rossa è stata deposta dal padre, come si può leggere nell' articolo on line su Repubblica. Ma ovviamente il discorso ci porterebbe troppo lontano e ai nostri fini è sufficiente fermarci qui.

Problematiche di accertamento dell’omicidio rituale. A questo punto è chiaro il motivo per cui nessuno, per molti decenni ancora, tratterà l’omicidio rituale. In primo luogo è un problema pratico. Chi arriva alla verità muore o viene trasferito. In secondo luogo c’è un problema culturale. La massoneria - lo si capisce chiaramente anche solo scorrendo l’elenco delle grandi personalità del passato e del presente appartenenti a questa istituzione - ha fatto la storia del mondo, abilmente occultando i suoi segreti più preziosi. Logico quindi che essendo la nostra cultura ufficiale una cultura massonica, ovverosia influenzata grandemente dalla sapienza massonica, è stato espunto dai documenti ufficiali tutto ciò che potesse essere ricondotto in qualche modo a tale associazione e che ne svelasse i segreti. Quindi occorre una paziente opera di studio del simbolismo massonico per poi vedere chiaramente tale simbologia non solo nelle architetture degli edifici, nell’arte, nella cultura, ma anche nei delitti. A chi obietta che la nostra visione è fantascientifica e sembra opera di un visionario che vuole scrivere un libro di fantascienza, possiamo rispondere agevolmente come segue. In primo luogo nessun romanzo ha mai rivelato queste verità perché se qualche romanziere lo facesse non farebbe in tempo a pubblicare il libro; sarebbe controproducente mettere in circolazione simili racconti dato che il lettore potrebbe domandarsi “e se fosse vero?”. Ecco perché i romanzi in genere, anche quelli di Le Carrè o Dan Brown, sono molto meno fantasiosi della realtà. Seconda obiezione. Prima di bollare queste ricostruzioni come fantasie, occorre conoscere ciò di cui si parla. Se una persona senza conoscere la mafia e senza sapere neanche cosa è Cosa Nostra andasse in Sicilia e trovasse una persona morta e incaprettata, probabilmente riterrebbe fantasia parlare di un'associazione che controlla addirittura la Sicilia intera, uccidendo i traditori in quel modo. Oppure, per fare un altro esempio, se un investigatore che non conosce il Cristianesimo trovasse in alcuni delitti seriali un riferimento a passi della Bibbia, li archivierebbe come frasi senza senso e non riuscirebbe a individuare la simbologia cattolica in essi contenuta. Quindi, magari, non utilizzerebbe quelle frasi per ricostruire la personalità dell’assassino. Bene. Coloro che si occupano di delitti rituali senza conoscere la simbologia e la storia massonica, è come se camminassero in una nazione straniera senza conoscerne la lingua; logico che poi sulla scena di un delitto non trovino il bandolo della matassa, non riescano a spiegare le apparenti contraddizioni e trascurino indizi assolutamente evidenti per i non profani. Se a questo aggiungiamo che i media sono sotto il controllo diretto o indiretto della massoneria, si spiegano le difficoltà riscontrate nell’individuazione della verità per la maggior parte – per non dire tutti - questi delitti. C’è un terzo motivo, ed è quello psicologico. La realtà, così come la raccontiamo noi, è difficile da accettare e quindi è logico che istintivamente la gente comune non voglia ammettere che possa esistere una situazione del genere. Questa realtà, la maggioranza delle persone non vuole neanche vederla, tanto è intrisa dal razionalismo e dal conformismo della cultura dominante. Spesso viene negata dagli stessi parenti delle vittime, che preferiscono pensare alla sfortuna, ad un accanimento di una sorte avversa che fa capitare loro investigatori incapaci, giornali che per fare scoop riportano notizie false, piuttosto che credere ad un meccanismo complesso come lo abbiamo descritto noi. Complesso e preciso come un orologio, perché da secoli certe realtà sono solo “sussurrate” e raramente venute fuori in modo esplicito. Infine, c’è un quarto motivo. Ammesso e non concesso che un tribunale volesse prendere in considerazione l’ipotesi dell’omicidio rituale, ammesso e non concesso che questo tribunale sia immune da contaminazioni massoniche (ipotesi praticamente fantascientifica), sorgerebbero delle difficoltà di accertamento processuale insormontabili. Se con una certa difficoltà si potrebbero individuare gli esecutori (questo, anche se raramente, talvolta è stato fatto, come è accaduto nei delitti del Mostro di Firenze e di Erba) è quasi impossibile individuare i mandanti, trattandosi di un’organizzazione che non comunica certo per lettera o telefono, ma tramite messaggi veicolati da frasi in codice, con qualsiasi mezzo di comunicazione, dalle comuni lettere, ai giornali e alle Tv, ai libri (libri talvolta diffusi in edizione limitata tramite cerchie ristretti di aderenti ad associazioni o clubs, ecc.), ma comunque sempre tramite una simbologia e un linguaggio sconosciuti ai non iniziati. Quindi l’ipotesi di un tribunale che indaghi sui delitti della Rosa Rossa, è assolutamente fantascientifica perché l’organizzazione non potrebbe mai processare se stessa essendo essa incardinata fino ai più alti vertici dello Stato.

Ragioni storiche e culturali dell’attuale situazione. So che quello che dico e le cose che scrivo in questo articolo faranno sì che la maggior parte delle persone mi considererà un visionario. E ciò è comprensibile. Quando avevo vent’anni, ritenevo assurde e deliranti le tesi del difensore di Pacciani, Fioravanti, che indicava la pista esoterica per quegli omicidi, cercando di scagionare il suo assistito. E quando, anni dopo, cominciai a capire “il sistema”, penetrando i suoi segreti più nascosti, o semplicemente intuendoli, rimasi a lungo perplesso e la mia principale domanda fu: “se non sono pazzo, e quello che ho scoperto è vero, come è possibile creare un meccanismo del genere? Come è possibile essere giunti fino a questo punto di raffinatezza criminale, da parte dei poteri occulti, e di ignoranza da parte di noi cittadini ignari? Come è possibile una così sistematica presa in giro da parte di tutti, politici, mass media, inquirenti”? Poi, lentamente, è venuta fuori la risposta. Il problema dell’omicidio rituale è prima di tutto culturale e storico. Tutti noi siamo infatti circondati dalla cultura Cattolica (che in genere conosciamo a sufficienza da saperla riconoscere nei principali fatti della vita quotidiana); ma siamo anche un popolo circondato dalla cultura massonica; con la differenza che la cultura massonica non la conosce nessuno se non gli uomini di potere e di cultura; quindi i suoi simboli e i rituali, il modus di agire, sono sconosciuti alla maggioranza. Infatti per secoli i Rosacroce, i Templari e la massoneria in genere si sono nascosti per sopravvivere alla feroce lotta che la Chiesa e i sovrani muovevano contro di loro, a causa delle ricerche e delle idee che costoro portavano avanti. Queste associazioni hanno quindi effettuato in segreto ricerche scientifiche, tecnologiche, ed esoteriche, perché altrimenti il potere ufficiale di allora non l’avrebbe permesso. La segretezza attuale dell’associazione Rosa Rossa, quindi, ma al tempo stesso la sua potenza e onnipresenza nello stato, non deve stupire, perché è la logica conseguenza storica del comportamento della Chiesa per secoli. I Rosacroce e le altre associazioni segrete erano spesso collegate tra loro, e hanno sviluppato una struttura sempre più efficiente. Nei secoli si sono rafforzate e strutturate sempre più e hanno rovesciato le monarchie. Per secoli si sono fronteggiati due poteri: la Chiesa (e gli imperatori) e la Massoneria; la prima in modo visibile, la seconda in modo quasi invisibile. E ci vorranno ancora parecchi decenni prima che la massoneria esca completamente alla luce e sia visibile a tutti. Finché non si inizierà a studiare la cultura massonica e la storia della massoneria (che poi è anche la storia del mondo occidentale degli ultimi 8 secoli), finché la cultura massonica non sarà studiata anche dalla gente comune, ma soprattutto da investigatori e giornalisti, tutti i delitti massonici rimarranno sempre irrisolti. Il mio parallelo con la cultura cattolica non è casuale. Come dice uno dei massoni più intelligenti e sottili, cioè il Gran Maestro Di Bernardo (curiosa “coincidenza” che il cognome del Maestro sia lo stesso di San Bernardo, il monaco che codificò la regola dei templari): “ci sono due Chiese oggi: La Chiesa Cattolica e la Chiesa Massonica”. La Chiesa massonica è stata per secoli, come loro giustamente rivendicano, il tempio del libero pensiero, in contrapposizione alla Chiesa Cattolica, che voleva imporre il suo credo ovunque bollando come eretico chiunque osasse mettere in dubbio le scienza ufficiale di allora; quindi si mandava al rogo chi affermava teorie innovative sulla terra e l'universo (Giordano Bruno), e si massacrava in massa chiunque, pur aderendo al messaggio Cristiano, non riconosceva la gerarchia ecclesiastica (i Catari). Oggi la massoneria rosacrociana e templare, cioè quella più potente e segreta (quella speculativa, che si rifà veramente alle sue origini e non utilizza la struttura massonica per finalità di potere), continua ad essere il tempio del libero pensiero, per quanto riguarda alcuni aspetti della nostra vita spirituale e culturale. Ma purtroppo utilizza il vincolo di segretezza massonico per proteggere se stessa e i delitti commessi dai loro associati nonché per eliminare coloro che ne rivelano i segreti. Inoltre la massoneria continua a tenere per sé molte delle sue conoscenze acquisite nei secoli, non più per crescere ed elevare spiritualmente l’uomo come invece faceva nei secoli scorsi ma esclusivamente per finalità di potere e per tenere soggiogati i cittadini, che credono alla verità dei giornali e telegiornali, all’oscuro di quel che avviene realmente nelle stanze del potere.

Un aneddoto conclusivo. A proposito delle difficoltà di accertamento dei delitti rituali mi ricordo un episodio capitatomi personalmente. Un funzionario della Digos ci stava interrogando sull’avvelenamento di Solange; alcune cose non gli quadravano; decidemmo allora di aprirci completamente e di raccontargli alcune vicende che fino a quel momento avevamo omesso.

- Perché non le avete raccontate prima? – chiese lui un po’ arrabbiato.

- Sa, perché si tratta di vicende complicate, non tutti sono preparati per affrontarle e non sapevamo se voi eravate competenti in materia.

– Di che si tratta? – domandò lui.

- Massoneria – dissi io – ma non so se siete competenti anche su questo.

- Certo che siamo competenti in fatti di massoneria – rispose lui – Siamo la Digos, noi, mica “pizza e fichi”.

- Bene. Cominciamo dall’inizio. Sa, il padre della mia collega era iniziato al Grande Oriente d’Italia….

- Cosa è il Grande Oriente? – chiese il funzionario.

A quel punto capii che l’interrogatorio si sarebbe risolto come in effetti si risolse: Solange si era avvelenata da sola, forse si drogava, e io la coprivo perché, abitando nella stessa casa, non potevamo che essere amanti e io quindi ero suo complice. Figuriamoci se avessimo spiegato al funzionario il problema della data e dei simboli. Inutile dire che quando siamo stati vittima di alcuni tentati omicidi, in epoca successiva non siamo mai più andati alla Digos. Tentati omicidi in date – guarda tu che coincidenza – dal valore numerico 8 per il primo caso (17.9.2007) e 13 nel secondo caso (2.1.2008); abbiamo denunciato il fatto ai carabinieri ove perlomeno non ci hanno trattato come matti, ma, anzi, quando abbiamo detto che avevamo subito due incidenti di moto nello stesso giorno, il commento è stato un più professionale “avvocato, avete rotto le scatole a qualche politico, vero?”. Per la precisione, la denuncia fu fatta solo per i fatti del 17, che coinvolgevano anche Solange. Quelli del 2 coinvolgevano me in prima persona, e non andai mai a denunciarli, perché si sa, da quando mi occupo di queste cose sono suggestionabile e mi allarmo per niente. E poi vedo Rose Rosse dappertutto. E avendo capito perfettamente come funziona la giustizia, preferisco affidarmi a quella divina, che mi farà morire non un minuto prima, né un minuto dopo, rispetto a quello che il destino mi ha preparato. In questo la massoneria potrebbero avere una parte di ragione: il mondo è fatto di pesi, numeri e misure, e conoscere il segreto dei numeri significa conoscere il segreto dell’universo.

L'omicidio massonico. La legge del contrappasso e le morti in auto, scrive Paolo Franceschetti. E due cosette che non sapete sulle stragi di Falcone e Borsellino. 1. Premessa. 2. Gli incidenti di auto e moto. 3. Le stragi di Capaci e di Via D'Amelio. 4 Ricapitoliamo. Il significato delle stragi e la trattativa tra stato e mafia. 5. Qualcuno telefona da Roma.

1. Premessa. Nei tre precedenti articoli sull’omicidio massonico abbiamo analizzato i caratteri comuni a tutti gli omicidi commessi dalla massoneria. Sinteticamente:

- la maggior parte degli omicidi massonici sono effettuati dai servizi segreti deviati; dal momento che tale struttura ha al suo vertice persone affiliate (o comunque dipendenti da) alla massoneria rosacrociana, e dal momento che i Rosacroce hanno come loro padre spirituale Dante Alighieri, viene utilizzata la cosiddetta tecnica del contrappasso. Ovverosia la persona da eliminare morirà secondo la logica di far patire alla vittima il peccato che questa ha commesso. Ad esempio molti dei testimoni di Ustica (vicenda che, come è noto, ha a che fare con un incidente aereo) moriranno in un incidente aereo. Fabio Piselli, testimone della tragedia del rogo del Moby Prince, viene caricato su un’auto a cui venne dato fuoco (doveva morire quindi in un rogo). Luciano Petrini, perito che stava facendo una perizia sulla morte del colonnello Ferraro (che muore impiccato all’asciugamani del bagno) morirà a colpi di portasciugamani. Oppure ricordiamo il caso dell’attore Bruce Lee e del figlio Brandon Lee: il primo (che pare morì avvelenato in una data il cui valore numerico complessivo è 11) aveva girato la scena di un film in cui moriva sul set, colpito da una pallottola che invece di essere caricata a salve spara un proiettile vero; il secondo morì proprio in questo modo, probabilmente perché cercava la verità sulla morte del padre. Ecc…

- Ogni omicidio è commesso in una data ben precisa, in cui il valore numerico è diverso a seconda dei casi (ricordiamo che il valore numerico si ottiene sommando tutti i numeri presenti nella data da calcolare): 7, come firma della Rosa Rossa, ma anche come simbolo di perfezione chiusura di un ciclo, ecc…

- 8 e 11 come simbolo di giustizia. E poi ci sono i multipli di 11 in particolare il 33, che indica anche il massimo grado (ufficiale) della massoneria.

- 13 come simbolo di morte.

Chi sale troppo in alto, chi osa troppo, viene gettato dall’alto, come Cecilia Gatto Trocchi. Come Adamo Bove, il responsabile della security della Telecom morto di recente. Qualcuno può morire fulminato dalla corrente elettrica come Giuseppe Gatì, morto in un giorno rituale la cui somma è 7 (la firma della RR), perché il fulmine simboleggia il fulmine di Zeus che punisce la persona che ha osato troppo. Insomma, come i dannati dell’inferno dantesco scontano una pena adeguata al peccato di cui si sono macchiati, chi si mette contro la Rosa Rossa e contro la massoneria rosacrociana, muore con una morte adeguata al tipo di peccato commesso contro questa organizzazione.

2. Gli incidenti d’auto e di moto. Per tanto tempo alcuni conti non mi tornavano. Tanti testimoni, o persone comunque da eliminare, avevano incidenti di auto o di moto. In realtà però qualcosa non mi quadrava. Anzitutto non riuscivo a capire dove fosse il contrappasso in alcuni fatti. Che ci fosse un intento di eliminare il soggetto era palese… ma i conti non mi tornavano. Vediamo alcuni dei casi di cui ci siamo occupati fin qua…Alcuni si sono salvati.

- La giudice Forleo.

- Placanica, il carabiniere implicato nei fatti del G8, accusato di aver sparato a Carlo Giuliani, la cui auto sbanda improvvisamente.

- Il mio amico Giovanni M, di Viterbo, che oltre ad avere ben 5 processi penali diversi, uno più falso dell’altro, ha anche avuto un incidente d’auto.

- La lettrice che ci ha scritto la lettera che abbiamo pubblicato (Laura Biker), scampata al sabotaggio della sua moto ai tempi del centro sociale Leoncavallo.

Poi ci sono quelli che non si sono salvati. Tanti. Una strage infinita, comprendente testimoni di processi importanti, cittadini che avevano curiosato troppo, giornalisti. Anche alcuni personaggi famosi, come Rino Gaetano, Fred Buscaglione, James Dean. La domanda è: posto che i servizi hanno mezzi immensi… posto che non c’è problema a far morire una persona con un mattone sulla testa, con una fuoriuscita di gas dalla cucina, con una caduta per terra, ecc…, perché scegliere un mezzo così insicuro? Perché l’auto o la moto? Me lo domandai per mesi dopo l’incidente di moto mio e di Solange, avvenuto lo stesso giorno. Due moto diverse sabotate nello stesso giorno. Perché volevano provocarmi una morte così assurda, con un mezzo così insicuro, e che avrebbe destato più di un sospetto? La domanda mi risuonò in mente per mesi. Con i mezzi che ci sono oggi la persona ha buone probabilità di salvarsi. Le auto sono infatti dotate di airbag e la cintura di sicurezza è obbligatoria su tutte le vetture. Per quanto riguarda la moto vale un discorso analogo. Oggi il casco è obbligatorio e spesso le giacche e i pantaloni da moto hanno delle protezioni che difendono molto in caso di caduta. Quindi la domanda che mi risuonava era: perché usare un mezzo così fallimentare dal punto di vista dell’efficacia? Un poliziotto tempo fa mi disse che ciò è dovuto al fatto che spesso i servizi adottano tecniche antiquate, e continuano ad eliminare le persone senza tenere conto dell’aggiornamento della tecnica. Lì per lì confesso che la spiegazione mi piacque tantissimo e mi dette soddisfazione. Dal momento che io mi sono salvato in due incidenti di moto, l’idea di essere scampato alla morte perché i servizi segreti sono così stupidi da usare tecniche antiquate era una cosa divertente… Per diverso tempo io e Solange scherzavamo su questo dicendo “hai visto… sono così stupidi che applicano meccanicamente a tutti le stesse tecniche e oggi tra i cittadini in circolazione abbiamo più scampati alla morte che persone normali…”. Ma la verità è che questa spiegazione non mi convinceva. Dentro di me sapevo che la massoneria rosacrociana è sofisticatissima; ai vertici ci sono persone intelligentissime che non lasciano nulla al caso. In ogni delitto nulla è lasciato al caso, né il nome della via, né il numero delle vittime. Nulla. Strano sarebbe che venga lasciato al caso proprio il mezzo per uccidere. Addirittura, una persona esperta di servizi ci disse, poco tempo fa, che i nostri servizi segreti sono considerati in assoluto i migliori al mondo per quanto riguarda proprio… la manomissione di auto e moto. Tanto che tra i servizi segreti di altri paesi gira voce che i nostri siano così bravi, che basta loro passare accanto ad un auto, farle una carezza, e questa si va schiantare dopo qualche chilometro. Purtroppo un giorno la risposta alla mia domanda (perché?) mi venne chiara. Stavo riflettendo su alcuni omicidi mettendo in fila questi dati:

Haider; ucciso in Rosenthalerstrasse, nella sua Volkswagen Phaeton, l’auto venne scelta per il mito di Fetonte che col suo carro cercò di raggiungere il sole e morì nel sole; Haider era salito troppo in alto e questo lo ha bruciato.

Mauro Brutto: indagava sulla morte di Fausto e Jaio del centro sociale Leoncavallo. Morto investito da una Simca 1100. Chiaro il significato di quell’11 nel numero dell’auto.

Aldo Moro. Trovato morto in un una Renault Rossa. RR. La firma della Rosa Rossa.

James Dean, morto in una Porsche 550, che portava il numero 130 (morto quindi per gli stessi motivi che hanno portato alla morte Rino Gaetano, De Andrè e Lucio Battisti).

Ogni auto ha una sua logica. Ovverosia anche il tipo di auto con cui uno muore ha una logica precisa, adatta alla situazione o alla persona. Leggendo un libro di esoterismo la risposta mi è stata chiara. Macchina… viene dal latino, deus ex machina. Nelle commedie greche, il Dio veniva a risolvere situazioni intrigate scendendo dal cielo, appeso ad un congegno di funi che si chiamava mechanè…La macchina quindi era il congegno da cui veniva il Dio a risolvere i problemi terreni. L’auto è quindi una punizione che viene dal cielo, dal Dio stesso. Per quanto riguarda la moto penso (ma potrei sbagliarmi… sto solo formulando ipotesi) che valga lo stesso discorso dell’auto con una particolarità. Che una moto vista dall’alto simboleggia una croce. Il soggetto che muore in moto viene quindi simbolicamente crocifisso. La cosa, che suona quasi ridicola tanto da avermi provocato non poche risate, non me la sono inventata, ma l’ho trovata su un libro dal titolo curioso: “Quel che si dice dei ciclisti rosacroce”. Vista dall’alto, infatti, la moto è una croce, ove le braccia laterali sono costituite dal manubrio. Un libro, nonostante il titolo dalla logica incomprensibile, scritto da una persona che di Rosacroce se ne intende.

3. Falcone e Borsellino. Mi sono per parecchio tempo domandato dove fosse il contrappasso per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. A parte le date rituali (31 per Falcone e 11 per Borsellino: 19.7.1992 infatti è: 1+9+7+1+9+9+2 =38=3+8=11 ) la modalità della morte doveva senz’altro essere rituale. Falcone infatti poteva essere ucciso a Roma, dove girava tranquillamente senza scorta. Quindi perché ucciderlo proprio in Sicilia e proprio con quella modalità che, dal punto di vista logico, non sta né in cielo né in terra? Riina, per quanto possa dirsi male di lui, era ed è, una persona intelligente. Una persona che ha l’intelligenza di diventare il Capo dei Capi di tutta la Sicilia, può commettere una leggerezza del genere? No. Io credo che Falcone sia stato ucciso in quel modo per vari motivi. Anzitutto doveva morire in Sicilia perché era in Sicilia che le sue indagini si erano svolte. La regola del contrappasso esigeva quindi che lui morisse nella stessa terra ove aveva "peccato". Inoltre doveva saltare in aria in modo eclatante, perché voleva far saltare il sistema. Falcone aveva capito che il fulcro del sistema criminale in Italia non è la mafia. E’ lo stato. E sono le banche. Quindi doveva saltare in aria perchè l'esplosione con cui muore fa da contrappasso all'esplosione che lui voleva assestare al "sistema". Inoltre è morto a Capaci, a simboleggiare che chiunque sia capace, deve morire. La cosa suona terribilmente ridicola, ma prego chi legge di riflettere che stiamo parlando di un’associazione che non lascia nulla al caso, neanche i nomi delle persone che vengono messe in determinate posizioni di vertice politico, finanziario, o amministrativo. La scelta del luogo, nella strage di Capaci, è dovuta probabilmente anche ad un altro motivo, che risale alle origini del paese. Si narra che il bellissimo isolotto denominato "Isola delle Femmine" fosse stato un tempo una prigione occupata solo ed esclusivamente da donne. Tredici fanciulle turche, essendosi macchiate di gravi colpe, furono dai loro congiunti imbarcate su una nave priva di nocchiero e lasciate alla deriva. Vagarono per giorni e giorni in balia dei venti e delle onde finché una tempesta scaraventò l'imbarcazione su un isolotto della baia di Carini. Qui vissero sole per sette lunghi anni fin quando i parenti, pentitisi della loro azione, le ritrovarono dopo molte ricerche. Le famiglie così riunite decisero di non fare più ritorno in patria e di stabilirsi sulla terraferma. Fondarono quindi una cittadina che in ricordo della pace fatta, chiamarono Capaci (da "CCa-paci" ovvero: quì la pace) e battezzarono l'isolotto sul quale avevano dimorato le donne "Isola delle Femmine". Non a caso, come risulta dalla sentenza sulla strage di via dei Georgofili (che riuniva in un solo processo ben sette stragi, commesse a Firenze, Milano e Roma) e dalla sentenza sul Capitano Ultimo, dopo la strage di Capaci venne avviata la famosa trattativa tra stato e mafia, di cui si fece portavoce il generale Mori, per raggiungere… la pace. Probabilmente la morte così eclatante di Falcone segna anche, simbolicamente, uno spartiacque tra il vecchio metodo di eliminazione dei magistrati (ucciderli) e quello nuovo (delegittimarli). Non più guerra quindi, ma le cosiddette "armi silenziose per una guerra tranquilla" di cui abbiamo parlato altrove. La morte di Falcone simboleggia quindi la Pace. Infatti dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio la mafia non esiste quasi più. Hanno preso Riina e Provenzano e dopo di loro quasi solo il silenzio. Addirittura il procuratore Antimafia Grasso qualche mese fa è andato al Maurizio Costanzo Show a declamare gli immensi successi dello stato sulla mafia, ridotta - secondo lui - oramai quasi al silenzio. Ricapitolando, il simbolismo della strage di Capaci è: auto, esplosione, isola delle femmine, Capaci. Il probabile significato: Falcone voleva far saltare il sistema (esplosione), quindi dal cielo (auto) arriva la punizione che lo fa saltare in aria; dopodichè dovrà scendere la pace, tra lo stato e la mafia (Capaci). Così muoiono le persone capaci di arrivare al cuore del sistema. Inoltre, a firmare la strage, ci sono due elementi: il gruppo di mafiosi si era posizionato sulla collina vicino Capaci; e la collina si chiama "Raffo rosso", ove raffo in ebraico significa "Dio che guarisce". RR, firma della Rosa rossa. Mentre la moglie di uno degli agenti di scorta, che fece il famoso discorso ai funerali, si chiama Rosaria Costa. RC quindi. Borsellino fu ucciso nello stesso modo. Anzitutto perché aveva seguito le orme dell’amico. Poi perché anche lui, col memoriale Calcara, aveva avuto notizie che erano in grado di far saltare il sistema. Credo che un aspetto della simbologia della sua morte vada trovata anche nella via dove avvenne l’esplosione: Via Mariano D’Amelio, un politico che fece leggi sulla magistratura. Chiaro il messaggio: la magistratura deve essere azzerata. Ora ricordiamo quel che successe dopo queste stragi. Inizialmente sembrò che la magistratura acquistasse più poteri, e che lo stato volesse realmente fare la guerra alla mafia. Nacque lo strumento del 41 bis (il carcere duro per i mafiosi). Ci furono alcuni ritocchi al codice di procedura penale. Ma dopo poco tempo iniziarono le leggi che, di fatto, azzerarono il potere della magistratura riducendolo ad un formalismo vuoto; cosicché oggi l’80 per cento dei reati cade in prescrizione, e per reati gravissimi vengano comminate pene ridicole: a titolo di esempio (vado a memoria) la riforma del falso in bilancio, un reato che oggi praticamente non esiste più; la legge che riforma il reato di attentato agli organi costituzionali, reato punito prima con l’ergastolo, e oggi praticamente impunito; l’abolizione dell’abuso di ufficio, e tante altre. Un’opera sistematica di demolizione dei poteri dei magistrati che è in atto tuttora (ad esempio con la legge di riforma delle intercettazioni e altre genialità del genere).

4. Ricapitoliamo. Il significato delle stragi e la trattativa tra stato e mafia. Leggiamo ora la successione di leggi nel tempo, dopo le due stragi del 92, alla luce della simbologia sottesa ad esse. Con Falcone arriva il segnale della pace tra stato e mafia. Da qui nascono le apparenti leggi contro la mafia, che in realtà servono a comminare il carcere duro ai mafiosi, probabilmente per togliere di mezzo Riina e altri capi mafia, che, grazie a questa legge, non potranno più comunicare con l’esterno. La legge cioè non serve per punire i mafiosi, ma per impedirgli di continuare a comandare e togliere di mezzo la vecchia guardia, sostituendola con una nuova, che sia d’accordo con la cosiddetta linea morbida. Cioè per sostituire i mafiosi che volevano la guerra allo stato, con altri che vogliano “la pace”. Con la strage di Via D’Amelio invece si dà il via alle leggi che azzerano i poteri della magistratura.

5. Qualcuno telefona da Roma. Per far capire che le stragi di Capaci e via D’Amelio sono stragi non di mafia è sufficiente un documento che Gabriella Pasquali Carlizzi ha citato in un suo libro. E’ la conversazione che si svolge tra due personaggi, uno romano e uno siciliano, un magistrato. Eccone la trascrizione.

Telefonata tra Roma e Sicilia.

- dottore c’è una telefonata da Roma

- Pronto con chi parlo?

- Oh Presidente mi dica.

- Dottore sarà lei a occuparsi della strage di Capaci naturalmente.

- Presidente lei sa bene che qui quando succedono certe cose noi diciamo è la mafia. Anche in questo caso noi diremo è la mafia.

- Bravo proprio questo volevo farle intendere caro dottore. D’ altra parte non a caso l’incidente è avvenuto lì, in quel preciso punto, altrimenti questa inchiesta poteva finire a Palermo.

- Meglio cosi presidente, è meglio così mi creda. La gente di Palermo pensa a fare giustizia ma al futuro della gente della Sicilia chi ci pensa? Piuttosto presidente bisogna togliere i sigilli da tutto quel materiale. Io lo conoscevo bene, era uno che annotava tutto e credo che sia meglio non alzare polveroni, meglio per tutti.

- Si lei ha ragione dottore. Ma qualcosa bisognerà pure trovare, quanto basta per dare all’indagine un’immagine di serietà. Lei mi capisce non è vero? L’Italia in questo momento è scossa. Non potrebbe sopportare le responsabilità di questo delitto meglio indagare su fatti avvenuti dal paese ormai sappiamo che il giudice era andato troppo oltre le sue competenze; aveva un piano da attuare. La amava troppo la sua terra. Merita di essere ricordato come un eroe.

- Sono d’accordo con lei presidente in fondo queste stragi di eroi ne hanno fatti molti in questi anni e la gloria dell’Italia aumenta.

- Domani andrò sul posto dottore. Ci incontreremo li per coordinare i lavori. Occorre molta prudenza e sintonia.

I due personaggi (facilmente riconoscibili) si incontrarono sul posto. Che le stragi di Capaci e Via D’Amelio non siano stragi di mafia lo ha detto lo stesso Riina, in un intervista ad Antimafia 2000. Non so se vi ricordate quello che scrissi nel mio articolo “La massoneria è una Harley Davidson…” infatti, Riina, alla fine, la verità te la dice. E non ho detto quelle frasi certamente per caso… Volevo dire esattamente le cose che ho detto.

L'omicidio massonico. I parenti delle vittime, scrive Paolo Franceschetti. Nei precedenti articoli sull’omicidio massonico ci eravamo occupati di alcuni aspetti della simbologia e della tecnica di tali omicidi. Ora voglio parlare di un aspetto che per lungo tempo non ho mai capito ma che, ad un certo punto, in questi anni è diventato chiaro. Mi sono sempre domandato perché i parenti delle vittime non facevano troppo chiasso. Mi spiego. Perché i parenti delle vittime del Mostro di Firenze non hanno costituito un’associazione che indagasse per conto proprio e pubblicasse magari in un sito i propri risultati in autonomia rispetto alle indagini di PG ufficiali (che notoriamente facevano acqua da tutte le parti)? Perché nessuno dei tanti parenti della famiglia Franzoni ha mai pensato di difendere Anna Maria aprendo un sito, portando prove, ecc...? Possibile che, dei tanti omicidi che insanguinano l’Italia, i parenti non hanno mai alcun sospetto e non si mettono a far casino, salvo poche eccezioni (ad esempio la famiglia Manca, la signora Gemini mamma di Niki Aprile Gatti)? Solo in alcuni casi più eclatanti (Ustica, Georgofili, ad es.) si è costituito una sorta di comitato, anche se, dal punto di vista pratico, hanno ottenuto dei risultati quasi nulli. Negli anni la risposta mi è diventata drammaticamente chiara. Per gli omicidi più eclatanti – quelli, per intenderci, che ammorbano le nostre serate televisive perché ce li propongono in tutte le salse, con le solite opinioni dei sempre soliti esperti che dicono sempre le stesse cose giungendo sempre alla conclusione del solito nulla – le vittime sono scelte all’interno dell’organizzazione, o comunque sono scelte in modo che la famiglia sia controllata o controllabile. Nel caso delle vittime del Mostro di Firenze, ad esempio, la maggior parte delle vittime erano in realtà collegate direttamente o indirettamente all’organizzazione. Innanzitutto le vittime passavano tutte dal famoso mago Salvatore Indovino. La coppia francese eliminata, ad esempio, era scesa in Italia perché aveva contattato un’organizzazione esoterica. La madre di una delle vittime era un amante del Narducci, il medico trovato morto nel lago Trasimeno e che pare facesse parte della Rosa Rossa. In un altro caso il padre della ragazza era nell’organizzazione della RR, tanto che fu definito “Giuda” da Pacciani; il curioso epiteto gli era stato rivolto non perché Pacciani straparlava, come molti hanno pensato, ma perché al contrario, sapendo quel che diceva, gli aveva rivolto “l’accusa” di aver parlato poi troppo con gli inquirenti. In un altro omicidio la vittima era la sorella di un poliziotto in servizio a Firenze. Eppure i giornali non fecero cenno alla questione, e il cadavere venne ritrovato proprio da un poliziotto; e guarda caso il legale di Mario Vanni, Filastò, sosteneva che alcuni dei delitti del Mostro di Firenze fossero compiuti anche con la complicità di poliziotti. In uno dei tanti omicidi eclatanti che ammorbano le nostre serate televisive ho potuto scoprire che non solo la famiglia coinvolta era collegata ai servizi segreti, ma che i legali dei familiari (nomi mai divulgati dai media) erano, guarda un po’, proprio gli stessi legali che avevano difeso le persone incriminate nei delitti del Mostro di Firenze. La particolarità però è che la famiglia che aveva scelto quel legale abita a centinaia di chilometri dalla città di Firenze e dunque dal legale incaricato. Ho sempre ritenuto curioso che Alberto Stasi, coinvolto nel delitto di Garlasco, fosse preso a lavorare per lo studio legale che lo difendeva. Mi sono sempre domandato, per fare un altro esempio, come mai Adriano Sofri non si sia mai interessato alle dichiarazioni di Manlio Grillo, raccolte da Solange in Nicaragua, in cui si autoaccusava dell’omicidio Calabresi, scagionando di fatto Sofri che per questo ha scontato parecchi anni di carcere. La risposta appare drammaticamente chiara solo che si capisca come funziona il nostro “sistema”. Una mia amica in polizia mi ha raccontato che, il giorno che andò a dare la notizia del decesso di una persona (uccisa a colpi di accetta) ai familiari, questi non batterono ciglio e le risposero solo “Grazie. Ora per favore dobbiamo lavorare”. Un fatto apparentemente inspiegabile, quando non si conosca come funziona “il sistema”. Una volta dissi ad una ragazza a cui probabilmente avevano ucciso il padre che forse si trattava di omicidio e non di un malore come i giornali avevano fatto credere. Lei non si mostrò interessata alla cosa e parlò d’altro. Dopo pochi mesi infatti ho scoperto che era entrata nella stessa organizzazione di cui il padre faceva parte. In un altro caso, ritenendo di avere notizie importanti riguardanti un noto magistrato coinvolto suo malgrado in fatti in cui – ritenevo – lui non c’entrava nulla, gli telefonai per fornirgli la mia versione. Da una parte lui non rimase affatto sorpreso. Dall’altra però non si mostrò interessato alla cosa. Rimanemmo d’accordo che l’avrei richiamato io, ma poi non mi feci più vivo perché in fondo, mi dissi, se la cosa non interessa lui, a me interessava ancora meno. Rimasi comunque sorpreso dal fatto che lui, che pure da anni si batte affinché si sappia la “sua verità”, non mi richiamò più. E dopo qualche tempo ho capito il perché. Lui fa semplicemente parte della fazione “perdente”, in un gioco di cui è perfettamente consapevole, ma che non viene divulgato al grande pubblico. Quando la famiglia non fa parte dell’organizzazione, per eliminare qualcuno si interviene in due modi:

1) Si cerca di comprarla o di cooptarla. Le si dà un posto in politica, in TV, le si dà un incarico importante. Le si offrono dei soldi e i familiari, rassegnati, preferiscono una vita tranquilla senza problemi economici ad una infernale in cui rischieranno anche la vita, avranno difficoltà economiche, e non otterranno giudiziariamente nulla.

2) Si procura un incidente che sembri un vero incidente. Un incidente di auto, di moto, un finto suicidio inscenato discretamente, con un biglietto in cui si chiede “perdono” ai familiari. In tal modo le famiglie possono evitare di guardare in faccia la realtà. Possono continuare a dire “è stato un incidente” e continuare a dormire sonni tranquilli. E nella malaugurata ipotesi in cui i familiari sospettino qualcosa, in genere non troveranno prove a sostegno di quanto dicono, e verranno fatti passare per pazzi o visionari.

Esemplare il caso della signora Gemini, madre di Niki Aprile Gatti, che viene spesso presentata, dai media, come una mamma che non riesce ad accettare il suicidio del figlio. In una recente intervista televisiva, ad esempio, invece di analizzare le prove a sostegno della tesi della mamma, hanno costruito la puntata in modo che il momento più incisivo della trasmissione fosse quello in cui alla domanda “come mai sostiene che suo figlio sia stato ucciso?” lei risponde “perché una madre conosce suo figlio e Niki non si sarebbe mai suicidato”. In altre parole, hanno trascurato le prove per far leva su un argomento emotivo, e quindi facilmente smontabile. Le vittime, insomma, vengono in genere scelte all’interno dell’organizzazione per vari motivi. Uno dei motivi è che solo in questo modo si riesce a programmare in anticipo e con precisione la data, il luogo e la modalità dell’omicidio, in modo che simbolicamente rispecchi la ritualità che si vuole realizzare. Ma credo che la cosa abbia anche un’altra valenza, nel senso che in tal modo ci si assicura che la vicenda non faccia scalpore, che la gente non capisca, e dunque che il silenzio regni sovrano. Uccidendo una persona i cui familiari sono dentro il sistema, infatti, ci si assicura che essi mantengano il silenzio e accettino supinamente la loro sorte, senza protestare. Pensiamo ad esempio alla rassegnazione di Stefano Lorenzi, il padre del piccolo Samuele, che ha perso il figlio ma ha continuato a rimanere in silenzio vicino alla moglie, con un atteggiamento che è a dir poco contraddittorio per chi osserva dall’esterno, ma che è perfettamente normale per chi conosce le dinamiche in seno alla (o attorno alla) Rosa Rossa. Infatti, nei pochi casi in cui la famiglia non è controllata né direttamente né indirettamente, può scoppiare un vero casino. E’ sufficiente vedere la forza con cui portano avanti la lotta Salvatore Borsellino, Ornella Gemini mamma di Niki Gatti, i familiari di Attilio Manca, per capire che in effetti, colpire qualcuno che non abbia un substrato familiare compiacente può ripercuotersi come un boomerang contro il sistema, che sarà costretto a subire un insieme di fastidi non sempre programmabili in anticipo. Prendiamo ancora come esempio Ornella Gemini. Le hanno ucciso il figlio, fatto sparire le prove, hanno cercato in modi diversi di piegarla psicologicamente, ma lei è sempre lì, a scrivere sul blog, a organizzare manifestazioni, a partecipare a manifestazioni altrui, a leggere, informarsi, urlare. E quando si ascolta Ornella viene da piangere. Commuove. Smuove le coscienze. Come commuove e smuove le coscienze Salvatore Borsellino, quando parla. Lo senti parlare e ti viene voglia di combattere, di dire “ma si ammazzateci tutti, avete rotto le palle, ma io non me ne sto zitto”. Se i parenti delle vittime di Ustica, del Mostro di Firenze, e dei molti omicidi cosiddetti “in famiglia” come quelli di Erba, Cogne, Garlasco, Meredith, ecc., urlassero anche solo la metà di quanto urlano Ornella, la famiglia Manca, e Salvatore Borsellino, l’Italia si sarebbe svegliata da un pezzo.

L'omicidio massonico. L'omicidio dei bambini. Alcune considerazioni sul caso Yara e Sarah, scrive Paolo Franceschetti. 1. Premessa. 2. In nome di Ishmael. I moventi dell'omicidio di minorenni. 3. Alcune considerazioni sul caso Yara e Sarah. 4. Allegato. Primi appunti sul simbolo trovato sul corpo di Yara.

1. Premessa. Una delle domande più frequenti che mi fanno i lettori (ed è per questo che mi decido a scrivere un articolo come questo) è questa: “Ok, passi che la massoneria uccida i testimoni di Ustica, che sequestri Moro uccidendone la scorta, ecc., ma che interesse ha ad uccidere Sarah Scazzi, o Yara Gambirasio? Che interesse ha ad uccidere una famiglia, nel delitto di Erba?” Con questo articolo rispondo anche alla domanda “perché non ti occupi di Sarah e Yara?”. La risposta non è semplice perché non esiste un’unica risposta. La massoneria è un’organizzazione complessa, e ramificata, e dunque estremamente complessi e ramificati sono i suoi fini. Faccio spesso il parallelo con la mafia. Alla domanda “che interesse ha la mafia ad uccidere?” la risposta non potrebbe essere unica. La mafia uccide per sopprimere testimoni, per uccidere poliziotti o magistrati scomodi, persone che tradiscono, pericolose, scomode, a fini estorsivi, o anche solo per lotte di potere interno. Le motivazioni degli omicidi massonici sono ancora più complesse, e per certi versi incomprensibili secondo la logica comune. Una volta che relativamente ad un delitto si trovi la simbologia massonica, e una volta quindi individuato il delitto come “massonico”, ciò non ha alcuna utilità, perché non serve per individuare esecutori, mandanti e movente. Così come capiamo che una persona è stata uccisa dalla mafia, se il delitto avviene a Palermo, in pieno centro, con una raffica di mitra al volto, oppure se troviamo una persona incaprettata, ma tale comprensione ancora nulla ci dice dell’assassino e del movente, così trovare simboli massonici sulla scena di un delitto ha una valenza pratica pari a zero. Quindi, individuare simboli e numerologia massonica nel delitto di Avetrana e Brembate non serve a nulla. Una volta spiegato ai lettori, coi precedenti articoli, la simbologia base di un delitto massonico, infatti, ciascun lettore di questo blog ha potuto capire da solo che erano delitti firmati dalla Rosa Rossa e non c’era bisogno di un mio articolo per spiegare ciò che hanno capito tutti. Impossibile, invece, capire per ora i moventi o anche solo individuare potenziali colpevoli. Un discorso generale su questi omicidi, però, possiamo farlo.

2. In nome di Ishmael. I moventi. Da poco mi è capitato di leggere un romanzo di Giuseppe Genna, dal titolo “In nome di Ishmael”, che parla proprio dell’omicidio dei bambini. L’autore nel romanzo narra di un’organizzazione internazionale, Ishmael, che è dietro agli omicidi di molti bambini, e dietro al traffico internazionale collegato al caso Dutroux, come dietro al delitto di Lady Diana o al delitto Moro. I delitti dei bambini sono compiuti per propiziarsi forze esoteriche relative a grandi eventi di portata nazionale o internazionale. In altre parole, ogni delitto è un sacrificio umano compiuto per collegarlo esotericamente e simbolicamente, a vicende come il delitto Mattei, il sequestro Moro, ecc. Leggendolo ho capito che l’autore parlava della Rosa Rossa, e parlava di fatti reali, non inventati. Il libro è scritto da una persona addentro a queste cose, essendo stato consulente della commissione P2 e della commissione stragi. Facciamo quindi parlare uno dei protagonisti del romanzo. Ne trascrivo i dialoghi più importanti. Alla domanda “perché Ishmael uccide?” il protagonista risponde: “Con Ishmael il significato si chiarisce a distanza di anni. Bisogna aspettare. Ci sono altre realtà, superiori al piano politico. Sono realtà spirituali e queste realtà guidano il piano politico occultamente. Realtà che a noi sembrano religiose. E’ chiaro uno dei meccanismi rituali di Ishmael: in vista di ogni attentato importante viene compiuto il sacrificio di un bambino”. Occorre quindi aspettare anni, spesso aspettare una serie di delitti, per capirne il significato. Ad esempio, per capire i moventi nella vicenda del Mostro di Firenze ci sono voluti decenni. Nel delitto di Cogne ci sono voluti molti anni per capire il significato completo della vicenda (anche se la Carlizzi c’era arrivata subito; nel mio caso però ho impiegato due anni perché non riuscivo a leggerne i simboli esoterici che mi sono stati chiari solo dopo molto tempo).

3. Alcune considerazioni su Yara e Sarah. Il libro di Genna riassume quindi perfettamente la logica rituale dietro all’omicidio dei bambini compiuto dalla Rosa Rossa. Per Sarah e Yara occorrerà aspettare ancora per capire a cosa sono collegati questi omcidi. Probabilmente occorrerà aspettare una terza vittima, che questa volta, per i motivi che stiamo per dire, potrebbe essere violentata. Partiamo da queste considerazioni. La ritualità di questi due omicidi è chiara. L’assonanza dei nomi Sarah e Yara, accomunate da quell’ara finale, che ricorda la parola altare. Il loro corpo è, quindi, un altare sacrificale. Il fatto che Sarah sia scomparsa il 26 agosto; il 26 novembre dopo tre mesi esatti scompare Yara, che verrà ritrovata il 26 febbraio, ancora una vola dopo te mesi dalla scomparsa. Il 26 che ritorna in questi delitti, è un numero fondamentale per la Cabala, perché rappresenta la valenza numerica del nome di Dio. Cabalisticamente la parola Yahvè (YHWH), dà come somma proprio il numero 26. Abbiamo poi il ritrovamento del corpo di Yara nel campo di proprietà della ditta Rosa & C., mentre le rose erano in bella mostra anche nel cancello che dava sul cortile di casa Misseri. Anche il parroco, ai funerali di Yara, ha fatto un’affermazione incomprensibile ai “non iniziati”, e che tutti i giornali, manco a dirlo, hanno ripreso: Yara è come Santa Maria Goretti. Non posso dire se il parroco l’abbia fatto apposta o meno; ma certo non è casuale che questa affermazione abbia fatto il giro dei mass media, in quanto Santa Maria Goretti ha come simbolo il Giglio. Abbiamo insomma un’infinità di indizi che fanno capire che si tratta di un delitto rituale. Gli indizi più importanti poi, oltre quelli simbolici, sono costituiti dal nome delle persone coinvolte, il livello degli avvocati che si interessano alla vicenda, assolutamente sproporzionato per un delitto di matrice solo sessuale, da cui desumiamo che il livello degli interessi in gioco è molto alto. Occorre considerare che spariscono in Italia oltre 1000 minorenni all’anno. 1033 nel 2009, per la precisione. Queste poi sono solo le cifre ufficiali, che non tengono conto di tutte le sparizioni dei bambini figli di Rom, quindi non registrati all’anagrafe, o entrati clandestinamente in Italia, che fanno salire la cifra almeno al doppio. La Rosa Rossa, e l’internazionale dei pedofili, è dietro a molte delle sparizioni di bambini, anche di quelle che non compaiono sui media. La differenza tra un delitto che non fa rumore e uno che assume rilevanza mediatica, è solo nel tipo di destinatario e nell’importanza del rito. Molti bambini spariscono per finire nel traffico di organi, nei riti satanici, negli snuff movies. Quando dietro alla morte di un minorenne invece si solleva un caos mediatico delle proporzioni di Yara e Sarah, vuol dire che tale evento è collegato a qualcos’altro di proporzioni nazionali o internazionali. Nel caso di Yara, per esempio, il cui significato è “primavera”, potrebbe trattarsi di un evento molto importante che avverrà in primavera (una guerra, una catastrofe, ecc…); collegando questo nome con quello di Sarah (che nella Bibbia è la sposa di Abramo e quindi colei che partorisce il popolo eletto), c’è la possibilità che l’evento avverrà nel Medio Oriente. E’ probabile anche che debba avvenire un terzo delitto e che il percorso seguito sia, simbolicamente e in codice, nella “Nascita di Venere” del Botticelli. Sulla destra del quadro infatti c’è la Primavera, coperta di fiori e piante varie (e Yara è stata trovata ricoperta da arbusti). Al centro c’è Venere, che assomiglia in modo impressionante a Sarah, ed è rappresentata nuda dentro una conchiglia, davanti al mare (e ricordiamo che Sarah stava andando al mare prima di essere uccisa). Se questa ipotesi fosse vera, mancherebbe un terzo delitto, che dovrebbe simbolicamente ricordare la figura alla sinistra del quadro. L’ipotesi del collegamento di questi delitti alla Nascita di Venere è stata formulata da una persona che conosco ed è una possibilità, non una certezza. Ma la percentuale di probabilità che l’ipotesi sia plausibile è aumentata il giorno che ho notato che nel libro di Mario Spezi “Il passo dell’orco”, che parla di due omicidi di due bambini, edito da Hobby&Work e ancora una volta collegato al Mostro di Firenze e altre vicende reali, è citato proprio quel quadro. E Mario Spezi è uno che di omicidi di bambini e Rosa Rossa se ne intende. Resterebbe poi da spiegare esattamente il significato di questo quadro, ma la spiegazioni ufficiali non mi convincono per niente, come non mi convincevano quelle relative alla Primavera del Botticelli. Mi convinsi invece della bontà delle teorie di Lino Lista (che le ricollegava al canto 28 del Purgatorio di Dante), perché erano le uniche che spiegavano ogni dettaglio fin nei minimi particolari. Quanto al simbolo esoterico trovato sulla schiena di Yara, secondo il simbolista Carpeoro questa potrebbe essere la Croce di Sant’Andrea, che è la firma di una società che si ricollega agli Illuminati. Potrebbe contemporaneamente rappresentare la firma di colui che ha compiuto il “capolavoro”, rappresentando le lettere MR secondo la simbologia alfabetica della Società Guelfa, una delle tante associazioni paramassoniche sorte alla fine dell’800. Queste però sono solo congetture. Quello che è certo, ancora una volta, è che i mass media hanno orchestrato un immenso baraccone mediatico, chiamando sempre i soliti esperti, che sentenziano sempre le stesse cose, come ai tempi del Mostro di Firenze: un serial killer isolato (per Yara); o al massimo un contadino (ieri Pacciani, oggi Michele Misseri). Un killer abilissimo che ieri riusciva ad uccidere sedici vittime, alcune delle quali proprio sotto il naso degli inquirenti, e facendola sempre franca, mentre oggi riesce a piazzare un cadavere in un centro abitato, senza lasciare la minima traccia. Il tutto mentre gli inquirenti commettono un errore dopo l’altro in modo plateale (oggi non mettendo immediatamente sotto sequestro il garage di Misseri, ad esempio, oppure non vedendo un cadavere in bella mostra in un campo, per giunta a poche centinaia di metri da dove partivano le ricerche; ieri mettendo in galera sempre persone diverse, e tutte immancabilmente poi rivelatesi innocenti). Un’altra cosa certa è che anche qui la verità si saprà solo tra molti anni. E l’altra cosa certa è che: “Ishmael non sbaglia mai. Sul lungo periodo non sbaglia mai. Tutto quello che riusciamo a fare è ritardare i suoi risultati”. PS. Un giorno poi ci sarebbe da approfondire il motivo per cui vanno in galera sempre contadini, casalinghe, e spazzini (come Olindo Romano). Mai avvocati, notai, magistrati, medici, giornalisti, ecc. Nino Filastò nel suo libro “Storia delle merende infami” dice una cosa giusta (una delle poche, credo, di tutto il depistante libro). Che i laureati in genere non pagano mai per i loro delitti e la galera è piena di analfabeti. Uno dei pochi a farsi la galera (ma solo qualche giorno) fu proprio Mario Spezi, anni fa, per soli 23 giorni. Ma questo sarà oggetto di un altro articolo, in futuro.

4. Allegato. Primi appunti sul simbolo trovato sul corpo di Yara di Gianfranco Carpeoro. Caro Paolo ho avuto modo di vedere tanto il tuo post quanto il simbolo inciso sulla schiena della piccola Yara. Ovviamente mi sono messo subito al lavoro e il mio primo pensiero è stato quello di verificare tutte le rispondenze letterali della segnatura. La X è simbolo esoterico in quanto descrive la rotazione del mondo, in antiche lingue accadiche e mesopotamiche significa protezione, nel cristianesimo è simbolo del supplizio di Andrea, fratello di Pietro che richiese di essere crocifisso su una croce che non fosse esattamente uguale a quella del Cristo. Il simbolo = è invece presente solo in senso numerico, tra i sumeri veniva usato per indicare il numero due, ma i due simboli non viaggiavano insieme. Poi ho riflettuto sulla circostanza che il simbolo è stato inciso con una punta acuminata, credo, sulla schiena della vittima e ciò è una pratica di cui ho riconosciuto una fonte. Tra le logge di scalpellini e di muratori del Medioevo che hanno poi dato origine alla Massoneria, nella costruzione delle grandi cattedrali di quell’epoca, era d’uso che ogni “artista” firmasse la pietra, specialmente quella d’angolo o la chiave di volta, che aveva levigato e montato. Questi segni si chiama “lapicidi” e molti studi sono stati effettuati su di essi. Te ne accludo un esempio, ogni scalpellino sceglieva il suo marchio tramite una figurazione del tipo che vedi, ma a volte è riscontrabile che siano state adoperate le iniziali stilizzate. Ne ho esaminati un’infinità, non ne ho trovato alcuno che possa aiutarci, ma mi sono convinto che la modalità dell’assassino sia identica. Quindi, a mio avviso, quella è la sua firma, lui ha firmato il “capolavoro”. Questo mi induce a credere anche che si tratti di un personaggio isolato, visto che la firma in tal caso sarebbe singola, come era d’uso, ma non ne sono sicuro, ovviamente. Comunque, poiché la tradizione dei lapicidi è ben conosciuta tra i massoni, specialmente di alto grado, anzi è vissuta come tradizione da proseguire con la firma delle “tavole”, interventi scritti che si presentano in tempio durante le ritualità massoniche a questo punto mi sono messo a caccia di alfabeti massonici. Ciò anche perché la tradizione di sovrapporre due simboli separati, facendone uno è tipicamente massonico o premassonico, squadra compasso, rosa e croce, falce e martello (simbolo creato da un massone tedesco) ecc. Ne possiedo tanti e c’è voluto del tempo. Ne ho trovato uno solo, uno solo dove ci sono tanto la X che il = ed è l’Alfabeto della Società Guelfa, una delle tante associazioni paramassoniche sorte alla fin dell’Ottocento. Di seguito te lo pubblico intero ma le righe dell’alfabeto che riportano i simboli che ci interessano sono due e la colonna che ci interessa è quella dell’alfabeto nuovo. In tale codificazione infatti il simbolo = risulta corrispondere alla lettera M e il simbolo X risulta corrispondere alla lettera R. Ma non finisce qui. Nella mia ricerca, secondo le mie reminiscenze, ho verificato anche la Società Romantica ovvero il 34° grado della Massoneria. Si tratta degli Illuminati Romantici, associazione che risulta costituita anche in Italia da un manoscritto, conservato presso l’archivio Storico di Firenze. Riguardo a tale associazione segreta risulta che i suoi atti sarebbero stati anche pubblicati molti anni fa ad opera di una non meglio precisata loggia massonica, guarda caso di Firenze (!) la Concordia. Il testo del manoscritto, pubblicato un Italia da una casa editrice che non esiste più, Convivium, nel testo “Rituali e Società Segrete” te lo accludo integralmente segnalandoti le righe che ti ho evidenziato in rosso e cioè queste: Allorché uno di essi si trova in un pubblico albergo, incide sopra una tavola, o forma in un altro luogo visibile, una Croce di Sant'Andrea; doppia X se il trattamento è stato cattivo; tripla se è stato ben servito. E successivamente Hanno un segno per riconoscersi e questo consiste nel fare col dito indice della mano sinistra una Croce di S. Andrea, cioè un X. sopra una tavola, o in qualunque modo che loro fa comodo, ovvero descriverla in aria. Interessante vero? La Croce di Sant’Andrea è il simbolo e la firma di questa associazione che evoca gli Illuminati… Questo è quanto è emerso finora, caro Paolo, nei prossimi giorni cercherò di andare avanti per vedere se salta ancora fuori qualcosa d’altro. Tieni presente che la Croce di Sant’Andrea fa parte anche del simbolo di un grado del Rito Scozzese, ma questi la incidono e poi fanno parte per definizione della famiglia degli Illuminati… Se vuoi pubblica pure questa ricerca nelle forme che meglio credi, a mio nome o a tuo, o magari fanne la base per tue ulteriori ricerche, a me sembra un strada interessante. Un Abbraccio Carpeoro.

L'omicidio massonico. Come si occulta la verità, scrive Paolo Franceschetti. E cenni sull’omicidio di Carmela Rea. 1. Premessa. 2. L'omicidio di Carmela Rea. 3. Le tecniche di depistaggio. 4. I periti. 5. Gli avvocati. 6. I magistrati. 7. Polizia e Carabinieri. 8. I criminologi. 9. I mass media. 10. Conclusioni.

1. Premessa. E’ ormai qualche anno che cerco di studiare i delitti rituali della Rosa Rossa e una delle cose che ho cercato di capire di più era come facessero a depistare sistematicamente tutte le indagini. Che la Rosa Rossa abbia in mano tutta la stampa, la magistratura e gli organi di polizia è evidente; ma è altrettanto evidente che il controllo di questi organi avviene non per cooptazione diretta, ma indiretta e inconsapevole. Non è possibile, infatti, che tutti gli avvocati, gli investigatori, e i giornalisti che se ne occupano siano dentro alla Rosa Rossa, anche perché nella stragrande maggioranza dei casi non hanno né l'intelligenza né la cultura per far parte di un'organizzazione del genere. In altre parole, la maggior parte degli inquirenti, dei giornalisti e dei magistrati ignora cosa sia la Rosa Rossa e in genere non ne sospetta neanche l'esistenza. Dopo qualche anno, dopo colloqui con carabinieri, poliziotti, periti, magistrati, giornalisti, cameramen, la risposta mi è chiara e può tracciarsi una sorta di schema, seguito ogni volta per ogni delitto. Partiamo dall’esempio di Carmela Rea, morta di recente. Le dichiarazioni dei criminologi intervenuti sono talmente demenziali che mi hanno ispirato questo articolo per spiegare i meccanismi di un’indagine, a grandi linee.

2. L’omicidio di Carmela Rea. In quest’omicidio risultano chiaramente rituali sia la data della morte, sia il nome della donna, sia i riferimenti e le immagini mandate in TV. Per i lettori di questo blog tutto ciò è cosa nota quindi mi soffermo su altri particolari. La cosa che colpisce sono le idiozie dette dai criminologi nei vari programmi TV. E la domanda è: come è possibile che nessuno ci arrivi? Che nessuno colleghi? Che nessuno sospetti qualcosa di più? E come è possibile dire una quantità di idiozie, come quelle che normalmente dicono i criminologi, puntualmente sempre gli stessi invitati a queste trasmissioni? La donna è scomparsa nel pomeriggio e il cadavere è stato ritrovato solo in seguito, mentre la data della morte è quella probabilmente del giorno successivo, tra la mezzanotte e le due. Il cadavere è stato ritrovato privo del sangue (cosa tipica di tutti i delitti rituali) il che significa che l’omicidio è avvenuto in zona diversa dal ritrovamento. La donna ha subito 35 coltellate e sul corpo ci sono anche dei segni esoterici incisi. A fronte di queste evidenze, c’è da domandarsi come si fa a sostenere la tesi del serial killer o del delitto passionale. Carmela infatti stava facendo una gita col marito e si è allontanata per un solo momento; dovremmo supporre che il presunto amante l’abbia stordita e portata in un altro luogo, oppure – ipotesi ancora più inverosimile – l’abbia convinto a seguirla. Lì l’abbia uccisa dopo poche ore e poi abbia portato il cadavere in un altro luogo, rischiando di essere scoperto, o fermato. Inoltre resterebbe da capire perché questo presunto amante l’abbia uccisa con 35 coltellate, alcune sferrate anche dopo la morte. In realtà analizzando i pochi dati che ci hanno evidenziato i giornali (dati che spesso sono falsi, questo occorre dirlo, ma qui partiamo dal presupposto abbastanza improbabile che siano veri) risulta chiaro che la persona è stata uccisa con premeditazione, e probabilmente l’uccisione in un posto per poi trasportare il cadavere in un altro ha un significato ben preciso, ben diverso da quello che ha in un delitto seriale o passionale. Peraltro, ad escludere il delitto passionale dovrebbe bastare la svastica nazista che - sempre stando a quel che dicono i giornali - sarebbe stata incisa sul corpo della donna; e sarebbe da prendere in considerazione il fatto che il corpo è stato ritrovato il 20 aprile, proprio il giorno del compleanno di Hitler. Ma è ovvio che la verità anche questa volta non verrà mai a galla. Cercherò di spiegare allora come funziona il meccanismo investigativo in questi casi, e come sia possibile arrivare a simili livelli di demenzialità nelle trasmissioni che si occupano della vicenda.

3. Le tecniche di depistaggio. Per capire come si depistano le indagini in un delitto qualsiasi occorre tenere presente che l’analisi della scena di un delitto avviene in più fasi. In un primo momento interviene generalmente la squadra volante della polizia, che fa un primo sopralluogo, con o senza il magistrato di turno. La volante fa un primo rapporto (talvolta a seconda delle zone possono intervenire i carabinieri). Dopodiché il caso passa a chi se ne occuperà realmente; in polizia la squadra mobile. Oppure se è intervenuta per prima la caserma x dei carabinieri, il caso può passare ad una stazione diversa. Le indagini poi sono dirette dal magistrato, e a condurre le indagini non sempre sarà quello di turno. E poi abbiamo i periti. Ecco quindi che l’analisi della vicenda può essere fatta da tanti soggetti diversi, con competenze diverse, e idee diverse. Spesso è sufficiente che un solo elemento di questa vicenda sia nelle mani dell’organizzazione perché tutta l’inchiesta ne risulti inquinata e sia nell’impossibilità di proseguire correttamente. In altre parole, non c'è bisogno di tenere sotto controllo tutti coloro che partecipano a vario titolo alle indagini, ma è sufficiente assicurarsi una complicità in uno o due punti chiave di tutta l'operazione.

4. I periti. Il perito ha un ruolo chiave in tutta la vicenda. Il burattinaio di questi delitti infatti si assicura sempre che la perizia sia svolta o da un incompetente o da una persona interna all’organizzazione. Se il perito stabilisce, ad esempio, che è perfettamente normale che un avvocato di 40 anni si suicidi con una calza da donna al termosifone, come l’avvocato Silvia Guerra di Macerata, il caso è chiuso. Se il perito stabilisce, come è capitato, che è perfettamente normale che una donna si infili un coltello nel torace e non esca una goccia di sangue, il caso è chiuso. Suicidio. Se il perito stabilisce – come nel caso di Niki Aprile Gatti – che è possibile suicidarsi con un laccio da scarpe, allora il caso è chiuso. Suicidio. Se il perito stabilisce che ci si può suicidare con una balestra, come nel caso di Stefano Anelli, il caso è chiuso. Se il perito stabilisce che ci si può suicidare in una doccia, come l’avvocato Antonio Colelli, il caso è chiuso. A formare dei periti incompetenti concorre una letteratura che spesso è fuorviante; in un manuale di medicina legale, scritto da un magistrato (e non da un medico legale) e con prefazione di Pier Luigi Vigna, ad esempio, si trova scritto che è perfettamente normale che una persona si suicidi con le ginocchia che toccano terra; se poi sul corpo si troveranno dei lividi, contusioni, botte, ecc., ciò è dovuto al fatto che spesso il suicida si agita e sbatte ripetutamente contro il muro. In altre parole, i periti che si berranno acriticamente queste idiozie, se sono poco intelligenti ripeteranno queste formulette. I periti più bravi verranno comprati. E quelli che non si adegueranno verranno uccisi (come Luciano Petrini, che stava facendo la perizia sulla morte del colonnello Ferraro, che si sarebbe impiccato ad un portasciugamani, a colpi di portasciugamani). Credo ad esempio che almeno la metà dei periti che quotidianamente ci ammorbano in TV con la loro teorie assurde siano in buona fede. Molti di essi infatti appena parlano dimostrano di essere talmente incompetenti che è assai probabile che credano davvero alle idiozie che dicono. Alcuni, invece, sono dotati di grande intelligenza, come Francesco Bruno, e sono menti raffinatissime (per usare un termine di falconiana memoria). Difficile pensare che costoro caschino dal pero e non sappiano come funziona il sistema. Anzi, probabilmente è tra alcuni di loro che si devono cercare i mandanti di certe operazioni.

5. Gli avvocati. L’altro elemento importante per il depistaggio sono gli avvocati. Mi sono sempre domandato dove prendessero i soldi le famiglie delle vittime per farsi difendere da avvocati del calibro di Taormina, o, come nel caso di Avetrana, dall’avvocato Coppi, che è uno dei penalisti più affermati d’Italia, una cui consulenza può costare come un appartamento. Il punto è questo. Se l’avvocato è bravo dopo un po’ capisce il sistema e può anche arrivare alla verità. Non a caso nella categoria degli avvocati c’è un’elevata mortalità e un alto tasso di suicidi. Tra il 2009 e il 2010 ricordo i nomi di Silvia Guerra, Giuseppe Porfidia, Antonio Colelli, Monica Anelli, Giacomo Cerqua, Massimo Buffoni, l'onorevole Fragalà, e molti altri, tutti morti in circostanze talmente assurde che nessuno crede al suicidio o all’omicidio (nel caso di Monica Anelli sarebbe stata uccisa dallo zio con una balestra). Negli anni passati invece ricordiamo l'avvocato Masi, ucciso a Teramo a colpi di mannaia insieme alla moglie, o l'avvocato Cipolla, ucciso a Palermo a colpi di Roncola. Nella maggior parte dei casi gli avvocati non riescono a capire il meccanismo in cui sono inseriti. Quando iniziano ad intuire qualcosa vengono fatti fuori. Non a caso gli incidenti a me e Solange, e i primi tentativi di eliminarci, sono avvenuti quando iniziavamo ad avvicinarci alla verità. E i primi tentati omicidi ai nostri danni sono stati compiuti ad opera probabilmente delle stesse persone che ci facevano il servizio di protezione, gli agenti della Digos. Se non da loro direttamente, comunque certamente con il loro aiuto e con la loro complicità, consistita nella sparizione di documenti, nel voluto depistaggio, nelle omissioni, ecc. Attualmente nel mio studio legale siamo in 5, e da poco a Solange si è aggiunta un’altra persona che è scampata alla morte per un pelo sol per aver capito troppo. Gli avvocati direttamente coinvolti nel sistema e direttamente aderenti alla Rosa Rossa o organizzazioni simili non sono molti e in genere intervengono solo in processi di rilevanza nazionale o internazionale. Quei pochi però si spartiscono la maggior parte dei processi importanti di rilevanza mediatica e spesso contattano la vittima offrendosi gratuitamente; in genere la vittima e i familiari non rifiutano, ritenendo in tal modo di essere tutelati e anzi ritenendosi pure fortunati. In conclusione, gli avvocati in genere non hanno la preparazione per capire il fenomeno davanti a cui si trovano, il che avviene nel 90 per cento dei casi. Se cominciano a capire vengono uccisi o estromessi dal processo. E in genere i processi più importanti sono appannaggio di avvocati interni all'organizzazione.

6. I magistrati. Quanto ai magistrati il problema è simile a quello degli avvocati; spesso (anzi, quasi sempre) non hanno alcuna competenza specifica, quindi in genere si fidano degli ufficiali di PG addetti al loro ufficio. Un magistrato diventa tale solo perché ha superato un concorso in cui studia tre materie (diritto civile, penale e amministrativo), senza alcuna attinenza con la realtà, senza aver fatto alcun corso di investigazione, e senza sapere nulla di ritualità, organizzazioni esoteriche, ecc. Dopodiché, dopo anni passati a occuparsi di traffico di droga, furtarelli e altri reati minori, incappa nel delitto rituale. Ecco come possono prodursi aberrazioni come quelle capitate all’epoca del serial killer Minghella, uccisore di prostitute, che scriveva la parola “Rose” sulla schiena delle vittime. La parola fu attribuita ad un maldestro tentativo di attribuire i suoi delitti alle Brigate Rosse, e gli indizi di carattere rituale, in tal caso evidenti come un elefante in giardino, non sono stati visti da nessuno. In linea di massima il 50 per cento dei magistrati non conosce neanche la differenza tra Massoneria e P2 e fa di tutta l’erba un fascio. Il restante 40 per cento è in massoneria, quindi conosce la massoneria in sé, ma aderisce alle obbedienze regolari ed ufficiali, Grande Oriente d’Italia, Gran Loggia Regolare, Cavalieri di Malta, non conosce la differenza tra Massoneria e organizzazioni esoteriche, massoniche o paramassoniche; solo un 10 per cento (in genere i magistrati che rivestono le funzioni più importanti e che si occupano dei casi più importanti all’interno di un tribunale) conoscono perfettamente il sistema. Ma quelli, per ovvi motivi, non lo combatteranno mai e sono posti a dirigere procure e tribunali al fine di assicurare il corretto funzionamento (non della giustizia ma) del sistema. I pochi magistrati che lavorano davvero per arrivare alla verità vengono destituiti, trasferiti, o uccisi. Ma si tratta di eccezioni. In linea di massima è l'ignoranza del magistrato che garantirà la totale impunità all'organizzazione.

7. Polizia e Carabinieri. La maggior parte degli ufficiali di Polizia e Carabinieri hanno un grado di scolarità bassissimo. Mal pagati e mal addestrati, e mal aggiornati, non sanno nulla di simbolismo, sette segrete ecc. Basti pensare che a Firenze la sezione antisette ha un organico, se non ricordo male, di due persone o tre. Due persone che dovrebbero quindi indagare su tutto ciò che ruota attorno all’Ordo Templi Orientis, Golden Dawn, Rosa Rossa, ecc… Più o meno come combattere la CIA con una fionda. In alcune città, come Viterbo, non esiste neanche un settore antisette perché, si sa, le sette non esistono, e se esistono sono innocue, come garantisce il famoso esoterista Massimo Introvigne (il quale ha la biblioteca esoterica più grande del mondo, 50.000 volumi; quindi, in sostanza, è uno che si occupa di un fenomeno che non esiste). Ma l’ignoranza abissale in cui versano poliziotti e carabinieri è il miglior modo per renderli servi docili del sistema. I pochi che svolgono indagini serie dopo un po’ vengono allontanati, uccisi, o mobbizzati. Ricordiamo ad esempio che i poliziotti che avevano indagato sulla banda della Uno Bianca, individuando i fratelli Savi, furono trasferiti per punizione. A Viterbo un’ispettrice di polizia troppo ligia al dovere prima è stata trasferita varie volte; a Natale del 2007 spararono contro la vetrina del negozio del marito e poi ebbe un incidente in auto (malfunzionamento improvviso e inspiegabile dei freni) che le causò un forte stress e che l’ha messa definitivamente fuori gioco. Inutile dire che, anche tra i suoi colleghi, quelli che vedono la coincidenza tra i vari eventi sono pochissimi; molti, più che altro per ignoranza, non mettono in collegamento i fatti e ritengono il tutto frutto di una cattiva manutenzione dell’auto. Il commissario Giuttari, che era andato un po’ troppo avanti nell’individuazione del livello ulteriore oltre a Pacciani, nei delitti del Mostro di Firenze, fu messo ad ammuffire al servizio ispettivo del ministero e anche condannato penalmente. E così via. Infatti, anche se dopo qualche mese io e Solange ci accorgemmo che i tentati omicidi ai nostri danni erano effettuati con la complicità delle persone che dovevano in teoria garantire a Solange un servizio di “protezione”, abbiamo sempre pensato che abbiano fatto tutto ciò senza sapere assolutamente cosa facevano e perché. Il funzionario Digos che dopo l’avvelenamento di Solange interrogò me e Solange cercando di costringerla a confessare che si era avvelenata o drogata da sola con la mia complicità per farsi pubblicità, era infatti talmente ignorante che non poteva certamente sapere cosa stava facendo. Ricordo che durante il colloquio, mentre spiegavo al funzionario che il padre di Solange era affiliato al Grande Oriente d’Italia, mi chiese “ma cos’è il Grande Oriente d’Italia?”. Era ovvio cioè che lui stava facendo il suo lavoro, su mandato di altri, ma era totalmente inconsapevole dell’ingranaggio in cui era inserito. E non riusciva neanche a capire di cosa parlassi. Forse, chissà, pensava pure di fare una cosa utile alla nazione, cercando di smascherare due rompicoglioni come me e Solange, con manie di protagonismo. Tempo fa ho parlato con un ufficiale dei carabinieri che mi spiegava come spesso ricevono ordini dall’alto per effettuare questo o quell’arresto anche in mancanza di prove concrete; e lo hanno allontanato dal servizio perché in genere cercava di opporsi. Un altro funzionario di polizia, oggi in pensione, mi disse che gli era stato ordinato di fare una cosa illegale, per la quale poi fu addirittura additato su vari giornali come un depistatore. Da quel giorno è andato in pensione e si è ritirato a vita privata. In altre parole, per polizia e carabinieri vale lo stesso meccanismo dei magistrati e degli avvocati. L'ignoranza totale sarà l'alleata più fedele dell'organizzazione. Nell'eventualità che il poliziotto inizi a capire qualcosa, verrà trasferito o, in casi estremi, ucciso, facendo passare l'omicidio per un suicidio, ovviamente. La stupidità, la paura, l'ignoranza dei colleghi attorno a lui, farà sì che nell'ambiente non si avrà il minimo sospetto, e quelli che sospetteranno staranno zitti perché, in fondo, loro devono sempre mantenere la famiglia.

8. I criminologi. I criminologi svolgono un ruolo chiave in tutta la vicenda. La letteratura criminologica di base, ad esempio, non considera mai il problema delle sette. Le sette, se ci sono, sono composte da sbandati disorganizzati. Le organizzazione esoteriche più diffuse non sono neanche menzionate. In molti manuali di criminologia ho addirittura trovato scritto che veri e propri delitti satanici, nel mondo, non se ne sono mai registrati (ignorando quindi a bella posta anche casi famosi e ufficiali come quelli di Sharon Tate o delle Bestie di Satana). Il delitto esoterico e/o rituale, invece, non è neanche menzionato. Come abbiamo già evidenziato in passato, il più diffuso manuale di classificazione dei crimini, ovverosia il manuale ufficiale di studio alla FBI, non conosce la voce “delitto rituale” (cioè non conosce il delitto più frequente nella nostra società) ma in compenso conosce quello dell’ “omicidio sessuale di donna anziana” (che è statisticamente rarissimo). Basti pensare che nei delitti del Mostro di Firenze molti “esperti” continuano a proporre il profilo steso a suo tempo dall’FBI, che indicava in un serial killer isolato l’assassino, e ignorano invece il rapporto che stese Francesco Bruno (che parlava di delitti esoterici). Se poi qualcuno fa cenno ad elementi esoterici, si prendono in considerazione falsi elementi; nei delitti del Mostro di Firenze si presero come indici di un delitto esoterico le famose piramidi tronche trovate sul luogo di alcuni delitti, e non tutti gli altri indizi più importanti (nomi delle vittime, date, posizione dei pianeti, nomi dei luoghi, ecc.). Ad esempio nel delitto di Carmela Rea, se non vado errato, la zona dell'omicidio è vicina al Monte di Rosara e al Dito del Diavolo, mentre il luogo del ritrovamento credo si chiami "Montagna dei Fiori". Nella vicenda Rea, uno dei soliti esperti intervistati, Massimo Picozzi, che finora è l'unico ad aver parlato di un delitto rituale, si è affrettato ad aggiungere "delitto rituale sì... ma di una sola persona". Una sola persona così forte da poter rapire da sola Carmela, e poi riportarla da morta in un luogo distante 18 km da quello del ritrovamento. Un superman insomma. In conclusione, tra i criminologi le persone davvero ignoranti sono poche, perché, dopo qualche anno, a meno che il soggetto non sia poco intelligente, comincia a capire che qualcosa non quadra nelle teorie criminologiche più diffuse, e inizia a farsi qualche domanda in più. Ho parlato con un medico legale che reputo molto in gamba, il quale mi ha detto: "vedi Paolo, quando i giornali parlano di un suicidio con una busta di plastica in testa, è al 100 per cento un omicidio. Quando parlano di un suicidio e la persona tocca con le ginocchia per terra, è al 90 per cento un omicidio. Ma la maggior parte dei miei colleghi ha paura, oppure è stupida, e crede davvero alle stronzate che gli dicono di dire".

9. I mass media. Il ruolo dei mass media è ovviamente il più delicato. Anche qui però la maggior parte dei giornalisti o cronisti sono inconsapevoli del reale sistema che c’è alla base. La maggior parte dei giornali si limita a riportare pedissequamente le veline che le questure selezionano personalmente. I pochi giornalisti che fanno realmente un’inchiesta dopo un po’ vengono minacciati, esclusi, allontanati. La maggior parte dei giornalisti, quindi, scrive solo quel che i padroni impongono e non rischia più di tanto. La prima volta che un giornalista si avvicina ad un delitto rituale, poi, non è mai in grado di riconoscerlo, e neanche le successive. Per farlo dovrebbe essere un esperto di esoterismo, cosa che la maggior parte dei giornalisti non è. A meno che, ovviamente, non faccia parte del sistema, nel qual caso non c’è pericolo che scriva davvero la verità. Le persone coinvolte a pieno titolo nell’organizzazione sono solo i giornalisti che si occupano in modo sistematico di tali delitti perché, a meno che non siano poco intelligenti, diventa impossibile dopo anni di giornalismo investigativo non fiutare una pista diversa e unitaria a fronte di una serie così incredibile di coincidenze in delitti troppo diversi da loro. Quelle sono spesso le menti dell’organizzazione stessa o comunque sono tra le persone con gli incarichi più importanti all’interno della Rosa Rossa. Il risultato finale di questa combinazione tra ignoranza, paura e complicità, è che i mass media svolgono l'importantissimo ruolo di depistare l'opinione pubblica, focalizzando tutte le discussioni su punti secondari, inutili e depistanti delle vicende, e allontanarla dalle domande reali. Nel caso di Carmela Rea, ad esempio, tra giornali e telegiornali ho ascoltato le seguenti bestialità:

- pista camorristica.

- pista del serial killer o del movente passionale, entrambe basate sul nulla più assoluto quanto a indizi.

Inoltre i giornali hanno dato i seguenti particolari:

- Carmela Rea aveva sofferto di depressione post partum (particolare assolutamente ininfluente per capire il movente di un omicidio);

- era una donna bellissima; particolare in teoria importante, ma solo dopo che si sia stabilito che effettivamente abbiamo a che fare con un serial killer, altrimenti il particolare è rilevante quanto il numero delle scarpe;

- in paese tutti la stimavano, si giravano a guardarla, e la coppia si voleva molto bene.

In compenso si trascurano i seguenti particolari:

- i numerosi indizi di ritualità;

- il fatto che il marito sia un militare e che il cadavere sia stato ritrovato in una zona militare; coincidenza non da poco, su cui si è soffermato solo il criminologo Francesco Bruno, sia pure con una teoria abbastanza inconsistente, all'acqua di rose (e il doppio senso non è casuale ma voluto);

- il fatto che il cadavere sia stato trovato in una zona militare; nessuno si domanda se non sia possibile, ad esempio, acquisire le riprese effettuate dai satelliti militari che monitorizzano continuamente le zone militari, per vedere se sia possibile individuare l'assassino (più probabilmente gli assassini) nel momento in cui ha lasciato il cadavere o addirittura nel momento in cui ha rapito la donna;

- il fatto che il rapimento sia avvenuto di giorno, e che il cadavere sia stato ritrovato a diversi km di distanza dal luogo del rapimento, indica la possibilità che l'operazione sia stata effettuata da un gruppo addestrato e organizzato, essendo quasi impossibile, e troppo rischioso, compiere tutto ad opera di una sola persona.

Ma questa ipotesi non è formulata da nessuno. Perché una simile ipotesi, se fosse formulata ufficialmente, porterebbe la gente a farsi delle domande troppo scomode e terribili. Quale gruppo ha un potere del genere, di poter uccidere impunemente facendola in barba alle autorità? E se questo gruppo fosse dietro anche ad altri omicidi? Domande che nessuno si deve porre. E a rincintrullire completamente lo spettatore, oltre alle cazzate dei soliti criminologi e alla musica da film (come se stessimo assistendo all'ultimo film di Dario Argento, e non ad una storia vera), oltre agli scenari da grande spettacolo tipico della TV, alle facce tristemente assorte dei conduttori che in realtà non vedono l'ora che l'organizzazione dalla quale dipendono, consapevolmente o no, regali loro un altro omicidio possibilmente più efferato possibile, contribuiscono le pubblicità e le demenzialità che intervallano questi programmi; Chi l'ha visto, Quarto Grado, Blu Notte, intervallano demenzialità criminologiche ad anteprime del prossimo Grande Fratello, pubblicità di prodotti di soia transgenici, dentifrici rigorosamente al fluoro, e magari anche un mutuo, rigorosamente Compass, ovviamente. E lo spettatore, completamente rincoglionito, non si accorge che spesso i mandanti sono quelli che compaiono in TV e che il pubblico televisivo talvolta adora.

10. Conclusioni. In conclusione, il sistema della Rosa Rossa e degli omicidi rituali si regge in piedi non perché la maggior parte dei poliziotti, giornalisti, magistrati, avvocati, sia effettivamente nella Rosa Rossa. Ma si regge per l'ignoranza, la stupidità, la paura, i soldi. Ciascuna delle persone chiamate a vario titolo in un'indagine, spesso conosce solo una minima parte della verità e non ha la minima idea del sistema in cui è inserito: qualcuno si limita ad insabbiare un particolare, qualcuno a taroccare una perizia, qualcun altro a seguire una pista anziché un'altra, senza però avere un quadro complessivo della vicenda. L'ignoranza e la paura sono le due componenti più importanti del sistema in cui viviamo.

L'omicidio massonico. Lo schema generale dei vari delitti, scrive Paolo Franceschetti.

1) Premessa. Delitti mediatici e delitti non mediatici. Occupandomi da anni di delitti vari, mi sono reso conto che spesso sono rituali non solo gli omicidi mediatici, cioè quelli di cui si occupano quotidianamente i mass media, ma moltissimi omicidi secondari di cui non parla nessuno. La domanda che mi sono posto è: con quale criterio vengono scelti e selezionati i delitti che poi saranno dati in pasto ai media? Ogni delitto rituale ha un suo movente specifico di natura esoterica e umana, ha poi come è ovvio degli esecutori, e spesso dei mandanti ben precisi. Sono molte le madri che hanno ucciso i figli, ma nessun altro ha avuto il rilievo del delitto di Cogne; molti i delitti satanici, ma solo quelli delle Bestie di Satana sono stati presi in considerazione; molti i genitori uccisi dai figli, ma solo Erika e Omar e Pietro Maso hanno ammorbato le cronache per anni; molti i bambini che scompaiono, ma solo Yara Gambirasio e Sarah Scazzi di recente hanno avuto un tale interesse. Moltissime anche le donne uccise da mariti, fidanzati e amanti. Solo nel 2008 sono state 113 le vittime, e alcune sono state uccise con modalità (tagliate a pezzi, uccise a colpi di machete, ecc...) da meritare molta più attenzione rispetto ai delitti cui i media ci hanno abituato. Ad esempio pochi anni fa a Nereto venne ucciso a colpi di ascia un noto avvocato insieme a sua moglie, in casa sua; dal punto di vista oggettivo, per gli appassionati di gialli, sarebbe molto più interessante indagare su questo caso piuttosto che sorbirsi continuamente nuove rivelazioni di Michele Misseri, o ascoltare le ultime news sugli amori di Salvatore Parolisi. A Lodi, ad aprile del 2011, è stato ritrovato un cadavere a pezzi, completamente mutilato, ed era l’ennesimo di una lunga serie. Chi uccide queste persone in questo modo e perché? In Abruzzo, due anni fa circa, ricordo l’omicidio di una ragazza di nome Rosa De Rosa, trovata sulla riva di un lago. Nessun accenno di interesse da parte dei media. Nulla di nulla anche sul caso della donna trovata decapitata e priva degli organi interni di recente, a Roma. La domanda allora è: come vengono scelti i delitti che poi faranno spettacolo? E perché? Tra l’altro è facile notare che quando un evento è destinato a catturare l’interesse dei media per anni, giornali e TV ci si gettano a capofitto in anticipo, ancora prima di sapere se dietro ad esso ci sia un delitto o meno. Per Yara Gambirasio e Sarah Scazzi, ad esempio, i media si sono buttati a pesce sulla vicenda quando le due minorenni erano solo scomparse e in teoria avrebbero potuto anche tornare con un fidanzato dopo una fuga d’amore; per il delitto di Cogne, quando ancora la madre non era sospettata e si pensava ad un incidente, già tutti i media nazionali se ne occupavano; idem per il delitto di Novi Ligure e tutti gli altri. In altre parole, i media sanno già in anticipo quali sono gli eventi di cui dovranno occuparsi e tralasciano volutamente gli altri. La domanda è: con quali criteri vengono scelti i delitti? Osservando lo schema generale dei delitti mediatici se ne trae un quadro complessivo particolare e si può avere la risposta.

2) Lo schema generale. Gli assassini. Osservando i delitti mediatici di questi anni si può notare che lo schema è quello che stiamo per esporre. In primo luogo, gli assassini appartengono sempre a categorie uniche. Ovvero abbiamo:

- una madre che uccide il figlio (delitto di Cogne; saranno molte altre le madri ad uccidere i figli, ma nessuna arriverà agli onori della cronaca con tanta veemenza);

- una figlia che uccide i genitori (Erika);

- un figlio che uccide i genitori (Pietro Maso);

- i vicini di casa (delitto di Erba);

- una setta satanica (Bestie di Satana);

- uno zio e una cugina (Michele Misseri e Sabrina Misseri);

- compagni di unversità (delitto Meredith);

- un fidanzato (Alberto Stasi nel delitto di Garlasco);

- un marito (Salvatore Parolisi);

- poliziotti (delitti della Uno Bianca);

- un serial killer (Pacciani e i compagni di merende).

Non ricorre mai due volte la stessa tipologia di assassino, ancorché le cronache minori e locali siano piene di delitti satanici, di omicidi tra parenti, ecc. Anche i delitti commessi da appartenenti delle forze dell’ordine sono diversi; si va dal generale dei carabinieri Ganzer, condannato per traffico di droga, a vicende mai definite, come quella di Milica Cupic, la cui figlioletta di sei anni è stata uccisa a botte dal marito, generale dell’esercito. Eppure nulla di nulla compare nelle cronache (la vicenda di Milica Cupic è stata oggetto di una interrogazione parlamentare e solo questa settimana ha deciso di occuparsene il settimanale Cronaca Vera, uno dei pochi giornali ad occuparsi anche di delitti secondari). Un mio amico ex poliziotto mi ha raccontato di una volta in cui un’intera caserma della polizia fece irruzione in un’altra caserma, dove stanziavano decine di poliziotti dediti a traffici di droga e altri delitti; i poliziotti furono tutti arrestati ma non se ne seppe più nulla e sui giornali non trapelò alcuna notizia. Occasionalmente arrivano alla cronaca anche delitti come quello di Via Poma, o di Emanuela Orlandi, o delitti clamorosi come la strage in Vaticano del 1993; qui però l’importanza dell’evento è data più che altro dalla valenza politica dell’evento e infatti in questi delitti non esiste un colpevole definito fin dall’inizio. Al contrario, nei delitti che abbiamo elencato c’è un colpevole definito sin dalle prime battute dell’inchiesta, e la vicenda segue sempre la stessa sequenza: iniziale incertezza; individuazione del colpevole; spesso il colpevole confessa ma poi ritratta; dubbi, contraddizioni, colpi di scena; sentenza finale.

3) Il perché della scelta. La valenza sociologica dei delitti. Il messaggio positivo. A questo punto, riflettendo, si può capire il criterio con cui vengono scelti i delitti. Dal momento che il bombardamento mediatico è talmente eccessivo che qualsiasi cittadino non può sfuggire al recepimento della notizia, tali delitti servono per inoculare inconsciamente la paura. La TV è infatti un enorme mezzo di manipolazione delle masse, perché manipola la mente. Anche le persone più evolute, infatti, sotto sotto pensano che i personaggi famosi sono quelli televisivi; e se una cosa viene veicolata in TV è senz’altro un evento di rilievo. Va da sé che, al contrario, le notizie che non vengono passate in TV non sono importanti; ma la mente non si accorge di queste manipolazioni. Il rilievo dato a queste notizie si instilla nel subconscio, e qui nasce la paura. Paura del vicino di casa, paura di mandare i figli all’università, paura dei parenti. Anche tra le persone non interessati a delitti, sangue e gialli vari, circolano comunque battute standard sui vicini di Erba, quando il coinquilino del pianerottolo fa troppo casino, o sul delitto di Cogne, se il figlio rompe troppo le scatole. La paura è sottile, quasi impercettibile; ma essa si aggiunge a tutte le altre paure che, grazie al sistema in cui viviamo, ci vengono inculcate fin da piccoli; paura di perdere il posto di lavoro, paura della tasse, dei controlli della finanza, paura della malattia, ecc. Mi resi conto di quanto sia potente il condizionamento mediatico a seguito di un evento capitatomi questa primavera; in quel periodo un lettore mi telefonava dandomi in anticipo notizia che poi si sarebbero rivelate esatte (come l’uccisione di una persona di nome Angelo, cosa che poi successe due giorni dopo, quando fu ucciso con un colpo di fucile al cuore un certo Angelo Lolli; ma anche altre e più precise furono le notizie che costui mi anticipò). Dopo avermi dato alcune notizie esatte mi disse che il giovedì successivo avrebbero ucciso anche a me; quando gli chiesi come e chi, mi disse “saranno degli extracomunitari, che fingeranno una lite e ti accoltelleranno”. La notte successiva – mi pare fosse il martedì – i miei vicini di casa (africani) alle tre di notte facevano un casino inimmaginabile recitando delle formule strane in modo rituale, tanto che quella notte Stefania non riuscì a dormire. La mattina andai a chiedere ad altre persone del vicinato chi erano e cosa facessero e rimasi abbastanza stupito di scoprire che la mia vicina si chiama proprio Rose (sottolineo che nello stabile dove abito ci sono solo due appartamenti, il mio e il loro). Raccontando la curiosa coincidenza ai miei amici, il primo commento di tutti fu: “Beh, meglio che giovedì dormi da un’altra parte; ricordati il caso dei coniugi di Erba”. In questa occasione, come ho detto, ho preso consapevolezza della potenza della manipolazione mediatica, perché credo che senza il precedente della strage di Erba nessuno si sarebbe preoccupato di questa cosa, e io probabilmente avrei dormito a casa mia in tutta tranquillità, mentre invece scelsi di andare a dormire da Solange per essere più tranquillo, pur sapendo che la telefonata era una bufala architettata solo per impressionarmi (essendo già la terza volta che mi facevano uno scherzo simile). Inutile aggiungere che mi guardai bene dall’andare a protestare dai vicini per il casino, e ho optato per dei più pratici tappi alle orecchie. Questi omicidi, insomma, hanno varie valenze e vari moventi. Ma la ragione per cui la TV è infestata ad ogni ora del giorno con i particolari più idioti e inutili di alcuni delitti, è che veicolano nell’inconscio la paura.

4) La valenza sociologica. Il messaggio negativo. A questo obiettivo (veicolare la paura) se ne aggiunge un altro. Risulta abbastanza evidente come la tipologia dell’omicida sia sempre quella di un analfabeta, grezzo e ignorante, salvo i casi in cui vengano coinvolte persone in giovane età e senza una collocazione lavorativa particolare. Infatti:

Pacciani era un contadino ignorante e i suoi compagni di merende erano pure peggio;

Anna Maria Franzoni una casalinga;

Rosa Bazzi e Olindo Romano sono rispettivamente una casalinga e un netturbino;

Michele Misseri non riesce a spiccicare due parole in croce;

Salvatore Parolisi è un sottufficiale abbastanza ignorante, a giudicare dal modo di parlare;

i ragazzi coinvolti nella vicenda delle Bestie di Satana erano rockettari senza arte né parte, coi capelli lunghi e ai margini della società (così ce li hanno presentati).

Le persone un po’ più istruite, quindi Alberto Stasi, Pietro Maso, ecc., sono tutti privi di un lavoro e in età scolare. In altre parole, tra gli omicidi non compaiono architetti, ingegneri, avvocati, magistrati, professori universitari, medici, ecc. Eppure di delitti commessi dai cosiddetti “colletti bianchi” ne abbiamo diversi; c’è il caso del professore universitario di Pisa che ha ucciso la moglie (professoressa universitaria) a martellate, ha confessato, non ha fatto un giorno di galera, e per giunta, quando è finito il processo che l’ha assolto, ha chiesto anche la pensione come vedovo (per fortuna il parlamento, ad agosto, ha approvato la legge 125 2011 che nega la pensione di reversibilità al coniuge omicida). Non un cenno a questo caso su giornali e TV, e il professore in questione continua ad insegnare all’università. Così come nessun cenno hanno fatto i TG e i giornali all’emanazione di questa legge, forse per il timore di dover spiegare, poi, che oltre ai delitti di Sarah Scazzi e Yara Gambirasio, ci sono in Italia situazioni altrettanto gravi e che meriterebbero molta più attenzione. Ci fu a suo tempo il caso del PM Pier Luigi Vigna, indagato per essere tra gli esecutori dei delitti del Mostro di Firenze, ma il cui individuamento portò allo smantellamento della SAM, e alla promozione del procuratore a capo della DIA, la direzione investigativa antimafia. Ma per i media queste categoria di persone non commettono omicidi. Chi uccide sono solo casalinghe, operai, disoccupati, e al massimo qualche studente, preferibilmente con la passione dell’hard rock e meglio ancora se iscritto a Forza Nuova o a qualche gruppo di estrema destra e/o sinistra. Come abbiamo detto, infatti, la manipolazione mentale effettuata dai media agisce anche in negativo, nel senso che non ci fa percepire ciò che la TV e i giornali non dicono. Quindi non abbiamo paura dei magistrati, degli avvocati, dei medici, ecc. Perché quelli – è il messaggio impresso nel subconscio – non delinquono. Nella mia attività quotidiana mi capita spesso di sentir dire “ma come fai a dire questo di Tizio o Caio? E’ un professionista stimato...”, come se professionista fosse sinonimo di persona perbene. All’opera di manipolazione mentale effettuata dai media e dai film, contribuiscono anche il cinema e la fiction in generale, ove regolarmente in telefilm come RIS, La Squadra, Carabinieri, ecc... vengono presentate forze dell’ordine eccezionali ed efficientissime, avvocati onesti, medici quasi sempre per bene, ecc. Se fino agli anni ’80 il cinema era ancora, talvolta, occasione di denuncia (vedi ad esempio i film di Pasolini, o il famoso “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, o anche “Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica”), attualmente il cinema si è rammollito attorno stereotipi convenzionali e, anzi, in alcuni casi presenta delle versioni dei fatti totalmente edulcorate e depistanti (scandalosi ad esempio, sono i film prodotti dalla Taodue, come quelli sulla Uno Bianca, su Riina, ecc., dove la realtà è sempre artefatta ed edulcorata). Questa immensa opera di manipolazione di massa ha dei risultati a dir poco comici. Qualche giorno fa in una nota trasmissione TV venivano ipotizzate nuove piste su una serie di delitti di diversi anni fa e uno degli esperti era proprio uno degli assassini; sempre recentemente, a proposito del delitto della donna decapitata a Roma, la Rai ha intervistato in qualità di esperto una delle persone che è al vertice delle sette sataniche italiane ed europee, considerato una delle persone più pericolose in Italia, il quale ovviamente ha escluso la pista satanica, dicendo che il satanismo è un fenomeno marginale e quasi inesistente in Italia. Senza arrivare al paradosso di un giudice Vigna che indaga sui delitti commessi da lui stesso e dai suoi compagni, o dei fratelli Savi che intervengono sulla scena degli omicidi commessi da loro stessi poche ore prima, il vero colpo di genio è quello di far intervenire gli assassini in qualità di esperti e consulenti; perché, dal momento che nessun romanziere è mai arrivato a tanto, e in TV una realtà del genere non è mai stata ipotizzata, la mente di chi guarda la TV non è pronta ad una cosa così grave.

5) Conclusioni sul potere dei mass media. Normalmente, infatti, quando dico queste cose, l’ascoltatore medio trasale e pensa che sia una realtà troppo assurda per poter essere vera. Inaudito pensare che i colpevoli di certi delitti siano i politici, i giornalisti, i magistrati famosi. Inaudito, sì. A rifletterci bene, però, non ci rendiamo conto di una cosa. Molti di noi sono pronti ad accettare che l’11 settembre se lo siano confezionato gli Americani da soli per poi avere il pretesto di scatenare diverse guerre inutili. In altre parole, sappiamo che alcune persone ai posti di comando hanno dapprima ucciso deliberatamente migliaia di persone, per poi ucciderne altri milioni, senza alcun motivo reale. Sappiamo che le stragi di Stato, da Portella Delle Ginestre ad Ustica, passando per la strage di Bologna e altre, sono state tutte preparate, commissionate ed eseguite dai nostri servizi segreti, e quindi da uomini dello Stato, che poi indagavano sui delitti da loro stessi commessi. Molti di coloro che hanno commissionato quei delitti, da Andreotti a Cossiga, impunemente hanno poi governato l’Italia, sono andati ai funerali delle vittime uccise per loro volontà, hanno rimosso poliziotti e magistrati che indagavano troppo seriamente. E questo lo sappiamo bene oramai. Sappiamo che degli ex avvocati di mafia siedono in parlamento e fanno leggi sulla quella stessa mafia che loro hanno difeso in precedenza per decenni. Pur sapendo tutto questo, ci stupiamo se lo Stato decide di uccidere Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Carmela Rea, o le vittime di Firenze, per poi indagare su di loro e non scoprire nulla. Eppure dovrebbe in realtà essere meno grave il delitto di una singola persona rispetto allo sterminio sistematico di intere popolazioni. Ciò si deve al lavaggio del cervello cui siamo sottoposti, che ci fa accettare di buon grado una guerra ma fa si che non siamo disposti ad accettare la verità sui delitti rituali. Come diceva Pasolini: “Niente di più feroce della banalissima televisione”. Umberto Eco scrive nel suo “Il nome della rosa”: “I libri si parlano tra loro, e una vera indagine poliziesca deve provare che i colpevoli siamo noi”. Quello che vuole dire Eco, a mio parere, è che i colpevoli sono loro, gli esperti TV, gli uomini famosi, i romanzieri. Ma questo non verrà mai provato. Perché la vita che viviamo non è un romanzo ma la realtà.

Massoneria e Rosa Rossa dietro l'omicidio di Marco Pantani: ipotesi shock nel libro di Franceschetti, scrive “L’Infiltrato”. Cosa c’è realmente dietro i delitti più importanti della storia giudiziaria italiana e internazionale? Dal mostro di Firenze alle Bestie di Satana per passare da Erba, Cogne e Garlasco. Fino a quello di cui si parla in questi giorni: l'omicidio, perchè di omicidio si tratta, di Marco Pantani. Paolo Franceschetti in questo libro offre un quadro della società in cui viviamo, molto diverso da quello che ci appare attraverso le fonti ufficiali di informazione. In particolare si parla di come i media condizionino e falsifichino vicende giudiziarie importanti, di omicidi eccellenti, da Pantani a Rino Gaetano, o Pier Paolo Pasolini, per toccare anche il caso Moro e altri casi importanti della storia Italiana, al fine di delineare un quadro sconvolgente della realtà effettiva, di cui non si parla. Tra le pagine di questo saggio si sviluppa un’analisi impeccabile e reale in materia di massoneria, Chiesa cattolica, e sistema in cui viviamo. Una particolare attenzione è dedicata alla potente organizzazione magica fondata ufficialmente da A. E. Waite: L’Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’Oro, vero responsabile dei casi  più illustri della nostra storia.  Si dipana così una matassa intricata ma affascinante, che ci porta a conoscere una realtà che pare fantascientifica ai più, ma purtroppo molto più reale e concreta di quella, falsa, edulcorata e manipolatoria, che ci offrono i giornali, i libri, la Tv e la cultura ufficiale.  L’autore Paolo Franceschetti, avvocato, docente di materie giuridiche, ha pubblicato libri e articoli in materia giuridica (diritto civile, diritto penale e diritto amministrativo), per poi specializzarsi come legale nel settore dei delitti esoterici e approfondire l’influenza della massoneria e della Chiesa Cattolica nella storia contemporanea e passata. Occupatosi per ragioni personali dei delitti del Mostro di Firenze, per poi divenire legale di Paolo Leoni, indicato dai media come il capo delle cosiddette Bestie di Satana, insieme a costui (e grazie a costui) ha intrapreso uno studio approfondito delle dinamiche pratiche, sociali, ed esoteriche di alcuni delitti di matrice massonica o cattolica.

Il libro è Massoneria e Ordine della Rosa Rossa: il sistema di controllo in cui viviamo e le connessioni con il Vaticano.

E non finisce qui. Massoni nell’inchiesta Mose? Interrogazione M5s su Galan. Richiesta di chiarimenti ad Alfano: «Chi sono i “fratelli” magistrati e poliziotti» Ieri la moglie ha visitato in carcere a Opera l’ex ministro e governatore veneto, scrive Daniele Ferrazza su “Il Mattino di Padova”. Un abbraccio, un lungo silenzio, molte domande sulla piccola Margherita, la figlia di sette anni per la quale papà «è in viaggio per lavoro». Sandra Persegato, la moglie di Giancarlo Galan, ha incontrato in carcere il marito, detenuto nel carcere di Opera, alle porte di Milano. Si è trattato del primo incontro tra Galan e la moglie dalla sera del suo traumatico arresto, il 22 luglio scorso, a poche ore dall’autorizzazione votata dalla Camera. Sandra Persegato si è recata a Opera accompagnata dalla cognata, Valentina Galan: i magistrati infatti hanno autorizzato alle visite, oltre alla moglie, solo la sorella e l’anziana madre dell’ex ministro. Per il politico, dopo lo stop del Tribunale del Riesame alla scarcerazione, si tratta di attendere l’esito del ricorso in Cassazione che i suoi legali stanno predisponendo. Ma appare evidente che per l’ex ministro ed ex governatore, che si muove in stampelle in una stanza della clinica del penitenziario di Opera, le porte del carcere si riapriranno non prima del prossimo ottobre. Una lunga carcerazione preventiva, dunque, che rischia di mettere a dura prova lo stato d’animo dell’ex ministro. L’incontro tra Galan e la moglie si trova in carcere, è durato poco più di un’ora. Saltano sul caso di Galan iscritto alla massoneria, invece, i deputati veneti del Movimento 5 stelle Arianna Spessotto, Emanuele Cozzolino, Francesca Businarolo, Marco Brugnerotto, Federico D’Incà, Diego De Lorenzis, Marco Da Villa e Silvia Benedetti. In una interrogazione rivolta al ministro dell’Interno Angelino Alfano, i parlamentari grillini sottolineano come l’appartenza di Galan alla loggia Florence Nightingale di Padova, sia circostanza alquanto «curiosa»: «l'inchiesta penale veneziana sul Mose sta delineando un quadro fosco e preoccupante di intrecci tra funzionari pubblici corrotti e concussi, politici e imprese corruttrici, uomini di assoluto rilievo dei servizi segreti e delle forze di polizia, quasi una sorta di polizia parallela, infedele che ostacolava le indagini dei pubblici ministeri veneziani; non si può escludere l'esistenza di una rete pervasiva e devastante operante in Veneto, per la copertura e il depistaggio sulle gravi violazioni penali seriali condotte per l’affaire Mose; l'appartenenza del Galan alla massoneria non può non destare molta preoccupazione in relazione all'eventuale appartenenza alle logge di funzionari pubblici e in particolare appartenenti alle Forze armate, Guardia di finanza e Arma dei carabinieri, con funzioni di polizia e di polizia giudiziaria, e inoltre alla magistratura; in effetti l'affiliazione alla massoneria di un magistrato o di ufficiale di polizia giudiziaria preclude di per sé l'imparzialità (secondo la Cassazione, «essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l'unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi ad interessi individuali nell'emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia»). I deputati del Movimento 5 stelle, pertanto, chiedono al ministro «se non ritenga opportuno acquisire elementi presso le prefetture per verificare, presso gli appositi elenchi, se risulti la presenza di affiliati alle logge massoniche di magistrati e appartenenti alle Forze armate con compiti di polizia». I grillini sollecitano «iniziative disciplinari urgenti, ove ne sussistano i presupposti, nei confronti di magistrati e appartenenti alle Forze armate per i quali si verifichi l'eventuale sovrapposizione di appartenenza a logge massoniche e di sottoposizione ad avviso di garanzia per reati attinenti allo scandalo Mose».

Governatore e massone. «Nessun favore ai fratelli. Ora lo giudichino i veneti». Parla con Giovanni Viafora su “Il Corriere della Serail Gran Maestro Stefano Bisi, 56 anni, toscano, eletto al vertice della fratellanza lo scorso marzo: «Lui si è autosospeso». Giancarlo Galan è stato per 15 anni un «governatore- massone» (ma poi, se vogliamo, anche un «ministro-massone). Da una parte governatore del Veneto (e membro del governo), dall’altra «libero muratore », affiliato a una delle logge padovane del Grande Oriente di Italia (Goi), l’ordine iniziatico più antico e più importante del Paese. Solo lo scorso 6 giugno, proprio all’indomani degli arresti del Mose, ha chiesto ai suoi fratelli di «entrare in sonno», cioè di allontanarsi dall‘«obbedienza ». Oggi, alla luce di quanto si è appreso, gli interrogativi e i dubbi ovviamente non mancano. Abbiamo voluto interpellare direttamente la più alta autorità del Goi, il Gran maestro Stefano Bisi, 56 anni, toscano, eletto al vertice della fratellanza lo scorso marzo. Che ha concesso di farsi intervistare.

Galan è stato governatore e allo stesso tempo massone: un cittadino veneto, oggi, cosa dovrebbe pensare?

«Galan doveva fare esclusivamente il bene della sua Regione. Se poi l’abbia fatto o meno questo lo devono giudicare i veneti, non il Gran maestro».

La prima cosa che si può ritenere, tuttavia, è che nel suo ruolo politico l’ex governatore potesse favorire uno dei suoi «fratelli». Dalle nomine in sanità agli appalti...

«Favorire l’uno o l’altro vorrebbe dire violare le leggi e il massone quando viene ammesso promette fedeltà alla Costituzione. Deve sempre essere premiato colui che ha le caratteristiche migliori, che sia un primario o un ingegnere. Non dev’essere favorito quello della tua stessa appartenenza; ma questo discorso dovrebbe avvenire per tutte le associazioni».

A scanso di equivoci, non sarebbe meglio che un politico rendesse nota la sua affiliazione alla massoneria?

«In Toscana c’è già una legge che va in questo senso. Ma noi riteniamo che sia una legge liberticida ».

Si dice che la massoneria sia in grado di gestire ancora ampie aree di potere. È così?

«Cosa vuol dire gestire il potere? Quando un fratello entra non gli si chiede se sia un parlamentare o un ministro; ma gli si domanda solo di essere libero e di buon costume, di avere sensibilità. E deve dichiarare di credere ad un essere supremo».

Ma quindi cosa significa essere massoni?

«Prima di tutto ascoltare gli altri, nelle nostre logge si impara a parlare uno alla volta. Può sembrare una banalità, ma nel giorno d’oggi vedere un gruppo di persone che fanno i lavori più disparati, dal professore all’imbianchino, trovarsi a parlare uno per volta è una cosa rivoluzionaria. La massoneria è un metodo».

Ma di cosa parlate?

«Gli argomenti sono i più disparati, ma soprattutto si studiano i simboli. La finalità è quella di lavorare per la crescita interiore e per il bene dell’umanità».

Ma perché gli incontri sono segreti?

«Alle riunioni rituali partecipano solo i fratelli massoni, ma come fa qualsiasi associazione di uomini. Per altro, se un profano partecipasse a queste riunioni probabilmente non capirebbe, gli sembrerebbe di essere in un mondo non suo. Negli ultimi tempi, comunque, abbiamo deciso di fare incontri anche pubblici: ne ricordo uno importante per esempio a Padova nel 2011, eravamo al caffè Pedrocchi (in prima fila quella volta c’era l’ex rettore del Bo Vincenzo Milanesi, ndr)».

Anche Galan partecipava ai rituali?

«Sono obbligatori, la nostra fratellanza si basa sui riti». E cosa si fa durante i rituali? «Bisogna indossare i guanti bianchi, ma poi è difficile spiegarlo. Un attore potrebbe mimare un rituale perfetto, ma senza che ci sia comprensione il suo gesto non significa nulla».

L’ex governatore aveva un grado particolare all’interno dell’«obbedienza»?

«Da noi ci sono tre gradi di appartenenza: apprendista, compagno d’arte e maestro. Vista l’anzianità di affiliazione Galan sarà stato maestro. Ma di maestri ce ne sono 14mila su 22mila fratelli...».

In Veneto quanti siete?

«Ci sono 18 logge, 5 solo a Padova e due ad Abano. In tutto circa 500 fratelli».

E ci sono altri politici?

«Non chiedo a un mio fratello a quale partito appartiene».

Cosa succederà ora a Galan all’interno della massoneria?

«Lui ha deciso di entrare in sonno, cioè di allontanarsi. Il suo caso verrà esaminato, ma la questione è già risolta. In un certo senso si è già autosospeso».

La Massoneria del terzo millennio. Archiviato il ventennio berlusconiano, gli affiliati alle obbedienze italiane cercano nuovi referenti politici. Simboli esoterici e vecchi riti rimangono, ma ci si apre al web, con Twitter e Facebook, guardando con speranza a Papa Francesco affinché faccia cadere la scomunica sancita nel 1738 da Clemente XII. Ma a fronte del tentato rinnovamento, restano le ombre sollevate dalle inchieste della magistratura sul peso avuto dalle logge in alcuni passaggi cruciali della storia recente d'Italia. Macchie talmente pesanti che stanno spingendo a rimuovere la memoria del passato massone di un'icona come Giuseppe Garibaldi. Una inchiesta di Alberto Custadero su “La Repubblica”.

La svolta social delle Obbedienze. Anche la Massoneria diventa social. I Fratelli han deciso di uscire dal segreto delle logge e presentarsi nel mondo condiviso del Web. È il caso, ad esempio, del Grand'Oriente d'Italia, principale "obbedienza" con ventimila affiliati (riferimento al mondo inglese, porte delle logge aperte per soli uomini). L'Istituzione ha un sito ufficiale online. Ed è presente su Twitter con l'account @grandeoriente. Mentre il suo gran maestro, Stefano Bisi, twitta in prima persona firmandosi @bisisiena. Anche i "cugini" della Gran Loggia d'Italia degli Alam (riferimento al mondo francese, 520 Officine, 10mila iniziati sia uomini che donne), non sono meno social. Il sito è granloggia.it, hanno da un anno una omonima pagina Facebook che ha incassato un migliaio di "mi piace" e 26 visite (non molte, ma sono solo all'inizio). Mentre il gran maestro uscente, il massonologo e scrittore Luigi Pruneti, è presente personalmente su Facebook: la sua foto campeggia su uno sfondo (non casuale) di uno dei 22 arcani dei Tarocchi: il Sole, simbolo della luminosità. Ma anche della massoneria. La Gran Loggia è presente anche su Twitter, con un migliaio di follower. Oggi molti profani che vogliono essere iniziati, contattano questa "obbedienza" attraverso il sito, inviando alla mail gldi@granloggia.it la richiesta di essere invitati in loggia. Una autentica rivoluzione, rispetto ai tradizionali riti di "cooptazione" riservatissimi, fatti quasi di nascosto. Ma sotto le "volte stellate" delle logge italiane, si sta vivendo un momento di gran fermento politico e sociale. I temi in gioco, dal punto di vista massonico, sono molti. E delicati. Dal riposizionamento politico dopo la fine del ventennio berlusconiano all'arrivo al soglio pontificio di un papa gesuita e "rivoluzionario" che fa sperare i massoni che venga tolto il divieto secolare, per loro, di ricevere la comunione. Dall'aumento dei giovani che chiedono di entrare in loggia alla riflessione da parte delle "obbedienze" di matrice anglosassone se sia ancora attuale, oggi, in una società che si tinge sempre più di rosa, l'esclusione delle donne. 

Alla ricerca di un referente politico. All'inizio del 1900 i massoni in Parlamento erano cento e prendevano pubblicamente posizione sui temi politici, come avvenne, nel 1908, sull'ora di religione obbligatoria nelle scuole. Dopo le persecuzioni fasciste, nel Dopoguerra, tuttavia, la massoneria si mosse a livello politico in modo più riservato. Se non segreto. Il caso più clamoroso di condizionamento occulto delle istituzioni da parte dei fratelli fu la loggia di Licio Gelli, "propaganda due". Gelli di recente si è attribuito addirittura il merito dell'elezione del presidente della Repubblica Giovanni Leone e la stesura del famoso Piano Rinascita. In seguito allo scandalo della P2, e passato lo tsunami di Tangentopoli, nel '94 il riferimento per la massoneria divenne Forza Italia (tra l'altro con lo stesso Berlusconi iscritto alla P2; con Fabrizio Cicchitto che aveva presentato la domanda per iscriversi alla P2 come dimostra il documento che abbiamo ritrovato negli archivi della Commissione Anselmi; e con il plenipotenziario di Berlusconi, Denis Verdini, che, però, ha sempre smentito la sua appartenenza ai "Figli della Vedova"). Forza Italia era infatti l'unico partito che, allora, non vietava l'iscrizione ai fratelli. Qualche fratello, a onor del vero, figurava anche tre le file del Carroccio: nel 1994 a Palazzo Madama erano stati eletti tre senatori leghisti col grembiulino, e una senatrice "sorella". Bossi, poi, quando nei comizi imprecava contro i massoni, si girava per incrociare lo sguardo del parlamentare Matteo Brigandì, suo avvocato personale. E fratello del Goi.

Gelli stronca Renzi. Ma oggi, concluso il ventennio del berlusconismo, e in pieno terremoto Renzi-Grillo, tutto il mondo dei partiti è cambiato. Non è facile, per la massoneria, trovare una nuova collocazione nel momento in cui l'attuale scenario politico è in pieno assestamento. Dopo il governo dei tecnici di Monti accusato di "collusione" coi poteri forti, con le banche, e anche con la massoneria, Renzi, con una squadra di giovanissimi, sembra aver rotto gli schemi di un potere vecchio, ma con consolidati rapporti con le logge. Il dubbio che il premier abbia un padre massone, del resto, è troppo poco per giustificare un link col mondo dei grembiulini. Su questo fronte è lo stesso Gelli a stroncarlo: "Matteo Renzi - ha detto il Venerabile in una recente intervista - non è un massone, ma solo un bambinone". Né può essere un riferimento, per i fratelli (perché difficilmente governabile dallo stesso Beppe Grillo), il M5S, nonostante le insistenti voci - smentite dal diretto interessato - dell'appartenenza alla massoneria di uno dei due leader del Movimento, Gianroberto Casaleggio. E così, in attesa che il potere nuovo di Renzi prenda forma, i massoni vagano alla ricerca di nuovi interlocutori. "Noi siamo molto attenti ai partiti che vietano ai massoni l'iscrizione - svela uno dei maestri di grado 33 più influenti della Gran Loggia d'Italia, Luigi Danesin - è vero che a sinistra, senza tanto clamore, hanno recentemente tolto l'incompatibilità con l'essere massoni. Di certo, però, i partiti del centrodestra restano i più amici. Ma i tempi sono cambiati. In Parlamento non ci appoggiamo tanto a nostri 'fratelli', quanto piuttosto a deputati o senatori profani 'disponibili'. Con loro, cerchiamo il dialogo".

La battuta di Andreotti sui presidenti Usa. Cosa sia stata la massoneria nella storia d'Italia lo spiegava bene, a modo suo, Andreotti: "Non ho mai capito bene cosa sia - chiosava - ma quando sono andato in America, ho appreso che solo due presidenti non erano massoni, Nixon e Kennedy". Nella storia del nostro Paese, ovunque ci sia stato un intrigo, un mistero, uno scandalo, spesso e volentieri spuntava lo zampino di qualche fratello. Fa strano perciò che non si sia intravisto neppure un grembiulino nelle numerose inchieste giudiziarie che hanno scandito le cronache della fine della Seconda Repubblica, dai rimborsi spese dei consiglieri regionali al caso "Malagrotta-monnezza a Roma", dall'Ilva di Taranto all'Expo di Milano, dal Monte dei Paschi di Siena alla Carige di Genova, dal Mose di Venezia alla vicenda Scajola tra Beirut e Montecarlo. Che i massoni non contino più niente? O che siano diventati buoni? Pare più probabile, invece, che le "obbedienze" nostrane abbiano deciso di soprassedere sul fronte interno (magmatico, in evoluzione, liquido), per dedicarsi alla politica estera, avendo intuito che il potere politico vero, oggi, è gestito non più a Roma, ma a Bruxelles. "Attualmente - conferma Luigi Danesin - sono in corso 'lavori' massonici a livello internazionale per tentare di costituire un Supremo consiglio europeo. L'obiettivo è istituire un osservatorio permanente al Consiglio d'Europa, senza diritto di voto o di parola. Ma con la possibilità di accedere in diretta ai lavori europarlamentari. E di vigilare sugli interessi della fratellanza europea". Che dopo i francs maçons, stia per nascere sotto le volte stellate l'euromassone?

La Chiesa e la scomunica. Ad appena sei anni dalla fondazione della prima loggia (detta "Degli inglesi") su suolo italico, a Firenze, nel 1731, la Chiesa cattolica sparò la prima scomunica contro i massoni. Clemente XII, nella sua lettera apostolica del 24 aprile 1738, denunciò i "gravissimi danni che tali conventicole" arrecavano "alla salute spirituale delle anime". Condannò e proibì le "associazioni dei Liberi Muratori o des Francs Maçons". E ordinò che "gli Inquisitori dell'eretica malvagità facessero inquisizione contro quei sospetti di eresia". Il primo a farne le spese fu uno dei fondatori della loggia fiorentina, Tommaso Crudeli: torturato dal Sant'Uffizio di Firenze, morì per i postumi del carcere. E per questo è considerato il primo martire della massoneria universale. Ancora oggi, a 283 anni dalla bolla di Clemente XII, la disputa tra fede rivelata (dei cattolici, che credono nei dogmi) e fede ragionata (dei massoni, che credono in un principio trascendente senza peraltro specificarlo) arroventa i rapporti tra massoni e prelati. E la Chiesa non ha cambiato idea. Anzi, ritiene che "il clima di segretezza" della massoneria comporti per "gli iscritti il rischio di divenire strumento di strategie ad essi ignote".

La delusione del 1983. Nel 1983, con l'approvazione del "nuovo Codice di Diritto Canonico", i massoni sperarono che la Chiesa avesse tolto quella antica scomunica. Ma si illusero. Fu solo un equivoco, nulla più. Ecco cosa successe: quel nuovo codice, al canone 1374, prevedeva la punizione per "chi dà il nome ad una associazione che complotta contro la Chiesa". Il fatto che non fosse menzionata direttamente la massoneria, fu interpretato sotto le volte stellate come un'abolizione della scomunica. Ma i massoni si sbagliarono. Arrivò lo stesso anno una precisazione della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede (allora presieduta dal cardinal Ratzinger) a fugare ogni dubbio: il giudizio della Chiesa sulle associazioni massoniche era rimasto immutato. E, dunque, "l'iscrizione alle Obbedienze proibita sotto pena di esclusione dai sacramenti". Ma da sempre i massoni, soprattutto quelli cattolici (la maggioranza, in Italia) tentano di convincere la Chiesa a ritirare questo anatema. Tentativi di confronto tra fratelli e monsignori ce ne sono stati, seppure senza grandi risultati.

La comunione dell'affiliato. Ma se al vertice scomunicano, a livello periferico sacerdoti e prelati, va detto, non sempre ubbidiscono agli ordini superiori. E a volte capita che qualche religioso indossi i paramenti profani della massoneria. I casi di affiliazione di uomini della Chiesa in loggia sono stati confermati dallo stesso Luigi Danesin, per sei anni gran maestro della Gran Loggia d'Italia. "Nelle nostre file - ha confessato - abbiamo qualche sacerdote e qualche prelato. Non molti, ma ci sono". "Qualche anno fa - ha aggiunto - abbiamo conferito a un sacerdote, padre Rosario Esposito, il titolo di maestro libero muratore. Un frate, inoltre, partecipò ai nostri lavori il giorno di Natale indossando sopra il saio le insegne di maestro. Il mio parroco, infine, sa che sono massone, eppure io mi accosto alla comunione". Analoga la posizione del Grand'Oriente. "Siamo eretici nel campo delle idee - ammette il gran maestro Stefano Bisi - in fondo siamo dei rivoluzionari. Però con la chiesa cattolica i rapporti nel corso degli anni sono cambiati a livello periferico. L'arciprete di Piombino, ad esempio, tempo fa ad un convegno si alzò in piedi e, pubblicamente, ci disse: 'Se vi sentite in pace con la coscienza, se venite in chiesa e volete ricevere la comunione, io non ho nulla in contrario'". "Il Goi - rivela ancora Bisi - spera oggi in papa Francesco. S'è dimostrato in certe occasioni come uomo del dubbio, come quando ha detto 'chi sono io per giudicare un gay?'. È stata una risposta rivoluzionaria, quella. Ebbene, visto che ha dimostrato questo tipo di apertura, perché non dialogare anche con la massoneria?".

Ma trame, intrighi e cospirazioni continuano. Massoneria, trame, intrighi, cospirazioni. La storia della Repubblica è farcita di gialli nei quali i massoni sono sempre presenti, quasi a fare da collante tra Stato, mafie, eversione, terrorismo, e servizi segreti deviati o stranieri. E' il caso, ad esempio, del processo in corso di dibattimento a Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia. Il gup Piergiorgio Morosini, nel suo decreto che dispone il giudizio contro gli imputati (tra gli altri i mafiosi Bagarella, Brusca e Riina, il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, l'ex politico di Forza Italia Marcello Dell'Utri, l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, l'ex capo dei Ros Mario Mori), ne parla in modo esplicito.

Trattativa Stato-mafia e P2. E non lesina particolari e inquietanti dettagli. Siamo nei primi anni Novanta, anni della cosiddetta (presunta) trattativa tra Stato e mafia per far cessare omicidi di personalità politiche della allora Dc, come Salvo Lima, e le stragi mafiose a colpi di tritolo. "Il primo obiettivo, più ambizioso e di 'lungo termine' di quell'associazione  -  annota il gup Morosini nel suo decreto - consisterebbe nel convergere verso un 'sistema criminale' più ampio capace di includere in sé altre consorterie di diversa estrazione (massoneria 'deviata'-P2, frange della destra eversiva, gruppi indipendentisti, mafia calabrese) interessate a sfruttare la crisi politico-istituzionale italiana e ad acuirla con azioni destabilizzanti ('strategia della tensione') in vista dei nuovi equilibri". Nonostante il caso P2 sia del 1981, ancora oggi si parla di quella loggia - e di quelle presunte deviazioni istituzionali - in un processo tutt'ora in corso sui misteri d'Italia.

Dalle carte Moro spunta un dossier sul gran maestro di Piazza del Gesù. Nell'archivio delle carte di Aldo Moro presso l'Archivio centrale dello Stato di Roma, è conservato un appunto riservato del Viminale che dimostra due cose. La prima, l'attenzione che lo statista ucciso dalle Br aveva nel tenere sotto osservazione la massoneria. La seconda, che il ministero dell'Interno vigilava con estrema attenzione le obbedienze. Al punto da redigere un documentato dossier nei confronti del più noto dei gran maestri della massoneria italiana, Giovanni Ghinazzi. Il questore di Bologna ne fa un ritratto inedito, che noi pubblichiamo integrale, dal quale emerge una personalità forse poco conosciuta di quello che è stato per anni il riferimento della massoneria francese al punto che ancora oggi i frateli di piazza del Gesù vengono soprannominati "ghinazziani".  Da allora altre inchieste hanno coinvolto in qualche modo la massoneria, o i fratelli, al punto da indurre i magistrati a battezzare le loro inchieste evocando la loggia di Licio Gelli. Dopo il 2010, ci sono state in particolare le indagini P3 e P4 che hanno in qualche modo chiamato in causa ancora il ruolo delle "obbedienze". Nella vicenda P3 erano stati coinvolti anche il parlamentare del Pdl, Denis Verdini e l'ex senatore Marcello Dell'Utri. Il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e il pm Rodolfo Sabelli ipotizzarono che avevano costituito una "super loggia segreta" divenuta punto di riferimento di imprenditori e politici per "influenzare decisioni politiche, a pilotare processi e a decidere le nomine dei componenti di organi dello Stato di rilievo costituzionale".

Il figlioccio di Licio Gelli. Il termine P4 è utilizzato per riferirsi ad una inchiesta giudiziaria su una presunta associazione a delinquere che avrebbe operato nell'ambito della pubblica amministrazione e della giustizia. Indagati in tale procedimento giudiziario furono, tra gli altri, il faccendiere Luigi Bisignani e il deputato Alfonso Papa (Pdl). La cosiddetta P4 invece avrebbe avuto l'obiettivo di gestire e manipolare informazioni segrete o coperte da segreto istruttorio, oltre che di controllare e influenzare l'assegnazione di appalti e nomine, interferendo anche nelle funzioni di organi costituzionali. L'origine della sigla P4 non fu solo frutto di immaginazione giornalistica, ma si deve anche al fatto che il nome di Luigi Bisignani comparisse negli elenchi della loggia Propaganda Due (detta P2) di Licio Gelli (il quale lo ha recentemente definito "il mio figlioccio"), benché Bisignani si sia sempre dichiarato estraneo a tale loggia.

"Lobby di potere più che logge".

Luigi Pruneti, massonologo ed ex gran maestro della Gran Loggia d'Italia, è dunque lecito chiedersi: esiste ancora la massoneria deviata tipo la P2?

«Quando scoppiarono i casi P3 e P4 fu interpellato anche lo studioso Massimo Introvigne, un curriculum al di sopra del sospetto di essere filomassone. Ebbene, fu proprio lui a dire che P3 e P4 non c'entravano nulla con la massoneria. Erano sicuramente lobby di potere più o meno segrete ma non avevano le caratteristiche minime di base per essere definite massoneria. Se non che uno di quei personaggi (o più d'uno) erano stati esponenti della P2 o di qualche obbedienza».

Ma cosa ci vuole allora affinché una lobby segreta sia definibile loggia massonica?

«Perché si parli oggi di massoneria ci deve essere un minimo di ritualità, di tradizione massonica, di modo di ritrovarsi massonicamente. Altrimenti anche le 'ndrine calabresi, che sono società segrete con fini delinquenziali, potrebbero essere definite logge massoniche».

Ci sono logge segrete, o deviate?

«Logge riservate sicuramente sì, ce n'erano diverse prima della P2. Poi, però, dopo la legge Spadolini-Anselmi, sparirono tutte per paura di incorrere nel reato di associazione segreta. Gli iscritti segreti, cosiddetti all'orecchio del gran maestro, o sul fil della spada, sono ancora antecedenti a quel periodo».

Oggi però, fatta la legge Anselmi, si può aggirare l'ostacolo iscrivendosi ad una loggia all'estero di una obbedienza italiana, non è così?

«Le nostre logge all'estero, come quelle di Varsavia, Berlino o Beirut, hanno i loro piè di lista a Roma. Qualunque magistrato, come peraltro già avvenuto, può avere gli elenchi».

Ma se un italiano si iscrive all'estero in una massoneria straniera, che succede: il suo nome figura in Italia?

«No, è impossibile saperlo. Questa è l'unica forma possibile di copertura».

"Quelle deviate restano legate alla mafia". "Credo che al Sud ci siano talora logge veramente deviate che trovano comodo chiamarsi massonerie, ma che in realtà nascondono organizzazioni mafiose. Oggi rimangono aspetti rituali in organizzazioni criminali soprattutto in quelle cinesi". Massimo Introvigne, sociologo, fondatore del Centro Studi sulle Nuove Religioni che ha censito 700 religioni in Italia, è un profondo conoscitore del misterioso mondo dell'esoterismo, dell'occultismo, del satanismo. E dei collegamenti tra società segrete e organizzazioni criminali.

Quante sono le massonerie cosiddette di frangia, o spurie?

«Secondo le nostre stime, tutta l'area esoterica fuori dalla massoneria "ufficiale" conta 15mila affiliati. Di questa area fanno parte ad esempio templari, rosacroce, illuminati, gnostici, e poi c'è la massoneria egizia di Cagliostro, e quella dell'antico rito noachita ispirato a Noè. C'è poi anche la gran loggia femminile d'Italia costituita solo di donne, che gode di riconoscimenti in Francia».

Ma qual è il rapporto tra obbedienze ufficiali e quelle farlocche?

«Direi che c'è un contiunuum tra obbedienze massoniche piccole, nate da scismi di quelle più grandi, e massonerie farlocche che vendono titoli esoterici a ingenui, e che addirittura coprono organizzazioni mafiose».

Cos'è una loggia deviata?

«Credo che nella testa dei nostri giudici la massoneria deviata voglia dire un'organizzazione massonica che può essere sia all'interno di grandi organizzazioni, come ad esempio la P2 che fu interna al Grand'Oriente. Sia nei piccoli e piccolissimi gruppi di persone che utilzzano la comune appartenenza massonica per commettere reati. In sintesi, per la magistratura la massoneria deviata è un gruppo di persone che si dicono massoni, a torto o a ragione, e infrangono le leggi».

C'è un rapporto tra la P2 e poi la P3, e la P4?

«La P3 e la P4 sono invenzioni giornalistiche, gruppi di persone (alcune delle quali affiliate, altre no) costituiti in comitati di affari. E il legame con la massoneria regolare o non regolare è tenue. Ma non dobbiamo confondere la massoneria deviata, termine coniato dalla magistratura italiana, con quella che gli storici chiamano massoneria irregolare».

Cos'è la massoneria irregolare?

«La massoneria nacque a Londra. Là c'è quella che viene definita la gran loggia madre che riconosce le fratellanze nel mondo, definendole regolari sulla base del rispetto delle Costituzioni di Anderson. Per gli inglesi, ad esempio, in Italia esiste solo una obbedienza regolare, la gran loggia regolare d'Italia che conta 3 mila affiliati contro i 20 mila del Goi. Per gli inglesi, le altre, Goi e Gran Loggia comprese, sono irregolari».

La Chiesa considera i massoni alla stregua di eretici e gli vieta i sacramenti. Secondo lei papa Francesco cambierà atteggiamento, come sperano oggi i "fratelli"?

Per ora le autorità romane mantengono ferme la dichiarazione di condanna del 1983 anche se è stata tolta la parola scomunica per non offendere tanti capi di Stato massoni. Non credo, però, che con questo Papa ci saranno novità. Bergoglio viene da una tradizione politica sudamericana peronista che ha sempre visto nella massoneria la longa manus dei poteri forti statunitensi. Per questo non credo che ce l'abbia in gran simpatia».

E Caprera censura il fratello Garibaldi. Dei suoi quasi 40 anni di vita massonica, non c'è traccia alcuna né nel "compendio garibaldino", museo nazionale ricavato nella sua dimora privata dove morì il 2 giugno 1882. Né nel "Memoriale" voluto dalla Presidenza del consiglio (e inaugurato un anno e mezzo fa) per far rivivere la sua intera esistenza, dalla nascita a Nizza agli anni che lo videro protagonista delle lotte per la libertà in Sud America, dal ritorno in Italia per combattere nella prima Guerra d'Indipendenza alla difesa della Repubblica Romana. "Il ritratto che ne esce dalla visita del Compendio  -  spiega lo studioso di Garibaldi Mario Birardi, ex parlamentare Pci, ex sindaco de la Maddalena  -  è quello di un soldato un po' rozzo, un appassionato di agricoltura, un disabile, viste le numerose carrozzine esposte sulle quali il Generale, colpito in tarda età da una grave forma di artrosi, si muoveva. Troppo poco, rispetto a quello che è stato". Qui, nella casa-museo, solo da quest'anno è stata esposta, in un angolo poco visibile del parco, una corona funebre che la "massoneria sarda" espose ai funerali di Stato. Ma, da quel che si capisce vista la "reticenza" dei responsabili, s'è trattato di un piacere ai massoni insulani più che di un omaggio storico al trascorso massonico del Cavaliere dell'Umanità. Altre due corone funebri dedicate al "suo Gran Maestro", quella della Massoneria Milanese e quella della Massoneria Italiana, non sono esposte al pubblico, ma giacciono nascoste nella ex cisterna, un locale chiuso a chiave. "Oscurato" il passato massonico di Garibaldi anche al Memoriale, che si trova a qualche chilometro dal Compendio, nei locali del Forte Arbuticci. Qui il processo, diciamo così, di de-massonificazione del Primo Massone d'Italia (titolo onorifico che gli fu tributato dalla fratellanza italiana) salta di più all'occhio in quanto l'estesa esposizione è dedicata all'intera vita di Garibaldi. Possibile che in una area così vasta non sia stato dedicato neppure un angolo alla vita di loggia di Garibaldi? Manifestando alla reception il proprio stupore per questa inaspettata "dimenticanza", si viene informati dell'esistenza di un solo "documento che richiama la vita massonica dell'Eroe del Risorgimento". Ma, in mezzo a centinaia di documenti esposti con tecniche multimediali, è praticamente introvabile. Occorre farsi accompagnare da un custode per individuarlo, privo di qualsiasi didascalia di spiegazione. Solo un foglietto con scritto "fondo Mario Birardi". Si tratta di una lettera (che porta in calce la data del calendario massonico "il 20 del primo mese dell'anno della Vera Luce 5862"), con la quale i fratelli della loggia Dante Alighieri della Valle di Torino chiedevano a Garibaldi, in un'ottica di unificazione della massoneria italiana, di accoglierli nella sua loggia all'Oriente di Palermo della quale era Gran Maestro. "Trovai quell'eccezionale documento  -  spiega Birardi  -  da un antiquario di Bologna. Lo acquistai, e ora l'ho dato in comodato d'uso al Memoriale. Mi spiace però che sia stato esposto senza alcun richiamo. E' come se non ci fosse". Garibaldi acquistò per 35mila lire metà isola di Caprera (l'altra metà gliela regalarono gli inglesi), costruendo là, in quella macchia mediterranea spazzata dal vento, il suo quartier generale stile fazenda sudamericana. Fu uno dei più importanti massoni dell'Ottocento. Si affiliò tra i "Figli della Vedova" nel 1814, all'età di 37 anni, in America, nella loggia irregolare "L'asilo della virtù". Si regolarizzò poi il 24 agosto del 1844 a Montevideo, nell'Obbedienza "Gli amici della Patria", ispirata al Grand'Oriente di Francia. La vita massonica di Garibaldi è ben tratteggiata in un recente saggio di Carlo Patrucco ("Documenti su Garibaldi e la Massoneria", Gherardo Casini editore), che mette a fuoco, documenti alla mano, la partecipazione a vario titolo delle massonerie ottocentesche alle guerre per l'indipendenza della Penisola. "Al momento della preparazione dei Mille  -  scrive Patrucco  -  la loggia di Genova ebbe certamente larga parte in favore della più azzardata delle imprese, e a quella loggia appartenne appunto quel G. B. Fauché, allora direttore generale della Società di navigazione Raffaele Rubattino, che, d'accordo con Garibaldi, permise che gli portassero via i due vapori, destinati alla Sicilia, la notte del 4 maggio 1860". Fu proprio la Loggia Madre di Palermo a offrire al "Liberatore dell'isola il terzo grado regolare, salvo più tardi, nel marzo del 1862, il conferimento di tutti i gradi della gerarchia, compreso il 33esimo, e l'ufficio del Gran Maestro a vita dell'ordine massonico del Rito scozzese antico e accettato". Da allora Garibaldi, fino alla morte, divenne il punto di riferimento di tutte le varie massonerie sparse sulla Penisola, spesso in conflitto una con l'altra. Fu lui a volere l'unificazione di tutte le logge sotto la volta stellata di un'unica obbedienza. Ma fallì. E da allora, ancora oggi le massonerie italiane sono lacerate da continue scissioni, e  -  a dispetto dei valori di tolleranza che propugnano  -  da faide fratricide. Se l'appartenenza di Garibaldi alla massoneria è più che nota, resta un mistero perché sia stata nascosta nel Compendio e nel Memoriale a lui dedicato. Forse è ancora oggi in auge la vecchia formula ottocentesca dell'ex ministro Farini secondo la quale "l'Italia deve essere stata fatta dagli italiani, e non dalle sette"? (a.c.).

CHI SONO I MAFIOSI? GUERRA IN PROCURA A TARANTO. PIETRO ARGENTINO E MATTEO DI GIORGIO. PROCURATORI DELLA REPUBBLICA ACCOMUNATI DALLO STESSO DESTINO?

Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio, scrive Michele Imperio su “Tarastv”. A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triasi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo poitico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazarano nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nle corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?) Ora - guarda un pò - anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Notizia dell'ultima ora: il dott. Sebastio e la dott.sa Todisco stanno litigando fra loro per chi dovrà essere il prossimo candidato del P.D. a sindaco di Taranto dopo le prossime dimissioni dell'attuale sindaco Ippazio Stefano. Si sta studiando però una mediazione: Todisco sindaco e Sebastio parlamentare. E dovere morale di ogni cittadino di Taranto impedire che si verifichi sia una cosa che l'altra. In quanto entrambe le cose per come si sono maturate FANNO SCIHFO!!!!!!!!!!!!!!!!!

Voglio raccontare ai lettori de “La Notte” uno strano caso giudiziario verificatosi qualche giorno fa presso il Tribunale di Potenza che doveva giudicare un Magistrato di Taranto, l’ex sostituto Procuratore della Repubblica Matteo Di Giorgio, scrive Michele Imperio su “La notte on line”. Una storia travagliata quella di Di Giorgio cominciata nell’ottobre 2010 con la richiesta di un mandato di cattura in carcere mitigata dal g.i.p. di Potenza in arresti domiciliari eseguito dai Carabinieri del Comando provinciale di Potenza con accuse infamanti che vanno dalla concussione alla corruzione all’abuso di ufficio alla minaccia al termine di un’inchiesta avviata circa due anni prima (2008) e coordinata dalla Procura della Repubblica di Potenza, competente sui magistrati del Distretto della Corte di Appello di Taranto. Se tutte le accuse fossero vere c’è da chiedersi dove stava in quegli anni (2001 – 2008) il suo Procuratore Capo e come mai Di Giorgio avrebbe subito una strana trasformazione simile a quella descritta nel celebre romanzo di Robert Louis Stevenson fra Mister Jekill il buono che si tramutava, grazie all’assunzione di un unguento speciale, nel suo alter ego cattivo mister Hyde. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Poi, del tutto improvvisamente, il cambiamento! Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008 ma – secondo l’accusa – coltivata fin dal 2001 (questa è la data del primo reato per il quale la stessa Procura di Potenza esclude che abbia preso denaro, mirando egli già da allora cioè dal 2001, soltanto ai voti, 2001-2008) sarà stato l’antagonismo con il parlamentare del P.D. del suo paese, Rocco Loreto, fatto sta che da migliore sostituto procuratore della Repubblica della Procura di Taranto, Di Giorgio si è trasformato di botto in un incallito concussore e corruttore tanto da essere arrestato, processato e poi condannato il 30 aprile scorso a ben 15 anni di reclusione! Quindici anni di reclusione! Avete capito bene! Il Tribunale ha ritenuto a suo carico tutti i sette capi di imputazione anche quelli annullati dalla Cassazione, tra cui due concussioni, nemmeno unite dal beneficio della continuazione (che si da anche ai mafiosi) una in danno di un imprenditore, Di Battista, il quale sarebbe fallito per causa sua (ma l’imprenditore nega), vari reati di corruzione e infine anche reati di abuso d’ufficio e di minacce inseriti in questo castelletto di ben sette capi di imputazioni. Pensate! Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non poso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente cirtici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Mai sia che si offendesse il nostro equivalente della vacca sacra della religione Indù: il giudice santificato, che emana sempre condanne e non somministra mai assoluzioni. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Ma la cosa non finisce qui! Perché al caso, sicuramente clamoroso del giudice Matteo Di Giorgio, si è aggiunto nello stesso processo un altro caso altrettanto clamoroso, che riguarda un altro Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il Procuratore Aggiunto dott. Pietro Argentino. Questi ha avuto la sventura di essere chiamato come testimone dal dott. Matteo Di Giorgio. E in base a un dovere civico, abbastanza elementare, si è presentato per deporre. Ebbene non ci crederete! La sua deposizione insieme a quella di altri venti testimoni (fra cui cinque eccellenti un vicequestore in forza alla Questura di Taranto e quattro marescialli!) è stata inviata dal Tribunale di Potenza ai P.M. di quella Procura affinchè procedano contro il dott. Argentino e gli altri venti malcapitati per il reato di falsa testimonianza! Pensate! Venti più uno! L’avv. Giandomenico Caiazza presidente del Comitato Radicale per la Giustizia “Piero Calamandrei” ha giustamente sottolineato l’assurdità di un Procuratore Aggiunto (Argentino) che fra pochi giorni dovrà sostenere una delicatissima requisitoria nel noto processo a carico dei dirigenti dell’Ilva di Taranto e nello stesso tempo deve apparire al grande pubblico come gravato del sospetto di una falsa testimonianza che gli proviene da un altro Tribunale della Repubblica. Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correenti9 democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato, la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro assassinato e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella anche lui assassinato, la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ebbene quest’ultimo segmento politico della Sinistra Democristiana nel tempo dapprima ha annichilìto e assorbito la Sinistra Morotea grazie ai delitti che prima richiamavamo e cioè la strage di via Fani, il delitto Mattarella, il falso suicidio del figlio dell’on.le Carlo Donat Cattin e poi ha tentato di egemonizzare tutta la Democrazia Cristiana con le stragi del 1992 e con i noti processi Andreotti e di Tangentopoli. Scalfaro è morto per cui diciamo pace all’anima sua (che ne ha tanto bisogno;) ma uno dei protagonisti di quell’epopea il senatore Nicola Mancino oggi risponde di falsa testimonianza nel noto processo della trattativa perché secondo i valorosi Magistrati di Palermo nasconderebbe qualcosa ma più di qualcuno pensa che la sua imputazione subirà nel tempo un aggravio, tecnicamente chiamato contestazione suppletiva. Forse per strage. Nello schieramento politico italiano hanno sempre operato almeno tre segmenti ultra atlantisti e quindi alla bisogna stragisti quando qualche altro segmento politico non si adeguava ai comandi americani. I tre segmenti politici cavalier serventi erano un piccolo segmento politico interno al Partito Socialista, un piccolo segmento politico interno al Movimento Sociale poi divenuto Alleanza Nazionale (in pratica la Destra Neofascista finiana) e infine un terzo segmento politico costituito dalla cosiddetta Sinistra Politica Democristiana. Sta di fatto che mentre il segmento atlantista socialista è stato soppresso, quello finiano si è ridoto all’1%, il segmento politico della Sinistra Politica Democristiana nel tempo si è espanso sempre di più e adesso attraverso il renzismo sta cercando di fagocitare anche la vecchia nomenclatura dell’ex Partito Comunista confluita nel P.D. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Potrete trovare maggiori dettagli su questa vicenda cliccando su Internet “OK Notizie Virgilio Magistrati milanesi e magistrati di Puglia 7a. puntata. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.) un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città perché corre voce che due Magistrati uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà. Alcuni dicono che io parlo male dei Magistrati. E invece ne parlo bene quando se ne deve parlare bene. Ne parlo male quando se ne deve parlare male. Il Procuratore Aggiunto Pietro Argentino è un Magistrato molto valoroso, noto alle cronache per aver risolto brillantemente molti casi di cui si è occupato tra i quali quello di Sara Scazzi la ragazzina uccisa per gelosia dalla cugina Sabrina Misseri, nell’ambito di un delitto cosiddetto familiare. Il delitto familiare è sempre molto difficile da dipanare per assenza di testimoni diretti (vedi per esempio i casi di Chiara Poggi e di Yara Gambirasio dove gli inquirenti in alktre Procure da anni brancolano nel buio o prendono granchi). Ma evidentemente nella Magistratura italiana il merito ed il valore non contano più. Non ti assicura nopiù nemmeno un minimo di rispetto e di considerazione. Ciò che conta è soltanto l’appartenenza politica, in vista di future promozioni, incarichi apicali, passaggi in politica e vari. Singolare è poi la tempistica della incriminazione per falsa testimonianza subita dal dott. Pietro Argentino, il quale dopo essere stato per anni in predicato di diventare Procuratore Capo proprio della Procura della Repubblica di Potenza, da pochi giorni assegnata ad altro Magistrato, sicuramente ora sarebbe un temibile concorrente per il Magistrato a cui la Procura di Taranto è stata già predestinata, un o di destra, posto che il dott. Franco Sebastio attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto fra poco meno di un anno, dovrà lasciare l’incarico per raggiunti limiti di età. Anche sulla Procura di Potenza quindi aleggia il dubbio che, per lo meno per il periodo in cui non è stata diretta dal dott. Giovanni Colangelo, Magistrato eccellentissimo, ora Procuratore Capo della Repubblica di Napoli, sia e sia stata politicamente orientata. Su questo ci potrei scrivere pure un libro. La Sinistra politica democristiana pugliese quindi, supportata da altri organismi giudiziari, tende ormai a espellere da tutto il terriotrio della Puglia sia gli esponenti politici che i Magistrati, eventualmente anche di Sinistra, che non sono congeniali al suo progetto politico o che comunque ne possano impedire la piena attuazione. E’ ormai fatto acclarato che per conseguire l’obiettivo ormai certa Magistratura non incrimina più e non condanna più il soggetto mirato in base alla sussistenza di una responsabilità penale bensì lo incrimina e eventualmente lo condanna in base alla convenienza politica del momento. Lo strumento maggiormente adoperato per spingere il pollice verso è la cosiddetta concussione presunta. Cioè io giudice presumo dalle intercettazioni, dalle mie deduzioni dalle mie elucubrazioni mentali che tu imputato abbia concusso qualcuno e quindi ti imputo di concussione. Il Tribunale sulle stesse basi ti condanna anche se la parte asseritamente concussa nega che vi sia stata mai una concussione. E così per tornare ai casi concreti della Puglia l’imprenditore Di Battista nel processo Di Giorgio sarebbe stato concusso – secondo i giudici di Potenza – dal Magistrato Mateo Di Giorgio, il Di Battista nega di essere mai stato concusso ma Di Giorgio viene ugualmente condannato, il prof. Giorgio Assennato nel processo Ilva di Taranto sarebbe stato concusso dal governatore della Puglia Niky Vendola, il prof. Giorgio Assennato nega di essere mai stato concusso, Niky Vendola viene ugualmente rinviato a giudizio, il funzionare della provincia di Taranto dott. Luigi Romandini sarebbe stato concusso dall’ex presidente della provincia di Taranto dott. Gianni Florido (arrestato per questo motivo), il dott. Luigi Romandini nega di essere mai stato concusso, Gianni Florido viene ugualmente rinviato a giudizio per concussione. Cioè la concussione viene utilizzata come strumento per l’eliminazione dell’uomo politico o del Magistrato scomodo da maciullare. Quando poi qualcuno depone come tetimone in senso contrario al teorema e quindi potrebbe minare – come si dice in gergo – l’impianto accusatorio, allora scatta un secondo strumento distruttivo, la falsa testimonianza anch’essa trasformata in mezzo politico-giudiziario per conseguire l’obiettivo politico di eliminazione del’avversario politico. E’ quindi con questo strumento,ossia con la falsa testimonianza che è stato colpito a affondato come fosse una pedina del gioco della battaglia navale, il Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica di Taranto, Pietro Argentino, incauto teste a discarico del dott. Matteo Di Giorgio. Ma chi è causa del suo mal pianga se stesso Ma come! Non lo sapevano il dott. Pietro Argentino e gli altri 24 testimoni che il destinatario della loro testimonianza Matteo Di Giorgio era stato investito da una specie di fatwa da parte del Tribunale di Potenza e da parte della Sinistra politica democristiana? Cristo – cari amici – si è fermato a Eboli e questo lo sapevamo. Ma siamo sicuri che Komeini non stia salendo dalla Sicilia?

Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino, continua Michele Imperio. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. “Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. Perché la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità. La cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo”. Questo diceva Giovanni Falcone, esasperato, quando altri colleghi e altri uomini politici (segnatamente Libero Mancuso e Leoluca Orlando Cascio, ormai è passato tantissimo tempo e dunque possiamo fare anche i nomi) lo volevano coinvolgere nell’accusa di mafia contro il senatore Giulio Andreotti. E Giovanni Falcone con quel suo inattaccabile senso del dovere e del giusto, rispose smontando il falso pentito Pellegriti, che Leoluca Orlando (politico) e Libero Mancuso (Magistrato) gli avevano propinato e smontò quindi le sue false accuse contro Salvo Lima (andreottiano) accusato di essere il mandante occulto dell’omicidio Dalla Chiesa. Non solo! Ma per ulteriore sfregio dei komeinisti Giovanni Falcone si fece nominare direttore degli affari generali penali del Ministero di Grazia e Giustizia nell’ultimo governo Andreotti. Si sa come finì. I komeinisti gli fecero pagare con la vita questo affronto. Però quello era ancora un komeinismo spietato ma romantico. Perchè quel komeinismo giudiziario era ispirato da convinzioni ideologiche determinate dai pennivendoli di “Repubblica” i quali avevano riempito la testa a tutti noi (chissà per quali recondite ragioni) che Giulio Andreotti e tutti gli andreottiani erano collusi con Cosa Nostra, convinzioni però poi rientrate. Lo ricordo ancora Leoluca Orlando Cascio che tuonava in tutti i teatri d’Italia: “Andreotti non è semplicemente connivente con la mafia! Andreotti è egli stesso mafioso! Lui ha fatto assassinare Piersanti Mattarela” (l’amico suo) Adesso – dicono – Leoluca Orlando Cascio non si parla più con Antonio Di Pietro. E le ragioni sono evidenti. Lo ricordo ancora il komeinista Luciano Violante, grande ispiratore e suggeritore del processo Andreotti. Al termine del processo lo stesso Luciano Violante ammise: “E’ vero: il suggeritore sono stato io! Ma se tornassi indietro nel tempo non lo rifarei più!” Oggi Luciano Violante potrebbe anche essere un buon presidente della repubblica. Ma nessuno lo candida e i nuovi komeinisti lo snobbano. Lo ricordo ancora Giancarlo Caselli Procuratore di Palermo dopo che ignoti gli ammazzarono sotto il naso nella stanza del piano di sopra Luigi Lombardini, il Magistrato sardo che la cultura komeinista del sospetto indicava essere il regista di tutti i sequestri di persona in Sardegna. Mentre invece la verità era che altri Magistrati (non lui, anzi lui li voleva denunciare) vi avevano lucrato. Nella vicenda Lombardini – disse uno sconsolato Giancarlo Caselli – sono stato strumentalizzato. Ma da chi e per che cosa? Ma oggi il komeinismo ideologico-giudiziario dei Caselli dei Violante dei Mancuso, degli Orlando-Cascio non c’è più, è stato sostituito da un altro komeinismo giudiziario tutto proteso a costruire e a distruggere carriere di magistrati e di uomini politici, secondo l’andazzo momentaneo della giostra. Ma voglio tornare al caso specifico dei magistrati tarantini Matteo Di Giorgio e Pietro Argentino. Se il dott. Matteo Di Giorgio Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il quale risiede in un piccolo paese della provincia di Taranto, Castellaneta, di sole 17.000 anime (dove quindi tutti si conoscono con tutti) si attiva presso l’amministrazione Comunale perché un poveraccio, suo conoscente, possa gestire un bar pur non disponendo della relativa licenza, ecco che questo è chiaramente un gesto di umanità di Di Giorgio nei confornti del viandante con contenuti – diciamolo pure – non proprio legittimi. Ma è pur sempre un gesto di umanità e quindi non è un reato. Senonchè che ti fa la cultura del sospetto? Ti fa pensare che il Magistrato Matteo Di Giorgio nutre già dal 2001 una grande passione politica e che quindi compia quel gesto non per un senso di umanità ma per sperare nel futuro voto del viandante e quindi per costituirsi già da allora (2001) una clientela politica, uno zoccolo duro di consensi per conseguire e rendere vincente nel 2009 la sua candidatura alla presidenza della provincia di Taranto. Ecco un caso in cui la cultura del sospetto applicata al diritto trasforma un fatto giuridicamente irrilevante in una possibile condotta delittuosa (abuso innominato in atti di ufficio ove il vantaggio patrimoniale richiesto dalla norma viene – con astrazioni metafisiche – equiparato al vantaggio politico che si trae dal voto del viandante). Questo è un caso. Ma esaminiamone anche un altro. Se il dott. Matteo Di Giorgio Magistrato della Procura della Repubblica di Taranto il quale – lo ripetiamo – risiede in un piccolo paese della provincia di Taranto Castellaneta di sole 17.000 anime (dove quindi tutti si conoscono con tutti) scopre in un suo processo a lui assegnato che il genero di un altolocato del paese spaccia droga in discoteca e quindi sta per andare incontro a otto anni di galera, mosso da senso di pietà e questa volta anche da quel senso tutto paesano di rispetto della reciproca conoscenza, ne copre la responsabilità ma tuttavia chiede all’altolocato per decenza di dimettersi quanto meno dal consiglio comunale di cui è membro, tutto questo chiaramente viene fatto per pietà, per solidarietà paesana, per rispetto, per reciproca conoscenza, per quello che volete voi. Ma anche qui interviene la cultura komeinista del sospetto che fa insinuare che in realtà Matteo Di Giorgio approfitti della situazione per puntare con quelle dimissioni a indebolire la maggioranza e quindi a far cadere il piccolo consiglio comunale di Castellaneta per far si che la sua parte politica prenda il sopravvento e quindi lo supporti da posizioni di forza nella sua successiva ascesa al potere (dopo alcuni anni) alla presidenza della provincia di Taranto. Già, ma a parte il fatto che quindici anni di galera per queste cose fanno ridere, il problema è: dov’è la prova di questi retropensieri del dott. Matteo Di Giorgio? Quale norma equipara la speranza anche minima di un vantaggio politico al vantaggio patrimoniale? Il sospetto se volete ci può anche stare ma la prova, intendo dire la prova in senso tecnico, l’elemento che appaga la coscienza del Magistrato che deve affermare una responsabilità penale e che quindi deve sentenziare la distruzione di un uomo, quella prova – dico – dove sta? Volete voi lettori la riprova che sia così? Queste sette denunce a carico del dott. Matteo Di Giorgio, che sarebbero state redatte su ispirazione di un uomo politico suo antagonista, il senatore Rocco Loreto, sono state diversamente valutate nel tempo venendo considerate in certi periodi storici del tutto irrilevanti (perché parliamo del 2001 mica di ieri), in altri periodi storici accuse addirittura calunniose in altri periodi storici ancora accuse riferite a fatti di reato gravissimi punibili con una pena al carcere di quindici anni e passa di reclusione. Che il dott. Matteo De Giorgio abbia manifestato nel 2009 una forte propensione a candidarsi presidente della provincia di Taranto questo è vero, che l’inchiesta sia partita anzi ripartita in funzione di questa candidatura questo pure è vero, che Di Giorgio abbia mai concusso qualcuno o abbia mai strumentalizzato la funzione giudiziaria questo è falso. E’ completamente falso! O meglio è il frutto della cultura del sospetto su qualcosa che non è provato. Inoltre la cultura giudiziaria del sospetto ha completamente mutato nel tempo i contenuti del reato più grave fra quelli contestati a Di Giorgio, ossia la concussione. Una volta per aversi la concussione il pubblico ufficiale doveva terrorizzare il concusso fino al punto che quello, compulsato dal pubblico ufficiale violento e malfattore si faceva piccolo piccolo e, ob torto collo, cedeva alle sue perverse pressioni intimorito dal cosiddetto metus pubblicae potestatis ossia dal terrore che quello gli incuteva. Oggi invece basta un “ti cambio di posto” che la concussione è bella che consumata. Conosco personalmente sia il dott. Matteo Di Giorgio che il dott. Pietro Argentino e posso dire che sono due ottimi Magistrati, grandi lavoratori, buoni investigatori, discreti oratori ma soprattutto sono due Magistrati indipendenti, non agganciati ad alcun segmento del Potere Politico. Argentino aveva un lontano parente parlamentare di Forza Italia che è morto, Di Giorgio nemmeno quello. Ma proprio qui sta il problema: proprio perché questi soggetti sono personaggi valorosi Di Giorgio sicuramente avrebbe fatto una brillante carriera politica, Argentino sarebbe avanzato ulteriormente in Magistratura: da Procuratore Aggiunto sarebbe diventato Procuratore Capo. Ma allora che ne sarebbe stato delle carriere che il Potere Politico aveva già riservato ai predestinati, gente mediocre e di mala fede? Infatti l’incriminazione per falsa testimonianza di Argentino cade giusto pochi giorno dopo l’assegnazione a un altro Magistrato della carica di Procuratore Capo della Repubblica di Potenza, incarico per il quale anche il dott. Argentino aveva fatto domanda al CSM. Quindi a questo punto non rimane ad Argentino che ripiegare sulla carica di Procuratore Capo della Repubblica di Taranto, da affidarsi fra breve e per la quale certamente Argentino è il Magistrato che ha più titoli. Ma qui parliamo di Taranto! Cioè di un letamaio istituzionale! Dove i problemi non sono certamente il bar aperto senza licenza o le false testimonianze di Argentino o le inesistenti concussioni di Di Giorgio. Un letamaio che invece deve essere gestito da chi necessariamente ha la capacità e la volontà di adeguarsi al letamaio. Ma per spiegarvi tutto questo mi serve un altro capitolo.

Dopo tanti anni di attività professionale ho ormai maturato la convinzione che due segmenti politici dello intero schieramento politico nazionale e precisamente la destra neofascista oggi di Mario Monti e di Gianfranco Fini ma ieri anche di altri soggetti politici e la Sinistra politica democristiana, da non confondersi con la Sinistra sociale democristiana (Cisl e vecchia corrente di Forze Nuove) e nemmeno con la sinistra morotea democristiana (Aldo Moro e Piersanti Mattarella ieri, Dario Franceschini e Giuseppe Gargani oggi) che erano e sono un’altra cosa, la Sinistra politica democristiana – dicevo – (Prodi Romano, Scalfaro Oscar Luigi, Mancino Nicola e De Mita Ciriaco ieri Renzi Matteo oggi e il loro regista di sempre De Benedetti Carlo, questi due segmenti politici – dicevo – non svolgono semplicemente un’attività politica ma esercitano anche una funzione di intelligence di tipo deviato, continua Michele Imperio. Forse dispiacerò qualcuno ma voglio ricordare a me stesso che in seguito alle indagini sulla strage di Peteano il terrorista neofascista Vincenzo Vinciguerra - reo confesso per la strage – rivelò che nell’ormai lontano 1982 il segretario del MSI di allora Giorgio Almirante aveva fatto pervenire la somma di 35.000 dollari a tal Carlo Cicuttini, dirigente del MSI friulano e coautore della strage, affinché egli modificasse la sua voce durante la sua latitanza in Spagna mediante un apposito intervento alle corde vocali. Tale intervento si rendeva necessario perché Cicuttini, oltre ad aver collocato materialmente la bomba assieme a Vinciguerra, si era reso autore della telefonata che aveva attirato in trappola i poveri carabinieri, poi trucidati. La sua voce era stata identificata mediante successivo confronto con la registrazione di un comizio del MSI da lui tenuto. Che cosa avevano scoperto quei poveri carabinieri se è vero come è vero che nel giugno del 1986, a seguito dell’emersione di documenti che provavano il passaggio del denaro tramite una banca di Lugano, il Banco di Bilbao ed il Banco Atlantico, Giorgio Almirante e l’avvocato goriziano Eno Pascoli vennero rinviati a giudizio per il reato di favoreggiamento aggravato verso i due terroristi neofascisti? Ed è emblematico anche come andò la cosa. Enzo Pascoli venne condannato; Giorgio Almirante invece, dopo un’iniziale condanna, si fece più volte scudo dell’immunità parlamentare, all’epoca ancora riconosciuta a deputati e senatori, si sottrasse perfino agli interrogatori e infine si avvalse di un’amnistia grazie alla quale uscì definitivamente dal processo. nonostante la legge ne prevedesse la rinunciabilità. Cicuttini, dirigente del MSI friulano – mai disconosciuto da Giorgio Almirante ripeto – fuggito in Spagna, venne catturato a ventisei anni dalla strage, nell’aprile del 1998, quando fu vittima egli stesso di una trappola: la procura di Venezia gli fece offrire un lavoro a Tolosa dove, recatosi convinto di intraprendere le trattative contrattuali, venne arrestato dalla polizia ed estradato dalla Francia. Questi agenti deviati neofascisti ci sono ancora, probabilmente essi si riconoscono ora nella corrente politica di Mario Monti (che non a caso fa la guerra al partito di Gianni Alemanno, Giorgia Meloni, La Russa, Giorgio Crosetto, Adriana Poli Bortone) e sono infiltrati ovunque, nella classe politica, nei Servizi, nella Polizia, nei Carabinieri, Ovunque. Ma sono infiltrati anche e sopratutto in alcuni segmenti della Magistratura associata (Magistratura indipendente). Analogamente avviene per la Sinistra Politica Democristiana. Ricordo anche qui che quando nel 1978 la polizia stava per scoprire la prigione di Aldo Moro in via Gradoli sulla Cassia a Roma, il giovane Romano Prodi si presentò personalmente alla Polizia di Roma per depistare quelle indagini e spostare le stesse da via Gradoli in Roma in Gradoli città dell’Abruzzo, e ciò perché Aldo Moro non fosse salvato ma fosse assassinato. Dopo che qualcuno (Riccardo Misasi Sinistra D.C.?) aveva mobilitato quindici picciotti della 'nrdina calabrese dei Nirta inducendoli a portarsi il 16 maggio 1978 in via Fani il giorno del rapimento Moro pronti ad intervenire nel caso le cose non si fossero messe nel verso giusto degli stragisti. La storia di Vittorio Mangano stalliere di Silvio Berlusconi (finanza laica) negli anni 70 non viene mai raccontata mai nella sua completezza. Prima del’assunzione di Mangano come stalliere Silvio Berlusconi fece tenere negli uffici della Edilnord una riunione cui parteciparono dopo essere appositamente venuti da Palermo, Stefano Bontade e Mimmo Teresi, all’epoca numeri 1 e n. 2 di Cosa Nostra Siciliana. Costoro decisero di ingaggiare il Mangano per dare un segnale alla Ndrangheta calabrese allora eterodiretta da soggetti della Sinistra poltica democristiana (Nicola Mancino, Riccardo Misasi e company.?) affinchè si comprendesse che Berlusconi fosse sotto la protezione di Cosa Nostra e quindi che i figli di Berlusconi (finanza laica) non potevano essere rapiti e sequestrati. Questo particolare però non viene mai rimarcato. Perché? Perchè altrimenti si porrebbe in modo naturale il quesito: Perché mai analoghe attenzioni non furono mai rivolte dalla Ndrangheta nei confronti dei figli di Carlo De Benedetti o dei figli o dei nipoti di Giovanni Agnelli (finanza ebrea e finanza cattolica?) Magistrati e politici dell’uno e del’altro segmento politico (Destra neofascista e Sinistra politica democristiana) hanno sempre provveduto a clamorose coperture e depistaggi. Ma per farlo essi devono poter accelerare le proprie carriere. E come accelerare le carriere di questi? Stroncando le carriere dei loro rivali! Così come certamente è stata accelerata la carriera di Marco Dinapoli, Magistratura Indipendente, attuale Procuratore Capo della Repubblica di Brindisi. Chi di noi non si è sentito inorridito dai rapporti di amorosi sensi emersi dalle indagini fra questo Procuratore della Repubblica di Brindisi e il terrorista neofascista autore dell’odiosa strage di Brindisi Giovanni Vantaggiato rapporti di amorosi sensi intesi a far si che Vantaggiato non fosse imputato dell’aggravante del gesto a scopo terroristico e si scappottasse quindi la pena dell’ergastolo? Procura della Repubblica di Potenza e CSM si erano già messi meritoriamente all’opera quando anche i lampioni hanno compreso che un alto vertice istituzionale (probabilmente proprio il Presidente della Repubblica) ha bloccato tutto. Ebbene quell’attentato è servito. E’ servito a mandare un messaggio ad alcuni valorosi Magistrati per cui chiunque si fosse avvicinato troppo alla vera verità sulla strage di Capaci (simboleggiata dalla scuola brindisina Falcone e Morvillo) era un uomo morto. E proprio in quei giorni il valoroso Procuratore Capo della Repubblica di Caltanisetta stava scoprendo interessanti novità in ordine alla strage di Capaci. Dalle indagini stavano infatti emergendo responsabilità di altri soggetti neofascisti che avevano materialmente partecipato alla strage e il cui nominativo non era mai emerso prima di allora nelle indagini stesse. Ebbene anche il valoroso Procuratore di Caltanisetta Sergio Lari si è fermato e di quelle indagini non si ha più notizia. Questo caso dimostra che cellule stragiste e criminali sia della Destra neofascista diciamo così finiana e montiana che anche della Sinistra Politica Democristiana (oggi renziana) sono presenti anche all’intero della Magistratura e anzi i Magistrati che vi aderiscono godono di carriere accelerate. Il caso Di Giorgio (il Magistrato di Taranto condannato a quindici anni di reclusione) (ma da chiamarsi ora il caso Argentino-Di Giorgio) è stato finora prospettato come una sorta di lunghissimo qui pro quo fra un Magistrato della città di Castellaneta (piccolo paese in provincia di Taranto) e un parlamentare della stessa cittadina pugliese, il senatore del P.D. Rocco Loreto (nella foto), mentre invece questo caso trascende e di molto questo singolo aspetto del problema, perché esso è conseguenza del fatto che nella provincia di Taranto opera da moltissimo tempo una cellula stragista e criminale istituzionale della Sinistra politica democristiana con presenze attiva ancora oggi anche all’interno delle Istituzioni e segnatamente nella Magistratura e il caso Di Giorgio-Argentino è un singolo capitolo di una guerra in corso fra Magistratura laica e Magistratura cattolica, analogo al conflitto in essere, da sempre, fra finanza laica e finanza cattolica, se volete anche fra criminalità laica e criminalità cattolica (laddove il termine cattolico è adoperato ovviamente in senso lato, molto lato), delle cui prove dirò fra poco.

“Il sospetto non è l’anticamera della verità, il sospetto è l’anticamera del khomeinismo”. Così diceva Giovanni Falcone, davanti al CSM che l’accusava. Ma che cosa aveva voluto dire con quella espressione Giovanni Falcone? Si chiede e continua Michele Imperio. Quando nel 1978 la rivolta popolare in Iran era ormai esplosa contro lo scia Reza Pahlavi, costringendolo a fuggire dal paese, l’ayatollah, Khomeyni, tornato dall’esilio in Iran il 1º febbraio 1979, instaurava nel paese una sorta di dittatura teocratica il komeinismo appunto ossia una “repubblica islamica”, basta sulla persecuzione dell’avversario politico e sul terrore. Il komeinismo dette vita a una durissima repressione contro i collaboratori del deposto scià: migliaia di essi furono arrestati e fucilati dopo processi sommari; altri furono mandati in esilio o imprigionati e i rimanenti fuggirono dal paese. In pochi mesi si considera siano state fucilate circa 5.000 persone e mandate in esilio altre 10.000. Dunque Giovanni Falcone accusava esplicitamente alcuni suoi colleghi Magistrati di voler strumentalizzare la funzione giudiziaria per instaurare un nuovo regime politico simile a quello dell’ayatollah Komeyni. Mi chiedo: Questo disegno politico sta ora subendo un’accelerazione? I magistrati tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio fanno parte di un’epurazione da parte di loro colleghi simile a quella che ci è stata in Iran? Un fatto è certo: il nuovo strumento della falsa testimonianza di massa non è stato adoperato solo a Potenza nel corso del processo Di Giorgio ma anche a Trapani dal Tribunale che ha giudicato il caso Rostagno e che ha mandato sotto processo per falsa testimonianza dieci testimoni che lì avevano deposto. Il testimone che non corrobora la tesi dell’accusa è incriminato. Ma il Tribunale di Trapani ci teneva a far sapere a noi italiani la verità su quel delitto? Perché Mauro Rostagno il quale era di Torino si trovava a Trapani? Chi ce lo aveva mandato? E per fare che cosa? Mauro Rostagno aveva a che fare o no con l’omicidio del commissario Luigi Calabresi? Era stato incriminato per questo motivo oppure no? Voleva per caso uscirsene dal caso Calabresi ricattando lo Stato e denunciando i traffici d’armi internazionali che avvenivano tramite l’aeroporto in disuso di Trapani, di cui lui era uno dei custodi? Perché il suo socio coofondatore della comunità per il recupero dei tossicodipendenti Saman Francesco Cardella è vissuto per lungo tempo a Managua in Nicaragua, protetto dai nostri Servizi Segreti? Chi gli ha fatto avere l’incarico di ambasciatore di alcuni paesi arabi in Nicaragua? Come faceva Cardella a possedere addirittura un aereo personale gestendo semplicemente e a distanza una serie di comunità per tossicodipendenti? Perché all’inizio degli anni ’90, si erano allungati su Cardella i sospetti che potesse c’entrare con l’omicidio di Mauro Rostagno? Come mai Fausto Cardella è stato testimone di nozze di quel Claudio Martelli, suocero del n. 2 del Sisde Michele Finocchi gran gestore di traffici d’armi colossali che costarono la vita a Giovanni Falcone, giacchè siamo in tema e in date di anniversari di stragi di stato (23 maggio)? Ed allora domandiamo: Rispondono a questi interrogativi i magistrati siciliani che hanno giudicato il caso Rostagno? Ma assolutamente no! Loro concentrano la attenzione solo sugli esecutori materiali del delitto: Cosa Nostra, quasi in una sorta di ritorsione per aver rivelato Cosa Nostra i depistaggi sulle stragi dei vari Tinebra la Barbera Bo Ricciardi e quindi Vincenzo Parisi, il lacchè di Scalfaro e di Mancino, Michele Finocchi, il suocero di Claudio Martelli e di chi c’era dietro di loro. E spediscono dieci testimoni (dicasi dieci) sotto processo per falsa testimonianza! Come a Potenza! Tale e quale! E allora questa falsa testimonianza di massa è la nuova frontiera del komeynismo giudiziario? Ed è un caso che essa coinvolga a Potenza non già Ciccio Lapizza ma Il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino, Magistrato ripudiato dal regime per aver prestato la sua testimonianza all’appestato Matteo Di Giorgio? Ormai non v’è più un Magistrato nell’Italia Meridionale che non cerca di distinguersi per usare le sentenze come le scimitarre, per incriminare decine di testimoni, per mandare il messaggio alla gente che sono tutti delinquenti tutti mafiosi, tutti falsi testimoni quelli che la pensano diversamente da Matteo Renzi, tranne loro i magistrati i soli a essere buoni bravi e belli in questo paese di corrotti e di uomini del malaffare. Ma le cose stanno proprio così? Le presunte false testimonianze di Argentino o i bar aperti senza licenza di Di Giorgio sono i veri casi scandalosi di una Magistratura tarantina per il resto illibata e integerrima? Un Magistrato che è stato per lungo tempo presidente di collegio nel Tribunale di Taranto mi raccontava questo episodio capitatogli una decina di anni fa. Un giorno si presenta a lui il caso di un pluripregiudicato tarantino trasferitosi nel casertano, gravato da quattro pagine di precedenti penali (comprensive di quasi tutti i reati), il quale aveva ricettato assegni per l’importo di 700 milioni delle vecchie lire provenienti da varie rapine e furti a Roma come nel casertano e colto con le mani nel sacco (cioè con i soldi in tasca) al valico di Ventimiglia. Ebbene si presentano a questo presidente del collegio l’avvocato difensore del ricettatore e il sostituto procuratore d d’udienza. Entrambi chiedono per questo pluripregiudicato il minimo della pena con tutti i benefici compresa la sospensione della pena e la diminuzione della pena stessa per il patteggiamento. Il presidente del collegio allora li prende tutti e due (avvocato e sostituto procuratore) e li sbatte fuori dalla sua stanza a mali parole. Qualche giorno dopo il presidente del collegio incontra il sostituto procuratore e questi gli fa: “Adesso sono cazzi tuoi! Ti sei messo contro il Procuratore! Il Procuratore ci teneva a quella persona!” Il Procuratore in questione si chiamava Giovanni Massagli (Sinistra politica democristiana grande amico di Nicola Mancino) deceduto qualche mese fa. Personaggio controverso questo Massagli, secondo alcuni un sant’uomo, secondo altri un demone, autore di un libro sui simboli della Massoneria (che c’entrava lui con la Massoneria?), noto persecutore di nemici politici, depistatore nel 1991 di una strage importante, la strage della barberia (1° ottobre 1991) nel corso della quale fu ucciso (non casualmente come fu detto) tal Giuseppe Ierone, un parente di alcuni agenti segreti belgi coinvolti nel grande traffico d’armi internazionale e nell’omicidio di un ex ministro belga. Il pluripregiudicato cui il Procuratore ci teneva si chiamava invece A. F., esponente del del clan casertano dei Piccolo-Quaqquaroni, ex assessore dc a Taranto, arrestato per associazione mafiosa e accusato di reati gravissimi. A. F. avrebbe non solo truccato appalti, ma sarebbe stato anche il mandante dell’ attentato dinamitardo del ‘ 92 contro la televisione locale «AT6». Secondo il rapporto redatto alla fine degli anni 80 dall’alto comissario anti-mafia Domenico Sica, A. F., terzo degli eletti nella lista D.C. del Consiglio Comunale di Taranto, era diventato componente della Commissione elettorale del comune di Taranto e punto di riferimento per un gruppo, all’interno della Sinistra Politica democristiana, i cui esponenti ricoprivano incarichi di rilievo. Dalla relazione Antimafia del 1991 risultava che uno di questi tal Alessio Magistro, era stato denunciato dalla locale sezione del Coreco all’autorità giudiziaria, in quanto avrebbe falsamente attestato di non avere mai avuto precedenti penali, al fine di conseguire la nomina a Presidente della azienda dei rifiuti di Taranto”. Il 3 aprile 1994 A. F. veniva fermato dalla Guardia di Finanza al valico autostradale di Ventimiglia e accusato di esportazione di valuta: in realtà era riciclaggio ma quel reato allora ancora non esisteva. Fago aveva con se ben 700 milioni di vecchie lire tra contanti ed assegni. Alcuni di quei titoli erano assegni circolari della Banca Nazionale del Lavoro per un ammontare di 135 milioni di lire, che erano stati indebitamente sottratti all’INPS di Roma, altri erano assegni circolari dell’Istituto Centrale delle Banche Popolari Italiane, rapinati il 4 novembre 1987 a un furgone portavalori sull’autostrada Caserta – Salerno, per un valore di 305 milioni. Camorra pura quindi! E servizi segreti deviati! Infatti arrestato A. F. veniva stranamente subito rilasciato. Il fatto più eclatante che lo riguardava si verificava però nel 1998. Il 2 settembre di quell’anno vengono assassinati a Brescia due uomini a lui molto vicini originari di Taranto, che però Fago aveva trasferito nel casertano, il già nominato Alessio Magistro e l’avvocato Stefano Punzi. Per volontà di A. F., Alessio Magistro era stato alcuni anni prima presidente dell’Azienda municipalizzata dei rifiuti di Taranto e Stefano Punzi era un avvocato che aveva chiuso il suo studio legale a Taranto per aprirne un altro a Caserta senza accorsamento! A. F. li aveva infiltrati in una cosca camorristica casertana quella dei Belforte-Mazzacane in lotta in quel tempo per il predominio sul territorio con il clan rivale dei Piccolo-Quaqquaroni. Però poi sia Magistro che Punzi furono assassinati. Secondo la ricostruzione dell’accusa che fu fatta a processo, Magistro e Punzi avevano ricevuto il compito di preparare il terreno per assassinare Domenico Belforte, uno dei capi di questo clan Belforte-Mazzacane, il quale in quel momento si trovava al soggiorno obbligato nel Bresciano. Belforte avrebbe però giocato d’anticipo eliminando l’ex direttore dell’AMIU di Taranto e l’avvocato Punzi, uomini del Fago. Alessio Magistro venne ucciso a colpi d’arma da fuoco nel piazzale dell’ ipermercato Rondinelle di Roncadelle (Brescia) mentre Stefano Punzi venne trovato carbonizzato all’interno della sua auto a Brandico, nella Bassa Bresciana. Resta da capire per quale motivo il Sisde o questa particolare fazione del Sisde nel 1998 aveva così clamorosamente preso le parti del clan dei Piccolo Quaqquaroni contro quelle dei Belmonte Mazzacane. C’è anche da dire che una volta tre esponenti del clan dei Piccolo-Quaqquaroni erano stati arrestati e nel corso dell’operazione la polizia aveva rinvenuto, in un capannone nella loro disponibilità, un mitragliatore Uzi in uso all’esercito israeliano. Questo spiega molto per non dire che spiega tutto. Anche l’amicizia del Fago con il Procuratore di Taranto Giovanni Massagli. il quale si curava che sul piano giudiziario non gli accadesse mai niente. Infatti non gli succede mai niente. Anzi dai processi risultava che Fago veniva sistematicamente avvertito delle indagini che c’erano su di lui da un altro agente del Sisde tal Nicola Curia. E recentemente la manina misteriosa di un Magistrato aveva infiltrato in un processo a suo carico in Corte di Appello un falso conteggio della prescrizione per fargli prescrivere i reati. Ancora all’anno 2000 A. F. nonostante l’attentato dinamitardo ad Antenna Taranto 6, (1992) il riciclaggio dei 700 milioni (1994), il mancato omicidio di Domenico Belforte (1998), A. F. non è stato mai ancora giudicato da nessun Tribunale (chissà perchè ……….mha…………..lentezze della giustizia ………………….). Mi chiedo: ha senso in questo contesto andare dietro i bar aperti senza licenza da Di Giorgio o le presunte false testimonianze di Argentino? Adesso sono cazzi tuoi! Ti sei messo contro il Procuratore! Il Procuratore ci teneva molto a quella persona!. Mi chiedo: dove siamo? a Cristo che si è fermato a Eboli? Oppure a Komeini che sta salendo dalla Sicilia?

GUERRA DI TOGHE.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?

«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.

L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

Parla la pm Digeronimo con Lorenzo Lamberti su “Affari Italiani”: "Io isolata, in magistratura comandano le correnti". Desirèe Digeronimo, 48 anni, è stata a lungo sostituto procuratore della Dda di Bari, la sua città. Numerose le sue inchieste sulla camorra barese, alla quale ha inferto duri colpi. Indagando sui rapporti tra politica locale e criminalità organizzata scoperchia il sistema ruotante intorno all’assessore regionale della Puglia alla Sanità, l’ex senatore Pd Alberto Tedesco. Digeronimo e il collega Francesco Bretone, informati dei rapporti di amicizia dei rapporti di amicizia tra la sorella di Nichi Vendola e il gup Susanna De Felice, si rivolgono agli organi competenti ma la loro lettera spedita in via riservata ai capi degli uffici della Procura di Bari e della Procura generale presso la Corte d’appello finisce sui giornali. De Felice ha poi prosciolto Vendola (a pochi giorni dalle elezioni dello scorso febbraio Panorama ha pubblicato la foto dove i due pranzavano insieme ad altre persone). Il Csm ha aperto un procedimento (per fatto incolpevole) per valutare il trasferimento di Digeronimo per incompatibilità ambientale. Procedimento poi chiuso dopo che il 26 luglio 2013 il Csm ha deliberato il trasferimento a Roma, come da Digeronimo richiesto.

"Comandano gli apparati. Per fare carriera sai che devi far parte di una corrente e questo ha creato quella che chiamo un'oligarchia di magistrati". Desirèe Digeronimo, il pm della Sanitopoli pugliese appena trasferita da Bari a Roma, racconta la sua vicenda e propone una riforma del sistema giudiziario in una lunga intervista ad Affaritaliani.it. “Il trasferimento è stato solo l’ultimo atto di un progressivo isolamento all’interno della procura di Bari”. Il tutto dopo l’inchiesta sull’ex senatore Pd Tedesco e la segnalazione dei rapporti tra Vendola e Susanna De Felice, il gup che doveva decidere sul rinvio a giudizio del governatore della Puglia. “Persone legate a un gruppo di potere mi hanno delegittimata. Non dovevo essere credibile così non sarebbero state credibili le mie indagini”. Nel 2009 Vendola la attaccò con una dura lettera pubblica: “Chi di dovere avrebbe dovuto dare uno stop e tutelarmi, ma non è successo”. Sui pm in politica: “Il problema non è chi fa politica spogliandosi della toga ma chi la fa indossandola. Candidarmi a sindaco di Bari? Per la mia città io ci sarò sempre".

Come mai ha deciso di chiedere il trasferimento da Bari a Roma?

«Il trasferimento è stato solo l’ultimo atto di un cammino progressivo di isolamento all’interno del mio ufficio che io imputo all’azione di personaggi collegati a un gruppo di potere finalizzata alla mia delegittimazione professionale e personale. Non dovevo essere credibile così non sarebbero state credibili le indagini che conducevo. Quando la calunnia si è trasferita dai corridoi alle sedi istituzionali e da là alla diffusione mediatica non ho potuto più limitarmi a resistere ma ho dovuto agire a mia tutela. Il trasferimento è stato un atto consequenziale di rispetto nei confronti dell’istituzione Procura, non potevo trascinare l’ufficio in una strumentale campagna giornalistica di veleni e corvi così come è stata definita. Ho preferito pormi il problema del prestigio di una istituzione assumendomene la responsabilità. Certo, con rammarico devo constatare che chi in tale vicenda aveva il dovere di porsi a tutela di tale prestigio già da molti anni ha mancato, ma io faccio il magistrato. Non potevo non tenerne conto, nemmeno di fronte alle omissioni».

Nell’inchiesta sulla sanità pugliese il nome dell’ex senatore Tedesco fu inizialmente depennato da alcuni suoi colleghi dalle utenze da intercettare. Com’è possibile che sia accaduto?

«Sono questioni di cui non intendo parlare, ci sono sedi competenti in cui è giusto e spero siano affrontate. Certo, se quelle erano le carte nel 2007 la mia indagine iniziata nel 2008 non avrebbe dovuto stupire».

Nell’agosto del 2009 lei ha subìto un duro attacco da parte di Vendola, che scrisse una lettera pubblica contro di lei. Crede che la vicenda sia stata poco sottolineata?

«Credo che la vicenda avrebbe dovuto comportare immediate conseguenze a tutela della giurisdizione da parte di chi era tenuto a farlo. Uno stop duro e fermo a quella deriva avrebbe cambiato il corso delle cose e non avrebbe consentito quello che io penso sia avvenuto in questi anni, ovvero una costante e dannosa perdita di prestigio dell’ufficio di procura di Bari. Ma del senno di poi, come si dice, sono piene le fosse».

Si è data una spiegazione su come sia avvenuta la pubblicazione della sua nota riservata sulla vicenda Vendola-De Felice?

«Ho fatto una denuncia, qualsiasi spiegazione possa dare sarebbe solo un’opinione personale indimostrabile visto che il relativo procedimento è stato archiviato. Certo chi l’ha data in mano a un giornalista non aveva a cuore le istituzioni, la giustizia e l’equilibrio delicatissimo che è alla base del rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. Il mito narra che aperto il vaso di Pandora uscì tutto tranne la speranza ma alla fine fuggì anche quella. Io vivo anche di speranza, spero che un giorno arrivi la verità, la risposta a tante domande e soprattutto la giustizia».

Ilda Boccassini ha detto che alcuni pm svolgono certe inchieste “per altri scopi” rispetto alla giustizia usando magari la magistratura come trampolino di lancio. E’ d’accordo?

«La magistratura ormai è un mondo variegato: non siamo tutti uguali, non siamo tutti idealmente motivati nello stesso modo. Credo che le storie siano personali e che vadano giudicate dai fatti, dalle circostanze concrete in cui accade che si arrivi a certe scelte. In genere le indagini serie, fatta salva l’alea del giudizio che prevede un contraddittorio tra accusa e difesa, approdano a processi e condanne… già questo esclude un pregiudizio di strumentalità. Il problema vero non è chi fa politica spogliandosi della toga ma chi la fa indossando la toga. La magistratura non è scevra da simili fenomeni anche se non la immagino come attività organizzata e sistemica di supporto politico a questa o quella parte».

Pensa che il sistema delle correnti interne alla magistratura andrebbe rivisto? Non rende troppo simile la magistratura alla politica?

«Il nostro sistema giudiziario necessita di una radicale riforma. Una riforma che restituisca efficienza e credibilità alla giustizia e questo passa non solo da cambiamenti strutturali e innesti di risorse nel servizio giustizia ma anche da una rivoluzione in termini culturali del sistema di rappresentatività dei magistrati all’interno del suo organo di autogoverno. Il nostro sistema giudiziario è specchio del Paese, siamo affetti dalla stessa patologia che affligge l’intera struttura burocratica amministrativa. Il meccanismo dello spoil system ormai è regola: nel bene e nel male comandano gli apparati, vince chi si pone all’interno e a tutela degli apparati. Vince cioè la logica dell’appartenenza. Il tutto avviene all’interno delle correnti. In una situazione come questa avere agganciato al merito e non all’anzianità il criterio per l’attribuzione di incarichi e direttivi, che pure in astratto è cosa sacrosanta, aumenta la discrezionalità di chi decide e diventa facile strumento di derive patologiche del sistema. Oggi sai che per fare carriera, per essere tutelato, per non subire ingiustizie, ma anche per difenderti dalla giusta assunzione di responsabilità nell’esercizio delle tue funzioni, devi fare parte di una corrente, ovviamente una corrente forte capace di sedersi al tavolo della “trattativa” con le altre correnti. In questo meccanismo diventa difficile sottrarsi alla logica dell’appartenenza. Questo sistema ha portato alla nascita di quella che io chiamo un’oligarchia di magistrati che percorrono come cursus honorum i vari steps all’interno dell’Anm e del Csm per fare carriera. La deriva patologica di questo sistema non fa bene all’autonomia e all’indipendenza della magistratura perché aumenta il rischio di una “politicizzazione” di certi meccanismi di autogoverno ma soprattutto non fa bene al servizio giustizia che noi abbiamo il dovere di assicurare ai cittadini. Le correnti da luoghi di discussione e crescita culturale e giuridica si sono trasformati in luoghi di potere».

Serve una riforma della giustizia?

«Questo sistema va immediatamente bloccato, occorre ridare ossigeno alla magistratura esattamente come occorre ridare ossigeno al sistema politico e partitico di questo paese. Questo non può essere rimesso a una sorta di presa di autocoscienza del singolo, serve una classe dirigente politica capace di fare le giuste riforme con onestà intellettuale e per il bene della comunità dei cittadini. Io non voglio rinunciare al criterio del merito per la valutazione dei magistrati perché il criterio dell’anzianità ha forti limiti in termini di efficienza del sistema. Un buon criterio per l’individuazione dei magistrati da delegare all’autogoverno potrebbe essere il sorteggio dei rappresentati togati del Csm: un sorteggio temperato, per esempio all’interno di una rosa di persone candidabili scelte secondo criteri oggettivi predeterminati. Questo indebolirebbe molto il sistema di potere delle correnti. Alla facile obiezione che abbiamo diritto di sceglierci i nostri rappresentanti perché non siamo tutti uguali rispondo che il cittadino non ha diritto di scegliersi il suo giudice: esiste il principio del giudice naturale. Ecco, bisognerebbe studiare una forma di consigliere togato del Csm scelto secondo gli stessi valori che sono alla base del principio del giudice naturale. Tuttavia di fronte all’incapacità di tutta la politica di procedere a una seria riforma della giustizia mi domando se la nostra classe dirigente abbia veramente a cuore la salvaguardia dell’autonomia e della indipendenza della magistratura. Una magistratura controllabile è tranquillizzante, ma chi non ha la lungimiranza di capire che è giunto il momento delle giuste riforme deve sapere che una magistratura controllata ha anche un forte potere di ricatto».

La sua vicenda sembra suggerire che fare il magistrato sia come agire un po’ in un campo minato. Possibile che chi tocca alcune inchieste venga isolato e messo da parte anche dai suoi stessi colleghi?

«Oggi chi tocca alcuni fili muore. Fa parte della degenerazione del sistema di cui ho parlato. Un simile sistema può trasformarsi in una maionese impazzita e non è affatto detto che a “morire” siano sempre gli stessi. Occorre fermare questa deriva ancorata solo a forme di esercizio del potere, la giustizia deve tornare a essere sempre e in tutte le sue forme un servizio a tutela del cittadino, libero da qualsiasi tipo di condizionamento. La vera democrazia di un Paese nasce da questo fondamentale presupposto».

Da Berlusconi all’Ilva, si sprecano i casi di scontro più o meno aperto tra politica e giustizia. Come si può sanare questa “guerra”?

«Il conflitto tra politica e giustizia si può risolvere solo intraprendendo il cammino, difficile ma necessario, che ho descritto prima. Un cammino che può essere intrapreso però solo da chi ha le mani libere per decidere: per cambiare abbiamo bisogno di una classe dirigente non ricattabile né ricattatoria».

Che cosa ne pensa dei referendum sulla giustizia?

«Ho firmato i referendum, ciò non significa che approvi tutto quello che viene proposto. Ho sempre sostenuto, per esempio, che il miglior pm è quello che ha fatto il giudice, ma di fronte all’immobilismo stagnante che ha consentito questa deriva patologica è necessario uno choc, una scossa che provenga dalla base. Non abbiamo più tempo da perdere: per il nostro bene di cittadini occorre rimuovere l’immobilismo della politica con proposte forti. Del resto, con le necessarie garanzie a salvaguardia dell’esercizio imparziale delle funzioni requirenti, siamo pronti anche alla separazione delle carriere. Ricostruire in termini di autonomia e indipendenza reciproca il rapporto tra pubblici ministeri e giudici non può che fare bene alla giustizia intesa come servizio».

Da pugliese pensa che sull’Ilva politica e magistratura abbiano la coscienza pulita?

«Il caso dell’Ilva è emblematico del ruolo di supplenza assunto dalla giustizia rispetto al silenzio e all’inerzia delle istituzioni deputate a decidere e a controllare che ci sia la giusta coniugazione tra interesse pubblico e privato. Quando si giunge a questo punto è già troppo tardi: qualsiasi azione si intraprenda non sarà mai possibile che nel conflitto tra diritti, in questo caso tra lavoro e salute, ci sia un contemperamento che garantisca il giusto equilibrio. Ci sarà sempre un diritto soccombente. Nella vicenda Ilva si è arrivati al punto di non ritorno e le responsabilità sono diffuse, ma le maggiori responsabilità sono quelle politiche perché la magistratura una volta imboccata la strada ha un percorso obbligato».

Da Ingroia a De Magistris ci sono stati alcuni casi “sfortunati” di pm in politica. Pensa che questo passaggio di ruolo sia legittimo?

«Candidarsi è un diritto, ci sono motivazioni complesse che portano un magistrato a farlo, solo che spesso rimangono confinate all’interno della propria coscienza. Nella gamma dei magistrati candidati in politica a mio avviso ci sono motivazioni nobili e meno nobili, dai crediti acquisiti che vengono saldati dagli apparati di potere alla mera ambizione personale. Ma la motivazione può essere più profonda, può derivare dalla presa di consapevolezza dei limiti del sistema giudiziario, della sua patologia. Tale presa di coscienza nasce spesso da un’esperienza personale che mette in crisi il proprio sistema valoriale e innesca un processo di allontanamento. E’ come un grande amore tradito, quello che fa più male, ma anche quello che per autodifesa vuoi rimuovere dal cuore. In questo caso scegliere di candidarsi unisce la voglia di cambiare il nostro sistema paese alla necessità di continuare a credere in quegli stessi ideali che ti hanno fatto amare la toga e alla consapevolezza che per affermarli occorre andare all’esterno. Giustizia ed equità passano dal cambiamento delle regole e le regole le cambia la politica. In fondo in questi casi ti candidi perché credi ancora in qualche cosa e pensi di poterla realizzare, perché non ti vuoi rassegnare alla logica che il mondo deve andare per forza così. Tuttavia, credo he se è un diritto candidarsi e poterlo fare senza perdere un posto di lavoro, è anche un dovere del magistrato e un diritto dei cittadini avere la garanzia sostanziale e formale di una magistratura terza e imparziale. Occorrerebbe quindi regolamentare la materia facendo sì che un magistrato che affronti un impegno politico possa tornare a svolgere le sue funzioni in altri settori della pubblica amministrazione, in ruoli diversi da quelli giurisdizionali. Ci sono tanti posti riservati ai magistrati nella pubblica amministrazione… non sarebbe difficile farlo».

Gira la voce che lei si candiderà a sindaco di Bari. È una voce che corrisponde a realtà?

«Ho lavorato 15 anni al servizio della mia città producendo risultati importanti e tangibili. Risultati che sono e saranno alla base della prosecuzione di questo lavoro da parte dei colleghi che dopo di me prenderanno in mano la situazione del controllo di legalità e della repressione del fenomeno criminale mafioso nella città di Bari. Quando hai svolto con tale intensità il tuo ruolo è difficile non pensare in termini di appartenenza alla tua comunità, è difficile rinunciare a occuparsi delle persone che hai cercato di proteggere, di difendere rendendo giustizia. È come una relazione d’amore, in questo caso per di più interrotta per mano di altri. Ecco, non smetterò mai di amare la mia comunità e di nutrire lo stesso sentimento di protezione, di ricerca della giustizia e dell’equità, della costruzione di un tessuto sociale fondato su valori positivi di comunione e solidarietà. Quando ti misuri con un sentimento e non con le parole tutto il resto viene da sé. Per la mia città io ci sarò sempre con la stessa determinazione di fare qualcosa di buono per il bene di tutti. Il resto chissà, io credo nel destino delle cose che accadono…»

LE CARICHE PUBBLICHE E LA MASSONERIA. FATTI AMICO UN MASSONE DI SINISTRA.

Ottoemezzo del 7 aprile 2014 su La7. Le cariche pubbliche e la massoneria. Parte il punto di Paolo Pagliaro, nel quale si sostiene che la massoneria è molto radicata negli incarichi pubblici e che conti molto più di quanto si immagini. Bisi sostiene che «non mi risulta che ci siano massoni nel governo Renzi» e che in caso contrario «non ci sarebbe nulla di male». Per D’agostino vi sono dei movimenti che operano al di là di quello che vediamo. Bisi invece dice che alla base delle preoccupazioni vi siano il rispetto della persona, della cultura, della scuola pubblica. Nega che il Grande Oriente si occupi minimamente delle nomine pubbliche. Sostiene che durante le riunioni massoniche uno parla e gli altri ascoltano, cosa che non succede nei partiti. Bisi conclude invitando di conoscere meglio la massoneria, anche visitando il loro Bisi per essere Gran Maestro guadagna 129 mila euro lordi all’anno e ogni anno ogi fratello deve versare circa 400 euro. Bisi pensa che un’esperienza come la P2 non si possa ripetere perché i controlli da parte del Grande Oriente si sono infittiti. D’Agostino sostiene che Gelli «uno che vende materassi a Frosinone» fosse una testa di legno e che non potesse essere davvero lui a «comandare l’Italia» Bisi sostiene che se dovesse scegliere tra due giornalisti e uno dei due è massone, sceglierebbe quello più bravo, anche se l’altro è massone. Sostiene che non vi sono donne nella massoneria per motivi storici «siamo radicati alle tradizioni». Crede che per cambiare una tradizione ci sono dei percorsi da intraprendere, in questo caso molto lunghi. Bisi sostiene che tra massoni ci si sostiene «nei limiti del lecito», raccontando di aver fatto 30 chilometri per anni per accompagnare un fratello cieco per cui la massoneria era una ragione di vita. Bisi racconta che nel 77 decise di aderire perché un giornale pubblicò i nomi dei maestri venerabili. Si incuriosì e dopo aver incontrato un massonE chiedendo di entrare. Dopo quattro anni venne ammesso. La Gruber chiede come deve chiamare il gran Maestro, che chiede di essere chiamato “Stefano”, D’Agostino fa dell’umorismo e interviene con «bellicapelli». Bisi spiega che gli affiliati della massoneria sono segreti come quelli di altre associazioni. Dice che i responsabili sono noti, così coem le sedi. Ha detto che Rimini avrebbero potuto partecipare all’incontro con tutti i fratelli associati alla massoneria. D’Agostino ha detto che intorno al 2000 aveva deciso di diventare massone, ma la sua domanda non venne presa in considerazione. Crede che a parte lo scandalo della P2, la massoneria ha portato all’unità d’Italia. Bisi sostiene che la massoneria non distribuisce poltrone «il potere della massoneria è quello di far emozionare». Norberto Bobbio disse che la democrazia non è compatibile con un potere come la massoneria. Per Bisi la massoneria è una palestra per la laicità che serve a «migliorare noi stessi e migliorando noi stessi possiamo migliorare l’umanità». Per D’Agostino la massoneria è qualcosa di più concreto, ma non deve essere criminalizzata, anche se poi fa un parallelismo con la mafia. D’Agostino sostiene che al governo si sono susseguite massonerie di destra e sinistra, mentre per Bisi sta semplificando. Oltre alle grandi riforme Renzi deve risolvere la nomina dei nuovi vertici della aziende pubbliche. Si dice sempre che i poteri forti in questi casi si mettono in azione. La Gruber si chiede se in questo caso «la massoneria è in azione?». La presentatrice ne parlerà insieme al Gran Maestro del Grande Oriente Stefano Bisi e Roberto D’Agostino, che si è autodefinito “Gran Bidello”.

Massoneria non significa affarismo e nepotismo, scrive Alessandro Calabrese su “Italians-Corriere della Sera”. Caro Severgnini, l’eccezione conferma la regola, dice un vecchio adagio. Quindi devo sperare che la tua concessione allo scontato luogo comune massoneria = affarismo e nepotismo sia, appunto, un’eccezione che conferma la tua originalità nei giudizi, mai banali. Pensi davvero che la libera muratoria italiana (quella che ha contribuito in maniera decisiva a realizzare quel poco di stato laico che c’è nel nostro paese, solo per citarne il merito più evidente) possa essere ridotta solo a sinonimo di affarismo e di ileciti intrallazzi? La massoneria mi ha insegnato, tra tante altre cose, a non essere né ingenuo né partigiano. Sarei quindi uno sciocco se negassi che anche in massoneria, come in ogni aggregazione umana (partiti, aziende, associazioni, chiese, ordini e caste professionali, club, bocconiani e chi più ne ha, ne metta) ci sono persone che cercano di trarre benefici dalle relazioni attivate. Tuttavia sono convinto che, specialmente oggi, la massoneria non sia affatto caratterizzata da queste attività e sicuramente lo sia infinitamente meno della maggior parte delle altre forme associative, fermo restando che, purtroppo, è umanamente impossibile impedire alle persone di cercare vantaggi ingiusti o illegittimi. Quello vissuto dalla massoneria italiana negli ultimi decenni, specie dopo lo scandalo P2,la vera antitesi della massoneria, è un percorso di trasparenza e responsabilità, che ne ha evidenziato il ruolo di agenzia di valori e principi. Ma è più comodo continuare ad agitare il luogo comune. In fondo siamo anche scomunicati. Con immutata stima, Alessandro Calabrese.

Massoneria:il dopo P2, scrive Gian Giacomo William Faillace. Gli anni successivi al falso scandalo che ha coinvolto la Rispettabile Loggia Propaganda 2, hanno segnato profondamente la Massoneria italiana: azioni diffamatorie, creazione, da parte di alcuni giornalisti di pseudo logge definite P3 e P4 che con la Massoneria nulla avevano o hanno a che fare, azioni antimassoniche clericali o di stampo comunista volte al tentativo di distruggere l’istituzione massonica, hanno colpito nel segno ferendo la Massoneria ma il tentativo di cancellarla è mal riuscito. Tanto concentrati  in questo vano tentativo, queste due forze (Chiesa e Comunismo), che da sempre hanno rappresentato il totalitarismo, il dogmatismo, la demagogia, hanno perso di vista i problemi, nonché le lotte interne, che le attanagliavano perdendo talvolta fedeli talvolta “compagni”. Successivamente, mentre la Chiesa ha avuto timidi atteggiamenti di apertura, la sinistra italiana ha cercato, talvolta con successo, di infiltrare all’interno delle obbedienze, persone ad essa vicine seguendo così la regola che se non si può abbattere un nemico dall’esterno allora si deve colpire dall’interno. Il pregio, ed al contempo il difetto, della Massoneria è che tutti possono “bussare” ed essere iniziati, a prescindere dal credo politico o religioso, e proprio questa regola, alla base della tolleranza, rischia di trasformarsi in un’arma a doppio taglio. Purtroppo, le infiltrazioni della sinistra italiana, hanno contribuito a trasformare alcune logge in vere e proprie sezioni di partito. La Massoneria, però, non è politica, non è un club in cui discorrere di  affari, ideologie e tantomeno un luogo in cui “educare” i neofiti all’avversione verso una dottrina politica o religiosa, eppure, in alcune logge, seppur isolate, avviene. Ecco il motivo che ha spinto molti massoni ad entrare in sonno, ossia ad uscire dalle logge volontariamente e scegliere quindi di non partecipare a tempo indeterminato ai lavori rituali. Ora, la Massoneria italiana, dovrà impegnarsi e riuscire ad epurare le sue logge da tutti coloro che hanno intenzione di sostituire la squadra ed il compasso con la falce ed il martello. Non solo apertura e trasparenza verso il mondo profano, ma anche scelte coraggiose che vedranno la perdita di numerosi iscritti, spettano ai Gran Maestri delle Obbedienze massoniche italiane. Solo seguendo la “Vera Luce” i Gran Maestri potranno riportare la Massoneria in quel “solco naturale” che vuole che essa sia una strada per un perfezionamento etico personale: il massone deve imparare, essere sgrossato come una pietra grezza per divenire una pietra angolare e quindi “esportare” al mondo esterno il suo perfezionamento etico al fine di rendere migliore tutto ciò che lo circonda. Guai se avvenisse il contrario! Ma si sa, la Massoneria è composta da uomini, e gli uomini sono imperfetti, quindi è ovvio che in seno all’Arte Reale si verifichino”importazioni profane” ma è compito dei Venerabili Maestri vigilare con perseveranza  affinchè fattori esterni non inquinino i lavori delle logge. Quindi, solo con scelte coraggiose e non dettate da inquinamenti esterni, la Massoneria italiana potrà essere guida verso la libertà, la laicità e tornare ad essere quella radiosa luce in fondo al tunnel della superstizione, del totalitarismo e dei dogmatismi demagogici e tornare ad essere portatrice di quella modernità che la società tutta richiede. C’era una volta una sinistra seria. Inattaccabile. Affidabile. “Comunista, ma perbene.” Il paradigma è saltato ed è ora di guardare in faccia la realtà per quella che è veramente. Anche la sinistra ruba, inquina, specula, anche la sinistra fa affari sporchi e attacca la magistratura. Banche, sanità, cooperative, fondazioni, amministrazioni locali e regionali: scandali e inchieste hanno travolto la classe dirigente che avrebbe dovuto trasformare l’Italia in un paese “normale”, persino roccaforti rosse come l’Emilia sono crollate, investite da accuse di connivenza con mafia e ’ndrangheta. Al posto dell’ideologia il denaro, l’interesse individuale, il puro potere. Ecco gli scandali del Monte dei Paschi, la scalata alla Bnl, la Bicamerale, la legge del comunista Sposetti che ha arricchito i partiti, la metamorfosi di Violante, i soldi dell’Ilva, le accuse di tangenti a Penati, le convergenze con la destra in materia di giustizia... Non serve vincere le elezioni se la gestione del potere e le ricette economiche rimangono uguali a quelle degli avversari berlusconiani. Fatti, non solo parole, dal Nord al Sud, città per città, regione per regione. Il quadro è inquietante, più che sufficiente a fotografare una malattia per la quale non sembra esserci una terapia efficace. E che come un virus inarrestabile non risparmia nemmeno il nostro capo dello Stato, ultimo difensore di questo sistema, del quale qui si svela per la prima volta la complessa storia politica, ricca di retroscena inediti.

Ferruccio Pinotti è autore di molti libri-inchiesta che hanno smascherato le trame e gli interessi dei poteri forti. Lavora al “Corriere della Sera” e ha scritto per “MicroMega”, “l’Espresso”, “Il Sole 24 Ore”, “la Repubblica”, “Il Fatto Quotidiano”. Tra i suoi libri più importanti vanno ricordati POTERI FORTI (Bur 2005), OPUS DEI SEGRETA (Bur 2006), FRATELLI D’ITALIA (Bur 2007), COLLETTI SPORCHI (Con Luca Tescaroli, Bur 2008), L’UNTO DEL SIGNORE (con Udo Gümpel, Bur 2009), FINANZA CATTOLICA (Ponte alle Grazie 2011), VATICANO MASSONE (con Giacomo Galeazzi, Piemme, 2013). Con Chiarelettere ha pubblicato LA LOBBY DI DIO (2010) e WOJTYLA SEGRETO (con Giacomo Galeazzi, 2011). Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta, dal 2009 è corrispondente de “il Fatto Quotidiano”, dalle cui colonne ha svelato il primo caso accertato di rapporti tra ’ndrangheta e Pd al Nord, nel comune appenninico di Serramazzoni, una vicenda poi ripresa da REPORT.

Dalle amicizie pericolose di Bersani a quelle di D'Alema, dalle innovazioni ambigue di Renzi alle ombre dell'Ilva su Vendola. Fino al "nuovo compromesso storico" di Enrico Letta e ai segreti di Giorgio Napolitano, scrive Lorenzo Lamperti su Affari Italiani. Non risparmia nessuno "I panni sporchi della sinistra", il libro di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (edito da Chiarelettere") che mette a nudo le magagne del centrosinistra. Un lavoro importante e "lungo due anni", come ha spiegato Santachiara intervistato da Affaritaliani.it, nel quale i due autori raccolgono e analizzano una serie di inchieste giudiziarie che riguardano, a vario titolo, il mondo della sinistra. Dalla galassia Bersani di Penati, Pronzato e Veronesi alla vicenda di Flavio Fasano, referente di D'Alema invischiato in una storia di mafia. Dallo scandalo Ilva al caso Unipol, passando per i trasferimenti di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo, che avevano indagato sulle responsabilità di importanti esponenti politici di sinistra. Pinotti e Santachiara ricostruiscono con dovizia di particolari tutta una serie di vicende, grandi e piccole, note e sconosciute, che offrono un ritratto impietoso di una sinistra che ha subìto "una mutazione genetica". Il libro si apre con un esplosivo capitolo su Giorgio Napolitano, del quale vengono indicati i rapporti (o presunti tali) con Berlusconi, la massoneria, la Cia e i poteri atlantici. Un capitolo del quale Affari pubblica un estratto e che certamente farà molto discutere.

Stefano Santachiara, com’è nato il libro “I panni sporchi della sinistra”?

«Mi sono occupato a lungo di cronaca giudiziaria per L’Informazione, un giornale emiliano, e tuttora come corrispondente del Fatto Quotidiano. E' così che mi sono imbattuto in casi di malaffare, speculazioni edilizie, tangenti mascherate da reti di favori incrociati, rapporti con la criminalità organizzata. Spesso in queste vicende era coinvolto il centrosinistra. A Serramazzoni, in provincia di Modena, ho raccontato le prime contiguità acclarate tra ‘ndrangheta e Pd al nord, proprio nell’Emilia “rossa”. Quando L’Informazione ha chiuso i battenti nel febbraio 2012 ho sentito Ferruccio Pinotti e insieme abbiamo deciso di realizzare un libro-inchiesta: oltre ai casi giudiziari che riteniamo cruciali, abbiamo scavato sui centri nevralgici del “Potere democratico”, studiato documenti impolverati e inediti, raccolto nuove testimonianze. Man mano che si componeva il mosaico abbiamo effettuato collegamenti che ci consentono di analizzare la mutazione antropologica, etica e culturale, del partito erede del Pci di Berlinguer.»

Il libro si apre con una serie di frasi di leader del Pd. Frasi che fino ad alcuni anni fa sembravano possibili da attribuire solo a politici del centrodestra. In che modo si è venuta a creare questa mutazione da voi definita “genetica”?

«Questa mutazione è evidente, la si evince da molti aspetti a partire dalle politiche economiche. Ormai il Pd, sia nella classe dirigente che si perpetua da un ventennio sia nel nuovismo di Renzi, ha la stella polare più vicino al mondo della finanza che non a quello dei lavoratori. La sinistra moderna, non soltanto per la fusione con gli ex democristiani, ha cambiato visione di società mettendo in soffitta le prospettive del socialismo europeo e anche quelle keynesiane: per sommi capi possiamo ricordare che ha privatizzato reti strategiche nazionali, aperto al precariato con la legge Treu, ha appoggiato guerre della Nato, non si è prodigata per estendere i diritti civili, ha finanziato le scuole private invece di rilanciare l'istruzione pubblica e riportare la cultura (senza scomodare l'egemonia di gramsciana memoria) al centro dell'azione politica, infine si è allineata alla “dottrina” dell' austerity imposta dall'Europa dei tecnocrati. In questo contesto ha sdoganato comportamenti come i conflitti d'interesse – anche propri, non soltanto quello noto di Berlusconi - e le opache relazioni con il potere economico e bancario tradendo i principi morali e di giustizia sociale che avevano animato la sinistra del passato.»

La cosiddetta superiorità morale della sinistra non esiste più?

«Sulla base delle inchieste giornalistiche condotte in questi anni e del quadro organico che abbiamo assemblato ci siamo persuasi che, nei fatti, questa diversità non esiste più.»

La struttura del vostro libro sembra suggerire che il padre di questa mutazione della sinistra sia Giorgio Napolitano. È così?

«Napolitano è un garante dei poteri forti. È il comunista borghese collaterale al Psi di Craxi e favorevole, già negli anni Ottanta, ai rapporti con Berlusconi. Trovo significativa una sua frase, pronunciata quando si insediò al ministro degli Interni nel primo governo di centrosinistra della Seconda Repubblica, nel 1996. “Non sono venuto qui per aprire gli armadi del Viminale”, disse Napolitano facendo intendere di non voler indagare sui tanti segreti italiani irrisolti. Una dichiarazione che è tutta un programma.»

Nel libro viene citata tra l’altro una fonte anonima che sostiene l’appartenenza di Napolitano alla massoneria…

«L’appartenenza di Napolitano alla massoneria non è provata. E’ l’opinione della nostra fonte, noto avvocato figlio di un esponente del Pci, il quale riconduce le famiglie Amendola e Napolitano, interpreti della corrente di pensiero partenopea “comunista e liberale”, alla massoneria atlantica. Anche l'ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo, ipotizza per il presidente della Repubblica l'affiliazione ad ambienti massonici atlantici. Ma siamo nell’ambito delle opinioni. E' invece emerso da un documento datato 1974, l'Executive Intelligence Review, che Giorgio Amendola, il mentore di Napolitano, era legato alla Cia. Napolitano fu il primo dirigente comunista ad essere invitato negli Stati Uniti. Andò in visita negli Usa al posto di Berlinguer, a tenere conferenze nelle università più prestigiose: proprio nei giorni del rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Un episodio che chiarisce quanto Napolitano fosse, sino da allora, il più affidabile per i poteri atlantici e che spiega almeno in parte la sua ascesa.»

Insomma, Napolitano grimaldello degli Usa per portare il Pci a posizioni più allineate al potere atlantico?

«Napolitano ha saputo muoversi perfettamente. A livello pubblico e ufficiale è sempre stato fedele al partito, sostenendo la causa di Togliatti persino nella difesa dell'invasione sovietica di Budapest nel 1956, poi come “ministro degli Esteri” del Pci. In maniera sommersa ha coltivato relazioni dall'altra parte della barricata, accreditandosi a più livelli di potere, italiani e internazionali.»

Alla luce di quello che scrivete nel libro sui rapporti tra Napolitano e Berlusconi ritieni credibile che tra i due ci fosse stato un accordo su un qualche tipo di salvacondotto giudiziario per il leader del centrodestra?

«I rapporti tra Berlusconi e Napolitano vengono da lontano,dai tempi della Milano da bere, quando la corrente migliorista del Pci spingeva per lo spostamento del baricentro dalle posizioni di Berlinguer a quelle di Craxi. Il rampante Berlusconi finanziava il settimanale della corrente migliorista, Il Moderno. Negli anni Napolitano si è confermato uomo del dialogo nei confronti di Berlusconi, contro il quale non ha mai espresso posizioni fortemente critiche. Ha promulgato senza rinvio lodi e leggi ad personam che sono stati poi bocciati dalla Corte Costituzionale, in queste settimane ha parlato di amnistia proprio dopo la condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset.»

Nel libro parlate anche delle magagne di tutti gli altri attuali leader della sinistra. In particolare delle amicizie sbagliate, o quantomeno pericolose, di Bersani e D’Alema. Per quanto riguarda i rapporti di forza sembra venir fuori che D’Alema è la serie A e Bersani è la serie B. E' così?

«La frase su serie A e serie B è riferita a una fase del Penati gate. A un certo punto Di Caterina, prima finanziatore del partito e poi teste d’accusa nel processo a Penati, fa riferimento a un affare immobiliare senza rilievo penale. Un affare che vorrebbe Di Caterina ma che si sblocca solo quando palesa il proprio interessamento la società Milano Pace del salentino Roberto De Santis, imprenditore che si autodefinisce “fratello minore di D’Alema”. La galassia dei dalemiani è molto composita e ben presente anche nel campo degli affari. Nel libro parliamo anche della vicenda di Flavio Fasano, dimenticata dai quotidiani nazionali. Fasano era il referente di D’Alema nel quartier generale di Gallipoli: da sindaco gli ha organizzato regate e incontri decisivi come il pranzo con l'allora segretario del Ppi Rocco Buttiglione che nel 1994 creò le condizioni per il ribaltone del governo Berlusconi poi affossato dalla Lega di Bossi. Un uomo di fiducia, insomma. Ecco, nel 2008 si è scoperto che Fasano aveva rapporti con Rosario Padovano, un boss della Sacra Corona Unita di cui era stato avvocato anni addietro. Da una telefonata intercettata emerge che Fasano gli dispensava consigli pochi giorni dopo che Padovano aveva fatto uccidere il fratello. Non bisogna esagerare definendo Fasano come il “Dell'Utri di D’Alema” però la vicinanza di un suo fedelissimo ad un capomafia è un fatto poco noto...»

Nel libro raccontate le vicende di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo. Entrambe, dopo aver lambito D’Alema e Vendola con le loro inchieste su Unipol e sulla Sanitopoli pugliese, sono state trasferite per “incompatibilità ambientale”. Questo significa che in alcune procure chi indaga su leader politici di sinistra viene isolato e punito?

«Di certo vi è stata una degenerazione, mi riferisco al peso improprio che le correnti della magistratura hanno assunto in seno ad Anm e Csm, che in alcuni casi hanno trasferito, punito e isolato i magistrati non allineati. Se da un lato si è manifestato un atteggiamento demeritocratico e doppiopesista dall'altro però non si può affermare come fa Berlusconi che siano tutte toghe rosse o che la magistratura sia eterodiretta dalla politica. Preferisco restare ai due casi specifici. Quando il Tar ha annullato il provvedimento di trasferimento della Forleo a Cremona deciso dal Csm, l’Anm ha criticato la sentenza. Eppure il sindacato delle toghe, ogni volta che Berlusconi attacca i giudici, ribadisce giustamente che le sentenze vanno rispettate. Nel procedimento sulla scalata di Unipol a Bnl D’Alema e Latorre potevano essere indagati per concorso in aggiotaggio, ma nonostante le indicazioni del gip Forleo sulla base delle loro scottanti telefonate con Consorte i pm di Milano non lo hanno fatto... Quanto al secondo caso, il sostituto procuratore di Bari Digeronimo – che ha scoperto il marcio di un sistema sanitario regionale piegato a interessi partitici e affaristici - è stata attaccata da Vendola pubblicamente, in stile berlusconiano, senza ricevere appoggio alcuno. Pochi mesi fa è finita nel mirino del Csm per aver segnalato insieme al collega Francesco Bretone i rapporti di amicizia tra la sorella di Vendola e Susanna De Felice, cioè il gup che ha assolto il governatore della Puglia nel processo relativo alla nomina di un direttore sanitario grazie alla riapertura dei termini del concorso. Il Csm ha ottenuto il trasferimento della Digeronimo accusandola di conflittualità con i colleghi, la stessa accusa mossa a suo tempo alla Forleo: condizioni fisiologiche in ogni ufficio e slegate dall'attività giurisdizionale.»

Al di là del caso di Serramazzoni, sembra che l’interesse del Pd riguardo i temi dell’antimafia sia piuttosto basso. È così?

«È così e la prova la si è avuta nella scelta dei candidati per le elezioni del 2013. In Calabria sono state escluse sindache antimafia come Caterina Girasole, Elisabetta Tripodi e Maria Carmela Lanzetta. In Emilia è stato dimenticato Roberto Adani, ripetutamente minacciato per aver denunciato presenze mafiose e colletti sporchi. Nando Dalla Chiesa non è stato più ricandidato dal 2006. Malgrado i proclami elettorali c’è scarsa attenzione su questi temi. In questi giorni si parla tanto dei “signori delle tessere” e sembra quasi che ci sia una guerra tra loro e i maggiorenti del Pd. Ma non è così: i “signori delle tessere” sono stati candidati dai leader nei listini bloccati per una precisa strategia che ha invece escluso chi ha rischiato la pelle combattendo le cosche.»

Una volta si pensava che le mafie fossero politicamente orientate a destra. Oggi guardano anche a sinistra?

«Anche se la maggioranza di casi riguarda ancora il centrodestra, come abbiamo visto si registrano le prime collusioni mafiose dei democratici.»

Sinistra e massoni, i parenti segreti. Un percorso comune da Garibaldi ad Arturo Labriola. Poi la grande rimozione, scrive Dario Fertilio su “Il Corriere della Sera”. Un grembiale di «compagno», il secondo grado gerarchico della massoneria, e una bandiera operaia della «lega tessile»: stessa cazzuola e uguale compasso, analoga la pala con l'immancabile livella. E poi due donne guerriere che marciano insieme verso il bel sol dell'avvenire: la prima, a impersonare i liberi muratori del Grande Oriente, l'altra nei panni della Comune parigina. Modi diversi, all'italiana o in stile francese, per dire la stessa cosa: la sinistra, compresa quella di oggi, è figlia della massoneria. O almeno nipote, benché abbia preferito potare i rami più antichi dell'albero genealogico, rimuovere le memorie di famiglia e in qualche caso demonizzare l'appartenenza stessa dei suoi membri alla mitica associazione vincolata dal segreto. Ma oggi quella legittima discendenza viene riportata alla luce in uno studio imponente curato per la Einaudi dal filosofo Gian Mario Cazzaniga: il ventunesimo volume degli Annali della Storia d'Italia è dedicato interamente al mondo - sconosciuto ai più - delle logge e dei grembiulini, dei cappucci e dei grandi orienti. Sono quasi novecento le pagine in cui una trentina di studiosi ritraggono il pianeta oscuro dalle più svariate angolazioni: riti e musica, religione e giardinaggio, politica e letteratura, mitologia e antiquariato. La stessa classificazione del soggetto di studio - la massoneria appunto - non è definibile una volta per tutte: ci sono buone ragioni per inserirla tra le «scienze occulte» ma anche per considerarla una «religione», senza dimenticare la definizione anglosassone di «associazione fraterna» né respingere del tutto la collocazione nello scaffale della spiritualità teosofica, imparentata con la New Age. Poliedrici, dunque, i saggi contenuti nell'Annale, quanto sfuggente si conferma la materia. Ma certo la sorpresa viene soprattutto dalla discendenza, individuata e dichiarata, fra ordine massonico e sinistra politica. Lo riconosce il curatore Gian Mario Cazzaniga, anche se precisa che «l'affermazione di per sé è parziale. Possiamo dire che le logge massoniche del Settecento costituirono il laboratorio in cui si formarono le grandi correnti del pensiero politico contemporaneo: liberalismo, repubblicanesimo, democrazia cristiana e socialismo». Anche il partito cattolico? «Certo, perché il momento forse più importante, quello dei vescovi che presero parte alla Rivoluzione francese, li vide formarsi durante gli anni precedenti all'interno delle logge massoniche». Ma per quanto riguarda la sinistra... «Bisogna distinguere i suoi due filoni anarco-repubblicano e socialista-marxista. Il primo, nel secondo Ottocento, vide la maggior parte dei suoi esponenti affiliati alle logge; nel secondo ci fu una presenza massonica importante, a cominciare dai due generi di Marx: Lafargue e Longuet». Gli esempi italiani non si contano: da Garibaldi ad Arturo Labriola, passando per Andrea Costa - accostatosi poi al filone socialista di Turati - ma non si possono trascurare i celebri esponenti anarco-repubblicani Bakunin e Proudhon. «Nel campo socialista-marxista - osserva Cazzaniga - il settore riformista e la direzione del movimento sindacale rimasero massonici fino alla prima guerra mondiale, e anche oggi lo sono molti dirigenti dell'Internazionale socialista, soprattutto belgi e francesi». Resta da spiegare il perché della grande rimozione, quasi un ripudio delle radici. «C'è una spiegazione culturale: la sinistra, nella sua fase più anticlericale, interpretò l'aspetto spirituale del rito massonico come un vero e proprio cedimento alla religione. Ma ne esiste anche una politica: la massoneria è sempre stata un momento associativo della classe dirigente, in tutto l'arco politico. L'accusa del movimento operaio ai socialisti massoni si concentrò dunque sulla "collusione con il nemico sociale". Sarà proprio questo l'oggetto della battaglia di Mussolini al congresso socialista di Ancona del 1914». La parola d' ordine della sinistra, dunque, fu «nascondere» il proprio passato? O addirittura «reciderlo?». «Nel mondo socialista sarà soprattutto la parte radicale a prendere le distanze; in quello comunista a partire dal 1922 ci sarà la dichiarazione di incompatibilità, il veto alla doppia appartenenza, per le ragioni politiche già dette. Ma anche per una considerazione di fondo: l'idea totalizzante di un'organizzazione che non ammette nient'altro al proprio interno». In parte deve avere influito anche l'alone misterioso dell'associazione segreta, il sospetto verso altre obbedienze... «Questo è un punto ambiguo. Nel testo della nostra Costituzione, e nel dibattito che lo precedette, il divieto di associazione segreta è stato mantenuto volutamente nel vago. Si vollero colpire naturalmente le finalità militari eversive, ma non si chiarì fino a che punto il diritto associativo potesse comportare la tutela della privacy degli iscritti. Negli statuti dei partiti della sinistra, compresi quelli attuali, ci si attiene in maniera analoga alla lettera della Costituzione, senza precisare a quali associazioni si applichi il divieto di appartenenza (benché il suo significato implicito sia antimassonico)». Un problema, riconosce Cazzaniga, che si ripercuote nella stessa politica culturale della sinistra di oggi: «Il recupero voluto e attuato di filoni repubblicani e socialisti all'interno del nuovo partito, i Ds, complica alquanto le cose, dal momento che si tratta di filoni ricchi di apporti massonici». Insomma, questa sinistra ha ripudiato la madre... «O almeno una delle sue madri, dal momento che esiste anche quella del socialismo cristiano». E se dovesse «riabilitare» qualcuno dei «dimenticati», la sinistra di oggi a chi potrebbe pensare? «C'è una figura emblematica, quella di Sylvain Maréchal. Fu il comunista utopista e massone che nella congiura di Babeuf del 1796 scrisse il primo manifesto del comunismo mondiale, come ricordò lo stesso Marx». È l'Italia, dunque, il Paese in cui la sinistra ha messo in atto la «rimozione» più pesante? «Certo l' accusa non vale per la Gran Bretagna o il Nord America. Da noi invece si basa su aspetti molteplici. Il fascismo, obbedendo al suo totalitarismo organizzativo, perseguitò le logge e impose ai suoi dirigenti di scegliere fra partito e massoneria. Tra l'altro, un terzo dei membri del Gran Consiglio era di origini massoniche. Ma anche nel dopoguerra le due grandi chiese, Dc e Pci, avevano ragioni comuni per diffidare della massoneria e non volersi misurare con essa. Né i dirigenti delle logge sono riusciti a trovare una identità culturale adeguata alla società di massa, anche se mi sembra che il gruppo dirigente attuale si comporti correttamente. Lo testimonia il fatto che, negli studi umanistici degli ultimi due secoli, il fenomeno sia stato poco studiato, quasi per un tacito accordo di esclusione. Non parliamo poi della P2: fu molto peggio che un incidente di percorso, perché un'organizzazione segreta con finalità politiche è contraria ai principi della massoneria, che sono di rispetto per le leggi e di non interferenza. E perché un'organizzazione interna alla massoneria si è imposta ai suoi organi di governo legittimi». Quanto ai legami internazionali della P2, non sono stati studiati abbastanza e Gian Mario Cazzaniga ha una sua teoria: «Credo che le chiavi di spiegazione non si trovino a Washington, ma in gruppi economici latino-americani figli della rete Odessa (l'organizzazione neonazista che favoriva l'espatrio dei gerarchi). E questo spiegherebbe certi strani rapporti con reti arabe e tedesche». Nell'Annale si toccano altri filoni di pensiero, legati all' idea della politica come «religione moderna». È giusto definire la massoneria del Settecento «madre delle idee politiche?». E ci fu la Carboneria ottocentesca all' origine dei partiti di massa? «Certo, e la prima uscita pubblica di questa religione - conferma Cazzaniga - è stata la rivoluzione americana, diretta da massoni come Washington e Franklin». Oltre Atlantico nessuno ha mai considerato il segreto incompatibile con la democrazia... «La massoneria americana è tuttora la più grande del mondo. In generale, non esistono società in cui il segreto non venga praticato come legame sociale, cominciando da quelle cattoliche. Anche i club privé, dopotutto, non possono essere considerati luoghi semi-segreti? E che dire delle riunioni degli organi dirigenti di partito o dei consigli di amministrazione delle imprese?». Il curatore Filosofo e militante Gian Mario Cazzaniga, docente di Filosofia morale all' Università di Pisa e curatore dell'Annale della «Storia d'Italia» Einaudi su «La massoneria» (pagine XXXII-850, 85), ha una lunga storia di militanza a sinistra Dirigente studentesco e poi della Cgil-Scuola, ha fatto parte della sinistra extraparlamentare tra gli anni Sessanta e Settanta. Iscrittosi al Pci nel 1975, è passato poi al Pds, della cui direzione nazionale è stato membro fino al 1997, anno in cui si è ritirato dalla politica attiva. Con il Papa Il difficile confronto Il curatore dell' Annale Einaudi afferma sui rapporti tra Chiesa e massoneria: «Dopo il Concilio Vaticano II il dialogo ha avuto applicazioni diverse all' interno dei vari cleri nazionali: più aperto in Italia e Francia, meno in Germania. La posizione attuale dipende dal fatto che l'episcopato tedesco attribuisce alla massoneria una coerenza filosofica che non ha». E sulla posizione di Joseph Ratzinger: «Non cerca uno scontro, ma la riaffermazione di una identità teologica che ritiene incompatibile con il pluralismo filosofico della massoneria».

SILVIO E GIORGIO: AFFINITA’ E FRATELLANZA.

Silvio e Giorgio, affinità e "fratellanza"? Estratto dal libro "I panni sporchi della sinistra" di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (pubblicato per gentile concessione di Chiarelettere). Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico. Di Berlusconi è nota l’appartenenza massonica, che non si manifesta solo nella documentata affiliazione alla loggia P2 di Licio Gelli, ma anche nel sistema di simboli che costellano il cosiddetto mausoleo di Arcore, la tomba che il Cavaliere ha fatto realizzare per sé e per i propri cari dallo scultore Pietro Cascella. Ma c’è dell’altro. Il discusso leader del Grande Oriente democratico Gioele Magaldi, noto per le sue dichiarazioni forti, ha affermato in un’intervista: «Il fratello Silvio Berlusconi, iniziato apprendista “libero muratore” nel 1978 presso la loggia P2, e diventato successivamente “maestro” in questa stessa officina, ha proseguito il suo percorso massonico alla corte del Gran maestro Armando Corona dal 1982 al 1990. Successivamente, ha ritenuto di farsi una loggia segreta e sopranazionale autonoma. Uno dei nomi utilizzati per questa officina era “loggia del Drago”». Magaldi rivela: «L’attività massonica di Berlusconi e Marcello Dell’Utri è stata essenziale per costruire il consenso sociale e politico che ha condotto alla vittoria elettorale del 1994. Dell’Utri e altri fratelli della cerchia massonica di Villa San Martino hanno girato la penisola in lungo e in largo, come proconsoli massonici di Berlusconi, intessendo accordi con la maggioranza delle logge del Belpaese in favore della neonata Forza Italia. In anni successivi, le relazioni massoniche dell’autoproclamatosi Maestro venerabile di Arcore gli hanno consentito di risollevarsi in momenti di particolare difficoltà». Dalla conversazione con Magaldi emergono altri dettagli degni di nota: «Più in generale, Berlusconi coltiva interessi esoterico-iniziatici da molti decenni. La qual cosa da un lato ha spinto lui e la sua seconda moglie Veronica Lario a iscrivere i propri figli a scuole di orientamento pedagogico antroposofico (cioè ispirate agli insegnamenti spirituali esoterizzanti di Rudolf Steiner), dall’altro ha determinato la sua ferma volontà di percorrere un sentiero massonico, ancorché riservato e dissimulato pubblicamente. Ma riservato fino a un certo punto: nella cerchia intima del padrone di Mediaset sono in molti ad aver praticato e a praticare officine liberomuratorie o a frequentare circuiti di spiritualità esoterica». Tra questi, secondo Licio Gelli, l’ex governatore del Veneto ed ex ministro Giancarlo Galan, ex dipendente di Publitalia e poi tra i fondatori di Forza Italia, che il capo della P2 ha qualificato come massone. Sul «fratello» Berlusconi, Magaldi ha aggiunto: «Certamente, la sociabilità massonica è servita – a lui come ad altri – anche a facilitare obiettivi di potere e lucrosi affari, ma esiste nel “fratello Silvio” una vocazione autentica e genuina verso discipline esoteriche come l’astrologia, l’ermetismo egizianeggiante e la magia sessuale». Un’indicazione, quest’ultima, che richiama alcuni «rituali» delle notti del bunga bunga. È la massoneria che orienta Berlusconi o Berlusconi che orienta la massoneria? Secondo Magaldi, «nessuna delle due ipotesi. Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che Magaldi non ha avuto timore di fare assumendosene la responsabilità. Torniamo a Berlusconi, che ha rinnegato l’esperienza della P2: una volta affiliati si rimane massoni per tutta la vita? O essere in sonno significa interrompere ogni rapporto con l’Obbedienza? Secondo Magaldi, «l’iniziazione massonica è indelebile come quella sacerdotale: essa presuppone, secondo la Weltanschauung massonica, una trasmutazione esistenziale e spirituale non reversibile. Mettersi in sonno non significa cessare di far parte della catena iniziatica libero-muratoria, la quale va persino oltre le singole “comunioni” o “obbedienze” territoriali, afferendo a una dimensione planetaria e universale. Spesso, il cosiddetto “assonnamento” equivale soprattutto a una presa di distanza da una determinata obbedienza, ma può significare l’avvicinamento ad altri cenacoli massonici più o meno ufficiali». Molto più complesso il discorso che riguarda Napolitano. È possibile che le sintonie con Berlusconi siano state facilitate da comuni vicinanze su questo terreno? Secondo Magaldi – che lo ha affermato in numerose interviste – non vi sono dubbi sul fatto che il presidente della Repubblica sia un «fratello». Dichiarazioni certamente insufficienti. Abbiamo perciò voluto approfondire questa pista. E abbiamo incontrato un’autorevole fonte, che ha chiesto di rimanere anonima: un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd. La prima indicazione che ci offre è interessante: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la «fratellanza». A rafforzare la connotazione «muratoria» dell’ambiente in cui è nato Giorgio Napoletano c’è un altro massone, amico fraterno del padre: Giovanni Amendola, padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica. Va detto che l’appartenenza alla massoneria non è un reato, anzi, molto spesso figure a essa legate sono diventate protagoniste di rivoluzioni innovatrici e progressiste. Il fatto indiscutibile, però, è che il legame massonico rappresenta una modalità di gestione del potere di cui poco si conosce e che è spesso determinante per capire i fatti più recenti della politica italiana e internazionale. La nostra fonte ha conosciuto bene e conosce Napolitano, cui si considera molto vicino. «Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all’esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell’alveo di quella francese. Per molti aspetti Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone. Si può stabilire un parallelismo tra i due: la visione della république è la stessa, laica ma anche simbolica. L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi. Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto.» La massoneria italiana, dal canto suo, ha sempre espresso grande simpatia verso il presidente della Repubblica. Il Gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), avvocato Gustavo Raffi, si è rivolto più volte pubblicamente a Napolitano, esprimendo simpatia e deferenza. Il 10 maggio 2006, dopo l’elezione alla presidenza della Repubblica, Raffi esultava indicando la scelta di Giorgio Napolitano come «uno dei momenti più alti nella vita democratica del paese. A nome dei liberi muratori del Grande Oriente d’Italia e mio personale desidero manifestare pubblicamente le nostre vivissime felicitazioni». Nel marzo del 2010 Raffi esprimeva nuovamente a Napolitano «gratitudine per la sua diuturna, appassionata e tenace difesa dei valori fondanti la nostra Nazione». E il 13 giugno 2010 si spingeva sino alla soglia di pesanti rivelazioni, rispondendo a una domanda non casuale di Lucia Annunziata, nella sua trasmissione Rai In mezz’ora: «Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, potrebbe essere un massone sotto il profilo dei valori?» chiedeva Annunziata. Netta la risposta di Raffi: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche nel 150° anniversario dell’unità d’Italia si registrano convergenze tra la spinta celebrativa del Colle e i momenti pubblici organizzati dalla massoneria italiana, artefice forte del Risorgimento. Il 7 gennaio 2011 Raffi apre le danze dichiarando: «Come ci ricorda con il suo esempio altissimo il capo dello Stato Giorgio Napolitano, abbiamo il compito di ritrovare fiducia, unità e coesione nazionale, capacità di risolvere i problemi, insieme a progetti che indichino la strada al di là di ogni polemica di parte e del cortile degli interessi».

CHI NON E’ MASSONE DEVIATO, SCAGLI LA PRIMA PIETRA: MAGISTRATI, POLITICI, MAFIOSI.

NUOVO ORDINE MASSONICO E CONTROLLO DELLA MAGISTRATURA. Scrive “La Voce di Robin Hood”. Insieme a noi, lo aveva già inascoltatamente denunciato l'ex Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova, nel 1992, prima di venire messo a tacere dal Governo di centro-sinistra di D'Alema, quando gli impedirono militarmente di sequestrare gli elenchi degli iscritti alla massoneria, presso la sede del Grande Oriente d'Italia, a Villa Medici del Vascello, a Roma, in cui avremmo forse trovato i nomi di illustri ministri, alte cariche dello Stato, alte gerarchie delle Forze di Polizia e dell'Arma dei Carabinieri, alti magistrati, industriali, oltre ai soliti avvocati, professori universitari, giornalisti, faccendieri e malavitosi. L'esistenza di questo "nuovo" ordine massonico (che tanto nuovo non è), capace di controllare la magistratura e l'alternarsi dei governi di centro-destra e centro-sinistra, viene oggi autorevolmente riproposta dall'ex P.M. Luigi De Magistris che, negli ultimi giorni, abbiamo appreso essersi candidato, da indipendente, nell'Italia dei Valori, dopo le dimissioni dalla magistratura. In molti avrebbero forse preferito che De Magistris continuasse la sua battaglia all'interno della magistratura. Altri che fondasse un movimento completamente nuovo, fatto da persone pulite, fuori dai giochi e dagli schemi tradizionali della politica. Comunque sia, al di là della scelta  personale  di lasciare  la magistratura e degli schieramenti  politici, come abbiamo sempre sostenuto, noi riponiamo fiducia nelle singole persone e il nostro giudizio è commisurato sulla base di ciò che fanno e non di quello che dicono.  A nostro avviso, nel triste palcoscenico della politica, Luigi De Magistris è una persona nuova degna di tutta la nostra stima, in quanto ha dimostrato grande integrità morale  e determinazione, pagando di persona un alto prezzo per il suo amore verso la Vera Giustizia. Qui di seguito  proponiamo quindi, oltre all'intervista di Klaus Davi, un intervento firmato di pugno dall'ex P.M. Luigi De Magistris, rilasciata a Beppe Grillo,  riservandoci di proporre nei prossimi giorni un'esclusiva intervista sui grandi temi dei poteri forti e delle deviazioni del sistema, rilasciata  alla Voce di Robin Hood (N.d.R.). «Per il 60% - 70% il Piano di Rinascita democratica è stato già applicato, anzi lo stanno migliorando nella loro ottica, lo stanno rendendo contemporaneo». Queste le testuali parole di Luigi De Magistris a Klaus Davi per il programma web Klauscondicio visibile su YouTube. Il magistrato che avviò l'inchiesta "Why not" aggiunge con tono pacato e non senza preoccupazione: «Ho sempre pensato che la mia vita fosse in pericolo. Gli altri hanno sempre sottovalutato questo aspetto ma da anni sono convinto di essere in pericolo». De Magistris confida poi: «Tengo da sempre un diario, un'abitudine che ho consolidato negli ultimi anni». Una bozza di appunti per un lavoro che un giorno avrà altra forma: «Penso che scriverò un libro sul mio diario. Assolutamente». La mente corre all'agenda di Paolo Borsellino, a quell'annotare con precisione ogni spesa avuta. Questo per l'agenda blu; della rossa, dopo la strage, non se ne seppe più niente. «Tenere un diario è un'abitudine sacrosanta per un magistrato. Io continuo a farlo. Il diario principale ce l'ho in testa, nel mio cervello. Quelli più importanti li ho consegnati alla procura di Salerno, quindi la Procura di Salerno è depositaria degli aspetti d'interesse per la magistratura penale, tutto ciò che interessa la magistratura penale io l'ho consegnato all'autorità giudiziaria. Per il resto, ho diari che riguardano riflessioni sulla vita quotidiana di ogni giorno. I miei diari hanno ad oggetto soprattutto fatti penalmente rilevanti. Poi, all'interno di fatti penalmente rilevanti, ho descritto anche riflessioni che riguardano comunque aspetti di gestione illegale della cosa pubblica». Una riflessione non scevra di considerazioni morali: «Credo che siamo in piena P2 sotto il profilo di alcuni passaggi, come il controllo della Magistratura. «Constato che chi ha negli ultimi tempi, non solo io ma anche altri, fatto investigazioni delicate sul tema delle collusioni interne alle istituzioni e, soprattutto, dove il collante è stato quello dei poteri occulti, non credo che abbia avuto un grosso ausilio da parte di chi dovrebbe istituzionalmente stare vicino». Nemmeno la magistratura, come istituzione democratica è esule da rapporti con la massoneria. «Il Consiglio Superiore della Magistratura nel passato, se pur in casi simbolici ed isolati, è intervenuto su magistrati iscritti alla P2. Però non entrava con il bisturi nel sistema». Licio Gelli, fondatore e capo della loggia P2 in una recente intervista spiegava che «in Calabria la massoneria è forte e può darsi che sia infiltrata un pò da tutte le parti, anche nella magistratura», De Magistris replica: «Se lo certifica Licio Gelli, allora...». "Insieme ai miei più stretti collaboratori attraverso la ricostruzione dei finanziamenti pubblici in Calabria, avevamo scoperto, in modo esattamente preciso, quella che con gergo giornalistico si potrebbe anche definire la nuova P2". Il riferimento alla loggia massonica di Licio Gelli si spiega perche' l'indagine Why Not, che gli e' stata tolta un anno fa dalla procura di Catanzaro, riguardava "la gestione del denaro pubblico e di alcuni pezzi delle istituzioni attraverso il tramite dei poteri occulti". "Questo - scandisce il magistrato - è il cuore del problema e non voglio dire altro. Perchè fatti, nomi, documenti, li ho consegnati".  "Non ho fatto un uso mai particolarmente impegnativo delle intercettazioni telefoniche", assicura De Magistris che ricorda: "nell'inchiesta Why Not io non ho fatto nemmeno una intercettazione telefonica. Nell'inchiesta Poseidone ne ho fatte pochissime. Nell'inchiesta toghe lucane, se non vado errato anche lì non ho fatto nessuna intercettazione telefonica. Ho utilizzato strumenti investigativi che hanno dato molto fastidio agli indagati di questi procedimenti. Che si tratta in particolare degli accertamenti bancari, accertamenti patrimoniali. Traffico dei flussi telematici e delle tracce, degli incroci telefonici, le sommarie informazioni testimoniali, l'esame dei documenti. Le indagini tradizionali".  L'ex pm di Catanzaro definisce infine "curiosa" la vicenda dell'archivio Genchi anche per il fatto che se ne parla proprio a ridosso della riforma delle intercettazioni. "Sto vedendo - dice - una serie di coincidenze un po' strane". Alla domanda: che fine faranno le sue indagini De Magistris risponde che va chiesto alla Procura di Catanzaro e conclude: "La mia testimonianza, i miei documenti, il mio sapere doveroso l'ho consegnato all'Autorità giudiziaria di Salerno. Prendo atto che sono stati fermati i magistrati che stavano conducendo questa indagine".

Consiglio di Stato, quanti massoni ci sono? Si chiede Alessio Liberati (magistrato) su “Il Fatto Quotidiano". L’ultimo di cui si è avuta notizia, in ordine di tempo, è Antonio Maccanico, fratello massone e contestualmente consigliere di Stato, oltre che segretario generale della Presidenza della Repubblica (incarico ricoperto peraltro anche da molti altri consiglieri di Stato, come Gaetano Gifuni, recentemente condannato per peculato e abuso di ufficio e l’attuale pagatissimo Donato Marra). Ma non è il solo ad aver indossato il grembiulino. La mia curiosità per i rapporti tra massoneria e Consiglio di Stato – che ha avuto inizio per caso, quando cioè tre magistrati appartenenti a tale istituzione (Roberto Giovagnoli, Claudio Contessa e Raffaele Greco) presentarono un esposto disciplinare nei miei confronti, lamentando che un mio articolo scientifico, ove facevo tra l’altro affermazioni tanto generiche quanto banali sulla degenerazione dei concorso pubblici, non mancando di citare i condizionamenti da parte della massoneria e dell’Opus Dei, fosse offensivo nei confronti della giustizia amministrativa, per profili che non ho mai compreso – ha portato infatti a molti riscontri, di cui ho già parlato anche in questo blog. Rinvio, in proposito, oltre che agli elenchi della P2, ad un mio articolo più in generale sul presidente Pasquale de Lise, ad altro relativo all’ex consigliere di Stato Carlo Malinconico (oggi agli arresti domiciliari per gravi fatti corruttivi) ed anche a quanto richiesto in sede di interrogazione parlamentare dopo una mia denuncia relativa a quanto accertato nei confronti di uno degli ex presidenti dell’associazione dei consiglieri di Stato e ad altri magistrati in servizio nella giustizia amministrativa di appello. Tuttavia, ogni volta che viene fuori il nome di un ulteriore Consigliere di Stato occultamente appartenente alla massoneria, mi pongo le stesse domande, che rimangono inevitabilmente senza risposta. Quanti sono i massoni che indossano grembiulino e toga da consigliere di Stato? Quanti di questi sono ricattabili (visto che vige un divieto espresso per i magistrati amministrativi di appartenere a logge massoniche) da avvocati o terze persone che ne sono a conoscenza? Perché l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa, da me sollecitato più volte, si è rifiutato di imporre l’obbligo di una dichiarazione espressa di non appartenenza a logge massoniche, nonostante molti dei suoi componenti avessero preso un espresso impegno in tal senso (Luca Cestaro, Umberto Maiello, Antonio Plaisant, Roberto Pupilella, ecc.), poi disatteso? Non sarebbe ora di costringere i giudici amministrativi (le cui decisioni condizionano pesantemente la vita economica di questo Paese) a rendere pubbliche queste appartenenze, per evitare anche il solo rischio o sospetto che possano esservi ricatti a carico di questi magistrati? Non sarebbe l’ora di affrontare definitivamente, eventualmente in senso positivo, il tema della compatibilità tra appartenenza massonica e magistratura, al fine di evitare che si creino appartenenze occulte, con i rischi sopra descritti? Del tema, emerso nuovamente durante il periodo in cui era presidente dell’associazione dei consiglieri di Stato Filippo Patroni Griffi, non si è voluto occupare né quest’ultimo, né il suo successore Roberto Chieppa, né l’ex presidente Paolo Salvatore, né tanto meno il predetto De Lise. Speriamo che almeno il nuovo presidente, Giorgio Giovannini, voglia affrontare il tema, seppur con incomprensibile ritardo…

Massoneria e magistratura. Tratto dal libro “La massoneria smascherata” di G. Butindaro. Innanzi tutto va detto che affiliarsi alla Massoneria non è reato, in quanto la Massoneria non è tra le associazioni segrete proibite dalla Costituzione italiana con l’articolo 18 (Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare); tuttavia il Consiglio Superiore della Magistratura ha affermato con chiarezza l’incompatibilità fra affiliazione massonica e l’esercizio delle funzioni di magistrato, perchè le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezioni a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell’immagine e del prestigio del magistrato e dell’intero ordine giudiziario» (I magistrati non possono essere massoni, Corriere della Sera, 17 gennaio 1995, pag. 1); e secondo la Cassazione, il giudice massone può essere ricusato dall’imputato, in quanto l’appartenenza a logge preclude «di per sè l’imparzialità» del magistrato (La Cassazione, 5a sezione penale n° 1563 / 98), in altre parole, perchè – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l’unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi ad interessi individuali nell’emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia. Esistono allora magistrati che sono massoni? Sì. Per esempio ecco cosa si legge nell’articolo dal titolo E sui magistrati massoni indagherà anche Conso a firma di Franco Coppola e apparso su La Repubblica il 15 luglio 1993: Smentiscono, querelano, minacciano fuoco e fiamme. Ma i loro nomi sono lì, negli atti giudiziari raccolti dalle procure di Palmi e di Torino. Sono le toghe incappucciate, i magistrati sparsi per il territorio nazionale che hanno giurato fedeltà alla Costituzione e al credo massonico, qualcuno addirittura aderendo alle logge segrete, quelle espressamente vietate anche a chi non fa parte dell’ordine giudiziario. Per ora sono usciti fuori 36 nomi, due o tre dei quali appartenenti a personaggi ormai in pensione che hanno appeso nell’armadio dei ricordi le toghe da magistrati ma forse non i grembiulini e i cappucci da massoni. E così ora di loro si occupano non più soltanto il Consiglio superiore della magistratura, che può trasferirli d’ufficio ad altra sede o ad altra funzione, ma anche il ministro della Giustizia Giovanni Conso e il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi che, come titolari dell’azione disciplinare, possono avviare un procedimento disciplinare, le cui conseguenze potranno essere, a seconda dei casi, blande o particolarmente severe. Ma nella magistratura esistono anche avvocati, cancellieri, docenti di materie giuridiche, ufficiali giudiziari, e così via, che sono affiliati alla massoneria. Ed ovviamente tutti costoro, in virtù del loro giuramento massonico (che recita tra le altre cose: …. prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Libera Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato; prometto e giuro di prestare aiuto ed assistenza a tutti i Fratelli Liberi Muratori sparsi su tutta la superficie della Terra….), devono anche loro aiutare i loro fratelli massoni, per cui è ovvio che quando un massone si troverà indagato o imputato in un processo, egli al momento giusto riceverà una qualche forma di aiuto dai suoi fratelli che sono nella magistratura (o nella politica) che si muoveranno come sanno fare loro in questi casi. Un esempio di inchiesta giudiziaria contro dei massoni ‘affossata’ è quello dell’inchiesta del procuratore di Palmi Agostino Cordova da lui avviata nel 1992, a cui abbiamo accennato prima, che dopo che Agostino Cordova fu trasferito-promosso alla Procura di Napoli nel 1993 e che le indagini vennero trasferite (per «incompetenza tecnica» della Procura di Palmi a occuparsi della materia) alla Procura di Roma nel giugno del 1994, rimase pressoché ferma per quasi sei anni, e poi nel dicembre 2000, il giudice per le indagini preliminari dispose l’archiviazione dell’inchiesta, nonostante fossero stati raccolti centinaia di faldoni e tantissime fonti di prova sulle attività illecite di logge italiane con decine di indagati, coinvolgenti influenti personaggi del mondo imprenditoriale, finanziario, politico e istituzionale, nonché della stessa magistratura, collusi con la ‘ndrangheta con cui avevano costituito delle vere e proprie società di affari, attraverso le quali si spartivano i proventi derivanti dagli accordi perversi del sodalizio criminale. Per capire la portata dell’inchiesta di questo coraggioso magistrato consiglio di leggere Oltre la cupola: massoneria, mafia, politica, scritto da Francesco Forgione e Paolo Mondani, pubblicato da Rizzoli Editore nel 1994. Un esempio invece di processo in cui erano imputati dei massoni con evidenti prove di colpevolezza contro di essi, e che si è concluso con la loro assoluzione, è quello del golpe Borghese. Il golpe Borghese fu un colpo di Stato tentato in Italia durante la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 e organizzato e guidato da Junio Valerio Borghese (ex comandante della X Mas nella repubblica sociale italiana, e leader dell’organizzazione neofascista Fronte nazionale), allo scopo di impedire l’accesso del Partito Comunista al governo. Il nome del colpo di stato aveva come nome in codice Operazione Tora Tora, in ricordo dell’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Tra i golpisti c’erano oltre che uomini dei servizi segreti e fascisti, anche massoni e mafiosi. In vista del golpe Borghese infatti, la Massoneria aveva chiesto l’aiuto di Cosa nostra e della criminalità organizzata calabrese per averne un appoggio armato. La sera del 7 dicembre 1970, i congiurati – in gran parte armati, e provenienti da varie regioni d’Italia – si concentrarono nei vari punti prestabiliti della Capitale. Il piano eversivo prevedeva tra le altre cose, l’uccisione del capo della polizia Angelo Vicari, e l’irruzione al Quirinale di una squadra di congiurati armati comandati da Licio Gelli (capo della loggia massonica segreta P2) per sequestrare il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Ma ecco che poco dopo la mezzanotte ai congiurati arriva improvviso il contrordine: l’azione golpista è sospesa e rinviata. L’inchiesta giudiziaria che ne seguì non riuscirà a chiarire le circostanze dell’improvviso contrordine impartito ai congiurati. Secondo alcuni, la sospensione del golpe è da attribuire alla defezione di un importante personaggio che avrebbe reso impossibile l’attuazione dell’aspetto strategico del golpe. Secondo altri, il golpe non fu attuato, benchè avallato dagli USA, a causa dell’imprevista presenza della flotta russa nel Mediterraneo la notte tra il 7 e l’8 dicembre. Comunque il tentato golpe ci fu. In merito al procedimento giudiziario e il processo che si tenne contro coloro che furono coinvolti nel Golpe Borghese, ecco cosa dice il senatore Sergio Flamigni, che ha fatto parte della Commissione Parlamentare sulla Loggia P2: ‘Nel procedimento giudiziario scaturito dal «golpe Borghese» risulteranno coinvolti piduisti di primo piano: il generale Vito Miceli, promosso capo del Sid per intervento di Licio Gelli presso il ministro della Difesa Mario Tanassi (il cui segretario particolare, Bruno Palmiotti, e il cui fratello, Vittorio Tanassi, sono affiliati alla Loggia segreta); Giuseppe Lo Vecchio, colonnello dell’Aeronautica; Giuseppe Casero, ufficiale dell’Aeronautica; Giovanni Torrisi, ufficiale di Marina; Giovambattista Palumbo, Franco Picchiotti e Antonio Calabrese, ufficiali dei Carabinieri; Giuseppe Santovito, ufficiale dell’Esercito; il banchiere Michele Sindona; l’alto magistrato Carmelo Spagnuolo; il consigliere regionale andreottiano Filippo De Jorio (consigliere di Andreotti a Palazzo Chigi anche dopo il suo coinvolgimento nel tentato golpe). Tutti costoro risulteranno affiliati alla Loggia P2 nel gruppo Centrale, cioè in diretto collegamento con Gelli. Nella «Operazione Tora Tora» risulteranno coinvolti anche altri massoni, tra i quali: Duilio Fanali (capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, che nel tentato golpe aveva il compito di insediarsi nel ministero della Difesa e impartire ordini a tutto l’apparato militare); il costruttore romano Remo Orlandini; Sandro Saccucci (deputato nelle liste del Msi, nel 1972, per avvalersi dell’immunità parlamentare); Salvatore Drago (ufficiale medico della Polizia, fedelissimo del piduista Federico Umberto D’Amato); Gavino Matta e Tommaso Rook Adami (massoni appartenenti alla Comunione di Piazza del Gesù); Giacomo Micalizio. [....] Benchè nella «Operazione Tora Tora» abbia avuto un ruolo centrale, Licio Gelli non viene coinvolto nel processo seguito al «golpe Borghese». Il Venerabile gode infatti di particolari coperture e di ferree protezioni. Nel luglio 1974, nello studio privato del ministro della Difesa Giulio Andreotti, si tiene una riunione alla quale partecipano, oltre al ministro: il nuovo capo del Sid ammiraglio Mario Casardi il comandante dei Carabinieri generale Enrico Mino, il capo dell’ufficio D del Sid generale Gianadelio Maletti (piduista), e gli ufficiali del Sid colonnello Sandro Romagnoli e capitano Antonio Labruna (piduista). Oggetto della riunione è un dossier compilato dai Servizi sul «golpe Borghese», da inviare alla magistratura. Il dossier giunto al ministro Andreotti è già stato sottoposto a numerosi tagli; infatti il capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Eugenio Henke, ha disposto la cancellazione di ogni riferimento ad alcuni collaboratori del Sid. Ma a questo punto è Andreotti che suggerisce a Maletti di «sfrondare il malloppo e di eliminare i dati non riscontrabili». Così dal rapporto scompare il nome di Gelli [....]. Il processo per il «golpe Borghese», celebrato presso il Tribunale di Roma, consentirà di accertare una serie di gravissimi fatti. Ma tutti gli imputati piduisti, anche grazie al sotterraneo attivismo di Licio Gelli, verranno assolti. [....]. I gravissimi fatti culminati nel tentato golpe della notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 subiranno in fasi processuale un inopinato ridimensionamento. Benchè si sia trattato di un preciso piano eversivo sostenuto da ampi settori dei vertici militari in collegamento con gruppi armati di civili ramificati in tutto il Paese, a conoscenza dei comandi Nato e con la partecipazione di Cosa nostra e della ‘ndrangheta calabrese, nel corso dei vari gradi di giudizio il processo si risolverà in un progressivo insabbiamento, tra proscioglimenti e archiviazioni, fino alla generale assoluzione degli imputati superstiti da parte della Corte di Cassazione. [....] Le sentenze della Corte di assise di Roma del 14 novembre 1978 e della Corte di assise d’appello del 27 novembre 1984, affermando l’insussistenza del delitto di insurrezione armata, predisporranno la Corte di cassazione a trasformare il tentato golpe in un semplice «complotto di pensionati», e ad assolvere tutti gli imputati. Molti anni dopo, il giudice istruttore del Tribunale di Milano Guido Salvini scriverà infatti che «una vasta e continuativa trama golpista, corroborata sul piano probatorio anche da numerosi elementi documentati, [è stata] così ridotta ai progetti velleitari di qualche anziano Ufficiale nostalgico e di poche Guardie forestali. Certamente non è stato così». Il giudice citerà una serie di documenti e testimonianze, prove di un’ampia articolazione eversiva di forze: alti ufficiali delle Forze armate e Massoneria, P2 e servizi segreti, mafia siciliana e ‘ndrangheta calabrese, strutture clandestine di militari e civili e gruppi della destra eversiva e neofascista, con sullo sfondo i comandi della Nato (Sergio Flamigni, Trame Atlantiche, Kaos Edizioni, Seconda Edizione 2005, pag. 45-46, 48, 50, 53,54). A conferma che anche nella magistratura si muove la mano della Massoneria vi propongo una parte di un interessante scritto dal titolo «Fratellanza giuridica». I magistrati e la massoneria a cura di Solange Manfredi, pubblicato sul blog di Paolo Franceschetti il 20 luglio 2010, che credo renda bene l’idea di questo intreccio, che spiega il perchè certe indagini che coinvolgono massoni vengono ostacolate o affossate, e dei processi contro esponenti della massoneria finiscono con l’assoluzione degli imputati. [....]. Quando mio padre (avvocato) morì, 15 anni fa, nella cassaforte di casa trovai, insieme al suo tesserino di affiliazione alla massoneria, centinaia di documenti massonici. Tra questi rinvenni un piccolo libricino rilegato che riportava in copertina: “Fratellanza Giuridica” Statuto. Appena ne lessi il contenuto rimasi sconvolta, come sconvolti sono rimasti avvocati e giudici (non massoni ovviamente) a cui l’ho mostrato. L’esistenza di uno Statuto che, all’interno delle varie logge (e quindi tra massoni già vincolati dal giuramento di silenzio, assistenza ed aiuto reciproci e dal divieto di denunciare un fratello al Tribunale profano), univa in una “più fraterna collaborazione” avvocati – cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri ed ufficiali giudiziari, in altri termini tutti i tasselli “sensibili” di un Tribunale, era sconvolgente. Un legame così stretto tra i protagonisti delle vicende giudiziarie si prestava veramente a deviazioni infinite. Il fatto, poi, che gli elenchi di questa “Fratellanza Giuridica” fossero a disposizione dei massoni iscritti alle varie logge italiane poteva rendere ogni Tribunale raggiungibile da qualsiasi fratello in cerca di aiuto massonico.
Nessun rischio a chiedere un “aiutino”: il massone infatti ha giurato sia di aiutare sia di non denunciare mai un fratello al Tribunale profano. Non a caso ogni scandalo che ha riguardato magistrati e massoni è sempre stato originato dalla scoperta di documenti durante una perquisizione o, come in questo caso, da intercettazioni telefoniche; ma mai in nessun caso un’indagine ha avuto origine dalla denuncia di un fratello verso un altro fratello. Se all’interno della stessa loggia, della stessa cittadina, si ritrovano regolarmente per studiare, lavorare, o altro… avvocati, cancellieri, magistrati e ufficiali giudiziari, si sa, l’occasione fa l’uomo ladro. La frequentazione, l’amicizia, ma, soprattutto, il giuramento di reciproco aiuto ed assistenza, fanno sì che in queste “logge” possa scattare la richiesta di “aiutino”. In fondo, per insabbiare un processo, per depistare, per creare confusione, basta poco: una notifica sbagliata, un fascicolo sparito, una nullità non rilevata, ecc.. piccoli errorini, idonei a deviare il corso di un processo; ma errorini per cui in Italia non si rischia assolutamente nulla. Certo si parla di possibilità, non è detto che accada però, come già sottolineato, l’occasione fa l’uomo ladro. Proprio per questo i magistrati ed avvocati più attenti a livello deontologico (non vi preoccupate, è una razza ormai quasi estinta) evitano le frequentazioni con avvocati almeno dello stesso foro in cui esercitano. Il motivo di tale comportamento è chiaro (o dovrebbe esserlo) il giudizio del magistrato, per non lasciare adito ad alcun dubbio, deve essere il più possibile scevro da condizionamenti di qualunque genere. Chi frequenta i Tribunali, invece, spesso si trova a dover costatare comportamenti ben diversi, e si può incappare in situazioni in cui avvocati e magistrati dello stesso foro dividono l’affitto di una garconier con cui andare con le rispettive amanti. Sarà, dunque, forse un caso che più di 7 processi su dieci saltano per notifiche sbagliate? Sarà forse un caso che spesso le indagini o processi che vedono coinvolti massoni hanno un iter burrascoso con avocazioni di indagine (Why not, Toghe Lucane), trasferimenti di sede (Piazza Fontana, Golpe Sogno, Scandalo loggia P2) od altro? Probabilmente si, non vogliamo in alcun modo pensar male anche se, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma, raramente, si sbaglia. Trascrivo qui il contenuto dello Statuto rinvenuto tra i documenti di mio padre. Ovviamente, e per estrema correttezza, avverto il lettore che non posso assicurare che detto statuto sia vero, ma, dati i rapporti che intratteneva mio padre (avvocato), ciò che mi aveva detto riguardo i magistrati che frequentavano regolarmente la nostra casa e il fatto di averlo rinvenuto all’interno di una cassaforte insieme a centinaia di documenti giuridici firmati da “fratelli”, mi fa propendere per il si. Se così fosse parrebbero esistere “Fratellanze” costituite esclusivamente da magistrati, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari, professori universitari, ecc.. le cui “deviazioni” potrebbero condizionare il sistema giudiziario ostacolando il corso di processi importanti.

"FRATELLANZA GIURIDICA. I magistrati e la massoneria. Di Solange Manfredi.

1. Premessa. Da qualche giorno i giornali riportano la notizia di una inchiesta romana su una associazione a delinquere, denominata nuova loggia P3, che vedrebbe coinvolti politici, faccendieri, criminalità organizzata, e magistrati. I magistrati coinvolti sono persone ai vertici della magistratura, ex Presidenti dell’A.N.M., ex Consiglieri del C.S.M. , avvocati generali della Cassazione, ovvero:

- il dr Arcibaldo Miller, Capo degli Ispettori del Ministero della Giustizia e membro dell’A.N.M;

- il dr Antonio Martone, ex Presidente dell’A.N.M., ex Avvocato Generale della Corte Suprema di Cassazione ed oggi capo di una Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche;

- il Sottosegretario di Stato Giacomo Caliendo, ex Consigliere del C.S.M ed ex Presidente dell’A.N.M;

- il Presidente della Corte di Appello di Salerno Umberto Marconi, consigliere del CSM ed ex membro dell’ANM;

- il Presidente della Corte di Appello di Milano Alfonso Marra;

- il Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione Vincenzo Carbone.

Niente di nuovo, l’intreccio in odor di massoneria tra magistratura e potere c’è sempre stato. Solo per fare un esempio, da più di un anno si sta celebrando, nel più assoluto silenzio, un processo sulla compravendita di sentenze in Cassazione che, visto il coinvolgimento di personaggi legati dal vincolo massonico, è stato denominato Hiram (figura allegorica della massoneria, nonchè nome della rivista ufficiale del Grande Oriente d’Italia). Ed ancora l’intreccio tra magistratura e potere massonico (di oggi e di ieri) è ben evidenziato nel libro di Gioaccino Genchi “Gioacchino Genchi. Storia di un uomo in balia dello Stato”. Per non parlare degli scandali che negli anni ’80 e ’90 videro coinvolti magistrati iscritti alla loggia P2. Ma, a questo punto, una domanda sorge spontanea: perché nella maggior parte degli scandali che vede coinvolti magistrati compare sempre anche la massoneria? Come fanno i massoni a poter sempre contattare il magistrato giusto al momento giusto?

2. La "Fratellanza Giuridica". La risposta non è semplice ma forse, in questa sede, si può aggiungere un dato che potrebbe essere importante per capire gli intrecci di “certo” potere. Quando mio padre (avvocato) morì, 15 anni fa, nella cassaforte di casa trovai, insieme al suo tesserino di affiliazione alla massoneria, centinaia di documenti massonici. Tra questi rinvenni un piccolo libricino rilegato che riportava in copertina:

Fratellanza Giuridica" Statuto. Appena ne lessi il contenuto rimasi sconvolta, come sconvolti sono rimasti avvocati e giudici (non massoni ovviamente) a cui l’ho mostrato. L'esistenza di uno Statuto che, all’interno delle varie logge (e quindi tra massoni già vincolati dal giuramento di silenzio, assistenza ed aiuto reciproci e dal divieto di denunciare un fratello al Tribunale profano), univa in una “più fraterna collaborazioneavvocaticancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistratinotai – ragionieri ed ufficiali giudiziari, in altri termini tutti i tasselli “sensibili” di un Tribunale, era sconvolgente. Un legame così stretto tra i protagonisti delle vicende giudiziarie si prestava veramente a deviazioni infinite. Il fatto, poi, che gli elenchi di questa “Fratellanza Giuridica” fossero a disposizione dei massoni iscritti alle varie logge italiane poteva rendere ogni Tribunale raggiungibile da qualsiasi fratello in cerca di aiuto massonico. Nessun rischio a chiedere un “aiutino”: il massone infatti ha giurato sia di aiutare sia di non denunciare mai un fratello al Tribunale profano. Non a caso ogni scandalo che ha riguardato magistrati e massoni è sempre stato originato dalla scoperta di documenti durante una perquisizione o, come in questo caso, da intercettazioni telefoniche; ma mai in nessun caso un'indagine ha avuto origine dalla denuncia di un fratello verso un altro fratello. Se all'interno della stessa loggia, della stessa cittadina, si ritrovano regolarmente per studiare, lavorare, o altro... avvocati, cancellieri, magistrati e ufficiali giudiziari, si sa, l'occasione fa l'uomo ladro. La frequentazione, l'amicizia, ma, soprattutto, il giuramento di reciproco aiuto ed assistenza, fanno sì che in queste "logge" possa scattare la richiesta di “aiutino”. In fondo, per insabbiare un processo, per depistare, per creare confusione, basta poco: una notifica sbagliata, un fascicolo sparito, una nullità non rilevata, ecc.. piccoli errorini, idonei a deviare il corso di un processo; ma errorini per cui in Italia non si rischia assolutamente nulla. Certo si parla di possibilità, non è detto che accada però, come già sottolineato, l'occasione fa l'uomo ladro. Proprio per questo i magistrati ed avvocati più attenti a livello deontologico (non vi preoccupate, è una razza ormai quasi estinta) evitano le frequentazioni con avvocati almeno dello stesso foro in cui esercitano. Il motivo di tale comportamento è chiaro (o dovrebbe esserlo) il giudizio del magistrato, per non lasciare adito ad alcun dubbio, deve essere il più possibile scevro da condizionamenti di qualunque genere. Chi frequenta i Tribunali, invece, spesso si trova a dover costatare comportamenti ben diversi, e si può incappare in situazioni in cui avvocati e magistrati dello stesso foro dividono l'affitto di una garconier con cui andare con le rispettive amanti. Sarà, dunque, forse un caso che più di 7 processi su dieci saltano per notifiche sbagliate? Sarà forse un caso che spesso le indagini o processi che vedono coinvolti massoni hanno un iter burrascoso con avocazioni di indagine (Why not, Toghe Lucane), trasferimenti di sede (Piazza Fontana, Golpe Sogno, Scandalo loggia P2) od altro? Probabilmente si, non vogliamo in alcun modo pensar male anche se, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma, raramente, si sbaglia.

3. Lo Statuto. Trascrivo qui il contenuto dello Statuto rinvenuto tra i documenti di mio padre. Ovviamente, e per estrema correttezza, avverto il lettore che non posso assicurare che detto statuto sia vero, ma, dati i rapporti che intratteneva mio padre (avvocato), ciò che mi aveva detto riguardo i magistrati che frequentavano regolarmente la nostra casa e il fatto di averlo rinvenuto all’interno di una cassaforte insieme a centinaia di documenti giuridici firmati da “fratelli”, mi fa propendere per il si. Se così fosse parrebbero esistere "Fratellanze" costituite esclusivamente da magistrati, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari, professori universitari, ecc.. le cui "deviazioni" potrebbero condizionare il sistema giudiziario ostacolando il corso di processi importanti.

A.G.D.G.A.D.U.

GRAN LOGGIA NAZIONALE DEI LIBERI MURATORI D’ITALIA

GRANDE ORIENTE D’ITALIA”

*

STATUTO DELLAFRATELLANZA GIURIDICA”

(Approvato a Roma, il 21 settembre 1968)

1. La Fratellanza Giuridica è costituita da Fratelli attivi e quotalizzanti nelle rispettive Logge della Comunione italiana, appartenenti alle seguenti categorie professionali, e che ne facciano domanda: avvocati e procuratori legali –cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri – ufficiali giudiziari.

2. La Fratellanza Giuridica ha come principali finalità:

a) Dare, quando richiestane, pareri giuridici al Grande Oriente o ai vari Organi massonici, attraverso la Gran Segreteria;

b) Promuovere lo studio dei problemi interessanti i vari aspetti del diritto, internazionale e nazionale, e quelli delle singole categorie iscritte alla Fratellanza;

c) Consentire una più fraterna collaborazione, nell’ambito di ciascuna categoria, per l’esercizio dell’attività degli iscritti;

d) Indicare nominativi di difensori d’ufficio, se richiestane dai Tribunali massonici;

e) Curare la raccolta della giurisprudenza delle decisioni degli organi giudiziari massonici, anche comparata con l’opera giudiziaria delle altre Comunioni regolari;

f) Studiare ed approfondire ogni altra questione attinente all’esercizio professionale degli iscritti, nel rispetto delle leggi e delle tradizioni massoniche.

3. La Fratellanza Giuridica ha sede presso il suo Presidente effettivo. Essa può essere sciolta in qualunque momento, o per decisione del Gran Maestro, previo il parere favorevole del Consiglio dell’Ordine, o per decisione dell’Assemblea degli iscritti. Le elezioni e le decisioni dei vari Organi della Fratellanza Giuridica sono valide a maggioranza semplice ed impegnano anche gli assenti e, per il caso di scioglimento, con il voto favorevole di almeno due terzi degli iscritti. Le cariche non sono rinunciabili ed impegnano gli eletti sino a quando non siano accettate eventuali loro dimissioni, da inoltrarsi al Consiglio Direttivo.

4. Sono Organi della Fratellanza Giuridica:

a) L’Assemblea degli iscritti;

b) Il Consiglio Direttivo;

c) L’Ufficio di Presidenza;

d) Ufficio di Segreteria e Tesoreria.

5. L’Assemblea degli iscritti è convocata dall’Ufficio di presidenza almeno una volta l’anno, entro il 31 marzo, o quando appaia opportuno, ovvero quando gliene faccia richiesta la maggioranza semplice del Consiglio Direttivo oppure almeno un quinto degli iscritti. Alla Assemblea sono demandate tutte le decisioni comunque riguardanti la Fratellanza Giuridica, anche nelle materie di spettanza dei singoli Organi.

6. Il Consiglio Direttivo è composto dai Delegati circoscrizionali, che durano in carica tre anni e sono rieleggibili. I Delegati circoscrizionali vengono eletti, anche mediante schede inviate per posta, dagli iscritti alla Fratellanza Giuridica, nell’ambito delle circoscrizioni regionali massoniche. Il Consiglio Direttivo si riunisce per convocazione dell’Ufficio di Presidenza, almeno due volte l’anno, ovvero quando ne faccia richiesta, allo stesso Ufficio di Presidenza, almeno un terzo dei suoi membri.

7. Le riunioni del Consiglio Direttivo sono valide con la presenza di almeno la metà dei suoi componenti. In caso di parità di voti prevale quello del presidente.

8. Ciascun delegato circoscrizionale deve promuovere riunioni di iscritti, iniziative e attività varie, nell’ambito della propria circoscrizione, in armonia con le leggi massoniche, con le finalità della Fratellanza Giuridica, con le deliberazioni dell’Assemblea e del Consiglio Direttivo.

9. L’Ufficio di Presidenza è composto:

a) Dal Gran Maestro;

b) Dal presidente effettivo, che viene eletto dal Consiglio Direttivo;

c) Da un Vice-Presidente.

Al Presidente effettivo (o, in caso di suo impedimento o assenza, al Vice-Presidente) spettano la rappresentanza, la direzione, le decisioni di ordinaria amministrazione della Fratellanza Giuridica.

10. L’Ufficio di Segreteria è composto:

a) Dal Gran Segretario;

b) Da un Segretario o da un Vice-Segretario, nominati dal Consiglio Direttivo, ai quali spetta la tenuta degli schedari, dei verbali, della corrispondenza della Fratellanza Giuridica. L’Ufficio di Segreteria effettua il controllo annuale della regolare appartenenza alle Logge della Comunione di tutti gli iscritti della Fratellanza. Il Segretario o il Vice-Segretario possono essere eletti anche al di fuori del Consiglio Direttivo, nel qual caso vi partecipano senza diritto di voto.

11. Il Tesoriere è nominato da Presidente effettivo, anche non fra i Delegati circoscrizionali, nel qual caso partecipa al Consiglio Direttivo senza diritto di voto. Il Tesoriere cura l’amministrazione, la contabilità, la riscossione delle quote e degli eventuali contributi volontari, e quant’altro attiene alla economia della Fratellanza Giuridica. Il Tesoriere redige, entro il 31 dicembre di ciascun anno il bilancio consuntivo degli incassi e delle spese, ed un bilancio preventivo per l’anno successivo, da sottoporre all’approvazione dell’Assemblea.

12. Per far fronte alle spese di organizzazione e funzionamento della Fratellanza Giuridica, tutti gli iscritti devono versare una quota annuale.

13. Entro il 31 maggio di ciascun anno il Consiglio Direttivo:

a) Predispone ed approva bilanci consuntivi e preventivi redatti dal Tesoriere da sottoporre all’Assemblea;

b) Fissa l’ammontare della quota annuale obbligatoria a carico degli iscritti;

c) Redige una relazione morale sull’attività compiuta nell’anno precedente che, se approvata dall’Assemblea, viene inviata alla Gran Maestranza;

d) Delibera la destinazione delle somme pervenute per contributi volontari dai vari iscritti.

14. Ogni notizia relativa agli elenchi degli iscritti potrà essere chiesta e fornita dai rispettivi Delegati circoscrizionali, a ciascuno dei quali tali elenchi verranno consegnati, ovvero, in mancanza, dall’Ufficio di Segreteria.

15. Il presente Statuto potrà essere modificato con delibera di almeno un terzo degli iscritti, i Assemblea.

16. E’ demandata al Consiglio Direttivo la formulazione del regolamento di attuazione del presente Statuto.

Note: 1. come rivela una sentenza a sezioni unite del Tribunale massonico del 28/X/1978, per il principio n. 1 Cap. IV degli Antichi Doveri” il massone anche se a conoscenza di un reato non può neanche minacciare di denunciare un fratello a quello che viene definito “Tribunale Profano”, ovvero l’organo giudiziario previsto dalla Costituzione italiana, pena l'immediata espulsione dalla loggia.

Carte riservate on line, massoneria in tribunale. Il caso del «muratore» allontanato dalla loggia per aver diffuso notizie sui «fratelli» e i boss, scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”. Espulso dal Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani «per averne leso l’immagine, l’onore e la reputazione», attraverso la pubblicazione su internet «in modo accessibile ai profani» di un articolo di denuncia sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nella massoneria. Amerigo Minnicelli, iscritto dal 1991 alla loggia di Rossano intitolata all’eroe dei «Mille» Luigi Minnicelli (suo antenato), ha impugnato il provvedimento di espulsione davanti al Tribunale di Roma, chiedendone l’immediata sospensione in via cautelare, per potersi candidare alla carica di Gran Maestro alle elezioni fissate per il 2 marzo 2014. I giudici della terza sezione civile, lunedì scorso, hanno rigettato il reclamo e Minnicelli è rimasto tagliato fuori dalla tornata elettorale. A decretarne la radiazione dalla più antica comunione massonica italiana, costituita nel lontano 1805, sono stati gli organi di disciplina interna. Il primo provvedimento è stato emesso dal «Tribunale circoscrizionale della Calabria» il 5 aprile 2012 e poi confermato, in secondo grado, dalla «Corte centrale del Grande Oriente d'Italia» il 3 ottobre dello stesso anno. L’oratore (omologo del nostro pm) incolpa Minnicelli di «un’implicita accusa di omessa vigilanza verso i Maestri Venerabili». L'articolo «incriminato» viene pubblicato sul sito web «Goiseven» (di cui Minnicelli è direttore) pochi giorni dopo l’arresto, avvenuto il 29 luglio 2011, del massone Domenico Macrì, iscritto presso la loggia di Città di Castello. Secondo la Procura Macrì avrebbe concorso, come intermediario d’affari della Banca di Credito Sanmarinese, al riciclaggio di circa 15 milioni di euro proventi del narcotraffico della cosca calabrese dei Mancuso di Limbadi. Minnicelli prende spunto da questo fatto di cronaca per riportare su internet la frase che gli era stata riferita da «un fratello tra i migliori calabresi» nel corso di una riunione della primavera del 2010. «Siamo seduti su un braciere ardente - spiega nel suo articolo - significava dire che nei pie' di lista delle logge vicine ai territori 'ndranghetisti sarebbe entrato di tutto e di più». Nel passaggio successivo, Minnicelli rimprovera i vertici della massoneria, a partire dal Gran Maestro Gustavo Raffi, di inerzia nell’osteggiare l’ingresso di persone legate ai clan. Il massone espulso si è appellato al diritto di critica, ma secondo l'organo di giustizia interno non doveva «esternarla su un sito web accessibile ai fratelli compagni e apprendisti e soprattutto ai profani». «Gli estranei non massoni non devono essere posti nelle condizioni di conoscere le vicende attinenti la vista associativa», hanno confermato i giudici ordinari. «L'obbligo alla riservatezza riguarda i lavori in Loggia - precisa l'avvocato Carlo Paduano, legale di Minnicelli - Altrimenti la massoneria dovrebbe essere considerata un'associazione segreta».

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: "Quel pm intralcia le indagini". L’inchiesta Expo è una faida. Ora c'è anche una nota di Edmondo Bruti Liberati, inviata al Csm, secondo la quale il procuratore Alfredo Robledo avrebbe «determinato un reiterato intralcio alle indagini» su Expo; l'invio di atti al Csm fatto da Robledo, inoltre, avrebbe «posto a grave rischio il segreto delle stesse». In altre parole, la miglior difesa è l’attacco: Bruti Liberati contrattacca alle accuse di Robledo d’aver fatto assegnazioni anomale o sospette e aggiunge peraltro un carico da novanta: perché intralciare un’indagine sarebbe anche un reato. È difficile credere che Bruti Liberati voglia incolpare penalmente il suo sostituto, ma quel che è certo è che a Milano gli stracci volano sul serio: ed è tutta colpa del caso Expo. Il fascicolo è seguito dai pm anticorruzione Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio, ed è noto che Bruti Liberati, durante la conferenza stampa sugli arresti per Expo, aveva già precisato che Robledo non ne aveva condiviso le conclusioni: ora aggiunge che avrebbe addirittura intralciato l’inchiesta. Bruti Liberati, nella sua nota al Csm, cita anche l’episodio di un doppio pedinamento: «Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di Finanza», ha scritto il procuratore capo, spiegando poi che «solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini». Nei fatti, il low profile della procura di Milano è definitivamente turbato. Lo scontro oltretutto divide i magistrati. Da una parte il procuratore aggiunto anticorruzione Alfredo Robledo, l’anarchico, dall’altra il procuratore capo di quel granducato giudiziario che negli anni ha scosso il Paese con sue inchieste, Edmondo Bruti Liberati, personaggio più - diciamo così - militante. Intanto il Csm sta continuando con le audizioni dei magistrati chiamati in causa: si discute di presunte anomalie nelle assegnazioni, ritardi di iscrizioni nel registro degli indagati, soprattutto tensioni che covavano da almeno tre anni. Robledo sostiene che è stata ritardata l’iscrizione di politici come Roberto Formigoni e Guido Podestà, che l’azione penale è stata gravemente ritardata nel caso Sea-Gamberale (il fascicolo era stato dimenticato in cassaforte, ha ammesso Bruti Liberati) e questo senza parlare del chiassoso caso Ruby, laddove il fascicolo era curiosamente finito al dipartimento antimafia guidato da Ilda Boccassini. Su quest’episodio c’era stata anche l’ammissione, resa nota nei giorni scorsi, di Ferdinando Pomarici, ex responsabile della Dda di Milano: quell’assegnazione fu «anomala», ha detto. Il magistrato ha pure spiegato che scrisse a Bruti Liberati tutte le sue perplessità a proposito, poi ribadite durante una riunione. Pomarici ha anche segnalato un’anomalia legata al caso di Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale già condannato al carcere per diffamazione: secondo Pomarici, Edmondo Bruti Liberati voleva che si facesse una deroga personalizzata per il direttore. La circostanza peraltro era già stata ammessa dal procuratore aggiunto Nunzia Gatto, responsabile dell’Ufficio esecuzione della Procura. Insomma, tutto rispecchia le storiche divisioni della procura, sinora sottaciute: gli uomini del procuratore capo - storicamente più legati a Magistratura democratica - contro gli altri. Va da sé che secondo Francesco Greco, responsabile del pool sui reati finanziari e legato a Bruti, nell’iscrizione di Formigoni non ci fu «nessun ritardo». Nessuna irregolarità neanche nel caso Ruby, ha spiegato anche Ilda Boccassini (vedi Libero di ieri). Più in generale, lo scontro tra il procuratore capo e il suo aggiunto è molto più interessante dei resoconti che i giornali si sforzano di darne; sull’esito dell’esposto di Robledo contro Bruti Liberati non c’è da attendersi chissà che cosa: stiamo pur sempre parlando di un magistrato contro un altro magistrato, giudicato da altri magistrati. Pare più interessante, leggendo gli atti del Csm, il differenziato profilo che si intravede. Bruti Liberati uomo d’apparato, di corrente, politicizzato, sensibile agli scenari politici e ai suoi cambiamenti, alle conseguenze delle inchieste che nascono dai suoi uffici: dunque un abile amministratore. Robledo, invece, più compiaciuto della propria indipendenza sancita dalla Costituzione, più immediato, automatico, quasi precipitoso, convinto che una certa ruvidità faccia parte dei suoi doveri e ufficialmente indifferente alle conseguenze delle sue indagini. È difficile essere più diretti senza prendere la solita querela: ma piacerebbe dire che entrambi i profili, se portati all’eccesso, descrivono alla perfezione il periglioso archetipo del magistrato all’italiana. Sin troppo responsabile e «politico» il primo, sin troppo anarchico il secondo. Quello che rimane identico, sempre leggendo gli atti del Csm, è lo scenario enormemente discrezionale nel quale i due paiono muoversi all’interno della procura: non quel tappeto di regole inflessibili e rigide che il cittadino magari s’aspetta (perché il magistrato è soggetto soltanto alla legge, si dice) bensì un groviglio gommoso di dipartimenti, mezzi dipartimenti, non-dipartimenti, assegnazioni, coassegnazioni, non assegnazioni, iscrizioni, non iscrizioni, in generale una discrezionalità dell’azione penale ben travestita. Un potere smisurato, in altre parole, che si può esercitare in un modo o nell’altro: e capita che non sempre i magistrati si trovino d’accordo.

Lo scontro tra Robledo, Bruti Liberati e la Boccassini e la guerra nascosta dentro il Csm, scrive “Libero Quotidiano. La battaglia campale all'interno della Procura di Milano, con lo scambio di accuse tra il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, è solo la punta dell'iceberg di quanto sta accadendo all'interno della magistratura italiana. Robledo lamenta favoritismi nell'assegnazione di processi-manifesto, dal Rubygate all'ultima inchiesta sull'Expo, che sono finiti indebitamente (è l'accusa) a Ilda Boccassini e Francesco Greco. Secondo Bruti, al contrario, sarebbe stato Robledo ad intralciare le inchieste, coordinando doppi pedinamenti ai sospettati. Un pasticciaccio finito davanti al Consiglio superiore della magistratura, mentre l'Anm ha parlato di "grave rischio di delegittimazione" e la stessa Procura milanese, per bocca di molti funzionari, teme una "normalizzazione" della propria attività. Perché in gioco è in realtà il "potere" in mano al pool coordinato da Bruti. E, come ha sottolineato sul Foglio il cronista giudiziario Franck Cimini, gli equilibri stessi nel Csm, cioè l'autogoverno delle toghe italiane. Da qui a luglio, infatti, i magistrati sono in campagna elettorale. Il 6 e 7 luglio 2014 si rinnoverà la composizione del loro massimo organo e la corrente di sinistra Magistratura democratica, di cui Bruti Liberati è uno storico esponente, potrebbe dopo molti anni non avere rappresentanti tra i 16 "togati". Le "primarie" per palazzo dei Marescialli, infatti, sono state vinte da Magistratura indipendente e il "peso politico" del Csm potrebbe essere clamorosamente girato verso l'ala moderata. Il massimo esponente di MI, Cosimo Ferri, è tra l'altro sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi. E dentro MD molti sperano che il Parlamento, a trazione renziana, possa "riequilibrare" nominando elementi "laici" vicini alla sinistra. Giustizia e politica, l'intreccio continua.

A Milano la mafia non esiste. Ci sono singole famiglie mafiose ma la mafia non esiste”. Con questa dichiarazione l’ex Prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, apriva l’audizione della Commissione parlamentare antimafia riunitasi dopo anni di assenza a Milano, il 22 gennaio 2010, per un summit di tre giorni in vista dell’Expo 2015, dei suoi cantieri e di un allarme legato alle infiltrazioni della ‘ndrangheta denunciato nei giorni precedenti dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e dal capo della polizia Antonio Manganelli, scrive Domenico Corrado. Il commento aveva provocato scandalo nel Pd, che aveva parlato di “vergogna”, e nel sindaco Letizia Moratti, la quale dopo avere dichiarato che “se come è vero che gli emissari delle cosche calabresi a Milano vivono e lucrano”, precisava tuttavia la sua estraneità nell’affossamento della commissione comunale antimafia voluta dall’opposizione per monitorare il grande evento. Dall’entourage del prefetto di Milano, il giorno successivo, arrivava la garanzia che non era in discussione l’ammettere la presenza delle organizzazioni criminali, “quanto il loro modo di agire. Un agire da intendersi più imprenditoriale (appoggi in luoghi di potere, scalate a società, accumulo di ditte soprattutto dell’edilizia) che esecutivo-criminale”. La dichiarazione del prefetto oltre ad avere reso evidente la sottovalutazione del fenomeno, soprattutto in vista della grande quantità di denaro pubblico che verrà stanziato per l’Expo, ha fatto emergere un ritardo culturale, che a distanza di tre anni si può dire oggi, forse, ormai colmato, che pensa che l’Italia della mafia sia solo il meridione. Perché la ‘ndrangheta non ha patria e si muove silenziosamente all’ombra del grande business laddove esiste la possibilità di ricavare enormi profitti, e, nonostante abbia sempre cercato di mantenere un profilo criminale basso – perché gli affari illeciti nel silenzio si svolgono con più tranquillità – ha dimostrato di possedere un apparato militare efficiente in grado di piegare qualsiasi resistenza, e che, talvolta, ha perfino goduto del favoreggiamento di uomini delle forze dell’ordine, come nel caso dell’ex carabiniere della caserma di Rho, in provincia di Milano, Michele Berlingeri, condannato a tredici anni e mezzo in seguito alla maxi operazione Infinito del 13 luglio 2010 contro la ‘ndrangheta in Lombardia. E infatti la storia della ‘ndrangheta nella regione ha un lungo corso, che inizia negli anni Cinquanta con i primi malavitosi calabresi mandati al confino nel nord Italia, e che arriva fino ai giorni nostri, dove ha acquisito un potere tale da potersi infiltrare in ogni attività economica e istituzionale rappresentando, spesso, l’avanguardia del capitalismo italiano. La prima generazione della malavita calabrese crebbe e si sviluppò all’ombra dei piccoli centri periferici come Buccinasco, San Donato Milanese e San Giuliano Milanese, mischiandosi con la massa di compaesani partiti alla volta del nord in cerca di lavoro e fortuna. L’incontro fra queste due realtà diede alla malavita la possibilità di ‘organizzare il territorio’ attraverso la mentalità e gli stessi costumi della natia Calabria, riuscendo, così, per mezzo della paura e dell’intimidazione, a creare una rete sociale spesso connivente. Il primo boss operante in Lombardia fu Giacomo Zagari. Nativo di San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro, si trasferì a Gallarate, in provincia di Varese, alla metà degli anni Cinquanta, diventando presto il punto di riferimento di tutti gli uomini delle ‘ndrine che giungevano in Lombardia, e boss indiscusso del Varesotto. A quei tempi gli introiti dei boss venivano ricavati essenzialmente dal pizzo, ossia dall’estorsione di denaro nei confronti di piccoli e grandi imprenditori. Questa pratica, fin dagli esordi, dimostrava la dualità del suo scopo: da una parte il fine economico e finanziario, e dall’altro quello politico-militare legato al controllo del territorio. Ma siamo ancora lontani dal periodo in cui la ‘ndrangheta, attraverso la sua forza di persuasione finanziaria e militare, riusciva a insinuarsi nel tessuto politico ed economico della regione più ricca e produttiva del Paese, fino a minarne le basi democratiche. Infatti bisognerà attendere la metà degli anni Settanta e la stagione dei sequestri per vedere emergere gli ‘uomini nuovi’ che faranno compiere un salto di qualità alla politica criminale della ‘ndrangheta in Lombardia. Ad aprire la stagione dei sequestri ci aveva pensato Cosa nostra con il primo rapimento, quello dell’imprenditore Piero Torielli, prelevato a Vigevano, in provincia di Pavia, il 18 dicembre 1972, da un commando diretto da Luciano Leggio, e che si concluse con il pagamento di un riscatto di un miliardo e mezzo di lire. Da quel momento Milano e la Lombardia si trasformano in una miniera d’oro per tutti i gruppi di sequestratori, che in dieci anni misero a segno decine di sequestri di persona, alcuni finiti tragicamente con la morte del rapito. I rappresentanti calabresi di quella stagione furono i Pesce, i Mazzaferro, i Barbaro, i Paviglianiti, i Morabito, i Papalia e i Sergi, federati in un patto di alleanza e ideatori del sequestro di Cesare Casella, l’alleanza Coco Trovato-Flachi e i De Stefano. Attraverso i sequestri di persona la ‘ndrangheta iniziava ad affinare l’organizzazione – poiché per gestire un rapimento è necessaria una efficiente base logistica e un controllo capillare sul territorio in cui si opera – e ad arricchirsi, allargando cosi il business criminale verso nuovi e più ampi orizzonti, quello del narcotraffico di eroina e cocaina. All’inizio degli anni Ottanta, con l’aggressione sovietica dell’Afghanistan, il Paese produttore del 95% dell’oppio del mondo, l’Europa – e quindi anche l’Italia – veniva sommersa di eroina a buon prezzo, il cui traffico arricchì i cartelli siciliani e calabresi ridefinendo la cartina tornasole della criminalità organizzata nel nord Italia. Come per la stagione dei sequestri anche nel business del narcotraffico i ‘calabresi’ iniziarono al traino delle famiglie siciliane. Appoggiandosi prima al cartello Ciulla-Uguccione, e successivamente ai Fidanzati e ai Carollo, i quali negli anni Ottanta detenevano il controllo del mercato dell’eroina, la ‘ndrangheta riuscì presto a scalzare il ruolo predominante di Cosa nostra: “I calabresi si misero in proprio molto rapidamente, iniziarono a trattare con i turchi, che hanno basisti a Milano a cui far arrivare i carichi di eroina. Cosa nostra, che deteneva il monopolio, non riuscì ad arrestare la crescita dei calabresi e cosi tentò la via diplomatica, che fu al tempo stesso un riconoscimento del nuovo status raggiunto dalla ‘ndrangheta”. Da quanto venuto a galla dalle dichiarazioni rilasciate da Michel Amandini nel merito dell’inchiesta Nord – Sud condotta nel febbraio del 1994 dal pm di Milano Alberto Nobili, tra il 1986 e il 1989 si svolsero due summit, uno a Torino e uno a Milano, coordinati dal boss di Catania Nitto Santapaola e finalizzati all’elaborazione di una strategia d’azione comune per i clan siciliani e calabresi operanti in Lombardia e in Piemonte, e che si conclusero con la regolamentazione delle rispettive zone di influenza e con il riconoscimento della preminenza della ‘ndrangheta in Lombardia: “Rocco Papalia mi disse di aver preso parte insieme al fratello Antonio a due summit nei quali si sarebbe arrivati a una sorta di pax mafiosa o comunque di regolamentazione delle più importanti organizzazioni criminali [...]. Al summit presero parte rappresentanti siciliani, calabresi e napoletani. Grazie al Santapaola si decise una sorta di accordo generale in virtù del quale ogni gruppo criminale avrebbe operato nelle sue zone d’influenza senza guerre o tentativi di espansione [...] ai calabresi, era lasciata la supremazia di fatto in Lombardia e il Papalia Antonio venne indicato come personaggio di primo piano. In caso di contrasti o conflitti l’ultima e decisiva parola sarebbe spettata proprio ad Antonio Papalia”. Il processo si concluse nel 1997 con dure condanne che portarono alla decimazione dei vertici delle famiglie siciliane dei Carollo, dei Ciulla e dei Fidanzati, e delle famiglie calabresi dei Papalia, dei Sergi, dei Morabito, dei Coco-Trovato e dei Pavagliniti. Tuttavia, i calabresi riuscirono a mantenere il controllo delle posizioni raggiunte a discapito di Cosa nostra, la quale in quel periodo si trovava fortemente indebolita dal fenomeno del pentitismo che nel 1993 avrebbe portato all’arresto di nomi eccellenti come Totò Riina e Nitto Santapaola: “Ma quel colpo si rivelerà mortale solo per Cosa nostra, già provata in Sicilia dallo sfaldamento dovuto al fenomeno del pentitismo che in quegli anni porta in galera centinaia di affiliati sia tra i boss, come Totò Riina e Nitto Santapaola, che tra i semplici picciotti. Così a Milano, il centro nevralgico degli affari, Cosa nostra non ha abbastanza soldati sul campo per mantenere una posizione di rilievo nel traffico di stupefacenti. Il problema invece non si pone nemmeno per le ‘ndrine, che grazie alle seconde generazioni prenderanno definitivamente in mano il mercato della droga a Milano e anche nel resto del nord Italia”. Alla fine degli anni Novanta, dunque, la ‘ndrangheta si trova, senza concorrenti, a intraprendere i primi passi verso la creazione di quella rete di alleanze criminali internazionali che l’avrebbe portata, ai giorni nostri, a dominare in modo incontrastato il mercato della cocaina, e ad avere a disposizione una grossa massa di capitali da reinvestire in attività economiche e finanziarie diversificate e da utilizzare come strumento di persuasione per influenzare la vita politica. Nel tempo, la ‘ndrangheta è riuscita a creare una rete imprenditoriale che può vantare ramificazioni che vanno dal business dell’edilizia alle imprese di movimento terra fino alla fornitura di materiale edile, dalla gestione di imprese ludiche come discoteche, ristoranti, pub e sale da bingo al controllo della distribuzione del cibo – come emerso dalle indagini della procura meneghina sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’Ortomercato di Milano, che il 2 agosto 2008 hanno portato alla condanna di Salvatore Morabito e Antonino Palamara – fino alle attività finanziarie illecite in cui “una grossa massa di liquidità è reinvestita in strutture societarie o in beni immobili attraverso un’accorta attività di riciclaggio, realizzata ricorrendo all’esterovestizione mediante l’intervento di società fiduciarie con Paesi offshore”. Senza esagerazioni, si può dire che all’alba del nuovo millennio la ‘ndrangheta sia diventata ‘l’impresa’ più florida del Paese, che vanta ramificazioni criminali internazionali e una disponibilità di capitali illimitata, capace di spostare tonnellate di cocaina e di raggiungere milioni di consumatori attraverso il controllo su una fitta e diversificata rete economica e commerciale. Un’organizzazione criminale efficiente e spietata, che agli strumenti offerti dalla modernità affianca elementi arcaici di una mentalità basata sull’onore e sull’omertà, rendendola, come l’hanno definita Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, la mafia più potente del mondo. Alla luce degli avvenimenti che hanno portato alla conquista di quella che era definita la capitale morale d’Italia non stupisce affatto, quindi, il grande interesse dimostrato dalle ‘ndrine verso l’evento che porterà Milano a essere al centro del mondo: l’Esposizione universale del 2015, che secondo le stime dovrebbe ospitare 36 milioni di visitatori e porterà ricavi pari a 1.311 milioni di euro. Come è affiorato dall’inchiesta coordinata dalle Dda di Milano e di Reggio Calabria in seguito alla maxi operazione Infinito scattata il 13 luglio 2010 e che ha portato a 400 arresti, 160 dei quali in Lombardia, i clan calabresi avrebbero tentato di infiltrarsi negli appalti per Expo 2015 attraverso la Perego General Contractor. L’azienda edile, formalmente di proprietà di Ivano Perego, era concretamente manovrata dalle mani di Salvatore Strangio – Strangio e Perego sono stati anche loro incarcerati in seguito all’operazione Infinito – che gestiva le infiltrazioni delle imprese calabresi nell’ambito dei lavori pubblici, e che intendeva assorbire nel gruppo Perego alcune importanti aziende lombarde del settore edile che versavano in condizione di difficoltà economiche, allo scopo di costruire apposite attività di impresa in grado di partecipare direttamente all’affidamento degli appalti. Il piano non andò in porto nonostante l’appoggio politico di Antonio Oliviero, ex assessore della giunta provinciale di Filippo Penati passato poi nelle fila del nuovo presidente, Guido Podestà, indagato e poi rinviato a giudizio per corruzione e truffa aggravata e per i suoi rapporti con la Perego General Contractor. Nel capitolo dell’ordinanza di custodia cautelare dedicato a Oliviero, il gip Giuseppe Gennari ha indicato l’ex assessore come “il capitale sociale della ‘ndrangheta, la persona giusta per le operazioni di lobby e per mettere a frutto quella rete di relazioni istituzionali e politiche di cui si nutre l’organizzazione criminale [...] e il cui ruolo appare evidente e di non trascurabile importanza all’interno dei contatti politico istituzionali che interessano le vicende della Perego”. Secondo il gip, Oliviero progettava conquiste e appalti, si vantava di fare parte di una squadra, e rivelava la stoffa del cinico e del trasformista che vuole conservare a tutti i costi la poltrona e il suo asservimento agli interessi privati e criminali: “Il politico, con sovrano cinismo, dice a Perego di non esporsi troppo con Podestà perché poi magari rivince Penati e lui ancora quattro contatti li ha. Oliviero promette a Perego di aprirgli tutte le strade. Dice che loro sono una squadra dove Oliviero è il capo. Parole di questo genere, dette da chi si candida a ricoprire ruoli istituzionali e di amministrazione della cosa pubblica, non possono che preoccupare. E preoccupano perché rivelano l’asservimento totale dell’uomo pubblico a interessi privati. Vogliamo dire che Oliviero poteva non sapere che Perego avesse la ‘ndrangheta a casa? Ebbene, Oliviero non è raggiunto da richiesta di custodia cautelare, [...] tuttavia è evidente che sono questi momenti patologici, di osmosi tra attività istituzionali e interessi particolari, che rappresentano la via di ingresso della criminalità organizzata – che già controlla i colletti bianchi – nel mondo economico e politico”. Il caso Perego ha portato alla luce i legami esistenti tra imprenditoria, ‘ndrangheta e politica istituzionale, e ha messo in evidenza come ormai sia difficile tracciare una linea di demarcazione tra l’azione dei rappresentanti dello Stato che dovrebbero operare nella legalità e nell’interesse collettivo, e quella della criminalità organizzata, in quanto l’intreccio d’interessi politico-criminali, la zona grigia dove si incontrano gli interessi su cui è meglio non indagare, sembra ormai essere diventata sistemica, come è stato dimostrato dall’ultima inchiesta della procura di Milano che ha portato alla carcerazione di Domenico Zambetti, ex assessore del Pdl alla Regione Lombardia, per corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa. Dall’inchiesta è emerso che Zambetti pagò la ‘ndrangheta per ricevere un pacchetto di voti che gli garantisse l’elezione nel Consiglio regionale lombardo, poi avvenuta puntualmente. Voti pagati in contanti, a caro prezzo, circa 50 euro l’uno, che sono costati complessivamente 200 mila euro, versati ai clan in varie rate. A incassarli, secondo l’accusa, Giuseppe D’Agostino, gestore di locali notturni, già condannato negli anni scorsi per traffico di droga, appartenente al clan Morabito-Bruzzaniti, e l’imprenditore Eugenio Costantino, il referente del clan Mancuso. Insomma, un intreccio di affari sporchi dove mafiosi, politici e faccendieri si confondono fino a diventare una cosa sola, e anche laddove esiste una sorta di volontà di resistere alle lusinghe della via mafiosa, alla fine, spesso, vince la paura o l’omertà, come nel caso di Marco Tizzoni, coinvolto in una compravendita di voti – non andata in porto – avvenuta alle elezioni amministrative di Rho del 2011. Marco Tizzoni, leader della lista civica ‘Gente di Rho’, fu avvicinato da Marco Scalambra, finito agli arresti il 10 ottobre 2012 assieme a Domenico Zambetti, con la scusa di essere il compagno di ballo di una candidata nella sua lista, Monica Culicchi, che gli propose i voti della lobby calabrese che Tizzoni rifiutò senza però denunciare l’accaduto alla magistratura. Mafia, politica e mondo degli affari all’ombra dell’Expo 2015. Con l’operazione Infinito sono venute a galla le mire dei clan nei confronti del grande evento e la connivenza di politici disposti a tutto pur di arricchirsi e mantenere la posizione raggiunta. Nicola Gratteri ne conta ben tredici di politici lombardi in rapporti più o meno stretti con la ‘ndrangheta. E dice di più: “Questi politici hanno ricevuto i voti delle cosche”. Accuse gravi che trovano parziale conferma nelle carte, non però negli avvisi si garanzia o nelle sentenze. Al di là di tutto, degli sviluppi che seguiranno dai processi e dalle indagini in corso, con l’operazione Infinito è emerso un dato inequivocabile che non può essere ignorato neanche dai più ostinati scettici: la Mafia a Milano esiste.

Tangenti Expo, "così dieci imprese della cupola volevano spartirsi la Città della salute". In un rapporto della Finanza si parla di un "accordo preliminare" sul grande polo sanitario milanese che dovrebbe sorgere a Sesto San Giovanni. E di una coop legata a Greganti che lavorò sulla Piastra, scrive “La Repubblica”. Dieci imprese, "pressoché" tutte in rapporti con i componenti della cosiddetta 'cupola degli appalti' finiti in carcere nei giorni scorsi, si sarebbero mosse per aggiudicarsi il maxi-appalto da 323 milioni di euro per il progetto Città della salute, una delle gare, assieme a quelle dell'Expo e ad altre nella sanità lombarda, al centro dell' inchiesta coordinata dai pm milanesi Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio. E' quanto emerge da un'informativa della guardia di finanza in cui viene riportata anche una mail ricevuta dall'ex funzionario pci Primo Greganti e che conteneva un "accordo preliminare" fra le società interessate ai lavori per quel grande polo sanitario, ancora da realizzare e che dovrebbe sorgere a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. E la cupola sarebbe riuscita a inserirsi anche nei lavori per la cosiddetta Piastra dell'Expo, l'appalto più rilevante aggiudicato per 149 milioni di euro e giunto ormai a oltre il 50 per cento di realizzazione. A quell'infrastruttura, che è la piattaforma di base su cui si sviluppa il sito espositivo, avrebbe lavorato - stando ai nuovi particolari che emergono dalle carte dell'inchiesta - anche una cooperativa legata a Greganti. Ovvero quel Compagno G che, secondo un'intercettazione, governava "le coop rosse" come un "martello" e che avrebbe stipulato addirittura un contratto, con tanto di "provvigioni", con il colosso delle costruzioni del mondo cooperativo: la Cmc di Ravenna.Sul fronte Città della salute, il messaggio di posta elettronica, come scrive la Finanza, sarebbe stato inviato al 'Compagno G' l'11 aprile del 2013 da Lorenzo Beretta, un responsabile di Olicar, gruppo che si occupa di servizi per l'energia. Nella mail veniva indicato come oggetto "Città della Salute e della Ricerca-Sesto San Giovanni" ed era allegato "un file" denominato "Sesto San Giovanni accordo preliminare", che in precedenza sarebbe stato girato, secondo gli inquirenti, dall'imprenditore vicentino Enrico Maltauro (ora in carcere) allo stesso Beretta. Il file conteneva "la bozza di una scrittura privata tra i seguenti soggetti: Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro spa; Cons. Naz. Coop di Produzione e Lavoro Ciro Menotti Scpa; Cefla S.C; Prisma Impianti spa; Gemmo Spa; Manutencoop Facility Management spa; Servizi Ospedalieri spa; Olicar; Vivenda spa; Sotraf". Era una bozza con l'indicazione della "costituzione di un raggruppamento temporaneo di imprese" per partecipare alla gara. Nel gruppo di imprese, sempre secondo la guardia di finanza, doveva essere inserita in vista dei lavori anche la cooperativa Viridia, che sarebbe stata legata a Greganti, tanto che la 'Ciro Menotti' dichiarava nella scrittura privata di "intervenire per conto della propria consorziata Viridia". Le società "interessate al raggruppamento temporaneo di imprese", segnala la Finanza, erano "pressocché" tutte collegate con il "sodalizio Frigerio-Cattozzo-Greganti-Grillo". Fra l'altro i presunti legami di Greganti con i manager della Olicar sono documentati anche da molte altre intercettazioni, tra cui una dello scorso 14 febbraio: intercettazione che dimostrerebbe ancora una volta l'abitudine del Compagno G, che fu il collettore delle tangenti rosse ai tempi di Tangentopoli, di frequentare i palazzi del potere dopo l'ormai nota telefonata in cui diceva che stava uscendo da una riunione in Senato. "Adesso sono in assessorato al Comune di Torino", spiegava l'ex funzionario del Pci a Paolo Fusaro, amministratore delegato di Olicar, aggiungendo che sarebbe arrivato a Milano per le 11 col treno e puntuale all'appuntamento in un albergo. Molto attivo per l'affare Città della salute era anche Gianni Rodighero, indagato e ritenuto il braccio destro dell'ex dc Gianstefano Frigerio. Fu Rodighero il 20 febbraio scorso, stando ad un'informativa della guardia di finanza, a ricevere una telefonata da Danilo Bernardi, manager Manutencoop che voleva "fissare un appuntamento" con Frigerio per discutere la "questione dei reciproci oneri di ricerca delle protezioni politiche" per l'appalto Città della salute. Tornando alla Piastra, invece, un altro appalto dell'Expo, dunque, diverso da quelli già venuti a galla dall'inchiesta (tra cui la gara per le architetture di servizi), potrebbe aver subito i condizionamenti delle presunta associazione per delinquere che aveva in prima linea, oltre a Greganti, anche Frigerio e l'ex senatore Luigi Grillo (Forza Italia). Grillo che, secondo quanto diceva in una telefonata Sergio Cattozzo, ex esponente dell'Udc e presunto corriere delle tangenti, avrebbe avuto "consolidate aderenze" e "rapporti diretti" anche "con Lupi", ministro delle Infrastrutture e dei trasporti. Intercettazione questa, come molte altre nelle quali la "squadra" fa nomi di politici, che gli inquirenti valutano con cautela perché potrebbe trattarsi di millanterie. E' in un'informativa della guardia di finanza, invece, che compaiono una serie di intercettazioni nelle quali il 'Compagno G' parla con Fernando Turri, rappresentante legale di Viridia, coop di Settimo Torinese attiva dal '92 e che opera in vari settori, delle costruzioni alla produzione di energia. I finanzieri scrivono che Viridia assume rilevanza con riferimento a buona parte delle vicende attenzionate" dai pm Gittardi e D'Alessio: la società era interessata anche "alla realizzazione della Città della salute" e "agli appalti" di Sogin. E soprattutto, pur "non essendo palesemente ricompresa nel raggruppamento di imprese", capeggiato dalla Mantovani Spa, che vinse l'appalto per la 'Piastra' (appalto citato anche nelle carte dell'inchiesta che a marzo 2014 ha portato in carcere l'ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, Antonio Rognoni), Viridia ha "svolto dei lavori nel sito di Expo 2015, verosimilmente in qualità di consorziata del Consorzio Veneto Cooperativo". Il responsabile di Viridia, poi, sempre secondo la Finanza, "avrebbe partecipato" anche ad almeno due incontri con Greganti e Angelo Paris, l'allora manager di Expo 2015 spa - uno del 20 dicembre 2013 e un altro del 29 gennaio 2014 - per discutere sulla realizzazione dei padiglioni. Greganti, scriveva Paris in un sms, "è uno che governa le coop rosse, che al momento performano male su Expo... E quindi lui è il martello che le fa rigare". E questi stretti collegamenti tra l'ex funzionario del Pci e le coop sembrano acquistare anche maggior peso con il ritrovamento, da parte della guardia di finanza, del testo di un "accordo di partnership sottoscritto da Seinco En-ri srl", società riconducibile a Greganti, con la Cmc di Ravenna, che fra l'altro costruirà il padiglione della Francia per l'Expo (oltre a essersi già aggiudicata l'appalto per la rimozione delle interferenze). Il 14 febbraio scorso, spiegano gli inquirenti, Greganti inviò una mail a Dario Foschini, amministratore delegato di Cmc, contenente il testo di un contratto che riconosceva "sostanzialmente da parte di Cmc un concorso in spese di ufficio per sei mesi e, soprattutto, una provvigione sulle attività e progetti frutto del presente accordo che (...) non potrà essere inferiore all'1 per cento del valore delle operazioni portate a buon fine". E per l'inizio della prossima settimana sono fissati due interrogatori decisivi per lo sviluppo delle indagini: lunedì i pm sentiranno Paris e martedì Cattozzo, l'uomo della presunta "contabilità delle mazzette".

Sergio Cattozzo, l'ex esponente dell'Udc ligure, aveva in casa un dossier costituito da molti documenti su cui avrebbe appuntato in maniera ordinata numeri, date e nomi. Contabilità che si aggiunge quindi al biglietto che Cattozzo ha cercato di nascondere ai finanzieri che erano andati ad arrestarlo o 0.3 o lo 0.5% sul valore degli appalti, scrive Il Fatto Quotidiano. Non solo un post-it, ma un vero e proprio archivio cartaceo. Sergio Cattozzo, l’ex esponente dell?Udc ligure e corriere delle tangenti versate alla “cupola degli appalti”, secondo la Procura di Milano, aveva in casa un dossier costituito da molti documenti cartacei su cui avrebbe appuntato in maniera ordinata numeri, date e nomi, ossia una presunta contabilità delle mazzette. Contabilità che si aggiunge quindi al biglietto che Cattozzo ha cercato di nascondere ai finanzieri che erano andati ad arrestarlo.  Dopo un primo interrogatorio Cattozzo, che intercettato al telefono con Frigerio sosteneva che i pubblici ufficiali andavano “coccolati” come le “belle donne”, sarà nuovamente sentito martedì prossimo. Nei post-it, come aveva confessato lo stesso Cattozzo al gip, aveva annotato in pratica “la contabilità delle tangenti” con date e percentuali: lo 0.3 o lo 0.5% sul valore degli appalti. Secondo i calcoli degli inquirenti, riscontrati già dopo gli interrogatori, le tangenti versate dall’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, ammonterebbero a circa 600mila euro in totale tra quest’anno e lo scorso anno. Anche se il costruttore avrebbe parlato di una cifra doppia con gli inquirenti. Tra l’altro, proprio Cattozzo in una intercettazione, parlando con l’ex parlamentare Dc Gianstefano Frigerio ed elencando una serie di cifre, lo rassicurava dicendo: “Io ho scritto tutto”. “Un’organizzazione efficiente e prismatica, quasi militarmente organizzata nella scrupolosa suddivisione dei ruoli e delle mansioni affidate a ciascun sodale, con una produttività di rilievo”. È una delle conclusioni del rapporto della sezione di pg della Gdf dello scorso 31 marzo e ora agli atti dell’inchiesta. Le Fiamme Gialle, nel descrivere la  ”cupola” aggiunge che la sua “efficacia operativa” viene dimostrata anche dalla capacità di far fronte a “variabili impreventivabili come la perdita di una ‘pedina’ fondamentale quale Antonio Rognoni (ex dg di Infrastrutture Lombarde ora agli arresti domicilari, ndr)”, “prevedendo soluzioni alternative e rapide manovre di avvicinamento, accerchiamento o consolidamento dei rapporti coi pubblici ufficiali interessati”. Secondo i finanzieri la cupola aveva tentato di coinvolgere nel ‘sistema’ architettato anche Riccardo Napolitano, amministratore delegato di Finmeccanica Services Group, “al fine di conseguire importanti vantaggi in termini economici visto che” l’alto dirigente “gestirebbe appalti per miliardi di euro per conto dell’intero gruppo”. In base “all’analisi delle conversazioni intercettate all’interno dell’ufficio di Frigerio con Cattozzo e Greganti – si legge nel rapporto – è emerso come i tre stiano consolidando il rapporto con Riccardo Napolitano”. La sezione pg della Guardia di Finanza sottolinea che una serie di intercettazioni telefoniche sull’utenza di Cattozzo “hanno consentito di accertare che nei giorni 23,25 e 26″ settembre 2013, l’ex esponente dell’Udc ha avuto “un fitto scambio di contatti telefonici con manager o dipendenti del gruppo Finmeccanica”, cui sarebbero seguiti incontri nelle sede del Gruppo in via Monte Grappa a Roma e di Finmeccanica Services Group in via Piemonte, “tra cui Riccardo Napolitano (incontrato, peraltro, insieme a Primo Greganti), Giovanni Pontecorvo”, attuale presidente di BredaMenarinisus, società del gruppo Finmeccanica, e due persone non meglio identificate, tale Gianni e tale Ugo. Inoltre, si legge in una nota dell’informativa con cui nell’ ottobre dell’anno scorso era stata chiesta una proroga delle intercettazioni, Cattozzo e Frigerio “avrebbero ricevuto da Napolitano un documento, riportante l’elencazione di tutti i principali settori di servizi affidati da Finmeccanica, agli stessi estremamente utile per individuare i servizi da mettere in correlazione con gli imprenditori amici”. Frigerio avrebbe inviato un fax a Napolitano “informandolo del suo interessamento presso importanti figure politiche allo scopo di favorirlo nello sviluppo della sua carriera professionale, invitandolo nel contempo a ricevere tre imprenditori suoi amici in prospettiva di favorirli nell’assegnazione degli appalti”. E per completare il quadro i finanzieri spiegano che dalle conversazioni Cattozzo “starebbe perorando assiduamente gli interessi economici di Francesco Marguati – ex sindaco (area Pdl) di Tortona dimessosi nel 2009 – cui fa capo la Sotraf” impresa attiva nel settore delle pulizie “con l’intento di fargli aggiudicare qualche gara anche in Finmeccanica, non limitandosi, dunque, alle strutture sanitarie” come l’ospedale San Matteo e l’azienda ospedaliera di Pavia. ”Io stavo pensando di fare un’operazione di questo genere (…) ma perché tu non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il Presidente, e Primo dall’altra parte parla con D’Alema con chi cazzo vuole”. Così, in un’intercettazione del 17 maggio del 2013, Cattozzo parlava con Gianstefano Frigerio. Nella conversazione, inserita in “brogliaccio” redatto dalle Fiamme Gialle i due, stavano parlando, in particolare, del ruolo Napolitano. Cattozzo, annota la Gdf, dice a Frigerio che Riccardo Napolitano “gli ha detto che gestisce 3 miliardi di euro all’anno di lavori”. Frigerio spiega, quindi, che lui “continua a chiedere a Napolitano in quali settori”. Cattozzo: “Adesso mi fa l’elenco dei settori”. Frigerio: “Bravo … ecco che guardiamo io e te”. Cattozzo: “Però io stavo pensando di fare un’operazione di questo genere (…) ma perché tu non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il Presidente, e Primo dall’altra parte parla con D’Alema con chi cazzo vuole”. Frigerio: “Certo”.

Expo, cronaca di uno scandalo annunciato. L’Antimafia aveva avvisato: attenti alla Maltauro. Ma la prefettura non l’ha buttata fuori dagli appalti. E i cassieri delle mazzette aggiravano i controlli sui lavori più importanti, scrivono Paolo Biondani e Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Adesso qualcuno spera che il resto della storia rimanga segreto. Prega che non si sappia che la Prefettura di Milano avrebbe potuto, e forse dovuto, fermare l’ingresso della “Maltauro costruzioni” negli appalti per l’Expo 2015. Perché alcuni funzionari del prefetto avevano da tempo scritto che «la società Maltauro tende a subappaltare lavori a ditte che sono successivamente destinatarie di informazioni antimafia interdittive»: cioè, secondo il rapporto, l’impresa veneta si serve anche di imprenditori collegati alla criminalità organizzata. Nessuno però in Prefettura se l’è sentita di privare l’Expo del contributo di Enrico Maltauro, 59 anni, il boss dell’impresa che ha vinto due appalti indispensabili all’esposizione universale per un totale di 97 milioni e mezzo. Il 21 febbraio 2014 dopo sette mesi di istruttoria, l’«Ufficio di supporto della sezione specializzata del comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sulle grandi opere Expo Milano 2015» (questo il pomposo nome) ha deciso di fare più umilmente come Penelope durante l’assenza di Ulisse: «Si resta in attesa dell’esito degli ulteriori accertamenti in corso», sottoscrivono la dirigente prefettizia della struttura di sorveglianza, la dirigente di gabinetto della Prefettura, tre tenenti colonnello, due vicequestori, un tenente e un sostituto commissario. I nove rappresentanti della legge permettono così a Enrico Maltauro di continuare a lavorare indisturbato nei cantieri. Fino al suo arresto, l’8 maggio, per presunte tangenti con due immortali faccendieri di Tangentopoli anni ‘90, Gianstefano Frigerio, 75 anni, area Berlusconi, e Primo Greganti, 70 anni, tessera Pd ora sospesa, l’ex onorevole del Pdl Luigi Grillo, 71 anni, e Angelo Paris, 48 anni, promettente direttore generale e responsabile dei contratti di Expo, praticamente il numero due della società pubblica a cui resta un anno per preparare l’evento. L’inchiesta della Procura di Milano esce allo scoperto negli stessi giorni in cui indagini antimafia e sentenze colpiscono i pilastri di vent’anni di centrodestra in Italia e riscoprono nomi intramontabili delle bustarelle rosse. Così ecco la fuga in Libano del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno a Cosa Nostra, l’arresto del ministro dell’Interno ai tempi del G8 a Genova, Claudio Scajola, successivamente famoso per l’appartamento sul Colosseo pagato a sua insaputa, fino all’intrigo massonico che lega i due con la rete che protegge la latitanza dell’ex parlamentare berlusconiano, Amedeo Matacena, condannato a sua volta per concorso esterno alla ‘ndrangheta. Ma ecco anche il ruolo di Primo Greganti, l’ex cassiere del Pci arrestato e condannato durante la prima inchiesta di Mani pulite e ancora operativo, secondo la Procura, nei contratti per l’Expo e la sanità con il coinvolgimento di alcune importanti cooperative. Tanto per confermare quanto l’appalto con l’aiutino della stecca non faccia schifo nemmeno a sinistra. Se questo sia l’inizio di una stagione rinnovata di Mani pulite dipende dal supporto di uomini e mezzi che il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e il collega della Giustizia, Andrea Orlando, forniranno alle indagini. Le infiltrazioni criminali, i ritardi nel cantiere e la necessità di ridurre i controlli antimafia per non fermare i lavori. Mentre il governo valuta anche il "modello Bertolaso" per finire in tempo e la Mantovani, dopo la gara vinta con un ribasso record, chiede decine di milioni extra. Allo schiaffo giudiziario sull’Expo, si aggiunge la botta economica. La Mantovani spa, l’impresa di Padova che ha realizzato la piastra su cui saranno costruiti i padiglioni dell’esposizione, pretende ora 110 milioni in più rispetto al prezzo che la stessa Mantovani aveva formulato per strappare l’appalto alle concorrenti. La capocordata, insieme con altre imprese appartenenti all’intera lobby parlamentare dal Pdl alla Lega Coop, si era aggiudicata il contratto più grosso di Expo con l’offerta di 165 milioni, partendo da una base d’asta di 272 milioni. Un ribasso che aveva scandalizzato perfino un politico navigato come il celeste senatore Roberto Formigoni, allora governatore ciellino della Lombardia e ora imputato per la corruzione sulla sanità. Se in Francia, dove l’Esposizione universale ha la sua sede storica, un ente pubblico formulasse una base d’asta superiore del 65 per cento rispetto ai prezzi di aggiudicazione, i suoi manager e progettisti verrebbero licenziati per aver gonfiato le cifre. Oppure l’offerta dell’impresa verrebbe bocciata. In Italia no: da noi in questo modo si vincono contratti colossali. «Questo è stato possibile grazie alla nostra consolidata esperienza nell’affrontare sistemi complessi», raccontava a “l’Espresso” l’allora amministratore delegato di Mantovani, Piergiorgio Baita, poco prima di essere arrestato per associazione a delinquere finalizzata all’emissione di fatture false e dichiarazione fraudolenta e poi condannato con un patteggiamento a un anno e dieci mesi. Certo: esperienza consolidata. La Mantovani, guidata dopo Baita dall’ex questore di Treviso Carmine Damiano, con la giustificazione dei tempi di consegna accelerati, presenta dunque il conto del suo ribasso fuori mercato: 110 milioni di maggiore spesa che il governo Renzi dovrebbe stanziare per accontentare la società, definita solo otto mesi fa dai giudici «gruppo economico criminale», per farla così rientrare dai preventivi spericolati presentati dal pregiudicato Baita in una gara d’appalto la cui commissione aggiudicante era presieduta dall’attuale detenuto Angelo Paris. Il commissario unico per l’Expo, Giuseppe Sala, è ottimista: «Più che di contenzioso, dobbiamo parlare di riserve», spiega a “l’Espresso”: «Chi conosce le questioni relative agli appalti sulle costruzioni sa che in genere si chiude su un dieci-venti per cento del valore richiesto». Altri osservatori sono un po’ più pessimisti: «Mantovani non scenderà al di sotto dei 60 milioni». Comunque è sempre un bel malloppo a carico degli italiani. Baita, nonostante la condanna, non è scomparso dal panorama. Secondo i magistrati, è tuttora rappresentante legale di quattro società. E a lui si rivolge il general manager Paris nel suo tentativo di trovare sponsor, a cominciare da Silvio Berlusconi, per essere promosso al posto di Antonio Rognoni, arrestato poche settimane fa, direttore generale di Infrastrutture lombarde (Ilspa), il braccio operativo della Regione nei grandi appalti e nella direzione dei lavori per l’Expo. «Posso chiederti un consiglio da amico. Ti candideresti al bando pubblico per ricerca DG Ilspa?», scrive Paris in un sms. «Se fossi in te sì. Fatti vivo. Ciao», gli risponde Baita. Sulla Mantovani gravano sempre le parole pronunciate davanti al prefetto di Milano, Francesco Tronca, dal procuratore vicario della Direzione nazionale antimafia Pier Luigi Dall’Osso. Lo scorso  6 settembre durante una riunione del Comitato per l’alta sorveglianza sui grandi appalti il magistrato aveva messo in guardia sulla posizione dell’azienda: l’esistenza di informative ancora coperte dal segreto e quanto già scritto dai giudici nelle inchieste venete offrono uno spaccato dell’attività dell’impresa che «probabilmente potrà essere uno degli elementi fondanti di importanti iniziative da adottare in tema di antimafia». Pesa però anche l’immediata risposta del provveditore alle Opere pubbliche, Pietro Baratono, rappresentante a Milano del ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi: Baratono dice al prefetto e ai presenti di essere preoccupato e rammaricato per quanto ha riferito l’alto magistrato sulla Mantovani perché «l’adozione di un eventuale provvedimento interdittivo potrebbe mettere a rischio la realizzazione dell’evento». Per buona pace della Mantovani, il dottor Dall’Osso non si occupa più della questione. Nel frattempo è stato promosso procuratore a Brescia.

Dopo l'inchiesta-denuncia di Fabrizio Gatti, la prefettura ha deciso di bloccare la società siciliana in rapporti con le cosche che si era aggiudicata l'appalto più importante. È alla vigilia di questo clima che il 10 luglio 2013 «su richiesta della stazione appaltante Expo 2015» la Prefettura avvia la prima istruttoria sulla Maltauro spa: l’impresa ha vinto la commessa per 41 milioni e 902 mila euro per la realizzazione della Via d’acqua Sud e il collegamento del canale dell’Expo con la Darsena, un’opera fondamentale nell’immaginario dei progettisti. È il prefetto che deve concedere la necessaria liberatoria antimafia o l’interdittiva che allontanerebbe l’azienda dai cantieri, con il conseguente ritardo nell’avvio dei lavori. Dall’ottobre 2013 il tempo di risposta è ulteriormente ridotto a sette giorni. Scaduti i quali, la Prefettura è obbligata a rilasciare una liberatoria provvisoria. Ma c’è ancora margine per evitare all’Italia la figuraccia internazionale. Invece l’istruttoria non viene mai conclusa e il 27 gennaio 2014 Expo ne richiede una seconda: Enrico Maltauro, questa volta secondo la Procura grazie agli aiutini di Paris, ha vinto anche l’appalto da 55 milioni e 679 mila euro per le architetture di servizio nell’area dell’esposizione. Finalmente per la riunione del 21 febbraio l’ufficio di supporto al Comitato di sorveglianza presenta la sua relazione al gruppo ispettivo antimafia della Prefettura. La Maltauro risulta destinataria di tre informazioni atipiche emesse nel 2011 e nel 2012 dalle prefetture di Vicenza e L’Aquila. L’impresa «ha partecipato a varie gare d’appalto con la società... indagata perché infiltrata da esponenti della criminalità mafiosa» e vengono ricordate due inchieste delle procure antimafia di Venezia e Palermo. L’ufficio aggiunge che «nel contesto dei lavori eseguiti presso la base militare di Aviano la società Maltauro inseriva nelle liste presentate per il rilascio dei pass personaggi quali... esponenti inseriti organicamente nelle principali organizzazioni criminali». I funzionari del prefetto avvertono anche che Enrico Maltauro «consigliere e amministratore delegato della predetta società, risulta essere stato condannato negli anni Novanta tra vari reati anche per corruzione e turbata libertà degli incanti». Da qualche tempo il Tar della Lombardia si pronuncia spesso a favore delle imprese e contro il prefetto. Forse proprio per questo e non solo per evitare ritardi ai cantieri, i nove rappresentanti degli organismi investigativi e della Prefettura concludono che «le informazioni finora acquisite non consento di affermare che l’impresa presenti i connotati di infiltrazioni mafiose». La decisione viene così ulteriormente rinviata. Nel frattempo i lavori per la Via d’acqua di Maltauro sbattono contro una cava piena di rifiuti tossici dentro Milano. La ditta si rifiuta di fornire informazioni al comitato di quartiere preoccupato dagli scavi a cielo aperto. «Qualunque altro operatore che avesse agito in questo modo», sospettava già mesi fa Enrico Fedrighini, consigliere dei Verdi, «sarebbe stato oggetto di controlli». Aveva visto giusto. Perché per proteggere Maltauro interviene il solito direttore generale di Expo. Il 7 marzo Paris parla con Christian Malangone, direttore della pianificazione e controllo sul grande evento: «Oggi han portato la terra in una discarica non autorizzata... Sei volte hanno già fatto infrazione. Sei volte». Maltauro deve pagare a Expo una multa di due milioni. Viene informato anche Frigerio, presentato a Maltauro dalla «Cancellieri», l’ex prefetto di Vicenza ed ex ministro Annamaria Cancellieri: «Perché aveva l’ufficio di Prefettura in casa sua, a Vicenza», dice Frigerio in una telefonata. E, sempre in marzo, cerca di porre rimedio: «Dì a Enrico di rispettare le regole sull’antimafia, perché ha fatto entrare due, tre aziende. Meno male che abbiamo Paris».

Le infiltrazioni criminali, i ritardi nel cantiere e la necessità di ridurre i controlli antimafia per non fermare i lavori. Mentre il governo valuta anche il "modello Bertolaso" per finire in tempo e la Mantovani, dopo la gara vinta con un ribasso record, chiede decine di milioni extra, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. C'è una storia segreta per l’Expo. Una storia mai raccontata nelle dichiarazioni pubbliche sul grande evento che dal primo maggio 2015 a Milano deve rilanciare l’immagine dell’Italia nel mondo. Da una parte il malaffare di alcune imprese che si sono aggiudicate appalti importanti, le infiltrazioni della ‘ndrangheta e il ritardo di un anno sul programma dei lavori. Dall’altra, l’impegno di un gruppo di funzionari dello Stato, a cominciare dal prefetto di Milano, che oggi si ritrova di fronte al bivio: difendere la legalità con la conseguenza di rallentare i cantieri e mettere a rischio l’intera manifestazione, oppure snellire le norme antimafia e abbassare la guardia. La più grande opera pubblica del momento, quasi tre miliardi di spesa tra infrastrutture e organizzazione per ospitare l’Esposizione universale, diventa così la metafora di un Paese all’ultima spiaggia. La voglia di fare che si scontra con il tempo perso in liti politiche: famosa la rissa che ha bloccato l’Expo per mesi tra l’allora sindaco Letizia Moratti e l’ex governatore Roberto Formigoni, oggi ben stipendiato in Senato. L’assalto della criminalità all’economia sana. La corsa affannata verso l’inaugurazione. E, in fondo a tutto, la mancanza di alternative. Si è scelto così di ridurre i controlli: attraverso la modifica del codice nazionale antimafia oppure l’ampliamento dei poteri speciali del commissario unico, Giuseppe Sala, come si faceva con la Protezione civile di Guido Bertolaso. La discussione, tuttora in corso, ha coinvolto quattro ministri, il presidente della Regione Lombardia, il sindaco di Milano e il capo della Prefettura. Ecco il diario segreto di sei mesi di incontri e contatti che “l’Espresso” ha ricostruito grazie alle testimonianze di quanti erano presenti.

5 settembre 2013: Roma, Direzione centrale della polizia criminale. Il vice capo della polizia e direttore centrale della polizia criminale, viene aggiornato sull’arresto, qualche giorno prima, del vicequestore aggiunto Giovanni Preziosa, 59 anni, ex assessore alla Sicurezza nella giunta di centrodestra a Bologna. È accusato di avere ceduto informazioni estratte dalle banche dati delle forze dell’ordine all’impresa di costruzioni Mantovani spa, società che a Milano si è aggiudicata l’appalto più importante di Expo 2015. L’informativa del ministero dell’Interno evidenzia che nell’ordinanza di custodia cautelare che ha disposto l’arresto del vicequestore Preziosa, il giudice per le indagini preliminari definisce la Mantovani spa un «gruppo economico criminale». Il vice capo della polizia viene anche avvertito che qualsiasi provvedimento di interdizione nei confronti della Mantovani spa potrebbe pregiudicare lo svolgimento dell’Expo: proprio perché l’impresa ha vinto il contratto per la struttura principale, cioè la costruzione della “piastra” di cemento armato su cui verranno realizzati i padiglioni dell’Esposizione universale. Anche la Prefettura di Milano è al corrente delle criticità che riguardano la società: criticità come l’arresto il 28 febbraio 2013 dell’amministratore delegato di Mantovani, Piergiorgio Baita, per associazione a delinquere finalizzata all’emissione di fatture per operazioni inesistenti e dichiarazione fraudolenta.

6 settembre 2013: Milano, Prefettura. Davanti al prefetto di Milano, Francesco Tronca, si riunisce la sezione specializzata del “Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sulle grandi opere per l’Expo 2015”. I convocati ricordano quello come un incontro carico di preoccupazioni. Il prefetto li aggiorna sul numero degli ultimi provvedimenti interdittivi antimafia: una decina di imprese già allontanate o che stanno per essere allontanate dai cantieri. Sotto esame non ci sono soltanto gli appalti per il sito dell’esposizione, ma anche quelli per le infrastrutture esterne. Tronca rivela una maggiore presenza di infiltrazioni di origine calabrese. In particolare nelle opere viarie e nei cantieri della Teem, la nuova tangenziale di Milano. Nonostante questo ulteriore allarme, il prefetto annuncia che il suo ufficio ha manifestato al ministero dell’Interno la necessità di snellire la normativa sui controlli antimafia. Una modifica che il rappresentante del governo definisce indispensabile, pur nel rispetto della legalità. Gli arretrati ancora in istruttoria superano il sessanta per cento delle richieste. Percentuale che non può essere accettata. Sarà proprio la Prefettura di Milano a scrivere la bozza della nuova normativa da inviare al Viminale. Il comitato deve anche valutare le informazioni fornite dalla Direzione nazionale antimafia (Dna) sulla Serenissima holding: la società della potente famiglia Chiarotto di Padova è proprietaria della Mantovani spa e della Fip industriale spa, altra azienda del gruppo veneto impegnata nei cantieri per le infrastrutture viarie di Expo. Il procuratore nazionale aggiunto della Dna, Pier Luigi Dell’Osso, spiega davanti al prefetto che non tutte le notizie possono essere liberate dal segreto. E che l’arresto del vicequestore Preziosa e quanto ha scritto il giudice nell’ordinanza di custodia cautelare mostrano comunque uno spaccato dell’attività della Mantovani spa. Per questa ragione, secondo il procuratore Dell’Osso, l’ordinanza potrà essere uno degli elementi su cui fondare importanti iniziative da intraprendere in tema di antimafia. Ma non tutti sono d’accordo. Se ne fa immediatamente portavoce Pietro Baratono, ingegnere e provveditore alle Opere pubbliche di Lombardia e Liguria, che nel Comitato per l’alta sorveglianza rappresenta il ministero delle Infrastrutture guidato da Maurizio Lupi. Baratono dice chiaro e tondo al prefetto e ai presenti di essere preoccupato e rammaricato per quanto ha riferito l’alto magistrato sull’associazione tra imprese di cui la Mantovani spa è capogruppo. Perché, trattandosi dell’affidataria dei lavori di costruzione della piastra, l’emissione di un eventuale provvedimento interdittivo e il conseguente allontanamento dai cantieri potrebbero mettere a rischio la realizzazione della manifestazione. Cioè potrebbero costringere l’Italia a una memorabile figuraccia davanti al mondo. In altre parole chi volesse adottare i necessari provvedimenti imposti dalla legge, per proteggere la pubblica amministrazione da infiltrazioni mafiose o attività illegali, deve assumersi la responsabilità di un fallimento di Expo 2015. Al ministero dell’Interno e a quello delle Infrastrutture fanno le stesse valutazioni. Il provveditore alle Opere pubbliche si lamenta anche per il fatto che lo stato di avanzamento dei lavori verificato dai suoi funzionari nei cantieri non corrisponde a quanto ufficialmente dichiarato dalla Expo 2015 spa, società creata da Regione Lombardia, Comune di Milano, Provincia e Camera di commercio per organizzare e gestire il grande evento.

28 ottobre 2013: Roma, ministero dell’Interno. La richiesta della Prefettura di Milano di snellire le verifiche antimafia viene accolta. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, firma la direttiva sul coordinamento degli accertamenti che individua nella Direzione investigativa antimafia (Dia) «l’organismo sul quale verranno a gravitare le attività info-investigative di preventivo controllo, propedeutiche al rilascio della documentazione antimafia o all’iscrizione degli operatori nelle cosiddette white-list». Il 7 dicembre la Gazzetta ufficiale pubblica le nuove linee guida con le quali il Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sull’Expo fornisce “prescrizioni aggiuntive volte ad accelerare i controlli antimafia”. Viene così formalizzata una nuova procedura più rapida. Le imprese non segnalate nella banca dati della Prefettura o in quella della Dia ottengono la liberatoria provvisoria nel giro di pochi giorni: possono quindi firmare i contratti ed entrare nei cantieri.

7 gennaio 2014: Milano, Prefettura. Alla riunione del Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sull’Expo, partecipano oggi anche l’ambasciatore Paolo Guido Spinelli e l’architetto Andrea Del Prete per conto di Expo 2015 spa. L’ambasciatore Spinelli, che cura i rapporti con i Paesi esteri e con il «Bureau International des Expositions», comunica al prefetto che i lavori sono in ritardo rispetto al programma. L’architetto di Expo, che si occupa dei problemi tecnici del grande cantiere, spiega invece che per la realizzazione dei singoli padiglioni, gestita dagli Stati partecipanti, si prevedono affidamenti delle opere molto frazionate. E soprattutto che i Paesi esteri probabilmente firmeranno con le imprese contratti di tipo privatistico e non veri e propri subappalti pubblici. Un ostacolo in più per i controlli antimafia, tenendo conto che l’alta frammentazione dei contratti rischia di favorire l’infiltrazione di aziende colluse. L’impegno non è di poco conto: per la consegna dei padiglioni, le rifiniture, gli allestimenti, i servizi qualcuno già stima il coinvolgimento per i prossimi mesi di centinaia di piccoli e medi imprenditori italiani e stranieri, suddivisi tra una cinquantina di filiere. Imprenditori su cui saranno svolti accertamenti preferibilmente preventivi: cioè su nomi, documenti, banche dati senza necessariamente inviare ispezioni nei cantieri, per non pregiudicare l’andamento dei lavori. Com’è nell’interesse della società Expo 2015. Dietro il paravento dei documenti in ordine, però, qualche azienda collusa è riuscita a eludere i controlli. L’allarme è altissimo. Al prefetto viene riferito che la criminalità organizzata si è infiltrata principalmente nei contratti per le opere infrastrutturali stradali. Soprattutto nei lavori per la costruzione dell’autostrada Pedemontana e della nuova tangenziale di Milano, due opere finanziate per l’Expo. La Prefettura ha finora firmato l’interdizione antimafia per dieci imprese impegnate nei cantieri della Teem, la tangenziale esterna milanese. Ditte infiltrate prevalentemente dalla ‘ndrangheta. Otto sono invece le imprese “interdette” dai cantieri della Pedemontana. Molte società hanno ricevuto incarichi in tutte e due le grandi opere e sono spesso collegate tra loro da legami societari e familiari. Il maggior numero di incarichi riguarda piccoli subcontratti non sottoposti all’autorizzazione della stazione appaltante, come invece avviene per i subappalti. Uno stratagemma, viene spiegato nella riunione con il prefetto, sfruttato dalle imprese per sottrarsi agli speciali controlli antimafia previsti per l’Expo. Si è scoperto così che la criminalità organizzata è riuscita a infiltrarsi proprio grazie ai subcontratti affidati a società che, anche se con sigle e denominazioni diverse, risultano legate tra loro da un’intensa rete di interessi familiari e d’affari. E strettamente connesse o addirittura presenti, indirettamente o direttamente, in tutte le opere Expo.

13 gennaio 2014: Milano, Prefettura. Il prefetto Tronca incontra il ministro dell’Interno Alfano, arrivato da Roma per firmare il “Piano di azione Expo 2015 – Mafia free”. Il piano viene sottoscritto dal ministro con il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e il commissario unico per l’Expo, Giuseppe Sala. «La sottoscrizione del piano d’azione», spiega il ministro Alfano all’Ansa, «cristallizza la volontà ferma e determinata dello Stato e degli altri organismi coinvolti di attivare ogni iniziativa utile a garantire il rispetto della legalità e della trasparenza in tutte le fasi di realizzazione dell’evento». Nelle stesse ore, sempre in Prefettura, il Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sull’Expo decide di semplificare ulteriormente la procedura antimafia sulle imprese estere che lavoreranno nei cantieri. Le verifiche saranno limitate alle autocertificazioni dei proprietari, degli amministratori e dei procuratori con poteri specifici in merito al contratto, così come ha suggerito il ministero dell’Interno. Esclusi dai controlli i familiari, i conviventi, i sindaci e i revisori dei conti. I tempi di risposta della Prefettura vengono fissati in quindici giorni: oltre, la stazione appaltante sarà autorizzata a firmare il contratto con la ditta e a dare provvisoriamente il via ai lavori anche senza liberatoria. Quanti erano presenti ricordano che il termine dei quindici giorni è stato proposto dall’avvocato generale dello Stato, Ettore Figliolia, già consulente legale nella Protezione civile dei grandi eventi di Guido Bertolaso. Lo scopo della procedura semplificata è sempre quello di accelerare i tempi. Anche se, secondo alcuni osservatori, la criminalità potrebbe ora infiltrarsi in Expo dietro lo schermo delle imprese straniere.

11 febbraio 2014: Lombardia, cantieri tangenziale Teem. Le aziende con collegamenti mafiosi nei subappalti per la tangenziale esterna di Milano salgono a undici. La Prefettura ha scoperto e allontanato un’altra ditta. Per quanto riguarda i padiglioni di Expo 2015, il prefetto di Milano, Francesco Tronca, chiede al Comitato per l’alta sorveglianza che le ispezioni antimafia siano meglio coordinate. È vero che gli accessi nei cantieri delle forze di polizia, dell’Ufficio del lavoro, delle Asl garantiscono controlli più efficaci, soprattutto se fatti a sorpresa. Ma bisogna tenere conto dei tempi: al fine, sostiene il prefetto, di non interferire eccessivamente con l’esecuzione dei lavori. L’imminente ingresso nei cantieri da parte dei Paesi esteri comporterà un proliferare di imprese di ogni tipo e provenienza. Da qui la necessità di programmare l’azione di controllo: evitando il più possibile, è in sintesi l’invito del prefetto, rallentamenti ai lavori e, più in generale, alla buona riuscita dell’evento. Eppure il “Piano di azione mafia free” annunciato in pompa magna e firmato da meno di un mese da Alfano, Maroni, Pisapia e Sala prevedeva l’esatto opposto: «Potenziare l’attività di accesso ai cantieri da parte del gruppo interforze nonché, anche attraverso forme di collaborazione con i corpi delle polizie locali, in deroga ai vincoli territoriali». A gennaio le ispezioni sono state sette. E altre sette sono programmate a febbraio. Davanti ai vari funzionari di Stato che siedono nel comitato, il prefetto spiega che sono le autorità competenti in materia previdenziale e di sicurezza sul lavoro o l’Asl, e non la polizia, a svolgere controlli con maniere che rallentano i cantieri. Alcune volte anche per l’intera giornata. Il presidente della Commissione antimafia del Comune di Milano, Davide Gentili, e il collega della Commissione regionale antimafia, Gian Antonio Girelli, chiedono in tempi diversi di poter partecipare o avere informazioni sull’attività di monitoraggio contro la criminalità. I funzionari del comitato, però, sollecitano la necessità di distinguere gli organi istituzionali da quelli puramente politici. Il rappresentante dell’ufficio di gabinetto della Prefettura segnala infatti il rischio che le domande avanzate da organismi di derivazione politico-locale, in quanto espressione dell’elettorato, possano essere dirette a conoscere l’attività riservata con il fine di renderne conto agli elettori.

24 febbraio 2014: Milano, cantieri Expo 2015. Tra le colate di cemento liquido e il viavai di camion, oggi nel grande cantiere che si affaccia sull’autostrada Milano-Torino molti si sentono sollevati. Un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catania avrebbe potuto mettere in crisi l’organizzazione dell’Esposizione universale. L’indagine riguarda la Fip industriale spa, società della Serenissima holding di Padova, il gruppo che controlla anche la Mantovani spa. La Fip a Milano ha ottenuto un subcontratto dalla società Astaldi per i lavori della linea 5 della metropolitana, tra San Siro e Garibaldi. In ottobre l’amministratore delegato della Fip, Mauro Scaramuzza e un ingegnere dell’impresa, Achille Soffiato, sono stati arrestati in Sicilia per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’accusa, l’azienda avrebbe frazionato i subcontratti al di sotto del limite di 154 mila euro per non incorrere nell’obbligo della liberatoria antimafia. E avrebbe così favorito nella costruzione di una superstrada a Caltagirone due imprese della costellazione di Ciccio La Rocca, boss locale di Cosa nostra. Gli arresti potrebbero trascinare in un provvedimento antimafia anche la società sorella, la Mantovani spa. Eventualità che bloccherebbe i cantieri dell’Expo. I dirigenti della Fip vengono però scarcerati nel giro di qualche settimana dal Tribunale del riesame per insufficienza di gravi indizi: secondo il giudice, Scaramuzza e Soffiato non hanno frazionato nulla. Il loro arresto è stato deciso in base a un’errata valutazione delle fatture. Per questo la Prefettura di Milano archivia l’argomento. Nei cantieri della Mantovani spa ora sono tutti più tranquilli. Il problema urgente da risolvere è ancora quello delle ispezioni e del mancato coordinamento. Il prefetto ha scoperto che il rallentamento dei lavori è stato provocato, come si sospettava, dagli accertamenti della Asl di Milano. Tronca annuncia che incontrerà personalmente sia il direttore generale, sia il presidente della Asl. Il comitato propone che gli accessi nei cantieri vengano comunicati alla Prefettura con un mese di anticipo: in modo da permettere una programmazione unica tra i vari enti. Anche se così si rischia di perdere l’effetto sorpresa.

3 marzo 2014: Milano, sede di Expo spa. La mattina in via Rovello 2, nella sede della società Expo spa a metà strada tra il Duomo e il Castello Sforzesco a Milano, il commissario unico Sala, il sindaco Pisapia e il presidente della Regione Maroni, incontrano quattro ministri del nuovo governo di Matteo Renzi. Sono Maurizio Lupi (Infrastrutture), Federica Guidi (Sviluppo economico), Dario Franceschini (Beni Culturali) e Maurizio Martina (Agricoltura). La versione ufficiale dell’incontro descrive la lista della spesa presentata da Maroni al governo: 2,2 miliardi di ulteriori finanziamenti per le infrastrutture e il trasporto locale. C’è però una questione molto riservata e delicata di cui vengono informati i ministri. Riguarda una richiesta che il commissario unico per l’Expo negli ultimi giorni ha comunicato al prefetto di Milano. Sala sostiene che l’applicazione del protocollo di legalità, firmato tra la Prefettura e la società Expo nel 2012, sta creando non pochi problemi. I cantieri saranno presto investiti dalla moltiplicazione dei lavori e dal proliferare di imprese di ogni tipo e provenienza. Secondo Giuseppe Sala, i controlli antimafia devono essere inquadrati in modo più sistematico e snello, comprimendo il più possibile i tempi necessari per l’ingresso nei cantieri degli appaltatori e dei subappaltatori. Altrimenti i lavori rallenteranno, con gravi conseguenze per il successo dell’esposizione. Il commissario unico propone di autorizzare l’ingresso delle imprese in cantiere immediatamente dopo l’invio della richiesta di informazione antimafia alla Prefettura e senza attendere la liberatoria. Scorciatoia da applicare nei casi di contratti per attività considerate non a rischio di infiltrazione oppure, se a rischio, per importi inferiori a 20 mila euro. A differenza degli appalti pubblici che hanno una soglia di spesa sotto la quale non sono richiesti i controlli antimafia, tutte le imprese coinvolte in Expo, per qualsiasi importo, devono essere certificate dalla Prefettura. Ma i contratti sempre più numerosi e frazionati porteranno un carico di lavoro ingestibile per gli uffici rispetto alle risorse disponibili. Con le ultime linee guida, da dicembre i tempi per le verifiche sono già ridotti al minimo. La Direzione investigativa antimafia ha soltanto sette giorni per completare gli accertamenti preliminari su ogni azienda. E in caso di ritardo nella risposta, la Prefettura rilascia automaticamente la liberatoria provvisoria. Parlando con i suoi più stretti collaboratori, il prefetto prevede che prima o poi la società Expo finirà con l’autorizzare le imprese a entrare nei cantieri senza essere legittimate dalla certificazione, vanificando così l’efficacia della procedura accelerata. In altre parole, per colpa dei ritardi che ha ereditato, Sala è con le spalle al muro. E come lui lo sono il prefetto, il governo e l’intero sistema nazionale di prevenzione antimafia. Per il commissario è una scelta obbligata: o si fa così o le opere non verranno concluse in tempo. Una soluzione ipotizzata è il modello Bertolaso, con tutti i rischi connessi: un ampliamento dei poteri speciali di deroga riconosciuti a Giuseppe Sala. L’ipotesi è stata rappresentata da Maroni e Pisapia che nei giorni scorsi si sono incontrati con Sala, il prefetto e il presidente della Provincia, Guido Podestà, per parlarne in segreto.

3 marzo 2014: Milano, Prefettura. Il pomeriggio, terminata la visita a Milano dei ministri, torna a riunirsi il Comitato per l’alta sorveglianza. La semplificazione del protocollo di legalità è tra i punti all’ordine del giorno. La Prefettura propone come via d’uscita la modifica del codice antimafia adeguando i termini per la firma dei contratti, anche in mancanza del rilascio della liberatoria. Oppure l’alleggerimento delle linee guida per l’Expo, stabilendo una soglia di esenzione dai controlli. In alternativa, resta il modello Bertolaso. Tutti i presenti comprendono che si stanno muovendo su un campo minato. Di fronte a una moltiplicazione delle imprese, il prefetto ammette il rischio di non riuscire a evadere le richieste di informazione antimafia in tempi brevi. Meglio quindi, secondo Tronca, concentrarsi sugli appalti di maggior valore nei settori più a rischio. Ed escludere dai controlli i contratti di minor valore e impatto, nel quadro di un equilibrio tra costi e benefici. Il rappresentante dell’avvocatura dello Stato, Michele Damiani, lamenta il ritardo con cui la società Expo spa ha sollevato la questione. Rispetto al prefetto precedente, Tronca ha raccolto una squadra molto più preparata. Tecnici e funzionari, uomini e donne, sono lì seduti intorno al tavolo a testimoniare con il loro lavoro l’impegno per realizzare una manifestazione senza scandali. Il colonnello Alfonso Di Vito, capocentro della Dia, ricorda a tutti che con una migliore definizione del cronoprogramma delle opere, forse questi problemi sarebbero stati evitati. Davanti al prefetto e ai colleghi del comitato, il colonnello dice che, probabilmente, la situazione segnalata da Expo deriva dai ritardi che la stessa società ha contribuito a produrre: ritardi che sono quantificabili in oltre un anno. Cioè quello che si sta costruendo ora, doveva essere fatto più di un anno fa. Nemmeno Giuseppe Sala, però, ha alternative. La necessità del commissario unico di cambiare le regole per completare in tempo i lavori potrebbe essere soddisfatta solo da un decreto legge del governo, ipotizzano in Prefettura. Ma una deroga del genere inventata ad hoc per l’Expo, avverte Baratono, il provveditore alle Opere pubbliche, potrebbe essere strumentalizzata politicamente. Ha ragione, dopo quello che ha detto Alfano nel presentare il “Piano mafia free”.

10 marzo 2014: Milano, Grattacielo della Regione. Dalle finestre del trentanovesimo piano i cantieri si indovinano nella foschia. Il pomeriggio il presidente lombardo Roberto Maroni è chiuso nel suo ufficio con il ministro Lupi e Francesco Tronca. Mancano appena dodici mesi. In attesa della visita a Milano del premier Matteo Renzi, fissata per venerdì 11 aprile, la mediazione del prefetto va avanti. Perché dopo essersi impegnato a ripulire gli appalti Expo dalla mafia, non si dica che ora devono liberarli dall’antimafia.

Le novità sull’Expo, scrive Nicola Tranfaglia su “Articolo 21”. A mano a mano che passano i giorni e si conosce di più o meglio intorno all’affare milanese, le cose sembrano peggio rare ancora peggio per l’affare legato all’EXPO milanese di cui la banda Frigerio & Co, ha approfittato fino ad oggi.  Incominciamo dai numeri. Il valore complessivo degli investimenti (di 2,65 miliardi di euro per la realizzazione dell’Esposizione),1,2 milioni di euro avrebbe pagato per sua ammissione l’imprenditore Enrico  Maltauro  per ottenere alcuni appalti nell’ambito dei lavori previsti. La percentuali di tangenti che avrebbe pagato per vincere gli appalti erano del l’0,3 o dell’O,5  per cento, secondo i calcoli dell’accusa. Ma le novità non finiscono qui e rischiano di configurare per l’ex parlamentare di Forza Italia, Claudio Scajola, l’accusa da parte della procura di Bergamo di far parte di un’associazione massonico-mafiosa internazionale che era collegata ,da una parte a Giampaolo Tarantini, l’imprenditore pugliese che organizzava le serate di festa per Berlusconi(come era già emerso dall’inchiesta giudiziaria su Ruby, presentata come la nipote di Mubarak) e dall’altra alla ‘ndrangheta calabrese e in particolare ai De Stefano, cui era legato l’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito.  Se a questo si aggiunge che – come ha chiarito già  nel novembre 2013, il presidente dell’Associazione Nazionale costruttori edili, Paolo Bozzetti, sottolineando come, in  nome della fretta sono  stati ignorati 78 articoli di legge sui contratti e tra i requisiti richiesti per partecipare alla gara c’era quello per cui era necessario aver fatturato nei cinque anni precedenti almeno il quintuplo dell’importo a base d’asta fissato in 25 milioni di euro. Si trattava - sottolineano ora i costruttori - di una richiesta “non in linea con la legge vigente oggi.” Inoltre quattro vecchie ordinanze della presidenza del Consiglio, una firmata da Romano Prodi nel 2007, le altre tre da Silvio Berlusconi nel 2010, hanno consegnato i lavori  dell’Esposizione Internazionale di Milano alla logica perversa del grande evento. Per questo sono state previste deroghe al codice dei contratti “per motivi di urgenza”. Con la  facoltà  di sostituire i bandi di gara europei  con procedure informali procedendo su inviti alle imprese. E sottraendo gli appalti al controllo della Corte dei Conti e dell’Autorità garante dei contratti pubblici. Non è un caso che ora la Corte dei Conti vuol vederci anche lei chiaro sulla vicenda e che la commissione parlamentare contro la mafia  è intervenuta ascoltando il prefetto Paolo Francesco Conta a proposito delle nuove linee guida sui controlli modificate quindici giorni fa all’interno del protocollo antimafia. La presidente della Commissione Rosy Bindi ha dichiarato:” Ci sono molti aspetti  che non appaiono chiari e comunque le modifiche delle linee guida avrebbero dovuto prevedere una interlocuzione con questa commis sione.”  Quel che risulta con chiarezza da questa prima parte dell’in chiesta e preoccupa l’opinione pubblica più attenta è che in un modo o nell’altro tutte le forze politiche presenti in parlamento hanno partecipato (i nomi li abbiamo visti: Frigerio, Greganti, Belsito alla grande spartizione) e c’è da chiedersi: come si spiega che sia stato l’ex ministro Scaiola a tenere i fili del tutto e che cosa ha fatto il sistema complessivo dei media a non dirci nulla fino all’iniziativa dei magistrati? Sono quesiti a cui bisognerebbe un giorno o l’altro poter rispondere.

Una Lega di Boss. Una nuova P2 'ndrangheto-lombarda scuote la Lega, scrive Nerina Gatti su Antimafia2000”. Arriva a lambire l’Expo 2015 e pone inquietanti interrogativi sulle “talpe” del Carroccio. Una nuova P2 ndrangheto-lombarda scuote la Lega, arriva a lambire l’Expo 2015 e pone inquietanti interrogativi sulle “talpe” del Carroccio. Come già evidenziato dall’indagine Breakfast, dalla Calabria partono le tracce e le tracciabilità degli affari che gli uomini della ndrangheta, i faccendieri trapiantati a Milano, i vecchi arnesi dell’eversione di destra e importanti imprenditori intessevano, e che avevano come punto di raccordo lo studio di consulenza Mgim, nel cuore di Milano.Non c’è da sorprendersi, anche se ancora in molti, come l’ex prefetto di Milano GianValerio Lombardi e l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni non ne vogliono sapere di ‘ndrangheta dalle loro parti. Infatti, stavolta, non si tratta di sola ndrangheta, ma di ipotesi ancor più inquietanti: di organizzazioni criminali segrete, di soffiate preventive da parte di pezzi marci delle istituzioni, di affari loschi con il Vaticano e addirittura di comprarsi banche all’estero – viene citata spesso la Arner Bank di Lugano – per evitare i controlli di Bankitalia e di procure particolarmente tenaci come quella di Reggio Calabria.  Filoni d’indagini ancora tutte da scoprire, grazie al sequestro dei file e dei computer effettuato nell’ultimo blitz. Fin dove arriverà questa associazione segreta, il cui scopo era di agevolare gli affari di una delle cosche più potenti della ndrangheta come i De Stefano è soprattutto più pericolose dal punto di vista della penetrazione a livello criminale, massonico e paraistituzionale? Con il suggello politico di Francesco Belsito questa cricca segereta, aveva creato “rapporti criminogeni per milioni di euro creando utili sotto forma di crediti d’imposta per riciclare i soldi sporchi.” Tra queste società c’erano Fincantieri, e la multinazionale Siram, che godeva di rapporti preferenziali sia con la regione Lombardia, di Roberto Formigoni, sia con quella Calabria di Giuseppe Scopelliti. Calabria e Lombardia, unite a colpi di Iban, di transazioni e , di triangolazioni tra società “amiche”. Tutte veicolate in quegli uffici a Via Durini, nella MGiM dove l’ex tesoriere dei Nar, Lino Guaglianone mediava gli affari sporchi per la ndrangheta, la Lega, gli  imprenditori in odor di mafia e massoneria come l’armatore Matacena, ex deputato di Forza Italia, condannato per concorso esterno e ora latitante e Montesano, tycoon calabrese finito nei guai per bacarotta e intestazione fittizia di beni con aggravante mafiosa, e con legami alla Bocconi. D’altronde già nel 1993 il pentito di Cosa Nostra, Tullio Cannella dichiarava ai pm di aver saputo da Vito Ciancimino che la vera massoneria era in Calabria, perché i calabresi hanno appoggi dei servizi segreti. “A Lamezia Terme- racconta Cannella – si tenne la riunione con  esponenti di “Sicilia Libera”, altri movimenti separatisti meridionali, e ed esponenti della Lega Nord.” Non deve quindi sorprendere il blitz di qualche giorno fa della Direzione Investigativa Antimafia, a firma del pubblico ministero della Dda reggina Giuseppe Lombardo e di Francesco Curcio, sostituto Nazionale Antimafia, coordinati dal procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Al  setaccio oltre 25 società, quattro filiali di Banca Intesa, una del Credito Artigiano e una della Banca Popolare di Vicenza, dove lavora uno dei componenti della società segreta, Ivan Pedrazzoli. Gli uomini del colonnello Gianfranco Ardizzone, erano a caccia di conti correnti  serviti per far transitare fondi di provenienza illecita per poi essere riciclati. La “cricca masso-ndranghetista” grazie alle coperture politico-istituzionali e finanziarie dei loro componenti, muoveva centinaia di milioni di euro. Ma ora, i reati sono associazione a delinquere finalizzata ad agevolare la cosca De Stefano e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, istituita proprio dopo l’indagine sulla P2 di Licio Gelli, figura con la quale i De Stefano hanno intrattenuto rapporti anche grazie all’ex deputato del Psdi, Paolo Romeo, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, per aver favorito la cosca. Tra gli indagati e organizzatori di questa “società criminale segreta” figurano: Pasquale “Lino” Guaglianone,  una condanna per terrorismo, ex politico vicino a Ignazio La Russa. Con il socio Giorgio Laurendi, anche lui indagato, fonda la Mgim. Pasquale Guaglianone sfrutta bene le amicizie politiche e accumula incarichi prestigiosi ma sarebbe stata strategica per la cricca la sua posizione in Fiera Milano Congressi, che è diventata recentemente il partner ufficiale e organizzatore di spazi dell’Expo 2015. Altro organizzatore, sarebbe Bruno Mafrici, nominato consulente del ministero della Semplificazione da Belsito che ne era sottosegretario. Sarà così che aiuterà gli “amici” ad entrare nella cuccagna dei bandi e degli investimenti statali. Ma Mafrici, cura anche i rapporti con i politici calabresi tra cui il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti. Proprio di Scopelliti è amico e alleato politico un altro indagato, Giuseppe Sergi. Nella lista spunta un altro importante imprenditore reggino Michelangelo Tibaldi, che rilevò le azioni della Fiat in Multiservizi, una società mista del comune di Reggio Calabria che è risultata in mano alla ndrangheta della cosca Tegano L’intreccio cosche-amministratori della Multiservizi è uno dei fattori che ha portato allo scioglimento per contiguità mafiose del comune di Reggio Calabria nell’ottobre 2012. Ma la storia del colosso torinese che investe in una società proprio a Reggio Calabria è un’altra storia sulla quale bisognerà fare chiarezza. Un ruolo di supporto lo fornivano Angelo Viola, investigatore privato, e Romolo Girardelli, ex estremista di destra e uomo dei De Stefano per gli affari in Liguria. Ma nel decreto di perquisizione i pubblici ministeri non dimenticano di citare Paolo Martino, ambasciatore dei De Stefano in Lombardia ed oltre. Martino ha frequentazioni strategiche. Tra queste Luca Giuliante, legale di Roberto Formigoni (oltre che di Lele Mora e “Ruby”) ma soprattutto membro regionle del PdL e tesoriere per la Lombardia del partito di Silvio Berlusconi. Giuliante viene intercettato mentre parla con il boss Martino dandogli delle dritte su una gara d’appalto che avrebbe interessato la ditta Mucciola, famiglia romana di imprenditori con sede a Reggio Calabria e cliente della Mgim che poi si aggiudicò dei lavori al Pio Albergo Trivulzio. La Mucciola spa è tra le aziende perquisite nel blitz. Questo “cerchio criminogeno” ha consentito agli indagati di diventare il terminale di un sistema criminale occulto, che riusciva ad acquisire e gestire proficuamente informazioni riservate fornite da soggetti che sono ancora in corso di individuazione, ma sicuramente facenti parte delle istituzioni. Come già confessato da Francesco Belsito, i “colonnelli” della Lega, come l’ex ministro della Giustizia Roberto Castelli erano conoscenza delle perquisizioni prima che avvenissero. Si può dedurre, quindi, che tra le “talpe” del Carroccio ci siano addirittura dei magistrati. I prossimi sviluppi si attendono dalle rogatorie richieste in Tanzania, a Cipro e soprattutto in Svizzera dove la cricca aveva un base a Lugano.

Cari amici di blog, scrive Roberto Galullo, da giorni sto analizzando con voi alcuni passaggi dell’audizione del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, resi in Commissione parlamentare antimafia il 14 aprile. Con la solita eccezionale schiettezza, quando si è trattato di parlare di politica e mafia, Gratteri non si è certo tirato indietro, sapendo perfettamente che di fronte si trovava anche parlamentari calabresi. Nel servizio di due giorni fa abbiamo visto il suo pensiero sulla politica calabrese, ritenuta debole, e il perenne dilemma della politica locale se ceder o meno al voto di scambio. Ieri abbiamo visto come, secondo il procuratore antimafia, si formano le liste elettorali in Calabria (e non solo). Oggi cambiamo pagina e leggiamo un “ritorno” di Gratteri sull’evoluzione della ‘ndrangheta. L’incipit è duro, perché richiama gli errori che furono commessi (e amplificati da una stampa nel migliore dei casi ignorante in altri “galoppina”) nell’ormai famosissima (e ripeto spesso io, comunque importantissima) operazione Crimine/Infinito sull’asse Milano-Reggio Calabria (o il contrario, fate voi). «Quando sono state condotte l'operazione Crimine a Reggio Calabria e l'operazione Infinito a Milano – ha infatti dichiarato Gratteri – è stato commesso un grave errore di valutazione. È stato detto, in sede di conferenza stampa, che è stato scoperto il Riina della Calabria, Oppedisano Domenico, e che era stata scoperta la cupola, come nel caso di cosa nostra. Questa è una sciocchezza. La ’ndrangheta non è piramidale come Cosa nostra. All'interno di un locale di ’ndrangheta nessuno può interferire. Il crimine di San Luca, che è erroneamente stato rapportato alla cupola di cosa nostra, non è altro che il custode delle regole. Il crimine è il custode delle dodici tavole. Il crimine esiste per presiedere il rispetto delle regole. Il crimine interviene quando c’è una faida all'interno di un locale, come è successo a Locri nel 1989». Per rafforzare il concetto (è Gratteri e non l’umile cronista che leggete, a parlare di “grave errore” e “sciocchezze”), ricorda che da aprile 1970 (a seguito di una sentenza del Tribunale di Locri colpevolmente dimenticata), si conosce l’unitarietà della ‘ndrangheta, Gratteri ribadisce che, appunto «esiste l'unitarietà della ’ndrangheta, ma ripeto che sulla vita economica, politica e strategica all'interno del locale nessuno può interferire, a meno che non si vìolino le regole della ’ndrangheta e il crimine di San Luca non intervenga per dirimere la faida». Come sapete (chi mi segue lo sa) non è un caso che l’unitarietà della ‘ndrangheta è un tema che poco mi appassiona ma al quale molto grato sono se serve (come è accaduto con un punto ormai pressoché fermo posto in sede di appello del processo Crimine a Reggio Calabria) per mettere un punto fermo giudiziario e andare oltre per attaccare frontalmente la ndrangheta 2.0 che corre molto più velocemente delle stesse verità giudiziarie. Mentre l’audizione si appresta alla conclusione Gratteri dirà ancora: «Il capo crimine non fa business, non fa affari. È il custode delle regole. Qual è l'importanza del custode delle regole? La differenza è che, se si arresta un camorrista, ci vogliono uno schiaffo per farlo parlare e due per farlo stare zitto. Se si arresta un calabrese, uno ’ndranghetista, si fa vent'anni di carcere e sta zitto, perché sa che dovrebbe parlare prima di 200 parenti, poi degli amici e poi degli amici degli amici. Per questo motivo non ci sono collaboratori nella ’ndrangheta ». Tracciato questo quadro (visto che non c’ero e non lo so, sarebbe stato meglio se Gratteri avesse anche ricordato chi, in sede di conferenza stampa spacciò il Crimine per la cupola e il Riina della Calabria don Mico Oppedisano: a proposito, viste le intdegne critiche che mi sono piovute addosso negli anni da chi ha volutamente inteso stravolgere il senso del mio pensiero, non chiamerò più don Micovenditore di piantine” visto che non lo chiama più così neppure lo storico inventore della definizione, vale a dire…lo stesso Gratteri!!!) il procuratore aggiunto di Reggio Calabria ha parlato anche di evoluzione della ‘ndrangheta. A sorpresa (ma solo per chi non studia e si fa affabulare dalle veline pronto-consumo spacciate ovunque dalle classi dirigenti di questo Paese) Gratteri ha affermato l’ovvio (ma l’ovvio non è conosciuto da chi non studia). «L’evoluzione della ’ndrangheta – ha dichiarato Gratteriè avvenuta nel 1969 , quando c’è stata una rivoluzione interna alla ’ndrangheta con la creazione della Santa. La Santa consiste nella possibilità per uno ’ndranghetista di essere affiliato anche alla massoneria deviata. Questo è servito alla ’ndrangheta per avere contatti con i quadri della pubblica amministrazione e, quindi, con medici, ingegneri e avvocati. Un collaboratore di giustizia ci ha spiegato che «all'orecchio del Gran Maestro» possono essere affiliati tre incappucciati. Ciò vuol dire che questi sono conosciuti solo al Gran Maestro. Lo stesso collaboratore ci ha spiegato che anche alcuni magistrati hanno partecipato a riunioni della Santa. Su questo, però, non siamo riusciti ad avere riscontri». E poco dopo Gratteri ancora dirà: «Oggi noi abbiamo gente incensurata che gestisce la cosa pubblica in modo mafioso. Il mafioso non va a chiedere la mazzetta, ma è lì; è una persona pubblica, un medico o un ingegnere». Parlando di massoneria deviata (le logge coperte e non ufficiali sono il collante della ‘ndrangheta 2.0), Gratteri confermerà che «è nata nel 1969-1970 con la Santa. Lo stesso ’ndranghetista, al contempo santista, partecipa alla massoneria deviata per entrare nei quadri della pubblica amministrazione. Per arrivare a questo c’è stata una guerra sanguinosa in provincia di Reggio Calabria. È stato ucciso Antonio Macrì, ed è stato ucciso Don Mico Tripodo, nel carcere di Poggio Reale, da due cutoliani, per conto dei De Stefano di Reggio Calabria». Semplice, lineare, efficace. Perfetto. Eccola la nuova ‘ndrangheta che si evolve. Non da oggi. Dal 1969. Pensate quanti anni sono stati persi per rincorrere la “vecchia” ‘ndrangheta, quella che si alimentava solo di rapimenti e droga. «Oggi, invece la ’ndrangheta vive con noi e si nutre con noi»: ancora una volta, di fronte ai commissari antimafia, parole e musica (mortali) di Gratteri che io, umilmente, mi limito a sottoscrivere a pieno.

Cari amici di blog, da ieri sto analizzando alcuni passaggi dell’audizione del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, resi in Commissione parlamentare antimafia il 14 aprile 2014. Con la solita eccezionale schiettezza, quando si è trattato di parlare di politica e mafia, Gratteri non si è certo tirato indietro, sapendo perfettamente che di fronte si trovava anche parlamentari calabresi. Nel servizio di ieri abbiamo visto il suo pensiero sulla politica calabrese, ritenuta debole, e il perenne dilemma della politica locale se ceder o meno al voto di scambio. Oggi continuiamo su questo filone, con riferimento alla formazione delle liste. Il ragionamento di Gratteri è stato indotto da una domanda della parlamentare del Pd Enza Bruno Bossio, che ha introdotto il discorso delle liste con il caso di Limbadi (Vibo Valentia), comune che deve andare al voto e dove anche i sassi sanno che la cosca Mancuso controlla pure i respiri. «Il vero problema è come fare in modo che le liste di tutti i partiti di coloro che saranno nominati nelle prossime elezioni a Limbadi – ha affermato Bruno Bossiosiano assolutamente a prova di antimafia. Questo, secondo me, dovrà essere il vero problema che ci dovremo porre, in maniera tale che chi entra nel comune democraticamente, non come commissario, chiunque vinca, sia in grado di fare effettivamente quella bonifica. Ripeto, io sono convinta che la maggioranza della popolazione abbia tutt'al più paura, ma non sia coinvolta. Occorre, quindi, controllare le liste. Il vero problema sarà non solo fare in modo che questo non sia semplicemente un problema deontologico ed etico di ciascun partito, ma come effettivamente impedire che nelle liste ci siano degli elementi in collegamento con la mafia, com'era esplicitamente indicato nella relazione della Commissione d'accesso a proposito di questa giunta comunale.
Non entro nel merito del 416-bis e del 416-ter. Non ho le competenze che ha lei e che avete voi, ma sicuramente un problema me lo pongo. Io sono stata tra coloro che hanno fatto una battaglia perché nell'Italicum ci fossero le preferenze, ma vedo molto difficile il voto di scambio con le liste bloccate. È così. Il tema non può riguardare il singolo parlamentare
». Un ragionamento concreto che pone quesiti di non poco conto, dalla enorme difficoltà. Ed infatti Gratteri lo affronta con misura, senza però farsi mancare le stoccate alle ipocrisie di una classe politica (tutta) che fa finta di non vedere in Calabria come nel resto d’Italia. «Lei parlava delle liste – dice rivolgendosi a Bruno Bossio e alla Commissione tutta – . La storia è molto delicata. Quando si fanno le liste, non si può dire che in un Paese di 5.000 abitanti non si conoscono le persone. Si inserisce nella lista scientificamente un rappresentante della famiglia di ’ndrangheta. Gli ’ndranghetisti sono molto prolifici. Ognuno di loro fa sei figli, che a loro volta fanno altri sei figli. Un locale di ’ndrangheta è composto da due o tre famiglie patriarcali, cioè da 500-600 persone. In un posto in cui ci sono 5.000 abitanti ci sono 2.500 elettori. Quando io ti presento, ti metto in una lista un rappresentante, un cugino alla lontana. Lì siamo tutti i cugini. Ci sono paesi in cui ci sono quattro cognomi. Nel Novecento c'erano due famiglie che si sono sposate tra di loro quattro volte. Basta mettere un elemento: la lista è fatta e le elezioni sono vinte. Noi lo mettiamo, poi, se ci scoprono, va bene, ma intanto abbiamo governato due o tre anni. Poi cadiamo dalle nuvole e diciamo che non sapevamo chi fosse questa persona. Non è possibile. Questo è un problema di etica, di morale e di deontologia dei politici e di chi fa le liste, perché non può dire che non sa. Non siamo a Pordenone, anche se questo è vero anche a Pordenone. L'altro giorno io ero in Friuli Venezia Giulia. Sono sempre paesi piccoli, dove ci si conosce tutti. Il politico non può dire che non sapeva chi fosse questa famiglia mafiosa o che non sapeva che quell'altra fosse mafiosa. Stiamo scherzando? Scientificamente, si opera così. Le liste vengono fatte con questi criteri, non in base alla competenza o all'amore per la politica, ma al numero di voti che uno porta. Questo è un problema che riguarda tutta Italia, dalla Valle d'Aosta alla Sicilia. Quanto al discorso della lista, normativamente come faccio io a un incensurato a dire che non si può candidare, solo perché è cugino del capomafia? Non posso creare una norma su questo punto. Il problema è la politica. Non vi lamentate poi che sono i magistrati che si sostituiscono alla politica. Su queste cose non può intervenire la magistratura. Ricordate sempre che la magistratura interviene sempre dopo, non fa prevenzione. Interviene dopo che c’è il reato». Insomma, un richiamo bello e buono ad una piena assunzione di responsabilità da parte di chi “non può non sapere”, vale a dire la politica. Più semplice (e vero) di così si muore.

Pane al pane e vino al vino. Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica di Reggio Calabria, è fatto così. Prendere o lasciare. C’è chi lo ama (la gente comune) e chi, non potendolo comunque non amare o rispettare, lo ignora (buona parte della magistratura che snobba quella sua ruspantezza che poco si addice ai piani alti delle presunte ed eccelse classi dirigenti italiane). Tutti (impossibile non farlo), ne apprezzano le qualità professionali e umane che, talvolta, vengono tirate per la giacchetta dalla politica. Calabrese (ammesso che esista) ed italiana (ammesso che esista). In questo momento, ad esempio, in Calabria, destra, centro e sinistra (ammesso che esista una differenza reale in quella regione) si sparerebbero in una gamba pur di candidarlo alla tolda di comando della Regione, visto che il Governatore Giuseppe Scopelliti è uscente. Lui li lascia fare e spero non ceda mai alla tentazione di avere a che fare con la politica calabrese (di ogni colore). Verrebbe sbranato. Una prova della sua schiettezza, Gratteri l’ha data (dico io fortunatamente) ancora una volta il 14 aprile in sede di audizione in Commissione parlamentare antimafia (di questo mi occuperò in questo umile e umido blog nei prossimi giorni). Il discorso, ad un certo punto, è scivolato proprio sulla politica. Ecco cosa ha detto Gratteri. «Mi rendo conto della difficoltà della politica calabrese. È una politica debole. I parlamentari calabresi sono molto deboli. Sono pochi e, inoltre, c’è il dilemma se nelle ultime quarantott'ore si debba cedere al voto di scambio o meno. Sul palco tutti diciamo che non vogliamo i voti della mafia. Bisogna vedere l'ultima o la penultima notte che succede». E tenete conto che di fronte aveva anche i parlamentari calabresi, come quella Dorina Bianchi (Ncd e scopellitiana di ferro) che pochi minuti prima aveva detto: «Le dico un'altra cosa, però: noi, come classe politica calabrese, abbiamo una difficoltà reale nel momento in cui andiamo a gestire le comunità locali, in primo luogo se non se ne fa parte e non le si conosce. Pur avendo io vissuto tutta la mia vita a Crotone, le devo dire che in una circostanza, peraltro di una manifestazione anti-’ndrangheta, mi sono trovata vicino a uno dei figli degli Arena, il quale si è presentato a me e mi ha chiesto se fossi una giornalista. Io non l'ho riconosciuto. Le faccio questo esempio per dirle che non sempre è semplice da parte dei calabresi conoscere realmente il fenomeno». Un azzardo rifugiarsi dietro il “ma come faccio a sapere”, visto che poco prima Gratteri, non in risposta a Bianchi ma nella sua introduzione, aveva detto che: «Oggi, invece, sono i politici che vanno a casa dei capimafia, a chiedere pacchetti di voti in cambio di appalti. Mediamente in Calabria i paesi hanno 5.000 abitanti. Tutti ci conosciamo e nessuno può dire di non sapere chi è il mafioso. È impossibile, perché siamo nati nello stesso paese di 5.000 o 15.000 abitanti. Non puoi dire che non sai chi è il mafioso, chi è il faccendiere, chi è il politico, chi è la persona onesta. Lo sappiamo tutti. Eppure anche la Chiesa, anche i preti, anche i vescovi hanno detto che non possono chiedere il certificato penale. Se sei vescovo da dieci anni in quel paese, non mi puoi dire questo. Questa risposta non mi appaga. È una foglia di fico. Oggi se è il politico che va a casa del capomafia a chiedere i voti, vuol dire che nel comune pensare e sentire si ritiene che il modello vincente è il capomafia. Perché il capomafia interviene anche sulla ristrutturazione di un marciapiede da 20.000 euro? Con tutti quei soldi si interessa pure di un marciapiede? Sì, perché lui farà lavorare per venti giorni cinque padri di famiglia per quel lavoro, e quando sarà ora di votare quei cinque padri di famiglia si ricorderanno di votare per il candidato prescelto dal capomafia». Per il momento mi fermo qui ma domani torno con un altro approfondimento dell’audizione di Gratteri, perché ha avuto il coraggio di mettere soprattutto la politica calabrese nuda davanti alla sua pochezza. Senza guardare in faccia a nessun colore politico.

Maroni o massoni?, si chiede “Dagospia”. La Lega al centro di un intreccio torbido tra poteri occulti e ‘ndrangheta. Ora bisogna solo dare un nome (P7? P8?) alla loggia masso-mafio-legaiol-fascista che emerge dall’inchiesta sugli “amici” di Belsito - Una “piovra” affaristica e criminale che si da Reggio Calabria raggiunge il Nord ed è arrivata a sfiorare Flavio Tosi… Scrive Guido Ruotolo per "la Stampa". Spunta la massoneria nella inchiesta su Lega e 'ndrangheta. Seguendo l'odore dei soldi della potente cosca De Stefano, i magistrati reggini e gli uomini della Dia trovano prima il cerchio magico di Umberto Bossi, di Francesco Belsito l'ex tesoriere che investe i soldi del Carroccio usando gli stessi canali della cosca. E adesso, inseguendo gli amici di Belsito, i Pasquale Guaglianone e Bruno Mafrici, si trovano i leghisti «buoni», come il sindaco Flavio Tosi. C'è di peggio, per la verità, perchè questo cerchio magico del malaffare è in contatto con gli impronunciabili di una tragica stagione del terrore. Come Delfo Zorzi, terrorista nero di piazza Fontana rifugiato in Giappone, che viene intercettato al telefono con l'ex cassiere dei Nar, Pasquale Guaglianone - conversazioni di quest'inverno - a cui chiede di salutargli anche Bruno Mafrici. E Guaglianone è amico dell'ex sindaco di Reggio oggi governatore Calabrese, Giuseppe Scopelliti. Otto indagati per nuove contestazioni di reato: l'associazione mafiosa e l'organizzazione segreta punita dalla legge Anselmi. Una ventina di perquisizioni a Milano, Genova e Reggio Calabria. Gli uomini del colonnello Gianfranco Ardizzone, capo centro Dia di Reggio Calabria, sono andati anche in quattro filiali milanesi dell'istituto SanPaolo, alla Banca popolare di Vicenza e al Banco del Credito Artigianale. Vediamo gli indagati: Romolo Girardelli, «l'ammiraglio», colonna genovese degli affari immobiliari della cosca De Stefano. Una new entry, Giuseppe Sergi, ex consigliere comunale di Reggio Calabria, legato a Scopelliti. E poi Michelangelo Maria Tibaldi, imprenditore socio di minoranza della Multiservizi, società partecipata del comune di Reggio proprietà nei fatti della 'ndrangheta. E poi Angelo Viola, investigatore privato genovese indagato per il dossieraggio (tabulati telefonici, servizi fotografici) di Belsito nei confronti di Bobo Maroni. E soprattutto Pasquale detto Lino Guaglianone e Bruno Mafrici. Il primo è il titolare di quella «Mediobanca» del mondo (opaco) delle imprese reggine, dove nascono imprese, si suggellano affari e commesse, che sono gli uffici di Mgim srl di via Durini 14, a Milano. L' ex cassiere dei Nar, Guaglianone, secondo gli investigatori della Dia ha tentato prima di inserirsi nel mondo istituzionale attraverso Ignazio La Russa e Alessandra Mussolini, poi agganciando» la Lega di Tosi attraverso comuni amici «naziskin» frequentati nella Palestra Doria di Milano. E poi c'è lo pseudo avvocato, che avvocato non è, Bruno Mafrici. Nel decreto di perquisizione si legge che gli indagati sono sospettati di far parte di una associazione criminale al cui interno «opera una componente di natura segreta, collegata alla cosca De Stefano». Obiettivi e finalità della struttura massonico-mafiosa: «Complesse attività di riciclaggio e reimpiego di capitali di provenienza illecita. Attraverso le relazioni personali con Francesco Belsito l'obiettivo è consolidare e implementare la capacità di penetrazione e di condizionamento mafioso nel mondo politico-istituzionale». La cupola, la struttura criminale riservata, ha ai suoi vertici organizzativi: «Bruno Mafrici, Pasquale Guaglianone, Giorgio Laurendi, noti professionisti di origine calabresi, inseriti in multiformi contesti politici». E ancora: «Gli imprenditori reggini Michelangelo Tibaldi e Giuseppe Sergi (che ricopre anche incarichi politici e istituzionali di rilievo locale); con ruoli di ausilio informativo e di supporto, Girolamo Girardelli, Angelo Viola e Ivan Pedrazzoli». Colpisce la descrizione di questa che appare una moderna «Spectre»: «La gestione di operazioni politiche ed economiche ha consentito alle persone sottoposte ad indagini scrivono nel decreto di perquisizione i pm antimafia nazionale Francesco Curcio e di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo - di divenire il terminale di un complesso sistema criminale, in parte di natura occulta, destinato ad acquisire e gestire informazioni riservate, che venivano fornite da numerosi soggetti in corso di identificazione collegati anche ad apparati istituzionali». Non è una novità per la Calabria, questo scenario. Franco Freda, il terrorista nero, fu ospitato da latitante negli anni '70 proprio dalla cosca De Stefano. A Lamezia Terme, a cavallo della stagione stragista del '92 e '93 si tennero incontri delle Leghe meridionali e non solo con Cosa nostra, con Vito Ciancimino. Anche l'esistenza,di una superloggia massonico-ndranghetista emerse nella inchiesta del pm Enzo Macrì, anni 90.

Legami tra Lega e 'ndrangheta, Tosi: "Fandonie, mai conosciuto Belsito". Il vice segretario della Lega, e segretario veneto del partito risponde alle accuse mosse su presunti accordi tra la mafia calabrese e i vertici del Carroccio: "Come accostarmi al Mostro di Firenze", scrive “Verona Sera”. Non conosco nessuna delle persone alle quali un articolo di stampa, parlando di logge massoniche e 'Ndrangheta, ha accostato oggi incredibilmente il mio nome. Tantomeno il signor Belsito e i suoi affari: credo non dico di non aver mai parlato con lui, ma nemmeno di averlo mai salutato e, come ampiamente riportato in passato dagli organi d'informazione, nella Lega ero tra i suoi avversari dichiarati". Lo afferma il vice segretario della Lega, e segretario veneto del partito, Flavio Tosi, commentando notizie giornalistiche sugli sviluppi dell'inchiesta sull'ex tesoriere della Lega Francesco Belsito. La Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sta indagando da alcune ore sul presunto riciclaggio di denaro della cosca di 'ndrangheta dei De Stefano, operazione nella quale è indagato anche l'ex tesoriere del Carroccio, Francesco Belsito. "Trovo anche più assurdo parlare di tentativi di aggancio alla Lega di Tosi - aggiunge - tramite fantomatici amici di una palestra di Milano a me sconosciuta quanto i suoi presunti frequentatori. Scrivere che io possa avere rapporti con logge massoniche o la mafia calabrese è come attribuirmi rapporti con Jack lo squartatore o il Mostro di Firenze. Mi riservo, ovviamente, ogni azione legale a tutela della mia onorabilità". Sul tema era già intervenuto anche il vice-segretario federale del Carroccio, Matteo Salvini: "Gli sviluppi dell'inchiesta di Reggio Calabria sull'ex tesoriere della Lega sono fuffa estiva: a qualcuno fa comodo accostare la Lega alla mafia", aveva dichiarato. "La Lega - ha aggiunto parlando delle notizie pubblicate fra ieri e oggi - non c'entra niente con la 'ndrangheta. E se qualcuno c'entra è già stato cacciato".

Verona, "Tangenti in Veneto per la Lega Nord". Belsito ai pm: "Zaia e Tosi sapevano". L'ex tesoriere del Carroccio mette a verbale le accuse contro i dirigenti per un prsunto pagamento di un milione di euro da parte di una multinazionale francese degli appalti ospedalieri. Partono querele, scrive “Verona Sera”. "Belsito è uno che non è la prima volta che tenta queste sortite: la prima volta ha detto che era noto a lui che andavo a pranzo con imprenditori per incassare soldi, tangenti e robe del genere. Ed è stato un po' sfortunato perché io ai pranzi non vado mai, quindi gli è andata male. Questa volta leggo che dice che 'Zaia comunque sapeva che c'era qualcuno che andava in cerca a chiedere soldi' ". E' secca la replica del presidente della Regione Veneto Luca Zaia alle accuse che avrebbe lanciato, parlando con i pm per ore, l'ex tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito. Quest'ultimo in un passaggio con i magistrati, riferito oggi da Repubblica, ricostruisce il pagamento di un milione di euro alla Lega del Veneto da parte di una multinazionale francese specializzata in appalti ospedalieri, la Siram. Belsito avrebbe affermato che tutto lo stato maggiore del partito era informato di quel finanziamento. "Anche Zaia - è la tesi dell'ex tesoriere del Carroccio - fu informato". "Rispedisco al mittente queste affermazioni - sottolinea Zaia - mi spiace perché avrei qualcos'altro di cui occuparmi. Penso che anche la magistratura abbia altro di cui occuparsi però a questo punto la impegnerò io facendo un querela, tutelandomi. Spero che si faccia chiarezza da subito. Stiamo parlando comunque di una persona che, tra le tante cose, abbiamo scoperto aveva una Porsche pagata dalla Lega, tra l'altro ora sequestrata. E' imbarazzante. Rimando tutto al mittente. Sono a disposizione dei magistrati e querelo, assolutamente querelo". Ma non solo. Secondo l'ex tesoriere del carroccio, l'ex presidente del Consiglio regionale del Veneto, Enrico Cavaliere, indagato per corruzione per una presunta tangente da 850mila euro che avrebbe ricevuto assieme ad un ex manager dalla Siram, faceva parte di una "cordata" della Lega e "rispondeva al sindaco di Verona, Flavio Tosi, e a Roberto Maroni, che erano i suoi diretti superiori". Questo quanto ha messo a verbale lo scorso 15 luglio dall'ex tesoriere, indagato nell'inchiesta "The Family". Dalle dichiarazioni di Belsito sul caso Siram è nata una nuova tranche d'indagine. Durissima la replica, a caldo, del sindaco Tosi: "Si parla di un episodio - spiega ai microfoni di Radio Verona - che risale al 2010. Io sono segretario della Liga Veneta da un anno o poco più. Questo da' la dimensione: tant'è che io son diventato segretario con Maroni alla guida, dopo gli scandali, per far pulizia in Lega. Le affermazioni vengono da una persona schifosa come Belsito, che io non ho mai avuto nemmeno l'occasione di salutare. Non ho mai avuto rapporti con lui nè con il cosiddetto 'cerchio magico' nè tantomeno con chi girava attorno a quelle situazioni. Penso che il paragone più appropriato con la persona di Belsito sia quello con un escremento. E si rischia di offendere l'escremento. Da un soggetto come lui, che ne ha fatte di tutti i colori e che girava in ambienti torbidi, c'è da aspettarsi di tutto. Dopo le dichiarazioni rilasciate alla stampa, il presidente Zaia ha dato mandato al proprio legale di presentare denuncia per calunnia e una querela per diffamazione nei confronti di Belsito. Analoghi provvedimenti potrebbero essere presi dal sindaco di Verona, dal neosegretario della Lega, Matteo Salvini, e dal presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni.

Report inguaia Tosi, a cena con la 'ndrangheta', scrive “L’Ansa”. L'ira del sindaco: Chi getta fango è disperato. Report inguaia Tosi. La trasmissione andata in onda ieri sera parte con un servizio sul caffè, poi si passa al sindaco di Verona e la Gabanelli annuncia che il giornalista autore dell'inchiesta su come funzionano le tangenti in ambito Lega, Sigfrido Ranucci, è stato querelato anche per il presunto pagamento di denaro per ottenere un fantomatico video hard con Tosi protagonista. Delle immagini nel servizio Rai non c'è traccia e l'inchiesta passa ai rapporti tra Tosi e alcuni calabresi, indagati o coinvolti  in indagini sulla ’ndrangheta e la malavita organizzata. Coinvolta anche la moglie del sindaco veronese Stefania Villanova, responsabile della segreteria dell’assessore regionale alla Sanità. A  cominciare da una cena a Crotone, con Tosi a fianco di Stanislao Zurlo, presidente della locale Provincia per il quale fu chiesto il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Ranucci racconta che la cena fu organizzata da Katia Forte, consigliera comunale della Lista Tosi . A capo della tavolata c’è Raffaele Vrenna, presidente del Crotone calcio, condannato in primo grado per concorso esterni mafioso e poi assolto.  Dopo la trasmissione, Katia Forte ha specificato: "La cena di Crotone è stata pagata da me e mio padre". Ranucci spiega che di Raffaele Vrenna hanno parlato tre collaboratori di giustizia. Uno è Luigi Bonaventura che indica tra i boss orbitanti al Nord. Poi Francesco Sinopoli, candidato ed eletto nella Lista Tosi. I Giardino, secondo il racconto di un imprenditore, sono stati presenti nelle cene organizzate per la campagna elettorale di Tosi e del suo assessore di origine calabrese, Marco Giorlo». Nell'intervista un uomo racconta che a quelle cene si parlava di appalti «con il sindaco Tosi» e al quesito se c’erano anche altri politici dice «c’era Casali, (l’attuale vicensindaco Stefano Casali) e Marco Giorlo». Ma Casali precisa che lui in Calabria non c’è mai stato. Nel servizio parte la sequela su quello che è ormai l’ex assessore allo Sport, trombato da Tosi proprio per le sue dichiarazioni «sventate» a Report. "Se uno va a vedere, chi mi getta fango è gente disperata, prove zero, reati zero", ha detto Flavio Tosi commentando l'inchiesta andata in onda nella trasmissione Report di Rai 3. "I personaggi del servizio di Report non dovrebbero stupire nessun veronese: la Signora Katia Forte - il cui padre, imprenditore nel settore delle pulizie, è personaggio noto alle cronache giudiziarie della città- già nel '97 mi chiedeva la sala di rappresentanza della Provincia di Verona per presentare una nuova iniziativa ad opera di un imprenditore crotonese del settore della gioielleria, con la partecipazione prevista del Presidente della Provincia di Crotone". Lo ricorda Antonio Borghesi, già Presidente della Provincia di Verona, in relazione alla trasmissione di Report di ieri sera.. "Allorché mi vennero segnalate le condanne dell'imprenditore in questione, per legami con la criminalità organizzata ritirai la mia disponibilità, ma la cosa ebbe comunque luogo - continua -. Al tempo Flavio Tosi era segretario della Lega Nord". Borghesi si rivolge poi direttamente a Tosi, dopo la trasmissione del servizio di Report. "Alla luce di quanto emerso dalla trasmissione e dopo l' arresto del suo vicesindaco - dice - il sindaco Tosi dovrebbe trovare la dignità di fare un passo indietro. E invito tutti i veronesi ad avere il coraggio di conoscere quanto da anni vedono: legami tra precise realtà imprenditoriali ed il potere amministrativo. Le solite querele preventive non possono più tappare un vero e proprio vaso di Pandora".

Dopo la puntata di Report di ieri sera, è stata presentata al prefetto di Verona una richiesta formale di accertamenti sulle infiltrazioni mafiose nel Comune di Verona. A chiederla è stato un parlamentare veronese di centrodestra, Alberto Giorgetti. Qualora il prefetto dovesse inviare una commissione in Comune e l’indagine riscontrasse l’esistenza di infiltrazioni, il Comune di Verona potrebbe essere sciolto per mafia. “Se le cose dette da Report sono vere – ha dichiarato Giorgetti – ci sarebbe un collegamento diretto tra la ‘ndrangheta e assessori o eletti appartenenti alla maggioranza di Flavio Tosi, per cui secondo l’attuale normativa antimafia, sussisterebbero automaticamente i presupposti per lo scioglimento”. Nel corso dell’inchiesta di Report, è emerso il ruolo di alcune famiglie di costruttori calabresi trapiantanti a Verona e molto vicini a esponenti di primo piano dell’amministrazione Tosi. In particolare il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura ha per la prima volta rivelato di aver partecipato alcuni anni fa a un summit in cui erano presenti boss della ndrangheta calabrese e rappresentanti di una famiglia di costruttori veronesi.

LA MASSONERIA ED IL POTERE.

MONTI, LETTA E RENZI, I TRE CURIAZI INDIVIDUATI DALLA MASSONERIA REAZIONARIA PER PIEGARE ROMA, scrive Francesco Maria Toscano su “Il Moralista”. Esiste un livello di potere reale, all’interno del quale si scontrano anche soggetti apparentemente alleati, e ne esiste un altro formale buono per motivare tifoserie oramai disabituatesi a pensare criticamente. Passiamo dalla teoria alla pratica. Il profano, osservando oggi in superficie la situazione politica italiana, potrebbe convincersi del fatto che esista un centrodestra lacerato che si contrappone ad un centrosinistra altrettanto lacerato nonostante la contingenza obblighi forze certamente diverse ad una momentanea coabitazione indispensabile per perseguire il solito e immancabile bene del Paese. Questa rappresentazione, con l’aggiunta del pericolo antisistema rappresentato dall’impetuosa crescita del movimento “populista” di Beppe Grillo, è falsa nonché buona per convincere i polli. Nel vuoto ideale che contraddistingue tutti i partiti presenti sulla scena pubblica, l’unico collante rimane il potere per il potere. Tutti possono dire tutto e il loro esatto contrario a patto di trarne un beneficio di corto respiro. Qualche esempio pratico? Il partito e i giornali di Berlusconi hanno improvvisamente scoperto tutti i limiti dell’euro  in contemporanea con l’aggravarsi della posizione del vecchio leader, oramai chiaramente abbandonato dai potentati massonici di ispirazione reazionaria che governano questo mostro di Ue. Fino a ieri, quando ancora dalle parti del Biscione si aspettava fiduciosi un cenno di amicizia dai parte dei fratelli che contano, nessuno osava volgere lo sguardo verso le sacre stanze del potere comunitario, mentre tutti i reprobi nemici del divino Monti venivano tacciati a giorni alterni di demagogia e populismo. Cioè, se l’Europa massacra i cittadini ma tutela la posizione personale di Berlusconi, allora i sacrifici cari a Bruxelles vanno accettati serenamente nel nome della verità e della responsabilità (alias: abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e quindi dobbiamo soffrire); se invece l’Europa massacra i cittadini e permette pure che si consumi la fine politica del cavaliere Berlusconi, allora  l’euro non funziona, la Merkel è cattiva e Monti è più ottuso del cane Empy.  E’ dignitoso trovare il coraggio di dire la verità soltanto quando si ritiene di essere stati ingiustamente mollati? Per niente. Dalle parti del Pd sono pure peggio, perché mentre Berlusconi recita e ricatta per tutelare se stesso, i piddini mentono per conto terzi o, nella migliore delle ipotesi, per eccesso di stupidità. Il viceministro Stefano Fassina, considerato il più a sinistra del Pd (figuratevi gli altri…), poco prima delle elezioni di febbraio si faceva intervistare da Financial Times promettendo la prosecuzione delle devastanti politiche promosse da quel Mario Monti che ora fa ipocritamente fa finta di disconoscere. Dopo la dura presa di posizione del Tesoro americano contro le politiche affamatrici della Germania, tanti piccoli uomini senza decoro né dignità trovano finalmente il coraggio di dire a voce alta quello che erano abituati per paura a sussurrare al buio e sottovoce. Dato quindi per scontato che nessuno crede in nulla e tutti sono disposti a cambiare versione quando ritengono di avvantaggiarsene sul piano privato, è ora arrivato il momento di chiedersi: qual è la vera partita di potere che si sta giocando adesso nell’ombra? Quella che vede come terminali di diverse cordate di interessi da una parte l’attuale premier Enrico Letta e dall’altra il sindaco di Firenze Matteo Renzi, entrambi strategicamente convinti di dover completare la devastazione dell’apparato produttivo italiano quanto tatticamente divisi per ragioni di potere personale. Le improvvise critiche riservate da quel buffone di Olli Rehn e dal suo degno compare Mario Monti alla legge di stabilità predisposta dal massone reazionario di rito draghiano Fabrizio  Saccomanni vanno lette in questa ottica. “Se non siete in grado di continuare a spremere a sangue gli italiani”, questo il messaggio esoterico contenuto fra le righe dell’analisi proposta dal vicepresidente della Commissione Europea, allora fatevi subito da parte per lasciare spazio a Matteo Renzi, cavallo di Troia nuovo di zecca  pronto a dare il colpo di grazia a questi fannulloni di italiani mangia-spaghetti”. Enrichetto Letta, infatti, si è spaventato precipitandosi al convegno organizzato dal Financial Times per promettere di regalare  ai padroni quel che resta del patrimonio pubblico italiano nella speranza di allungare la vita al suo meschino governo. Monti è soltanto un brutto ricordo, Letta arranca mentre Renzi è pronto per sfogare tutto il suo distruttivo potenziale. Finita tra le pernacchie e la disperazione generale la parabola del sindaco di Firenze sarà poi possibile cominciare a pensare alla ricostruzione di un’Italia piegata e afflitta come alla fine della seconda guerra mondiale. Se è per davvero geometricamente indispensabile che il nostro povero Paese finisca con l’essere brutalizzato a turno da questi tre emissari (a diverso titolo) della massoneria reazionaria sovranazionale, allora tanto vale augurarsi una rapida accelerazione degli eventi. Rivedremo la luce solo dopo avere attraversato per intero il tunnel dentro il quale una manina maligna ci ha sapientemente indirizzati.

Matteo Renzi: un personaggio costruito dal Nuovo Ordine Mondiale, scrive Nicola Bizzi su “Signoraggio”. È appena calato il sipario sull’ennesima carnevalata renziana alla Stazione Leopolda di Firenze, evento su cui sono stati puntati per due giorni tutti i riflettori dei media di regime, e si pone adesso la necessità di alcune riflessioni e considerazioni. Viaggio spesso per motivi di lavoro e devo ammettere che mi sono decisamente stancato, ogni volta che su un treno, su un aereo, durante una cena o una conferenza, quando mi capita di fare conversazione con qualcuno ed emerge il fatto che sono di Firenze, mi vengano sempre rivolte le stesse raccapriccianti domande o le stesse esclamazioni. Vale a dire: “Come è fortunato lei a vivere in una città amministrata da Renzi!”; “Ha avuto modo di incontrarlo?”; “Ah, Firenze, la città di Renzi!”, e così via…Un tempo Firenze era conosciuta per altri motivi, soprattutto per l’Arte e la Cultura e per i capolavori del Rinascimento. A cavallo fra gli anni ’80 e ’90 era nota soprattutto per le vicende del “mostro” (il più gettonato argomento di conversazione di allora). Ma ho avuto modo drammaticamente di riscontrare che oggi, per la maggior parte delle persone con cui parlo, sia in Italia che all’estero, risulta inevitabile associare il nome della mia città a quello di Matteo Renzi. Mi sono di conseguenza chiesto, tentando anche di darmi delle risposte, come sia stato possibile che un personaggio a mio avviso del tutto insignificante, palesemente inadatto a fare un ragionamento politico profondo e di senso compiuto, e con un volto che (almeno a me) non ispira alcuna simpatia, in sostanza una personificazione “del nulla che avanza”, sia diventato oggetto di un simile clamore mediatico. Conosco Matteo Renzi, ho avuto l’occasione di parlare con lui alcune volte, e vi assicuro che, a parte le frivolezze di circostanza sui livelli di ozono in città durante l’estate e sui goal della Fiorentina (a me il calcio poi neppure interessa), ogni volta che ho provato a fargli una domanda seria sulla sua progettualità politica o sull’economia, ha abilmente glissato e divagato, pronunciando frasi di circostanza e guardando nervosamente l’orologio. Certo, per carità, per Firenze, come Sindaco, qualcosa di buono lo ha saputo fare. La città era governata da oltre vent’anni da una disgustosa cricca di potere affaristico legato al carrozzone del vecchio PCI (poi trasformatosi gattopardescamente in PDS, in DS e in PD) che faceva il bello e il cattivo tempo, con conflitti di interesse di inaudita portata e sotto lo sguardo compiaciuto e assente di una certa magistratura politicizzata. Divenuto Sindaco, il “ragazzo” ha abilmente decapitato questo marcio sistema di potere sostituendolo con una squadra di boy-scout composta per lo più da suoi coetanei, magari animata da buona volontà, ma nella pratica, da un lato troppo inesperta per governare bene una grande città e, da un altro (fortunatamente) ancora alle prime armi per dedicarsi a tempo pieno alle ruberie della politica. Essendo quindi stato chiamato dal solito elettorato con il prosciutto sugli occhi a sostituire il peggiore e più odiato Sindaco che Firenze abbia mai avuto (quel Leonardo Domenici che, come premio per i suoi fallimenti, è stato mandato al Parlamento Europeo), era inevitabile che qualcosa di buono dovesse pur farlo. Ma, a parte aver evitato lo scempio del passaggio di un tram delle dimensioni di un Eurostar da Piazza del Duomo e aver ripavimentato alcune strade del centro, l’ex “ragazzo prodigio” ha utilizzato sapientemente Firenze come palcoscenico per proporsi alle masse come il volto nuovo, come una sorta di messia destinato a cambiare l’Italia, come un nuovo ed ennesimo “salvatore della Patria”. In rete esistono decine di siti che hanno tentato, mediante ragionamenti di largo respiro, di interrogarsi su chi sia realmente Matteo Renzi e sui retroscena della sua folgorante carriera politica che, da giovane militante dei comitati per Prodi (buono quello!) lo ha visto divenire prima segretario provinciale del PPI e poi della Margherita di Rutelli e di Lusi, poi, a soli 28 anni,  Presidente della Provincia di Firenze, poi Sindaco e, progressivamente, il personaggio politico più presente in assoluto nei programmi televisivi. Quello che, fra cene ad Arcore con il Cavaliere e incontri con Angela Markel e Obama, attraverso il “verbo” della rottamazione e dichiarazioni pubbliche incentrate sulla pochezza e sull’ovvietà, si sta candidando alla guida sia del PD e di un’Italia che affonda. Ebbene, tutti questi siti, pur facendo giuste osservazioni e ponendosi legittimi interrogativi sui suoi rapporti con la Massoneria e con i poteri forti della finanza internazionale, non ci danno delle risposte, non vanno oltre il pettegolezzo o le illazioni. A noi non interessa il pettegolezzo. Quello lo lasciamo volentieri a Marco Travaglio e ad altri simili servi del sistema. A noi interessa che la gente apra gli occhi sulla verità, sul grande inganno nel quale siamo immersi fino al collo. A noi interessa constatare e far capire quella che è ormai un’evidenza: Matteo Renzi è un massone figlio di massoni! Non ci interessa il fatto che magari non si trovino le prove di un suo effettivo “tesseramento”, di una sua affiliazione a qualche loggia. Renzi è l’espressione più diretta ed immediata di quella culturalità massonica di cui si servono i grandi burattinai del potere occulto per agire indisturbati ai danni della società. Questa massonicità lo investe come individuo, come parte integrante di un contesto politico di potere e come espressione di una cultura che è e resta prettamente massonica. Per stessa ammissione del Maestro Venerabile del Grande Oriente d’Italia Gustavo Raffi, fra le fila degli iscritti al PD si contano oltre 4000 affiliati all’obbedienza di Palazzo Giustiniani (vale a dire quasi un quinto dei tesserati del partito), la maggior parte dei quali risultano in Toscana. E questo senza contare i tesserati che fanno capo ad altre obbedienze massoniche diverse dal G.O.I., che sono comunque molto forti e radicate sul territorio. Il mondo è governato da circa 1000 grosse banche, quasi tutte sotto il diretto controllo di potenti famiglie come i Rotschild e i Rockfeller. La Massoneria rappresenta il loro braccio esecutivo nello scegliere e nel selezionare quei leader politici più idonei, più gestibili e maggiormente manovrabili che, insediatisi nei posti chiave del potere, favoriscono gli interessi di chi realmente comanda e decide. Matteo Renzi rientra perfettamente in questo schema, ed è il prodotto di una abile e pianificata campagna di marketing dai toni a stelle e strisce e dal sapore inconfondibilmente massonico. Una campagna di marketing senza dubbio preparata già da anni, e finalizzata a lanciare mediaticamente e politicamente un “volto nuovo” in un certo senso predestinato ad assumere le leve del potere e a fare di conseguenza, una volta Presidente del Consiglio, gli interessi di chi sta nella cabina di regia. Questa è l’idea che mi sono fatto personalmente di Matteo Renzi, un personaggio abilmente costruito a tavolino e curato nei minimi dettagli per quanto riguarda il look, la gestualità, il tenore e il contenuto dei discorsi, tanto che, nonostante risulti agli occhi dei più attenti una squallida scopiazzatura di Barak Obama, sta trovando sempre maggiori consensi sia fra un elettorato di sinistra ormai senza bussola e senza identità, sia fra l’elettorato di un centro-destra fiaccato da vent’anni di Berlusconismo e di promesse non mantenute. Non so voi, ma io in questa cabina di regia ci vedo chiaramente i volti del Bilderberg, dei Rotschild, della grande finanza internazionale e del Nuovo Ordine Mondiale.

Chi è davvero Matteo Renzi, si chiede “Il Foglio”. «Quando, il 13 settembre del 2012, al palazzo della Gran Guardia di Verona, Matteo Renzi a un certo punto disse: “Ci candidiamo a guidare questo Paese per i prossimi cinque anni”, fummo in molti a pensare che fosse un megalomane. Non per il plurale maiestatis, ma per la sproporzione tra l’obiettivo dichiarato e la sua esperienza politica. Invece, aveva ragione lui» (Michele Brambilla) [1]. Se tutto andrà come sembra, Renzi prenderà il comando del governo a 39 anni gli stessi che aveva Mussolini quando divenne a sua volta presidente del Consiglio [2]. Renzi, ovvero scout, Ruota della fortuna, camicia bianca, maniche arrotolate, giubbotto di Fonzie, rottamare ecc. Alessandro Campi: «La parlantina sciolta che avvolge e disorienta l’interlocutore, l’autostima forse esagerata, l’ostinazione e il coraggio che ha sempre mostrato nei momenti decisivi, il piglio volitivo e decisionistico, l’argento vivo e la perenne agitazione, una sfrontatezza compensata da un viso da bravo ragazzo un filo evidente di narcisismo e un po’ della prosopopea che i fiorentini hanno da secoli. Eppure resta la domanda su chi sia per davvero Matteo Renzi» [2]. Matteo Renzi nasce l’11 gennaio 1975 a Firenze, secondo dei quattro figli di Laura Bovoli e Tiziano Renzi, ex consigliere comunale della Dc a Rignano sull’Arno [3]. La prima sconfitta della sua vita al Liceo classico Dante di Firenze, come rappresentante studentesco. La lista capeggiata da Leonardo Bieber, “Carpe Diem”, supera la sua, “Al buio meglio accendere una luce che maledire l’oscurità”. Dopo il diploma nel 1993 comincia a lavorare alla Chil, l’azienda di famiglia che si occupa di marketing e giornali [3]. Nel 1999, a ventiquattro anni, si laurea in Giurisprudenza con una tesi su «Giorgio La Pira sindaco di Firenze». Nello stesso anno diventa segretario provinciale del Partito Popolare. Campi: «Politicamente, lo si continua a definire un ex-democristiano, ma quando nel 1996 lui esordì con i Comitati Prodi la Dc storica già non esisteva da un pezzo» [2]. Nel 2001 è coordinatore della Margherita fiorentina, nel 2003 segretario provinciale, dal 2004 al 2009 presidente della Provincia di Firenze. Dà del tu a tutti [4]. Brambilla: «Nel settembre del 2008 si mette in testa un’altra idea da matti, candidarsi alle primarie per il sindaco di Firenze. Tutti a dirgli Matteo sta’ bono, non fare il passo più lungo della tu’ gamba. Eppure vince, e vince contro uno favoritissimo, Lapo Pistelli, deputato e responsabile nazionale Esteri del partito. Ancora una volta aveva ragione lui, il giovane Matteo, che naturalmente poi l’anno dopo sbanca le elezioni comunali e diventa sindaco di Firenze [1]. Pistelli: «Matteo è talmente rapido da farti venire il mal di testa. Ed è sistematico il modo in cui colpisce. Sempre allo stesso modo. Come un serial killer. Prenderlo è difficile. E anche le rare volte che perde, c’è sempre una botta di culo a rimetterlo in pista. Ha la provvidenza dalla sua» [5]. «Da sindaco gli viene prima di tutto riconosciuto il gran colpo di aver smantellato la cupola di potere sedimentata in dieci anni di amministrazione di Leonardo Domenici» (Denise Pardo) [6]. Filippo Sensi: «Quando gli fanno quella domanda, la domanda, e cioè se, in fondo in fondo, sia davvero di sinistra, Matteo Renzi si mostra tutt’altro che contrariato, anzi. Come a dire di non temere l’esame del sangue che pure gli viene richiesto ogni due per tre per capire se, veramente, sia uno di noi, uno dei nostri. Glielo ha chiesto Enrico Mentana, quest’estate alla festa del Partito democratico di Genova, ultima domanda, quella quando hai le difese basse e puoi scivolare. Ma il sindaco di Firenze ne ha approfittato per un finale in crescendo, declinando la parola sinistra, così insidiosa e ispida, con una sfilza di impegni presi e, secondo lui, onorati a Firenze. Le biblioteche pubbliche, gli asili nido, la pedonalizzazione, il wifi libero. Cioè, una sana lista di cose “tradizionalmente” di sinistra, senza rinunciare, tuttavia, al suo frame più abituale, quello della lotta contro il conservatorismo, contro una certa compiaciuta supponenza, e poi, colpa grave, contro la voluttà minoritaria della sconfitta» [7]. Da sindaco guadagna quattromiladuecento euro al mese: «Che va bene, ma è meno di quel che prende il capo segreteria di un consigliere regionale» [8]. La parola “rottamazione” la pronuncia per la prima volta nell’agosto 2010, quando in un’intervista a Umberto Rosso di Repubblica attacca i dirigenti del Pd: «Se vogliamo sbarazzarci di nonno Silvio dobbiamo liberarci di un’intera generazione di dirigenti del mio partito. Non faccio distinzioni tra D’Alema, Veltroni, Bersani... Basta. È il momento della rottamazione. Senza incentivi. […] Ma li vedete? Berlusconi ha fallito e noi stiamo a giocare ancora con le formule, le alchimie delle alleanze: un cerchio, due cerchi, nuovo Ulivo, vecchio Ulivo... I nostri iscritti, i simpatizzanti, i tanti delusi che aspetterebbero solo una parola chiara per tornare a impegnarsi, assistono sgomenti ad un imbarazzante Truman show. Pensando: ma quando si sveglieranno dall’anestesia? Ma si rendono conto di aver perso contatto con la realtà?» [9]. Nel 2012 si candida alle primarie del centrosinistra. Perde al ballottaggio con Bersani: lui prende il 39,1%, Bersani il 60,9. «Fu quella domenica sera in cui perse il ballottaggio che Renzi preparò la sua rivincita. Arrivò alla Fortezza da Basso, a Firenze, guidando la sua station wagon – niente autisti e niente scorte – con la moglie Agnese a fianco e il rosario sullo specchietto. Pronunciò un formidabile discorso in cui disse soprattutto una cosa: ho perso. In un Paese dove alle elezioni non perde mai nessuno, Renzi si mostrò, forse più che mai, diverso. E lì cominciò la sua rimonta» [1]. Pippo Civati, Giorgio Gori, Giuliano Da Empoli: lunga è la lista di amici, consiglieri, professori, esperti d’immagine e colleghi che Renzi ha messo da parte o in alcuni casi promosso per allontanarli (come il suo ex vicesindaco Dario Nardella, oggi deputato). Salvatore Merlo: «E dunque Renzi si scrive i discorsi da solo, trova da solo le sue citazioni, le immagini, le figure retoriche, le invenzioni linguistiche, scopre da solo quali sono i libri da leggere (pochini quelli che ha letto), studia da solo i complessi problemi di un paese strano come l’Italia» [10]. Con Letta premier i rapporti sono sempre freddi. «Durante l’estate 2013 comincia la marcia: il sindaco decide – lo annuncerà più avanti – di candidarsi alla segreteria e inizia a costruire attorno a sé una rete di contatti extra politici. E così, 13 luglio, dà il là al suo tour da presidente del Consiglio ombra: arriva l’incontro con Merkel, arrivano i contatti con i poteri che contano. I mesi passano, Renzi si convince che per togliere di mezzo il governo sarebbe stato necessario votare con il Porcellum ma poi si arriva al 5 dicembre del 2013 e cambia tutto: la Consulta dichiara il Porcellum incostituzionale e per la prima volta Renzi confessa a un suo collaboratore a Palazzo Vecchio che il piano B è quello: se non si riesce a fare la legge elettorale si rottama Enrico e si va a Palazzo Chigi. Detto, fatto» (Claudio Cerasa) [11]. Note: [1] Michele Brambilla, La Stampa 14/2; [2] Alessandro Campi, Il Mattino 15/2; [3] Wanda Marra e Davide Vecchi, il Fatto Quotidiano 8/12/ 2013; [4]. Paola Maraone, Gioia 11/10/2012; [5] Tommaso Labate, Corriere della Sera 15/2; [6] Denise Pardo, l’Espresso 28/10/2011; [7] Filippo Sensi, Europa 27/9/2013; [8] Monica Ceci, Gioia 15/10/2010; [9] Umberto Rosso, la Repubblica 29/8/2010; [10] Salvatore Merlo, Linkiesta 18/8; [11] Claudio Cerasa, Il Foglio 14/2.

Firenze: Ritratto di Matteo Renzi, candidato PD a sindaco. Interessanti i suoi rapporti con dei noti immobiliaristi e altro ancora. Altro che l’Obama fiorentino! (A cura della sinistra unita e plurale (SUP)di Firenze). Matteo Renzi è figlio di Tiziano Renzi, ex parlamentare della DC e gran signore della Margherita e della Massoneria in Toscana. Il feudo incontrastato della famiglia Renzi è il Valdarno, dal quale si stanno allargando a macchia d'olio. Il padre di Matteo controlla dalla metà degli anni '90 la distribuzione di giornali e di pubblicità in Toscana. Questo, unito agli affari con la Baldassini-Tognozzi, la società un po' edile e un po' finanziaria che controlla tutti gli appalti della Regione, spiega l'ascesa di Matteo Renzi. Le prime 10 cose che non vanno di Matteo Renzi:

1) Da presidente della Provincia, tra il 2004 e il 2009, ha acquisito il controllo di tutta la stampa locale, radio e tv, in Toscana. L'ultimo giornale che un po' gli era ostile era "La Nazione". Per questo, in occasione dei 150 anni di questo giornale, ha fatto ospitare dai locali della Provincia, in via Martelli, una mostra che, naturalmente, è stata pagata coi soldi di noi contribuenti. In questo modo, La Nazione è divenuta renziana.

2) Renzi per controllare ancora meglio l'informazione locale, ha trovato un secondo lavoro a moltissimi giornalisti: gli uffici stampa degli eventi organizzati dalla Provincia, come il Genio fiorentino, il suo stesso portavoce, tutta una serie di riviste inutili e costossime per la collettività (Chianti News, InToscana, ecc.) servono a lui e a Martini, il presidente della Regione, a tenersi buoni i cronisti locali. Inoltre, trasmissioni come "12 minuti col Presidente", che va in onda su RTV 38 e Rete 37, gli sono servite a dare delle tangenti legalizzate alle redazioni di queste emittenti che ormai, in lui, riconoscono il vero datore di lavoro.

3) Tra le cose di cui più si vanta Renzi, vi è il recupero di Sant'Orsola. Il grande complesso situato in San Lorenzo, chiuso e abbandonato da molti decenni, sarebbe stato recuperato dalla Provincia - così dice Renzi - con un investimento iniziale di 20 milioni di euro. E questo non è vero. Infatti, a bilancio, a fine anno, la Provincia per Sant'Orsola ha stanziato la miseria di un milione di euro. E' un esempio del suo continuo modo di mentire.

4) Renzi in questi 5 anni ha utilizzato la Provincia allo scopo di promuovere la propria immagine personale coi soldi nostri. A questo servono manifestazioni inutili e costose come "Il Genio fiorentino e "Riciclabilandia". Attraverso l'utilizzo delle consulenze, degli uffici stampa, della commissione di sondaggi, pubblicazioni e pubblicità ha creato una vasta rete clientelare di giornalisti che non ne contraddicono mai le posizioni.

5) L'inchiesta di Castello: Matteo Renzi, come presidente della Provincia, è molto più coinvolto del sindaco Domenici. Infatti, le opere oggetto dell'inchiesta sono quasi tutte commissionate dalla Provincia: tre scuole, una caserma nonché naturalmente il nuovo (e che bisogno c'è?) palazzo della Provincia. Eppure sui giornali ci è finito Domenici.

6) Il braccio destro di Ligresti, patron della Fondiaria, Rapisarda, lo si vede bene nelle intercettazioni telefoniche, pretende che per le commissioni di Castello la Provincia faccia una gara d'appalto. "sennò ci accusano di fare noi il prezzo", spiega Rapisarda al telefono all'assessore Biagi. Pochi giorni dopo quella telefonata, compare questo titolo su Repubblica: "Renzi contro la Fondiaria: per Castello si farà la gara d'appalto". Ovvero: Renzi è colui che meglio esegue le volontà della Fondiaria e poi appare addirittura come quello contro i poteri forti!

7) Nel 2004 come prima cosa taglia i fondi della Provincia per la raccolta differenziata. Risultato, i Verdi si arrabbiano (giustamente) e lui li espelle dalla Giunta.

8) Dal 2004 Renzi ha creato un'infinità di società alle quali la Provincia commissiona eventi culturali, indagini di mercato e così via. Il caso più clamoroso è quello di "Noilink" che, durante le primarie del PD, diventa il suo vero e proprio comitato elettorale!

9) Tutti i giornaletti del cappero che arrivano nelle case dei fiorentini a partire da "Prima, Firenze!" sono stampati coi soldi della Provincia.

10) Nessun giornalista osa fare una domanda su quanto abbiamo riportato nei primi nove punti a Matteo Renzi.

Chi c’è dietro Matteo Renzi? Si chiede Alessandro D'Amato su “Giornalettismo”. Da Marchionne a Carrai, da Serra a Della Valle, da Vitale a Micheli fino all’americano Phillips: Libero vi racconta la sua verità. Chi c’è dietro Matteo Renzi? La domanda è retorica, ma Libero di oggi la prende sul serio per imbastire una prima pagina dedicata al presidente del consiglio incaricato e a tutti i suoi “suggeritori”, non accusati di occultismo ma quasi. La prima pagina di Libero: CHI C’E’ DIETRO MATTEO RENZI – L’articolo di Franco Bechis comincia puntando il dito su quel Guido Tabellini che oggi è considerato ministro dell’Economia in pectore. Dietro il quale, come al solito, ci sarebbe la manina dell’Ingegnere: C’è chi vede quella manina infatti nell’improvvisa emersione nel toto-ministri del nome del professore di Economia ed ex Rettore dell’Università Bocconi, Guido Tabellini. La sua candidatura non è nuovissima nella vigilia della formazione dei governi. Era già emersa perfino nel 2008, per la squadra di Silvio Berlusconi, come alternativa a Giulio Tremonti. Tabellini ha due estimatori influenti: Sergio Marchionne (che aveva influenza sul cavaliere,mane ha pure su Renzi) e appunto De Benedetti. Entrambi lo hanno voluto cooptare in azienda. E infatti Tabellini siede nel consiglio di amministrazione di Fiat Industrial e in quello di Cir, la holding operativa del gruppo De Benedetti. Una candidatura con padrinato evidente. Ma tra i nomi spunta anche quello di Franco Bernabé, ed è importante far notare che nell’occasione lo sponsor non è considerato De Benedetti, ma l’amico d’infanzia di Renzi Marco Carrai. Il quale, oltre ad essere socio di una società in partecipazione con Bernabé, ha anche ottimi rapporti con Chicco Testa, l’ex presidente di Legambiente poi diventato presidente dell’Enel e nuclearista convinto. Ma l’elenco non finisce qui. Descritto come molto vicino a Carrai è infatti Fabrizio Palenzona, ex sindacalista e poi banchiere in Unicredit oltre che collezionista di poltrone tra AdR, Aiscat, Autostrade e così via. Palenzona sarebbe stato lo sponsor di Lucrezia Reichlin, data al ministero dell’Economia per qualche ora ieri sui giornali italiani. E non finisce qui: Ma c’è sempre Palenzona, sia pure a braccetto con Paolo Fresco (altro rapporto di Renzi ricevuto in dote da Carrai) dietro l’emergere e il solidificarsi della candidatura a ministro di Mauro Moretti, il manager che da una vita guida le Ferrovie italiane. Fra i padrinati dell’ultima ora ne è emerso uno istituzionale e in qualche modo naturale: l’appoggio – assolutamente solitario e perdente – dato dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, alla riconferma del suo ex direttore generale, Fabrizio Saccomanni, all’Economia. Infine, ci sono i nomi considerati vicini a Renzi fin dai tempi delle primarie di Firenze e di quelle contro Bersani: Nomi in qualche caso ben noti, come il finanziere David Serra (anche lui inventato da Carrai) e del patron di Tod’s e Fiorentina, Diego Della Valle. Ma anche qualcuno emerso meno dalle cronache fiorentine: come l’ex banchiere che guidò Lazard in Italia (e fondò Euromobiliare), Guido Roberto Vitale, o il finanziere Francesco Micheli (in coppia con il figlio Carlo). Enorme il peso su Renzi di Vincenzo Manes, presidente dell’Intek group e finanziatore generoso delle fondazioni con cui il sindaco di Firenze ha scalato la grande politica. Contano – e non poco -anche due personaggi che vengono dalla diplomazia e dalle reti di lobbing americane, come John Phillips – ex found raiser di Barack Obama,ora ambasciatore Usa in Italia. O il più oscuro Michael Ledeen, repubblicano assai conservatore, uomo simbolo dell’American Enterprise Institute. Da segnalare che quello di Ledeen è un nome che rientra periodicamente nelle discussioni sugli influencer americani dei politici italiani. Non ultimo si parlò di Leeden come sponsor del progetto Decidere.net di Daniele Capezzone: vero è che i due si conoscevano e stimavano, ma tutta la storia era soltanto complottismo.

Massoneria e “Misteri di Napolitano” nel libro “I panni sporchi della sinistra”. Un capitolo del libro scritto dai giornalisti Ferruccio Pinotti (Corriere della Sera) e Stefano Santachiara (Fatto quotidiano) parla di Unione Sovietica, di massoneria, di Henry Kissinger e del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, scrive “Blitz Quotidiano”. Massoneria e "Misteri di Napolitano" nel libro "I panni sporchi della sinistra" di Pinotti e Santachiara. “I misteri di Napolitano”: si chiama così il capitolo del libro “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere) scritto dai giornalisti Ferruccio Pinotti (Corriere della Sera) e Stefano Santachiara (Fatto quotidiano) in cui si parla di Unione Sovietica, di massoneria, di Henry Kissinger e del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Capitolo citato da Paolo Bracalini sul Giornale: “«Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull’asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in I panni sporchi della sinistra [...] Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l’ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell’intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell’ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel ’78, nei giorni del sequestro Moro, l’altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all’incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l’identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all’uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un’associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano, ndr). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all’esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell’alveo di quella francese…». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l’amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l’attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell’unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all’epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un’altra fonte, l’ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L’asse di Berlusconi con Putin – specie sul dossier energia – poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvicente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg…”

http://extrk.aws.forebase.com/artprint.html"Leggete i suoi testi con me, Rino Gaetano era un massone: fatto fuori perché parlava". L'autore dell'inchiesta sulla morte del cantante ci illustra i presunti messaggi cifrati del cantautore: "Sapeva tutto sul caso Lockheed e sul delitto Montesi". Intervista di Roberto Procaccini su “Libero Quotidiano”. "Rino Gaetano era vicino agli ambienti massonici, se non massone in prima persona. Dai suoi amici confratelli veniva a conoscenza della verità su alcuni misteri della storia italiana del '900, che poi inseriva nei testi delle sue canzoni dietro le mentite spoglie dell'umorismo o del non sense. Per questo è stato ucciso. Aveva raccontato troppe cose, pestando i calli a qualcuno negli Stati Uniti". Bruno Mautone, avvocato ed ex sindaco di Agropoli (Salerno), ha studiato per tre anni i testi delle canzoni di Rino Gaetano. Ha analizzato le parole e colto dei collegamenti, fino a disegnare uno scenario inedito: il cantautore calabrese, morto in un incidente stradale nel 1981 all'età di 30 anni, è stato vittima di un complotto. "Nel mio libro (Rino Gaetano: La tragica scomparsa di un eroe) metto in evidenza dati che mi sembrano oggettivi - spiega -. Poi le conclusioni possono essere condivisibili o meno, ma i fatti restano". Mautone fa riferimento ad Anna Gaetano, la sorella di Rino, che sul nostro sito aveva definito "sogni" le sue tesi. "Questo non lo posso accettare", replica Mautone.

Come è arrivato alla conclusione che Rino Gaetano sarebbe stato un massone?

«Le sue canzoni sono piene di riferimenti alla cultura e al simbolismo massonico. In Fiorivi, sfiorivano le viole cita il marchese La Fayette che ritorna dall'America importando la Rivoluzione e un cappello nuovo, Mameli che scrive una canzone tutt'ora in voga, e poi ancora Otto von Bismarck-Shonhausen.»

E allora?

«Allora parla di tre personaggi chiave della massoneria europea del diciottesimo e diciannovesimo secolo in una canzone d'amore. La rivoluzione importata da Lafayette era quella americana, cioè quella massonica per eccellenza. La canzone tutt'ora in voga di Mameli è l'inno nazionale, Fratelli d'Italia, quando è noto che i massoni sono soliti chiamarsi tra di loro fratelli.»

Basta a dire che Gaetano aderisse a una loggia?

«No, ma suoi amici strettissimi, che ho intervistato durante il lavoro di ricerca, mi hanno confermato il suo interesse per la materia. Leggeva molti libri sulla massoneria e sui suoi personaggi di spicco. E dirò di più: dai titoli dei dischi del cantautore si capisce anche il suo percorso di vicinanza prima, e allontanamento poi, dalla massoneria.»

Cioè?

«Nel 1973 Gaetano pubblica I love you Marianna. La Marianna è il simbolo della rivoluzione francese, che è una rivoluzione massonica. Nel 1974 tocca a Ingresso Libero, intendendo l'apertura delle logge alle nuove affiliazioni. Poi Gaetano rompe con gli ambienti massonici e nel 1976 incide Mio fratello è figlio unico, dove l'immagine paradossale rappresenta l'isolamento nella loggia.»

E così Rino avrebbe avuto agganci nella massoneria.

«Esatto. Anna Gaetano sostiene che il fratello fosse una persona preparata, che leggeva i giornali e arrivava a certe intuizioni grazie alla sua preveggenza. Non è così. Lui poteva anticipare le cose perché le conosceva.»

Quanti riferimenti a casi occulti ha contato nella discografia di Rino Gaetano?

«A centinaia. Ce ne sono di grossi. In Berta filava, una canzone del '75-'76, spiega lo scandalo Lockheed (un caso di corruzione affinché l'aeronautica italiana adottasse veivoli della casa americana, ndr). Berta sarebbe Robert Gross, detto Bert, presidente della Lockheed. Rino cantava: "Berta filava con Mario e con Gino", che sarebbero Mario Tanassi e Gino Gui, due ex ministri della Difesa coinvolti nell'inchiesta. Ma dal rapporto, prosegue la canzone, nasce un bambino che non era di Mario e non era di Gino. Cioè Rino sottintendeva che la responsabilità non fosse di Gui e Tavassi, esattamente come si è scoperto dopo. I due ministri erano dei capri espiatorii messi lì per coprire responsabilità più alte. Ma non è il solo esempio.»

Ne faccia un altro.

«In Nun te reggae più Rino Gaetano cita la spiaggia di Capocotta, cioè il delitto Montesi, e nella stessa canzone canta auto blu, sangue blu, ladri di Stato e stupratori.»

E quindi?

«Per l'omicidio di Wilma Montesi furono incriminati Piero Piccioni, figlio del ministro degli Esteri Attilio, e Ugo Montagna, un marchese. Le auto blu, un riferimento ai palazzi romani del potere. Il sangue blu, la nobiltà. Ladri di stato, perché le hanno rubato la vita alla ragazza venendo poi clamorosamente assolti. Stupratori, perché avevano violentato la ragazza. Rino Gaetano tutte queste cose le sapeva.»

Racconta la sorella Anna che Rino Gaetano avesse inserito un riferimento al caso Montesi anche in una poesiola infantile. Per dire che il caso di nera, semplicemente, l'aveva colpito profondamente nell'immaginario.

«Ma ciò non esclude che più di dieci anni dopo abbia scritto Nun te reggae più in possesso di elementi nuovi.»

E perché le avrebbe nascoste dietro riferimenti così complessi?

«Perché le sue canzoni erano cavalli di troia. Se fosse stato più esplicito lo avrebbero bloccato. Invece nascondeva cose serissime dietro l'umorismo e lo stile non sense.»

Chi è il responsabile della morte di Rino Gaetano, allora?

«La massoneria deviata. Direi settori in rapporti con gli Stati Uniti. L'Italia era diventata una colonia americana, Rino l'aveva scritto in molte canzoni, come in Ok papà, dove scrive Usa il pugnale. Anche il modo in cui l'hanno ucciso è un riferimento alla simbologia massonica.»

Perché?

«E' morto il 2 giungo, data scelta dai padri costituenti, tra cui molti fratelli, per l'unica festa laica del Paese. E poi non mi spiego perché sul luogo dell'incidente sia arrivata per prima un'ambulanza dei pompieri. Per non parlare dell'agonia e delle insufficienze ospedaliere che ricalcano la canzone la Ballata di Renzo.»

Mettere insieme stralci di canzoni non le sembra un po' poco per sostenere una teoria del genere?

«Lo so, se avessi il documento che testimonia l'associazione di Rino Gaetano alla massoneria sarebbe tutto più chiaro. Ma ho messo in fila elementi chiari, per me oggettivi.»

Anna Gaetano lamenta che l'ha conosciuta, per telefono, solo a libro dato alle stampe.

«Non avrei potuto contattarla prima. Sapevo che non avrebbe condiviso il mio libro, che mi avrebbe messo il bastone tra le ruote. Non ho nulla contro di lei, ma se ha paura non è colpa mia. E capisco anche che non sia d'accordo con le mie conclusioni, ma non può dire che invento.»

Calabria e Massoneria, un antico legame. Le statistiche collocano la regione al terzo posto per densità massonica in Italia, dopo la Toscana e il Piemonte. Il nostro territorio nel corso dei secoli ha infatti espresso molte personalità del libero pensiero, scrive Vincenzo Pitaro su “Soverato Web”. Da una recente rilevazione, la Calabria è risultata tra le regioni a più elevata densità massonica, dopo la Toscana e il Piemonte. Un dato che non ha mancato di sorprendere gli esperti nazionali di statistica, i quali non sarebbero riusciti a spiegarsi «il motivo di un simile primato». Questo perché nessuno, a quanto pare, ha tenuto conto della storia. Il fenomeno odierno si innesta infatti sulla scia di un’antica tradizione lasciata in Calabria da numerose personalità. Qui infatti  nacquero ed operarono Antonio Jeròcades (a lui è attribuita l’istituzione della prima loggia calabrese), Francesco De Luca (che succedette a Giuseppe Garibaldi nella Gran Maestranza nazionale), Saverio Fera, di Petrizzi (CZ), artefice dello scisma del 1908 e fondatore dell’Obbedienza di Piazza del Gesù, e tanti altri (da Armando Dito a Vittorio Colao) che ricoprirono sotto le volte stellate incarichi di primo piano. Tra gli illustri massoni calabresi, peraltro, la storia annovera finanche uomini di Chiesa, come lo stesso abate Jeròcades, di Parghelia; i sacerdoti Gregorio Aracri, di Stalettì (CZ); Giuseppe Monaldo, di Filadelfia (VV); Antonio Greco,  di Catanzaro (che sedette anche nel primo parlamento del Regno d’Italia); Domenico Angherà, arciprete di San Vito sullo Jonio, che il 10 agosto 1861 fondò a Napoli il Grande Oriente, trasformatosi in seguito in Supremo Consiglio di Napoli, e che da molti è considerato l’antesignano del Grande Oriente d’Italia. Che la Calabria fosse, dunque, «una regione di corposità massonica» non è affatto una novità; un qualcosa che si scopre oggi per merito delle statistiche. Il prezioso contributo offerto dalla regione alla Massoneria italiana venne addirittura sottolineato, già nel 1875, nientemeno che da Francesco De Sanctis, il padre della letteratura italiana, durante un suo elogio funebre tenuto dinanzi al feretro proprio di Francesco De Luca, avvocato, professore di scienze naturali e scrittore (fra l'altro, autore di un interessante volume su «L’educazione dei popoli», nonché di vari opuscoli di matematica sullo «sviluppo di un nuovo sistema di logaritmi») che era nato a Cardinale (CZ) nel 1811 e che già dal dal 28 maggio 1865 al 20 giugno del 1867 era stato Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, la massoneria di Palazzo Giustiniani. Nel discorso tenuto in forma solenne, De Sanctis (anch’egli massone, come del resto lo furono Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Salvatore Quasimodo, ecc.) non solo onorò la memoria di Francesco De Luca, esaltandone le doti umani e professionali, ma trovò modo di lodare anche la Terra che gli aveva dato i natali, sottolineando i «nobili ideali universalistici e filatropici dei tanti calabresi che avevano alimentato la massoneria. Ideali praticati da uomini rispettosi delle leggi della patria, osservanti dei diritti dell’uomo e del cittadino, gelosi della dignità della persona umana, irreprensibili nel comportamento privato e sociale. Alla pari di tanti altri grandi massoni internazionali: da Voltaire a Cavour, da Fleming a Washington, fino a Mozart». La forte presenza della Massoneria in Calabria perciò altro non è altro che un fatto storico. Già nel 1864, esisteva a Catanzaro la loggia «Tommaso Campanella» (che oggi vanta di aver «ricevuto la luce proprio da Antonio Jeròcades»), una loggia che perdipiù - stando a quanto sostiene qualche storico della Libera Muratoria - sarebbe stata fondata per preparare la gioventù ad una nuova guerra contro l’Austria per la conquista di Venezia. A  innalzare le sue colonne furono sette «fratelli» (Giuseppe Rossi, Filippo D’Alessandria, Odoardo Squillace, Giuseppe Falletti, Gaetano Palopoli, Gregorio Iannone, Michele Martone) assieme ad Antonio Menniti-Ippolito eletto maestro venerabile. Non si sa se a tutt'oggi spetterebbe ad essa, o meno, il titolo di «loggia madre calabrese», visto che - tra quelle più antiche ancora esistenti nella regione - ce n'è un'altra a Reggio Calabria, la «Domenico Romeo». L'afflusso maggiore comunque si sarebbe registrato dal 1900 in poi, fino all’avvento del fascismo, quando nella sola provincia di Catanzaro erano attive molte logge, tra cui la «Francesco De Luca» a Chiaravalle Centrale; la «Giovanni Andrea Serrao» a Filadelfia; l’«Antica Vibonese Rinnovellata» a Monteleone (oggi Vibo Valentia); la «Dionisio Ponzio» a Nicastro; la «Bruno Vinci» a Nicotera e la «Benedetto Musolino» a Pizzo Calabro, oltre ai «triangoli» elevati a Nardodipace, Fabrizia e ad Arena.

L’alleanza tra ’ndrangheta e massoneria per avvicinarsi al potere. Le oltre duemila pagine dell’ordinanza notificata ai 39 arrestati dell’inchiesta “Saggezza” gettano luce sui rapporti tra ’ndrangheta e massoneria, usata per avvicinarsi ai centri decisionali politici ed economici. Non è una novità: già nel ’92 il procuratore di Palmi, Agostino Cordova, indagò sulla massoneria deviata, scrive Francesca Chirico su “L’Inchiesta”. «È venuto il gran maestro del coso… del…ferma, che mi ricordo, come si chiama quell’altra obbedienza grossa…». «Grande Oriente». «Sì, del Grande Oriente, c’era il gran maestro che è venuto tutto pieno di collane e di cose». La trascrizione dell’intercettazione telefonica del 4 dicembre 2006 indica, a questo punto, “risate”. Poi l’interlocutore più esperto si ricompone e spiega: «Sono i paramenti per i gradi». Probabilmente simili a quelli che, quattro anno dopo, durante una perquisizione domiciliare, i carabinieri di Locri gli troveranno in casa. Ordinatamente piegati e custoditi in camera da letto dove i militari dell’Arma erano in cerca, forse, di pistole e munizioni. Di Nicola Nesci, cinquantasettenne operaio forestale di Ciminà, nella Locride, sapevano i vecchi precedenti per armi e tentata estorsione, le frequentazioni con i pregiudicati della zona, gli affari nel noleggio delle slot-machine e l’interesse per la politica locale, con tanto di candidatura e successiva elezione in Consiglio comunale nel 2007. Ne conoscevano bene, per averlo arrestato con l’accusa di narcotraffico, anche il cognato Antonio Spagnolo, boss di Ciminà fino al giorno delle manette. Ignoravano, però, che Nicola Nesci fosse associato alla massoneria con le cariche di “Maestro segreto di 31° grado” e “Presidente della camera di 4° grado”. Titoli ai quali avrebbe unito, senza problemi di conflitto d’interessi, anche quello di “mastro di Corona”. In quest’ultimo caso, però, non parliamo di logge ma di cosche. Nelle oltre duemila pagine dell’ordinanza notificata nei giorni scorsi ai 39 arrestati dell’inchiesta “Saggezza”, tra capi d’imputazione come estorsione, usura, intestazione fittizia di beni, concorrenza sleale e frode in appalti pubblici, sono emerse anche questioni relative all’organizzazione e all’assegnazione di cariche interne alla ’ndrangheta. Secondo i magistrati della Dda reggina proprio «il maestro segreto di 31° grado» Nicola Nesci avrebbe infatti animato, con altri complici, «una articolazione dell’associazione denominata “Corona”, struttura cui facevano capo i “locali” di ’ndrangheta di Antonimina, Ciminà, Ardore, Cirella di Platì e Canolo, finalizzata al controllo mafioso dei territori di tali Comuni». Disseminati nella Locride e svuotati dall’emigrazione, Antonimina, Ciminà, Ardore, Cirella di Platì e Canolo bisogna metterli insieme per raggiungere quota ottomila abitanti. E mettersi insieme, in questo fazzoletto di Calabria, tra l’Aspromonte e le spiagge sabbiose dello Jonio, ostaggio della statale 106 e del binario unico della ferrovia, è l’unico modo per contare qualcosa. Per i magistrati lo avrebbe capito anche la ’ndrangheta che in zona avrebbe attivato un livello organizzativo comprensoriale, la “Corona”, appunto, per gestire in sinergia gli affari (appalti pubblici, attività commerciali, etc) e interloquire da una posizione più forte con i “colleghi” del mandamento della Locride. Ma anche per scongiurare il riproporsi di faide come quella che a Ciminà, dopo l’omicidio nel 1966 del boss Francesco Barillaro, collezionò decine di morti, compresi un pastore sedicenne (Vincenzo Barillaro, figlio del defunto capocosca), un prete (don Antonio Esposito, trucidato a colpi di mitra) e un sindaco (Domenico Fazzari). L’anziano “capo corona” Vincenzo Melia, tornato in Calabria dopo quasi 50 anni trascorsi in America, e i suoi consiglieri (Nicola Nesci e Nicola Romano) non amano sentire parlare di guerre di ’ndrangheta. Gli arresti e la pressione delle forze dell’ordine prodotti dalla faida di San Luca e dall’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria, Franco Fortugno (16 ottobre 2005 a Locri), li spingono spesso a deprecare, con tono accorati di biasimo e accenni nostalgici al passato, l’allontanamento dai valori di “sangue e onore” di un tempo. «Hanno distrutto un paese come Locri che lo avevano mantenuto come “una rosa nel vaso”…sia la politica, sia la ’ndrangheta, sia la massoneria, insieme, tutti insieme, tutti d’accordo, l’avevano portato un gioiello». Per prosperare, insomma, servono saggezza e armonia. E ad un’armonica collaborazione tra “poteri” alcuni esponenti della “Corona” sembrano ispirare il loro variegato curriculum da fratelli di sangue e, contemporaneamente, fratelli massoni. «Il contatto con gli ambienti massonici – scrivono i magistrati nell’ordinanza – costituiva un vero e proprio trampolino di lancio per gli affiliati al sodalizio mafioso, poiché li avvicinava a quelle componenti della società italiana che costituivano i veri centri decisionali in campo economico, politico e sociale». Per sei degli indagati dell’operazione “Saggezza” il contatto era formalizzato da un’iscrizione ufficiale alla “Massoneria Universale Grande Oriente d'Italia, Ordine dell’Alto Jonio reggino”, con tanto di quota associativa annuale da corrispondere: oltre al già citato Nicola Nesci, erano della partita della “squadra e del compasso” anche il presunto boss di Ardore, Giuseppe Varacalli, Giuseppe Siciliano, Rocco Mediati, Ferdinando Parlongo e Bruno Parlongo, accusati, a vario titolo, di associazione a delinquere di stampo mafioso e intestazione fittizia di beni. E affratellati con i politici, medici, avvocati e professionisti che il sabato a Siderno si danno appuntamento presso la sede della loggia. Per la sua investitura, per esempio, Varacalli volò nel 2001 direttamente a Malta. Sette anni dopo lo avrebbero ammanettato per aver favorito la latitanza del boss di San Luca, Antonio Pelle, tra i responsabili della faida di San Luca e catturato il 16 ottobre 2008 in un bunker ricavato proprio sotto un capannone di Varacalli ad Ardore marina. L’abbraccio tra ’ndrangheta e massoneria emerso nell’inchiesta “Saggezza” non è inedito né recente. «Sino alla prima guerra di mafia, la massoneria e la ’ndrangheta erano vicine, ma la ’ndrangheta era subalterna alla massoneria, che fungeva da tramite con le istituzioni… È evidente che in questo modo eravamo costretti a delegare la gestione dei nostri interessi, con minori guadagni e con un necessario affidamento con personaggi molto spesso inaffidabili. A questo punto, capimmo benissimo che se fossimo entrati a far parte della famiglia massonica avremmo potuto interloquire direttamente ed essere rappresentati nelle istituzioni…». Il salto, secondo Giacomo Lauro, tra i primi pentiti di ’ndrangheta, avvenne quindi nella seconda metà degli anni Settanta, dopo l’eliminazione dei boss della vecchia guardia da parte delle nuove leve (De Stefano, Nirta). Un salto proficuo ma non del tutto “invisibile”. Partendo dagli affari della cosca Pesce di Rosarno, attraverso la scoperta di relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, il 16 ottobre 1992 il procuratore di Palmi, Agostino Cordova, avviò, infatti, la prima inchiesta italiana sulla massoneria deviata, ipotizzando l’esistenza di una “super loggia segreta” e finendo nelle trame degli affari miliardari di Gelli e di una miriade di personaggi legati a logge massoniche coperte. Il magistrato fu immediatamente “promosso” alla Procura di Napoli e l’indagine, compendiata in quasi mille faldoni, finì archiviata.

Massoneria al voto, con lo spettro della 'ndrangheta, scrive Gianni Barbacetto su Il Fatto Quotidiano del 14 Febbraio 2014. Si va alle urne. Il 2 marzo 2014 si vota. Non per le elezioni politiche, ma per eleggere il nuovo Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), la più grande comunione massonica italiana. Quel giorno finirà l’era di Gustavo Raffi, al vertice del Goi dal 1999. Dopo tre mandati consecutivi non può più ricandidarsi: aperte le grandi manovre per la successione. Candidati, Stefano Bisi, giornalista di Siena, l’ex vicesindaco socialista di Livorno Massimo Bianchi e il notaio di Messina Silverio Magno. Raffi lascia la scena dopo 15 anni di governo massonico. Arrivò a Villa il Vascello, la splendida sede romana del Goi, promettendo di rinnovare l’Istituzione e far dimenticare le ombre del passato. Veniva da Ravenna e diceva che la massoneria “doveva ripudiare l’affarismo e diventare una casa di vetro”. Dichiarava che “la P2 sta al Grande Oriente come le Br al Partito comunista”. Una volta gli sfuggì addirittura che “il cuore della massoneria batte a sinistra”. Ma subito smentì e fu poi subissato di critiche: lo accusarono di essere un falso amico della sinistra, venendo sì dai repubblicani, ma quelli presidenzialisti e un po’ golpisti di Randolfo Pacciardi; e di essere lui il vero affarista. Si è raddoppiato l’emolumento annuo (portato a 130 mila euro) e ha perfino favorito il fratello (non massonico, di sangue) affidando all’agenzia turistica di famiglia l’organizzazione dei viaggi e soggiorni a Rimini per l’annuale Gran Loggia, il parlamento massonico. Raffi ha sempre respinto al mittente le accuse velenose dei fratelli coltelli, esibendo i suoi successi. I massoni del Goi erano 13 mila nel 1999, oggi sono esattamente 22.181. Le Logge sono aumentate: erano meno di 600, oggi sono quasi un migliaio. L’età media si è abbassata. La comunione ha riallacciato le relazioni (che erano state sospese) con la massoneria svizzera, belga e francese. Con la riforma elettorale (“un Maestro un voto”), Raffi ha esteso la partecipazione alle elezioni massoniche a tutti i Maestri (oggi sono 16.252), mentre prima votavano soltanto i Maestri Venerabili (quelli a capo di una Loggia). Ecco dunque il voto del 2 marzo. Sarà eletto al primo turno il candidato che raccoglierà almeno il 40 per cento dei voti. Sennò, ballottaggio il 23 marzo, a ridosso del giorno esoterico dell’equinozio di primavera.

Stefano Bisi, il favorito, è giornalista e dirigente del Corriere di Siena. È l’inventore della definizione “groviglio armonioso” affibbiata a Siena e al Montepaschi: un “sistema” capace di tenere insieme gli opposti e di durare dal Medioevo fino a oggi. Con lo scandalo della banca e il crollo del suo presidente Giuseppe Mussari, il groviglio ha preso il sopravvento e l’armonia è finita, anche perché sono finiti i soldi che il Montepaschi distribuiva a pioggia. Anche ai giornali di Bisi, naturalmente, che ringraziava invitando Mussari come ospite “profano” ai convegni massonici e assumendo la direzione responsabile di Siena News, il giornale on-line fondato dal portavoce di Mussari, David Rossi, morto tragicamente nei giorni più drammatici dello scandalo. La voce di Bisi è rimasta registrata più volte nelle intercettazioni dell’inchiesta sull’aeroporto di Ampugnano, mentre parlava con due degli indagati, il presidente Mussari e l’amministratore delegato della società aeroportuale Enzo Viani, ex dirigente Montepaschi ma anche fratello massone,  nonché amministratore di Urbs, la società che controlla il grande patrimonio immobiliare del Goi, da Villa il Vascello all’ultima delle Logge, vera cassaforte dei massoni.

Massimo Bianchi è definito da qualcuno dentro le logge “candidato di disturbo”: ha fatto una campagna elettorale d’opposizione alla gestione Raffi, dopo essere stato però per 15 anni il suo numero due, come Gran Maestro Aggiunto. Gli oppositori della passata gestione faranno dunque confluire i voti sul notaio messinese Silverio Magno. C’è chi, dentro il Grande Oriente, mostra preoccupazioni per il pericolo di infiltrazioni mafiose. Tra questi, l’avvocato calabrese Amerigo Minnicelli, che già nel 2012 segnalava che molti tra gli indagati e gli arrestati in Calabria per mafia e corruzione erano appartenenti al Goi. Per tutta risposta, è stato accusato di fomentare una campagna denigratoria contro la massoneria ed è stato espulso dal Grande Oriente. Un anno dopo, lo stesso Raffi ha dovuto evidentemente prendere atto che il problema era reale, tanto che ha provveduto a sospendere la Loggia Verduci, nella Locride, proprio per infiltrazioni mafiose. Oggi Minnicelli solleva di nuovo il problema. Delle tre regioni ad alta presenza massonica – Piemonte, Toscana e Calabria – quest’ultima ha ben 2 mila iscritti, di cui circa 1.500 Maestri votanti. Minnicelli calcola che si può risultare eletti con 4-5 mila voti validi. I massoni calabresi sono dunque determinanti: lo furono alle ultime elezioni, quando Raffi vinse grazie ai mille voti ricevuti in Calabria, che gli permisero di superare per una manciata di voti (meno di 400) il suo sfidante Natale Di Luca. Ma per sapere quale sarà il futuro della massoneria italiana dovremo aspettare l’equinozio di primavera.

Il grande boom dei Fratelli. Così cambia la Massoneria. I liberi muratori eleggono il nuovo Gran Maestro. Che guida 802 logge e 22 mila iscritti. “L’Espresso” è entrato nella Nuova Casa. Tra misteri, potenti sotto inchiesta, giovani adepti, sedi sfarzose che non pagano l’Imu. E le denunce per una casta interna, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Sabato 1 marzo 2014, un po’ prima delle dieci di mattina, gli spettri che si aggirano per l’Italia, per l’Europa, per il pianeta, si materializzano davanti all’ex cinema Belsito, alle pendici di Monte Mario, Roma. Al riparo da una pioggerella gelida, i devoti del Gadu (grande architetto dell’universo) si scambiano il tfa (triplice fraterno abbraccio) in attesa che il Gm (gran maestro) uscente del Goi (Grande Oriente d’Italia) Gustavo Raffi inauguri la nuova Casa Massonica “Ernesto Nathan”. La libera muratoria abusa degli acronimi quanto i redattori di lettere commerciali. E, in effetti, nella piccola folla che attende l’inaugurazione del centro Nathan tira una certa aria da ragionieri in gita. Età media elevata. Poche donne, per lo più mogli, madri e figlie perché il Goi rimane un’obbedienza riservata ai maschi. I rari giovani si accollano con fierezza i labari delle RRLL (rispettabili logge) e li dispiegano all’interno della struttura che un tempo ospitava le adunanze craxiane mentre, da questa settimana, accoglierà le riunioni delle logge romane nei sette templi nuovi di zecca realizzati al piano sotterraneo del Belsito. Nonostante le luci sfavillanti e le pareti imbiancate di fresco, il mitico complotto della massoneria universale ha un’aria dimessa. Il cronista in caccia di vip deve limitarsi all’ex deputato radicale Massimo Teodori, al giornalista Rai Gabriele La Porta e a Valerio Zanone, già segretario del Partito liberale durante la Prima repubblica. L’apparenza può ingannare. Iniziati e profani attenti al fenomeno concordano: la massoneria non è mai stata tanto in salute. Troppo in salute, a volte. Dal gran commis di Stato al giornalista, dal politico al militare in carriera, dal giudice al criminale organizzato, non c’è emergente che non sia sospettato di impugnare la cazzuola misterica in una delle 187 obbedienze, come si chiamano le associazioni massoniche, sparpagliate per la nazione e spesso in guerra fra loro al punto che la storia dell’Italia unita è in gran parte un seguito di faide tra fratelli: Agostino Depretis contro Francesco Crispi, Enrico Cuccia contro Michele Sindona e il piduista accidentale Silvio Berlusconi contro il tecnocrate Mario Monti, presunto braccio armato delle logge internazionali. Ma dato che la libera muratoria teorizza la copertura a scopo protettivo delle figure apicali, dalla matinée romana di inizio marzo non c’è da aspettarsi grandi nomi o outing di alcun genere. Anche gli organi istituzionali invitati all’ex cinema Belsito, dal sindaco di Roma Ignazio Marino fino al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che alcuni indicano addirittura come presunto ufficiale di collegamento tra i fratelli americani e i grembiuli europei, si sono limitati a spedire un messaggio di auguri. Il Gran Maestro Raffi li giustifica. «Abbiamo deciso questa cerimonia di apertura in tempi brevissimi. D’altra parte, ci tenevo molto a farla io», ammette l’avvocato ravennate con trascorsi nel partito repubblicano. I nemici lo avevano soprannominato Raffinger, molto incautamente. Benedetto XVI si è dimesso ben prima del papa massonico che ha fatto e disfatto statuti pur di prolungare a livelli di record la sua permanenza al vertice. Dopo quindici anni alla guida del Goi, Raffi non si è potuto ricandidare alle elezioni del 2 marzo. L’inaugurazione della Casa massonica intitolata a Nathan, storico sindaco della capitale e Gm del Goi fino all’avvento del massonofobo Benito Mussolini, non è però l’ultimo atto della carriera di Raffi e il suo futuro da Gv (grande vecchio) è assicurato. Sotto la sua gran maestranza i profani hanno “bussato” in massa alle porte del Goi che è salito da 9 mila a oltre 22 mila iscritti alle 802 logge nazionali. Molti hanno storto il naso verso la svolta modernista e movimentista del Goi. La Gran Loggia, assise annuale che si tiene a Rimini in aprile, è diventata un happening esoterico-spettacolare a metà tra Sanremo (con tanto di concerto di Ornella Vanoni) e il Meeting di Comunione e liberazione. «La sola struttura centrale», critica il notaio messinese Silverio Magno, uno dei tre candidati alle elezioni del 2 marzo, «costa 6 milioni di euro all’anno». Una fetta non sottile dei ricavi va in tasca al Gm: almeno 400 mila euro tra emolumento, note spese e fringe benefits. A differenza della gestione precedente, quando il cagliaritano Armandino Corona pensava più che altro a salvare il Goi dai contraccolpi dello scandalo P2, con Raffi i fratelli sono stati obbligati a una frequentazione regolare della loggia e al pagamento puntuale della quota annua di base (400 euro), pena l’esclusione dai piedilista dell’associazione. Di soli contributi ordinari, il Goi incassa circa 10 milioni di euro l’anno, escluse le capitazioni straordinarie e le donazioni. E se il conto economico è florido, lo stato patrimoniale non è da meno. Le principali casseforti societarie (Urbs e Augusta 2002) hanno decine di immobili registrati a bilancio per una ventina di milioni di euro. Ma il valore reale è almeno quadruplo. E nonostante le esternazioni di Raffi contro la Chiesa che non paga l’Imu, anche il Goi approfitta dell’esenzione ogni volta che un Comune lo consente. Quando non lo consente, si va in causa. È successo con Villa del Vascello, la magnifica residenza del Grande Oriente alle pendici del Gianicolo per la quale il Campidoglio non ha riconosciuto il vincolo. L’inquilino di Villa del Vascello per i prossimi cinque anni, il giornalista senese Stefano Bisi, ha confermato il pronostico vincendo al primo turno con oltre il 40 percento ed evitando quindi il ballottaggio. Sabato 8 marzo il suo incarico sarà convalidato dalla commissione elettorale salvo contestazioni. Formalmente Raffi non ha sostenuto né Bisi né gli altri due candidati (Magno e il livornese Massimo Bianchi) ma Bisi stesso dichiara di volere reggere la maggiore obbedienza massonica in continuità con la linea del gran maestro uscente. «Raffi ha mostrato la strada dell’apertura verso l’esterno», dice Bisi, 57 anni. «Quando mi sono affiliato a una loggia di via Montanini a Siena, era il 1982, un anno dopo lo scandalo P2. Si andava alle riunioni alla chetichella e i fratelli mi dicevano di stare attento a non farmi vedere quando uscivo in strada. Oggi ci si ferma fuori dal portone a chiacchierare. Soprattutto fra i giovani ci sono ancora molti massoni che non sanno di esserlo e che spero di potere iscrivere. Con la crisi dei valori e della politica, con la desertificazione delle anime, dove altro dovrebbe andare un giovane?» Si potrebbe obiettare che anche il potere massonico a Siena (170 iscritti al Goi) non è del tutto esente da una certa desertificazione. Le disavventure del Monte dei Paschi e del suo ex numero uno Giuseppe Mussari, ufficialmente profano ma certo ben collegato agli ambienti della muratoria senese e toscana, non hanno affatto indebolito la candidatura di Bisi, amico di Mussari. Anzi. Con il vicedirettore del “Corriere di Siena” si sono schierate compatte le logge calabresi, forti di 2 mila maestri votanti. I rivali di Bisi non hanno apprezzato il sostegno plebiscitario di una regione che durante la gestione Raffi ha acquisito un peso elettorale e politico pari a quello di Toscana e Piemonte, molto più popolate e di lunga tradizione massonica, e molto superiore a regioni molto più estese come la Sicilia o la Lombardia. Uno dei più critici è stato proprio il fratello calabrese Amerigo Minnicelli, che ha denunciato brogli alle elezioni precedenti ed è stato trascinato davanti al tribunale, prima massonico poi ordinario. «Raffi ha ritenuto di ampliare la base», dice Minnicelli, «e questo non è certo un delitto. Ma l’esplosione degli iscritti nella mia regione fa riflettere, così come è anomalo in sede locale il consenso quasi unanime su un solo candidato, l’avvocato vibonese Marcello Colloca. E l’operazione “Decollo money” che ha portato in carcere nel 2011 l’imprenditore Domenico Macrì, calabrese con residenza in Umbria e agganci in banca a San Marino, amico personale di Raffi, lambisce la Gran maestranza». Raffi ha risposto a modo suo. Ha sospeso Macrì ma ha espulso Minnicelli. «E su Colloca ci metto la mano sul fuoco», aggiunge anche se il nome dell’avvocato viene citato nell’informativa che, pochi giorni fa, ha portato all’arresto del capo e del vice della Squadra Mobile di Vibo Valentia, in una pagina fra le più nere nella lotta alla ’ndrangheta. Secondo i giudici, la loggia di Colloca (“Michele Morelli”) sarebbe la stessa che ha affiliato alcuni giudici locali e Pantaleone “Luni” Mancuso, mammasantissima del crimine calabrese che ha teorizzato la confluenza della’ndrangheta nella massoneria. Lo scorso settembre un’altra sospensione è toccata alla “Rocco Verduci”, loggia del Goi all’Oriente di Gerace nella Locride, per infiltrazioni mafiose. «È vero che ho sospeso la Verduci», dice Raffi, «ma finora non è arrivato uno straccio di prova concreta sulle infiltrazioni. In ogni caso, quando sono arrivato al vertice del Goi, i malavitosi avevano quarant’anni ed erano già dentro. Sulle infiltrazioni ho sfidato anche monsignor Giovanni Bregantini, al tempo vescovo di Locri, a un confronto pubblico, fosse in loggia in parrocchia o in piazza, così da parlare anche delle magagne della Chiesa. Ma lui non me l’ha concesso». La linea di difesa ufficiale è ribadita da Aldo Alessandro Mola, “profano” e storico della libera muratoria. «L’infiltrazione mafiosa ha colpito tutte le organizzazioni associative e tutte le categorie: partiti, clero, finanza, magistratura. È ingeneroso bollare d’infamia la sola massoneria che, al contrario, è la rete di sicurezza dello Stato quando i partiti e le istituzioni scricchiolano». E le istituzioni di certo non scricchiolano soltanto in Calabria. Oltre ai pasticci di stampo massonico che hanno inguaiato il Monte dei Paschi e al processo per l’aeroporto di Siena che ha coinvolto il raffiano Enzo Viani, amministratore dell’immobiliare Urbs, la Toscana in grembiule è rimasta coinvolta dal crac della holding Bf di Roberto Bartolomei e Riccardo Fusi, costruttore molto vicino a Denis Verdini, banchiere in Firenze, ex coordinatore nazionale del Pdl e uomo che sussurra all’orecchio del premier Matteo Renzi per conto dell’opposizione forzista. In un filone dell’inchiesta sul crac Bf, sono emerse amicizie fra alcuni giudici che dovevano occuparsi delle società di Fusi, l’amministratore delegato della Fiorentina Sandro Mencucci e due professionisti, un dentista e un avvocato che sono finiti sotto inchiesta in base alla legge 17 del 1982, la poco applicata legge Anselmi sulle associazioni segrete approvata dieci mesi dopo il ritrovamento delle liste della loggia Propaganda 2 di Licio Gelli (marzo 1981). Per quanto la deputata democristiana Tina Anselmi sia tra le figure più odiate in loggia insieme agli ex pubblici ministeri Agostino Cordova e Luigi De Magistris, c’è da chiedersi se i principi delle tenebre massoniche siano un avvocato e un dentista di Prato. La stessa domanda, peraltro, circolava ai tempi di Gelli, ex dirigente della materassi Permaflex di Frosinone. Ma la domanda sulle logge coperte, se esistono e quanto sono influenti, è destinata a restare senza risposta. All’interno delle logge, governanti e oppositori sono uniti sul no quando si chiede se esistono ancora le iniziazioni “sulla spada” o “all’orecchio del Gran maestro”, riservate ai massoni di maggiore influenza, e se i pezzi da novanta preferiscano iscriversi a logge straniere, a Montecarlo, in Canton Ticino, a Malta o a Londra, per mantenere il riserbo. Ma è un no obbligato. Gli aggiornamenti della P2 - la P3, la P4 e la P5 dello sketch di Corrado Guzzanti - sono tutti in versione orale.

Massoneria, ai conservatori degli Alam non piace Facebook, scrive ancora “L’Espresso”. Antonio Binni, numero uno della Gran Loggia d’Italia degli  antichi liberi accettati muratori, è contrario al modernismo: "Io sono un massone in blazer". «Poco tempo fa un fratello giovane ha pubblicato una sua foto a una festa su Facebook. È stato richiamato per quello che noi consideriamo un comportamento disdicevole». Antonio Binni, 77 anni, avvocato civilista con studio a Bologna, numero uno della Gran Loggia d’Italia degli Alam (antichi liberi accettati muratori) dopo le elezioni dello scorso dicembre, non ha paura di essere elitario, un filo démodé. La sua obbedienza, che una volta stava a Roma in piazza del Gesù e oggi si è spostata poco distante a palazzo Vitelleschi, è la seconda sotto il profilo numerico dopo il Grande Oriente con 10 mila iscritti (500 logge) ed è sempre passata per essere più conservatrice rispetto al Goi, oltre che collegata al Grande Oriente di Francia (52 mila iscritti) mentre il Goi si richiamava ai fratelli inglesi della Gran Loggia Unita. L’elezione di Binni - suo zio era l’italianista Walter - è stata una conferma della linea di continuità con il passato contro i progetti rottamatori dell’avversario Luciano Romoli. La parola d’ordine è “pochi ma buoni” contro l’espansionismo modernista del Goi di Gustavo Raffi. «Lui si è dichiarato massone in jeans. Io sono massone in blazer e non vengo remunerato per la mia carica», dice Binni. «Non lo dico per fare polemica con lui. Abbiamo buoni rapporti con il Grande Oriente d’Italia ma la nostra linea punta di più sugli aspetti culturali, è più restrittiva. E quando un profano “bussa” da noi per ottenere l’affiliazione, non ci limitiamo a richiedere il certificato penale o i carichi pendenti, ma ci informiamo con la nostra rete locale e pretendiamo che ci sia qualcuno che presenti il candidato facendosene garante. Questo ci ha tenuti lontano dagli scandali giudiziari tipo P2 che, pur essendo una loggia coperta del Goi e non nostra, ci attirò un mese di perquisizioni». La presa di distanza dalla disinvoltura di certe affiliazioni targate Goi è evidente. Nello stesso modo pacato e filosofico Binni non risparmia la stoccata al Vaticano che, secondo quanto risulta al Gran Maestro, conta parecchi sacerdoti iscritti agli Alam, con buona pace di papa Bergoglio che ha denunciato il lobbismo dei muratori in tonaca. «Il pregiudizio religioso o laicista per noi non esiste», dice Binni. «A Milano ho appena affiliato un fratello musulmano che ha giurato sul Corano. In tutto il Nordafrica siamo ben organizzati, così pure nella zona balcanica e mi hanno appena chiesto di aprire una loggia in Ucraina». L’altro punto di forza degli Alam è l’apertura alle iscrizioni femminili che rappresentano il 45 per cento dell’obbedienza e che spesso sono le mogli e le sorelle dei massoni del Goi. Nella prossima tornata elettorale, prevista nel 2016 se non sarà portata a termine la riforma verso un unico mandato quinquennale non rinnovabile, Binni si aspetta una candidatura femminile. «L’apporto della donna è indispensabile. Sempre sotto il profilo della tradizione».

FINANZA E POTERE. IL GRUPPO BILDERBERG E LE TEORIE COMPLOTTISTICHE.

La Trilaterale ed il Bilderberg condannano Berlusconi scrive Giancarlo Marcotti. Ore 19:45 di giovedì 1 agosto 2013, va in onda l'ultima scena di una farsa colossale, la sentenza della Corte di Cassazione nei confronti del cosiddetto processo Mediaset che vedeva fra gli imputati anche Silvio Berlusconi. La “Cupola” che vuole governare il mondo, la Commissione Trilaterale ed il Gruppo Bilderberg, tanto per capirci, cioè quell'insieme di faccendieri e uomini del malaffare che stanno soffocando il mondo occidentale portandolo alla rovina, crede così di aver raggiunto lo scopo che si era prefisso già da diversi anni, cioè distruggere politicamente e umanamente Silvio Berlusconi. Viene anche rispettato il copione seguito da tutte le organizzazioni più spietate, e cioè che il nemico non va tanto eliminato “fisicamente” (potrebbe resistere “il mito”), ma ne va distrutta la figura, la moralità e l'integrità. L'arma impiegata per l'esecuzione è la Magistratura, che, in questi casi, a mo' di rafforzativo, viene ribattezzata “Giustizia”. Quale sia la colpa di Berlusconi, per la quale è stata emessa questa sentenza capitale da parte della Commissione Trilaterale, è evidente a tutti. Berlusconi non è mai piaciuto all'establishment che Governa il mondo, è un imprenditore non un politico, ed anche una volta diventato Presidente del Consiglio continua a comportarsi da imprenditore, cioè cerca di fare gli interessi economici dell'Italia senza dare peso agli equilibri geopolitici, quindi si attira immediatamente le antipatie delle burocrazie del Vecchio Continente e, inevitabilmente si scontra con l'oligarchia finanziaria anglosassone. Egli stringe amicizie, ovviamente nell'interesse dell'Italia, con leader mondiali invisi alla Trilaterale (due nomi su tutti: Putin e Gheddafi) per garantirsi, ai migliori prezzi di mercato, le indispensabili risorse energetiche delle quali, uno Stato manifatturiero come il nostro, ha assoluta necessità. Per certi versi, quindi la persona alla quale potremmo paragonarlo è certamente Enrico Mattei. Anche se Mattei non ebbe mai incarichi politici senza dubbio era colui che “guidava” la politica economica nazionale e lo fece nel solo interesse del nostro Paese, sappiamo tutti, poi, la fine che gli fecero fare le multinazionali del petrolio americane. Come dicevo, oggi, non si usa più far precipitare un aereo facendolo passare per un guasto, Berlusconi, in un caso del genere, sarebbe diventato un “martire”, si preferisce invece, proprio come fanno le mafie, distruggere il nemico dal punto di vista morale, occorre infangarlo ed attribuirgli tutti i peggiori crimini.

Un comportamento ancora più umiliante rispetto all'eliminazione fisica. D'altronde questo “metodo” era già stato utilizzato con successo nei confronti di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, forse gli ultimi veri leaders politici che abbia avuto l'Italia. A Craxi ed Andreotti non fu perdonata la vicenda di Sigonella, l'unico caso, nel dopoguerra, in cui Carabinieri italiani e forze speciali dell'esercito americano (i Navy Seal) furono ad un passo da uno scontro a fuoco. L'unico caso in cui uomini politici italiani ebbero il coraggio di rifiutarsi di obbedire agli ordini del Presidente degli Stati Uniti rispondendogli che: “Sul suolo italiano, comandano gli italiani”. Quel gran rifiuto nei confronti dell'allora Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan costò loro praticamente la vita perché fu scatenata la Magistratura che in due procedimenti diversi li accusò delle più infamanti nefandezze. Oggi tocca a Berlusconi, la storia si ripete, all'uomo di Arcore è stato intimato più volte di lasciare la politica, avrebbe avuto una vita di lussi continuando a fare l'imprenditore, ma sappiamo che nel vocabolario del Cavaliere non esiste la parola “sconfitta” e lui ha opposto un rifiuto. Volete una prova di questa mia tesi? Semplice! Qual è l'emblema per eccellenza della finanza mondiale? Cosa legge prima di ogni altra cosa un uomo d'affari in qualunque luogo al mondo si trovi? Sì certo, nessun dubbio … Il Financial Times Ed il Financial Times come titola dopo la conferma della sentenza da parte della Cassazione? Così ... “Cala il sipario sul buffone di Roma” Un linguaggio che non si può trovare neppure in un tazebao di un Centro Sociale. Un titolo del genere è più che una firma, e non lascia dubbi su chi siano i mandanti. Ed ora come andrà a finire? Nessuno lo può ancora sapere, nemmeno la Trilaterale che pensava già di aver “ucciso” politicamente Silvio Berlusconi quando nel novembre del 2011 organizzò il colpo di Stato in Italia che portò al governo Mario Monti. Che si sia trattato di un colpo di Stato, penso che non ci siano dubbi. Se in un giorno viene deposta la persona democraticamente eletta alla carica di Presidente del Consiglio e sostituita con un'altra che non ha nessuna legittimazione popolare, beh, come possiamo chiamarlo se non golpe? Come non c'è alcun dubbio su chi abbia ordito il golpe visto che in quel momento Mario Monti è il Presidente per l'Europa della Commissione Trilaterale, mandato che lascia a Jean Claude Trichet assumendo la carica di Premier in Italia. Nelle elezioni dello scorso febbraio, però, Berlusconi, dato da tutti per spacciato, compiva il miracolo, risultando il vero vincitore morale della tornata elettorale e ribaltando un pronostico che non gli dava chance, quindi anche oggi seppur formalmente fuori dai giochi, non si può dire che il Cavaliere abbia chiuso la sua avventura politica. Certo che se dovesse rinascere anche questa volta come un'Araba Fenice si dovrebbe davvero gridare al miracolo, ma, come si dice, quando c'è di mezzo Silvio Berlusconi … mai dire mai.

IL GRUPPO BILDERBERG.

Il Gruppo Bilderberg (detto anche conferenza Bilderberg o club Bilderberg), spiega Wikipedia,  è un incontro annuale per inviti, non ufficiale, di circa 130 partecipanti, la maggior parte dei quali sono personalità influenti in campo economico, politico e bancario. I partecipanti trattano una grande varietà di temi globali, economici, militari e politici.

Il gruppo si riunisce annualmente in hotel o resort di lusso in varie parti del mondo, normalmente in Europa, e una volta ogni quattro anni negli Stati Uniti o in Canada. Ha un ufficio a Leida nei Paesi Bassi. I nomi dei partecipanti sono resi pubblici attraverso la stampa ma la conferenza è chiusa al pubblico e ai media. Dato che le discussioni durante questa conferenza non sono mai registrate o riportate all'esterno, questi incontri sono stati oggetto di critiche e di varie teorie del complotto, come ad esempio quella sostenuta da Daniel Estulin nel libro Il Club Bilderberg. Gli organizzatori della conferenza, tuttavia, spiegano questa loro scelta con l'esigenza di garantire ai partecipanti maggior libertà di esprimere la propria opinione senza la preoccupazione che le loro parole possano essere travisate dai media.

Storia del gruppo Bilderberg

La prima conferenza si tenne il 29 maggio 1954 presso l'hotel de Bilderberg a Oosterbeek, vicino Arnhem, in Olanda. L'iniziativa di tale prima conferenza fu presa da molte persone, incluso il politico polacco Józef Retinger, preoccupato dalla crescita dell'antiamericanismo nell'Europa occidentale e col fine di favorire la cooperazione tra Europa e Stati Uniti in campo politico ed economico, anche in ottica di difesa. Per quella prima conferenza furono contattati il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld, il primo ministro belga Paul Van Zeeland e l'allora capo della Unilever, l'olandese Paul Rijkens. Il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld a sua volta coinvolse Walter Bedell Smith, capo della CIA. La lista degli ospiti fu redatta invitando due partecipanti per ogni nazione, uno per la parte liberale e l'altro per l'opposta parte conservatrice. Cinquanta delegati da undici paesi europei insieme a undici delegati statunitensi parteciparono a quella prima conferenza. Il successo di questo primo incontro spinse gli organizzatori a pianificare delle conferenze annuali. Fu istituita una commissione permanente con Retinger nel ruolo di segretario permanente. Alla morte di Retinger divenne segretario l'economista tedesco Ernst van der Beugel nel 1960 e in seguito la posizione fu rivestita da Joseph E. Johnson, William Bundy e altri. Molti partecipanti al gruppo Bilderberg sono capi di Stato, ministri del tesoro e altri politici dell'Unione Europea ma prevalentemente i membri sono esponenti di spicco dell'alta finanza europea e anglo-americana.

Struttura organizzativa

La conferenza è organizzata da una commissione permanente (Steering Committee) della quale fanno parte due membri di circa 18 nazioni differenti. Oltre al presidente della commissione è prevista la figura di segretario generale onorario. Non esiste la figura di membro del gruppo Bilderberg ma solo quella di membro della commissione permanente ("member of the Steering Committee"). Esiste anche un gruppo distinto di supervisori.

Aliberti Editore ha pubblicato Club Bilderberg, gli uomini che comandano il mondo di Domenico Moro. In questo estratto Moro ricostruisce la storia del Bilderberg, e la composizione dei suoi organismi dirigenti. Precursore e per certi versi padre del Bilderberg è il Council on Foreign Relations. Il Cfr fu fondato nel 1921 da prominenti personalità statunitensi allo scopo di completare l’uscita dal tradizionale isolazionismo degli Usa, iniziata con l’intervento militare nel conflitto che si combatteva in Europa. L’obiettivo era far assumere agli Usa una maggiore responsabilità e il ruolo di decision maker nei nuovi assetti mondiali post bellici. Cosa che, però, si realizzò solo dopo la seconda guerra mondiale con la liquidazione di Germania e Giappone. Anche se con molte somiglianze con il Bilderberg il Council on Foreign Relations se ne distingueva per l’essere almeno inizialmente ristretto ai soli cittadini statunitensi e perché non rifletteva ancora il ruolo guida che gli Usa avrebbero assunto. Tuttavia, il Cfr svolse un ruolo attivo di consulente del governo Usa durante la guerra, confermando la tesi di Wright Mills sulla formazione dell’élite del potere nel corso del conflitto e, secondo alcuni, influenzò direttamente le politiche di ricostruzione post-belliche, tra le quali la formazione delle istituzioni previste negli Accordi di Bretton Woods (Banca mondiale, Fmi). Il periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale presenta, rispetto al primo dopoguerra, uno scenario internazionale mutato e contrassegnato da due fenomeni. Il primo è la ricostruzione di un mercato mondiale capitalistico sotto l’egemonia Usa, e basato sulla ricostruzione, sul modello statunitense, delle economie giapponese e soprattutto europea occidentale. Il secondo è la sfida rappresentata dal rafforzamento dell’Urss e dei partiti socialisti e comunisti non solo nel Terzo mondo ma anche in molti Paesi avanzati. Ciò evidentemente poneva questioni importanti di mantenimento della stabilità politica ed economica. Davanti alle élites si presentavano, quindi, problemi nuovi e più globali, che rendevano necessaria la formazione di sedi di confronto e di elaborazione di strategie adeguate. In particolare, sedi transnazionali, che riunissero le élites atlantiche, ovvero quelle di Usa ed Europa occidentale. Le élites venivano così a costituire un livello informale e parallelo a quello ufficiale degli Stati. Questi, infatti, sul piano economico avevano costituito l’Fmi e la Banca mondiale e sul piano politico-militare la Nato, che, per l’appunto nacque come alleanza atlantica, tra Usa e Europa occidentale, in funzione di contrasto all’Urss. Il gruppo Bilderberg nacque il 29 maggio 1954 e prese il nome dall’albergo in Olanda in cui si riunì per la prima volta. Tra i principali ispiratori e primo segretario ci fu Joseph Retinger, di origine polacca e fondatore anche del Movimento Europeo, organizzazione ispiratrice del processo di unificazione europea. Lo scopo dichiarato della costituzione del Bilderberg era incentivare il dialogo tra i leading citizens di Usa ed Europa Occidentale per «creare una migliore comprensione delle forze complesse e delle principali tendenze che influenzavano le nazioni occidentali nel periodo postbellico». Ma, tiene a precisare il Gruppo, la fine della Guerra fredda non ha diminuito bensì ha aumentato l’importanza di queste riunioni. Secondo il Bilderberg, ciò che rende unici gli incontri sono tre caratteristiche. L’ampia presenza di leading citizens, provenienti da vari settori della società, in incontri che hanno una durata di tre giorni e impegnano i convenuti in discussioni informali e off-the records su tematiche di importanza attuale, specialmente di politica estera ed economia internazionale. Il forte feeling tra i partecipanti, che permette di superare la varietà di orientamento e impostazione derivata dalla provenienza da nazioni diverse. La privacy degli incontri, che non ha altro scopo se non quello di permettere ai partecipanti di esprimersi apertamente e liberamente. Il Bilderberg si presenta come «un forum internazionale, piccolo, informale e non ufficiale nel quale possono essere espressi punti di vista diversi e la reciproca comprensione sviluppata. L’unica attività del Bilderberg sono le conferenze. Durante gli incontri non vengono fatte votazioni, né prese risoluzioni, e neanche fatte dichiarazioni politiche». Dal 1954 si sono tenuti cinquantanove incontri, uno all’anno, i cui partecipanti e l’agenda vengono resi pubblici alla stampa, a differenza dei contenuti dei dibattiti. I partecipanti ai dibattiti variano ogni volta e vengono scelti dal presidente dopo consultazioni con lo Steering Committee sulla base delle loro conoscenze ed esperienze a riguardo delle tematiche che verranno affrontate. La composizione dei partecipanti, che solitamente sono circa 120, è la seguente: sul piano della provenienza geografica per i due terzi vengono dall’Europa Occidentale ed il rimanente dagli Stati Uniti. Sul piano dei settori sociali, essi provengono per un terzo dalla politica e dalla istituzioni, e per due terzi dalla finanza, dall’industria e dalle comunicazioni. Ad ogni modo, i convenuti partecipano a livello personale e non ufficiale. Gli organismi di autogoverno del Bilderberg sono il presidente e lo Steering Committee, il comitato direttivo. Il presidente è eletto dallo Steering Committee, mentre quest’ultimo è eletto non si capisce bene da chi per quattro anni ed i suoi membri possono essere rieletti. Esiste, inoltre, la figura del Segretario esecutivo che riporta al presidente. Compiti del presidente sono presiedere il direttivo, decidere con esso le tematiche da discutere e, come detto, selezionare i partecipanti alle conferenze annuali. Le spese del mantenimento del segretariato sono a carico del direttivo, mentre quelle dei meeting annuali sono a carico dei membri del direttivo del Paese ospitante. Vediamo ora da dove vengono, quanti e chi sono i membri del direttivo. I Paesi cui appartengono sono 18 e sono collocati esclusivamente in Nord America (con l’esclusione del Messico) e in Europa Occidentale, con la sola eccezione della Turchia. Tali Paesi fanno quasi tutti parte, spesso sin dall’inizio, della Nato, tranne la Svizzera, la Finlandia, l’Austria, la Svezia e l’Irlanda. I membri del gruppo dirigente sono 35, di cui 33 dello Steering Committee, cui si aggiungono il presidente, il francese Henri de Castries, ed il membro anziano dell’Advisory Group, lo statunitense David Rockefeller. L’egemonia statunitense è chiara, come del resto lo è anche nella Nato, anche se il presidente è europeo. Numericamente prevalgono le personalità anglosassoni, in tutto 16 (45,7 per cento). In particolare gli statunitensi sono 11 (31,4 per cento), ai quali si aggiungono 3 britannici e 2 canadesi. Gli altri Paesi, con l’eccezione della Francia con 3 membri (che ha il presidente Jean Claude Trichet classificato come “internazionale”) e della Germania con 2, hanno tutti un solo membro nel direttivo. Molti Paesi sono sottorappresentati, a partire dalla Germania che pure è la seconda nazione presente nel comitato direttivo per economia e popolazione e dall’Italia, che ha un solo membro, Franco Bernabè, presidente di Telecom Italia, come la Norvegia, il Portogallo e la Grecia. La composizione è piuttosto varia e copre quasi tutti i settori, anche se prevale la finanza. Nello Steering Committee ci sono membri che hanno incarichi direttivi in 13 grandi imprese finanziarie. Di queste 2 sono grandi gruppi assicurativi, 4 fondi d’investimento (attivi in hedge fund e private equity), e 7 grandi banche. Dopo la finanza c’è l’industria con 11 imprese. Vi sono rappresentati quasi tutti i settori più importanti, il metalmeccanico (2), i mass media (2), il siderurgico (2), il chimico e farmaceutico (2), il petrolifero (1), l’informatico (1), e le telecomunicazioni (1). Inoltre, sono presenti esponenti di 4 think-tank, 3 esponenti del mondo politico (un ministre d’État belga, un membro della Camera dei Lord e il Lord cancelliere e segretario alla giustizia britannico), 2 di quello accademico e infine un esponente del mondo della distribuzione e uno di uno studio legale internazionale. Gli Usa prevalgono nella finanza, mentre gli europei nell’industria. Sono statunitensi 2 banchieri e 4 dirigenti di fondi d’investimento, ovvero la totalità del sottosettore, 3 rappresentanti dei think-tank, il che suggerisce una egemonia ideologica, un accademico e soltanto 2 esponenti di imprese industriali. La Gran Bretagna ha 2 politici e un banchiere. Il resto dell’Europa occidentale ha 8 dirigenti di imprese industriali su 11 totali, 3 banchieri e un dirigente di un fondo d’investimento, 2 di assicurazioni, il presidente di un think-tank, un accademico, un legale internazionale e un politico. In effetti, la nazionalità dei membri del direttivo non coincide sempre con quella delle imprese cui fanno riferimento, dato che si tratta spesso di imprese transnazionali. Ad esempio, l’irlandese Peter D. Sutherland è dirigente di Goldman Sachs che in effetti è una banca statunitense. Non tutte tra le imprese presenti sono gruppi transnazionali al vertice della classifica delle imprese mondiali come Royal Dutch Shell e Microsoft – quinta e decima al mondo per profitti nel 2010 – o ai primi posti nel ranking dei loro settori, come Alcoa, EADS, Novartis, e Telecom Italia tra le industriali, Goldman Sachs, Barclays, Axa, Zurich Insurance tra le finanziarie. Le altre sono grandi imprese ma non hanno una dimensione particolarmente grande a livello mondiale, anche se spesso si tratta di aziende prestigiose e con contatti ramificati come la banca Lazard. In effetti, l’appartenenza allo Steering Committee del Bilderberg non dipende strettamente dalla grandezza o importanza dei gruppi che si dirigono, ma – come vedremo – dalla internità al network dell’élite degli affari mondiale. È, insomma, una appartenenza in gran parte personale, anche se ovviamente l’essere inseriti in certe imprese aiuta. Vale forse la pena soffermarsi sulle biografie di qualcuno dei membri del gruppo dirigente. Henri Conte de Castries, presidente del Bilderberg dal 2010, proviene da una antica famiglia della nobiltà francese, cui appartiene anche Christian de Castries comandante a Dien Bien Phu, ed è un esempio dell’intreccio tra aristocrazia e mondo degli affari. Nella storia del Bilderberg un esempio importante ne è anche il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld, marito della regina Giuliana d’Olanda e tra i fondatori del Bilderberg di cui fu primo presidente dal 1954 al 1976, allorché dovette dimettersi per il suo coinvolgimento nello scandalo delle tangenti Lockheed. Il principe occupò anche posizioni di responsabilità in due corporation che ricorrono spesso nel Bilderberg e nella Trilaterale, la Shell e SGB. Henri de Castries è rappresentativo dell’esistenza del meccanismo delle revolving doors anche in Francia. Fu alto funzionario del ministero del Tesoro francese sotto il governo Chirac, durante il quale (1986) partecipò alla privatizzazione di varie aziende tra cui Compagnie Générale d’Electricité, ora chiamata Alcatel-Lucent. Nel 1989 entrò in Axa, la seconda compagnia assicuratrice mondiale per asset (2011), di cui è diventato presidente nel 2000. Caratteristiche simili ha anche il belga Étienne visconte Davignon, nominato dal re del Belgio ministre d’État, che è stato prima Commissario europeo agli affari industriali e poi dirigente di importanti gruppi industriali belgi, come Société Générale e Gdf Suez. Altra figura interessante è il già citato David Rockefeller, una specie di trait d’union in carne ed ossa di varie organizzazioni dell’elite statunitense e mondiale. È, infatti, uno dei fondatori del Bilderberg e della Trilaterale ed è stato presidente tra 1970 e 1985 del Council on Foreign Relations. Il nonno, John Davison Rockefeller, fu uno dei protagonisti dell’espansione economica statunitense di fine Ottocento, attraverso la fondazione della Standard Oil, grazie alla quale acquisì il monopolio della produzione e raffinazione di petrolio e divenne l’uomo più ricco del mondo. Il padre di David, John Davison Rockefeller Junior, fu punto di riferimento dell’alta finanza negli anni Venti-Trenta e rimase coinvolto in scandali per la corruzione di membri del Congresso e nel massacro di Ludlow, durante lo sciopero dei minatori nel 1914. David Rockefeller, oggi patriarca della famiglia, oltre ad essere stato presidente della JP Morgan Chase, ottava banca mondiale per asset totali nel 2012, di cui è ancora il principale azionista, ha ricoperto importanti ruoli in multinazionali di primaria importanza, come Exxon Mobil e General Electric. Recentemente David Rockefeller ha siglato una alleanza strategica con Lord Jacob Rothschild, patriarca dell’altra storica dinastia della finanza internazionale. Un altro personaggio la cui presenza nel comitato direttivo di Bilderberg è alquanto significativa è Richard Perle, uno degli ideologi principali della corrente neoconservatrice, che ha influenzato la politica estera Usa dell’ultimo decennio. Perle fu assistente del ministro della Difesa sotto la presidenza Reagan e successivamente con Bush II è stato membro e poi presidente del Defence Policy Board. Perle è nel Bilderberg come Resident Fellow dell’American Enterprise Institute, ma è anche membro di un altro think-tank neoconservatore, il Project for the New American Century, formatosi nel 1997 con lo scopo di promuovere la leadership globale americana. Nel gennaio 1998 Perle firmò, insieme ad altri membri di questo gruppo di pressione, tra cui Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz, una lettera diretta al presidente Clinton in cui si chiedeva di rimuovere con la forza Saddam Hussein. L’obiettivo del gruppo era, come si evince da un altro documento «mantenere nell’area del Golfo una consistente forza militare americana», dato che il Golfo è «una regione di vitale importanza», a causa della concentrazione di riserve petrolifere che vi si trova. Perle, insieme a Rumsfeld e Wolfowitz che diventeranno rispettivamente ministro e vice ministro alla Difesa con Bush II, sarà parte del gruppo dirigente statunitense che inizierà, sull’onda emotiva dell’attacco alle torri gemelle, l’invasione dell’Iraq e la cosiddetta “guerra al terrore”, che dura ancora oggi. Molto interessante è anche osservare la composizione del Gruppo Bilderberg nel passato. Cominciamo dai presidenti, che, compreso l’attuale, sono stati sette e sempre europei occidentali, con una prevalenza britannica con tre presidenti, ai quali si aggiungono un olandese, un belga, un tedesco e attualmente un francese. Si tratta di personaggi di primissimo piano nella politica europea. Come abbiamo detto il primo presidente del comitato direttivo fu il principe Bernhard van Lippe-Biesterfeld della Casa reale olandese. Il secondo, tra 1975 e 1977, fu Walter Scheel, già vice primo ministro e ministro degli esteri tedesco dal 1969 al 1974 e Presidente della Repubblica Federale di Germania dal 1974 al 1979. Gli succedette tra 1977 e 1980 il duca Alexander Douglas-Home, primo ministro britannico dal 1963 al 1964 e ministro degli esteri nel 1970. Fu poi la volta di Eric Roll barone di Roll of Ipsden dal 1986 al 1989, che tra 1968 e 1977 è stato uno dei direttori della Banca d’Inghilterra, e del barone Peter Carington, che fu segretario di Stato britannico per gli affari esteri e del Commonwealth e segretario generale della Nato dal 1984 al 1988. Infine, Etienne Davignon, di cui abbiamo già parlato, fu presidente tra 1998 e 2011, allorché fu sostituito da Henri de Castries tutt’ora in carica. Vi sono inoltre 135 personaggi che hanno fatto parte dello Steering Committee nel passato e ora non ne fanno più parte. Tra questi citiamo solo alcuni nomi prestigiosi, come Henri Kissinger, forse il maggiore tra i segretari di Stato Usa dopo la seconda guerra mondiale e sempre presente come invitato anche agli ultimi incontri, Edmond de Rothschild della omonima dinastia finanziaria, l’olandese Wim Duisenberg, primo presidente della Bce, e il già citato Paul Wolfowitz. La presenza anglosassone è sempre preponderante, ma in modo meno forte di quanto non sia nel direttivo attuale, con il 44,4 per cento dei membri, di cui 39 sono statunitensi (29,1 per cento), 15 britannici (11,1 per cento) e 5 canadesi (3,7 per cento). Il terzo Paese in assoluto e primo Paese europeo, con l’esclusione della Gran Bretagna, è questa volta sorprendentemente l’Italia che è stata presente nei vari direttivi con 11 personalità (8,1 per cento), seguita dalla Germania con 8 (5,9 per cento), e da Francia e Danimarca con 7 (5,2 per cento). La forte presenza numerica italiana e le personalità di spicco assoluto dei membri italiani dello Steering Committee sta a dimostrare il consistente impegno italiano nella storia dell’organizzazione. La composizione del gruppo italiano vede la prevalenza di personalità provenienti dalla burocrazia economica e politica internazionale e europea e dal mondo della grande industria. In particolare alcuni hanno svolto un ruolo importante nella costruzione del mercato europeo e della valuta unica. Quasi sempre si registra un intreccio tra i due ambiti, della grande industria e della burocrazia internazionale. Inoltre, si nota anche un intreccio con la politica nazionale, visto che 4 membri hanno ricoperto incarichi in almeno un governo italiano, due sono stati presidenti del Consiglio, due ministri e uno sottosegretario. È importante notare che ben 7 su undici degli italiani che hanno fatto parte dello Steering Committee nella storia del Bilderberg sono stati legati, seppure in modalità diverse, al gruppo Fiat. Senza contare che anche l’attuale e unico membro italiano dello Steering, Franco Bernabè, è passato per la Fiat, in gioventù come Chief Economist nell’ufficio pianificazione e successivamente come membro del Cda. Ad ogni modo, dei 7 «uomini Fiat», Gianni e Umberto Agnelli appartengono alla famiglia fondatrice che ancora controlla il gruppo. La presenza degli Agnelli e della Fiat in organizzazioni a forte presenza Usa come il Bilderberg e la Trilaterale non deve stupire. Essi hanno stabilito fin dall’origine con gli Usa un forte legame, che con la recente acquisizione della Chrysler si è consolidato anche sul piano industriale. Il capostipite della famiglia, Giovanni Agnelli, era amico di un altro magnate statunitense dell’auto, Henry Ford. Il nipote Gianni, l’“avvocato”, il cui bisnonno materno, George W. Campbell, fu ministro del Tesoro Usa, era in gioventù membro del jet-set internazionale, divenendo amico di personalità influenti come John Fitzgerald Kennedy, presidente Usa. Dal 1966 alla morte, avvenuta nel 2003, Gianni occupò la carica di presidente della Fiat. Il fratello Umberto, già presidente dell’Ifil, la «cassaforte» di famiglia, gli successe nel 2004 come presidente del Gruppo Fiat. L’importanza di Gianni Agnelli nel Bilderberg è testimoniata dalle parole di un abituale frequentatore degli incontri del gruppo: «Nelle occasioni in cui fui presente, Agnelli era in qualche modo, così mi sembrò, la figura chiave; la figura cui gli altri facevano riferimento e si rimettevano». Uomo Fiat fu anche Vittorio Valletta, che aderì alla massoneria negli anni Venti e che diventò amministratore delegato della Fiat nel 1939. Epurato nel 1944 dal Comitato nazionale di liberazione (Cnl) per collaborazionismo con l’occupante tedesco, fu reintegrato nel suo ruolo nel 1946 divenendo anche presidente della Fiat fino al 1966. Dal mondo della burocrazia economica e politica europea ed internazionale provengono 6 personaggi, di cui 4 hanno fatto parte del mondo Fiat. Il marchese Gian Gaspare Cittadini-Cesi fu ambasciatore e segretario generale di quella che sarebbe diventata l’Organization for Economic Cooperation and Development (Ocse) e amministratore delegato di Fiat Francia. Straordinaria è la figura di Renato Ruggero, che ha attraversato tutti gli ambiti, accumulando incarichi di vertice ai livelli politico-burocratico nazionali e soprattutto internazionali. Fu capo gabinetto e poi portavoce (1977) del presidente della Commissione europea e tra i negoziatori dell’entrata dell’Italia nel Sistema monetario europeo (Sme), che anticipò l’euro. Divenne successivamente ambasciatore italiano a Bruxelles e segretario generale del ministro degli Esteri (massima carica della diplomazia italiana). Dal 1987 al 1991 fu ministro degli Esteri in due governi successivi e dal 1991 al 1995 responsabile delle relazioni internazionali del Gruppo Fiat. Dal 1995 al 1999 fu direttore generale del Wto e poi presidente dell’Eni. Nel 2006 fu ministro degli esteri, ma solo per sei mesi dopodiché diede le dimissioni dal governo di Silvio Berlusconi, che non sembra avere un gran feeling con la Fiat in particolare e con i membri del Bilderberg. Tra questi c’è sicuramente Tommaso Padoa-Schioppa, alla cui nomina come governatore della Banca d’Italia Berlusconi si è sempre opposto. Ad ogni modo, la carriera di Padoa-Schioppa è stata notevole. Direttore generale per l’economia e le finanze della Commissione Europea nel periodo di lancio dello Sme (1979-1983), vicedirettore della Banca d’Italia (1984-1987), membro del comitato istituito dal presidente della Commissione europea Delors, suo amico personale, per redigere il progetto di Unione monetaria europea, presidente Consob, membro del comitato esecutivo della Bce (1998-2006), ministro dell’Economia con il Prodi II (2006-2008), presidente del comitato monetario e finanziario internazionale dell’Fmi, e, dulcis in fundo, membro del consiglio di amministrazione di Fiat industrial (2010). Un altro membro autorevole del Bilderberg con cui Berlusconi non sembra essersi sempre inteso è Mario Monti, ben noto come ex rettore e presidente del consiglio d’amministrazione della Università Bocconi. Meno risaputo è che anche Monti, amico personale di Gianni Agnelli, è stato un uomo Fiat. Nel 1989, a soli 46 anni, fece tris d’assi, stando contemporaneamente nel consiglio d’amministrazione della Fiat, della Banca Commerciale italiana e delle Assicurazioni Generali. Successivamente Berlusconi lo mandò a Bruxelles come commissario europeo, dove ebbe la delega al mercato interno e all’integrazione e ai servizi finanziari. Quando D’Alema, nuovo presidente del Consiglio, lo riconfermò, gli fu data la delega alla concorrenza che mantenne fino al 2004. Fatto questo che non gli ha impedito di diventare successivamente consulente antitrust della Coca-cola e di Goldman Sachs. Presidente europeo della Commissione Trilaterale e membro del Bilderberg, se ne dimise nel momento in cui fu nominato presidente del Consiglio dei ministri da Napolitano in sostituzione di un Berlusconi ormai inviso a una buona fetta dell’élite italiana e soprattutto transnazionale. Ma, forse il “calibro” più grande tra gli uomini Bilderberg italiani, almeno tra i burocrati-politici, è un altro professore: Romano Prodi. Presidente Iri, quando questa era una delle prime conglomerate del mondo, Presidente della Commissione europea e due volte presidente del Consiglio dei ministri italiano. La presenza di Prodi (e di Padoa-Schioppa) nello Steering Committee è abbastanza significativa di quanto il Bilderberg sia capace di mettere insieme figure conservatrici e progressiste, di centrodestra e di centrosinistra. E probabilmente è ancora più significativo del fatto che differenze tra le due ali dello schieramento politico non ce ne sono, o almeno non ce ne sono di significative per quanto attiene agli interessi del network del capitale transnazionale. L’elemento dominante è l’adesione alla prevalenza del mercato autoregolato sull’intervento statale. Non a caso Prodi fu l’artefice del progressivo smantellamento dell’Iri e della privatizzazione delle banche e dell’industria di Stato, nonché di provvedimenti di liberalizzazione in molti settori. Tuttavia, come il rapporto tra capitale finanziario e Stato muta, così mutano anche le personalità del Bilderberg. Infatti, nello Steering Committee fu presente anche Pasquale Saraceno, grande commis d’État italiano. Economista di orientamento cattolico come Prodi (fu anche docente alla Cattolica di Milano) entrò nell’Iri già durante il fascismo. Nel dopoguerra, da consulente del ministro Vanoni, fautore dell’intervento dello Stato in economia, e di altri ministri democristiani fu tra i sostenitori della programmazione economica e della Cassa del Mezzogiorno, nonché il fondatore dell’Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno (Svimez). Anche lui come altri del Bilderberg, inoltre, fece il suo necessario passaggio europeo, come rappresentante italiano nella Commissione economica per l’Europa di Bruxelles e consigliere della Banca europea degli investimenti (Bei), l’istituzione che dal 1957 finanzia gli investimenti per il raggiungimento degli obiettivi europei. Terminiamo la nostra carrellata sui membri italiani del comitato direttivo del Bilderberg con gli ultimi due personaggi, forse minori ma ugualmente significativi. Il primo è Stefano Silvestri, che è stato sottosegretario alla Difesa tra 1995 e 1996 e, oltre ad essere consulente di ministri della Difesa, Esteri e Industria, è presidente dell’Istituto Affari internazionali (Iai), un think-tank italiano impegnato sulle questioni militari e di chiaro indirizzo «atlantico». Il secondo è Paolo Zannoni, un top manager collegato al capitale transazionale di origine Usa ed italiana. Zannoni, di cui si dice che fossero ottime le entrature con Gianni Agnelli, è stato presidente di Prysmian Spa, azienda italiana leader mondiale nel settore cavi e sistemi per il trasporto di energia e telecomunicazioni, ma controllata da Goldman Sachs (banca collegata ai Rockefeller) con il 31,7 per cento e con la partecipazione di altre banche e fondi di investimento Usa, come Blackrock, JP Morgan Chase, Lazard. Oggi, Zannoni è sempre nell’orbita di Goldman Sachs, di cui è managing director, e siede nel consiglio d’amministrazione e nel comitato risorse umane di Atlantia, holding operante nelle infrastrutture e controllata dalla famiglia Benetton.

Gira sul web un video sul gruppo di Bilderberg, realizzato da Alessandro Carluccio e Francesco Amodeo (non dalle Iene come precedentemente scritto, dell’errore ci scusiamo con gli autori)  che è già stato visto da oltre un milione e mezzo di persone, scrive “Link Sicilia”. E’ un video che racconta in modo dettagliato e con parole semplici chi sono questi esaltati del gruppo di Bilderberg e qual è, oggi, il loro potere nel mondo e, soprattutto in Europa e in Italia. Il nostro giornale, già da tempo, denuncia la presenza inquietante di questi signori del gruppo di Bilderberg. Il video, adesso, fa giustizia e sputtana, definitivamente, l’ex presidente del Consiglio nominato incredibilmente senatore a vita (che vergogna!), Mario Monti, l’attuale presidente del Consiglio dei Ministro, Enrico Letta, la Ministra degli Esteri, Emma Bonino, e l’uomo della Banca centrale europea, già ai vertice della Banca d’Italia, Mario Draghi. Questi quattro personaggi sono autorevoli rappresentanti del gruppo di Bilderberg. Nel video a parlare, tra gli altri, c’è anche Daniel Estulin, l’autore di un libro che è stato tradotto in 50 lingue e diffuso in 70 Paesi: “Il club di Bilderberg”. Estulin, che è stato oggetto di attentati ed è sfuggito a un rapimento, racconta la storia di questo gruppo d’ispirazione massonica (e ti pareva!). E descrive in modo molto efficace il pericolo che questa setta rappresenta per le libertà dei popoli. C’è anche una breve intervista con il giudice Ferdinando Imposimato, che ha indagato a lungo sul gruppo di Bilderberg. E che ha raccontato, nei suoi libri, le tante stragi compiute in Italia. Secondo Imposimato, la strategia della tensione – cioè le stragi di Stato compiute in Italia dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso in poi per fermare il riformismo dei Governi di centrosinistra – è da addebitare al gruppo di Bilderberg. E, anche sulle stragi del 1992, il giudice vede l’ombra di questo gruppo.  Nel video si spiega il meccanismo, piuttosto semplice, con il quale i signori del Bilderberg condizionano agli editori. Molte società editoriali sono quotate in Borsa. Se non si comportano bene, gli fanno crollare i titoli. Con questo metodo, secondo noi, nel novembre del 2011, hanno mandato a casa il Governo di Silvio Berlusconi. Interessante l’intervista con l’avvocato Luigi Marra, già parlamentare Europeo. Che racconta di aver denunciato alla magistratura Mario Monti in quanto componente del gruppo di Bilderberg. Marra spiega che il Parlamento Europeo (che, per inciso, costa agli europei un sacco di soldi, visto che ogni europarlamentare si porta a casa, in media, 40 mila euro al mese: una vergogna!) non conta nulla. Non promulga nemmeno le leggi che vengono ‘gestite’, in tutto e per tutto, dalla Commissione Europea, che è il Governo dell’Unione Europea non eletto dal popolo, ma designato dalle massonerie finanziarie e bancarie. Di fatto, come il nostro giornale ripete spesso, l’Unione Europea non è quella dei popoli sognata da Altiero Spinelli e da Gaetano Martino, ma l’Europa delle banche (peraltro fallite, visto che i ‘geni’ che le amministravano, nel 2008, hanno fatto incetta di titoli tossici americani) e della finanza speculativa. Ed è per questo che quest’Unione Europea, condizionata dal Bilderberg, va sbaraccata. E va sbaraccata no non andando a votare per il Parlamento europeo, come predica qualche idiota, ma andando a votare in massa e mandando a Strasburgo persone disposte a lottare contro il gruppo di Bilderberg, contro le banche e contro la finanza speculativa. Nel video si parla anche della truffa del fondo salva-Stati. Con questo marchingegno truffaldino hanno rubato dalle tasche dei popoli europei 700 miliardi di euro. Al contrario del nome che porta, questo è un fondo truffa-Stati e non salva-Stati. Viene anche spiegato che cos’è il Mes, sigla che sta per Meccanismo europeo di stabilità. Un’altra invenzione truffaldina per spillare soldi agli Stati Europei. Il video chiarisce anche perché, dal giorno dopo le elezioni politiche, i poteri forti del nostro Paese non hanno fatto altro che attaccare il Movimento 5 Stelle. Questo perché questa formazione politica si è rifiutata di sostenere il Governo di Bilderberg. Come detto all’inizio, l’attuale Presidente del Consiglio, Enrico Letta, è un uomo del gruppo di Bilderberg, come lo è Monti. Che cosa abbia a che vedere un Partito che si dice di sinistra – il riferimento è al Pd – con questa gente non è chiaro. Forse lo dovrebbero spiegare Bersani e lo stesso Letta. Fatto sta che per essersi rifiutato di entrare a far parte di un Governo dove sono presenti personaggi del gruppo di Bilderberg, il Movimento 5 Stelle è oggetto di un attacco senza precedenti. Queste cose vanno spiegate bene ai milioni di elettori di sinistra del nostro Paese che votano ancora per il Pd. Sappiano, queste persone, che Letta, come hanno ripetuto i parlamentari grillini in Parlamento – e come abbiamo ripetutamente scritto noi di LinkSicilia prima e dopo che il signor Letta, sostenuto da Berlusconi, mettesse piede a Palazzo Chigi – è un autorevole esponente del gruppo di Bilderberg. Questo spiega l’ostracismo dei poteri forti verso il Movimento 5 Stelle di Grillo. Questo spiega perché il leader di questa formazione politica non vuole ‘addizionarsi’ al Pd. E questo dimostra che in Italia c’è l’esigenza di dare vita a un partito che si ispiri al socialismo vero e non al gruppo di Bilderberg.  Come si dice sempre nel video, i parlamentari nazionali del Movimento 5 Stelle sono stati i primi che, in Parlamento, hanno parlato del gruppo di Bilderberg e sel cosiddetto ‘Signoraggio’. Ed è per questo che i poteri forti gliela vogliono fare pagare.

Il Bilderberg si mette a nudo e smaschera le accuse di complotti. Alle porte di Londra entra nel vivo la riunione del club riservato alle personalità più influenti del mondo economico. Per la prima volta, il summit si dota di un ufficio stampa e fa chiarezza su ospiti e agenda. Ma fuori dall'albergo di lusso continuano le proteste e le congetture: "Vogliono farci tornare al Medio Evo", scrive Enrico Franceschini su “La Repubblica”. "Eccolo, eccolo". Giugno 2013. Un fremito scuote la folla e come un sol uomo tutti puntano il dito accusatorio contro la limousine che sfreccia lungo la radura. "Spazzatura, spazzatura, all'inferno brucerai", gli gridano contro i dimostranti. Chi ci sia, dentro la vettura, è un mistero: ha i vetri dei finestrini oscurati. E comunque sfreccia rapida davanti a qualche centinaio di dimostranti, per entrare dentro i cancelli del Grove, un albergo a cinque stelle alle porte di Watford, cittadina ai sobborghi di Londra. La scena si ripete ogni quarto d'ora o giù di lì: di auto ne passano parecchie, per portare a destinazione i 138 partecipanti alla riunione del Bilderberg, il club che si riunisce ogni anno da qualche parte nel mondo, con l'obiettivo - perlomeno secondo i suoi critici - di dominarlo. Non ho contato le macchine, per sapere quanti sono i partecipanti all'edizione 2013, anche perché in teoria ce ne potevano essere più di uno per auto (sulle limo il posto abbonda). E' stato più facile arrivare al totale di 138: quest'anno, per la prima volta, il Bilderberg ha diffuso la lista degli invitati. Comprende il ministro del Tesoro britannico George Osborne, la sua controparte laburista (cioè il ministro del Tesoro del governo ombra dell'opposizione) Ed Balls, l'ex-guru del blairismo Peter Mandelson, il fondatore di Amazon Jeff Bezos, il boss di Google Eric Schmdt, il presidente della Goldman Sachs Peter Sunderland, l'ex-segretario di stato americano Henry Kissinger, l'ex-comandante delle forze americane in iraq e in Afghanistan David Petraeus. Per l'Italia ci sono l'ex-premier Mario Monti, mezza dozzina di amministratori delegati di grandi società, la giornalista Lilli Gruber. Venerdì anche il primo ministro britannico David Cameron ha preso parte al Bilderberg, e questo ha perso provocato polemiche a Londra, anche perché ci è andato da solo, non accompagnato da funzionari o portavoce. Il leader conservatore si è sempre vantato di difendere la massima trasparenza negli affari di governo e ora qualcuno lo può accusare di avere violato la sua promessa. Downing street si è difesa sul punto sostenendo che è una riunione “privata” e che non fa venire meno l’impegno di Cameron di dare pubblicità alle sue iniziative e alla sua politica. Le novità del summit di quest'anno non si limitano però ai soli partecipanti: il Bilderberg ha anche reso nota l'agenda della tre giorni di discussioni: debito, occupazione, Europa, come i "big data" (la mole di informazioni che circola sul web e viene analizzata con speciali algoritmi) cambierà quasi tutto, la guerra civile in Siria, lo spionaggio cibernetico. E come se non bastasse stavolta c'è anche un ufficio stampa, che non pubblicherà alcuna risoluzione finale, perché non ve ne sono, ma appunto distribuisce le suddette informazioni. C'è anche una specie di tribuna stampa per i giornalisti che vogliono seguire l'evento, si fa per dire perché è a 5 chilometri di distanza dall'albergo: ma, se è per questo, il centro stampa per il summit del G8 (che si svolge anche quello nei prossimi giorni in Gran Bretagna) è a 30 chilometri dalle sale dove si incontreranno i grandi della terra. Come mai il Bilderberg ha puntato sulla glasnost, dopo la totale segretezza del passato, quando si sapeva a malapena dove si riuniva (a partire dal 1954, quando l'incontro si tenne all'Hotel Bilderberg, in Germania - da cui il nome)? Forse per cercare di smentire una volta per tutte l'accusa di essere il governo occulto del pianeta, come e più della Trilateral Commission e di altri organismi internazionali che suscitano i sospetti di legioni di innamorati della teoria del complotto. La pubblicità un po' è servita: i giornali hanno scritto più articoli del solito sul Bilderberg, pur senza aggiungere molta sostanza alle discussioni, che escludono la stampa proprio perché non devono decidere niente e vogliono dare libertà agli intervenuti di parlare fuori dalle prudenze diplomatiche. Ma non è bastato a convincere chi vede complotti dappertutto. I dimostranti sulla strada che conduce all'albergo Grove sono destinati a crescere fino alla giornata di chiusura, domenica. La loro presenza è già diventata una sorta di secondo summit, un Bilderberg Fringe, una riunione alternativa. "Siamo qui per assalire questo gruppo di plutocrati internazionali e fare luce sulle loro azioni, affinché brucino tra le fiamme dell'inferno", dice Alex Jones, uno degli abituali organizzatori della contestazione. "Quelli là stanno dettando l'agenda di tutto quello che avverrà nei prossimi 365 giorni e per farci il lavaggio del cervello", accusa un altro, Wayne Fontana. Il quale, nonostante la cortina di segretezza stesa dai complottatori del Bilderberg, ha le idee piuttosto chiare sulle loro intenzioni: "Cominceranno con la guerra contro l'Iran e finiranno con la dominazione totale sul mondo e la riduzione del 90 per cento della popolazione. Prima cadrà l'euro, poi il dollaro, poi ci diranno di usare solo le carte di plastica come denaro, poi ci metteranno un chip sotto la pelle e a quel punto, se non faremo quello che ci dicono, spegneranno il chip e ci faranno morire di fame". Viene il dubbio se abbia letto la trama di "Inferno", il nuovo romanzo di Dan Brown, o se usi le stesse fonti di un certo deputato grillino italiano. L'accusa più ingenua è tuttavia quella di un altro dimostrante, un certo Simon Taylor, che sostiene che lo scopo del Bilderberg è "mandare in bancarotta la classe media e creare un nuovo Medio Evo, perché i tiranni odiano la classe media". Uhm, ma se scompare la classe media e si torna al Medio Evo, a chi venderebbero i loro prodotti i "tiranni" riuniti a porte chiuse al summit annuale del Bilderberg?

Chi comanda il Bilderberg e il mistero del "direttivo". Il presidente viene eletto ogni quattro anni dal comitato esecutivo che sceglie il programma degli incontri annuali e stila l'elenco degli invitati: nessuno, però, sa chi nomini i membri del consiglio, scrive Giuliano Balestreri su “La Repubblica”. Il gruppo Bilderberg è un circolo internazionale "piccolo, informale e non ufficiale nel quale possono essere espressi punti di vista diversi e la reciproca comprensione sviluppata". Un'associazione che riunisce, una volta all'anno, i potenti della terra provenienti dagli ambienti della politica e della finanza che discutono, ma non adottano risoluzioni nè votano alcun provvedimento. Di più, secondo il sito ufficiale del gruppo Bilderberg, dal nome dell'albergo dove si riunirono per la prima volta in Olanda nel 1954, "non vengono rilasciate dichiarazioni politiche". Di certo, però, in questo modo si alimentano i misteri e le teorie del complotto visto che la stampa non è ammessa e tutti gli interventi sono rigorosamente "off the record". Negli ultimi anni sono cresciute le pressioni perché sul gruppo Bilderberg si alzasse il velo di segretezza che lo circonda, ma nonostante le insistenze del premier britannico, David Cameron, il conservatore paladino della trasparenza poco, è cambiato. Neppure è servito l'invito a partecipare ad alcuni giornalisti inglesi, dell'Economist e del Financial Times (organi ufficiosi del gruppo, secondo alcuni), ma anche italiani, tra cui il direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, l'ex direttore del Sole 24 Ore, Gianni Riotta, la giornalista Lilli Gruber e Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica, Limes. Gli invitati, 140 persone circa, e il programma delle conferenze sono decisi dal comitato direttivo che – pur non essendo chiaro da chi sia nominato – resta in carica per quattro anni. L'attuale presidente è Henri de Castries, numero uno del colosso assicurativo Axa. Attualmente l'unico membro italiano del direttivo è Franco Bernabè, presidente di Telecom Italia. Le spese organizzative sono sostenute dai membri del consiglio direttivo del Paese ospitante: quest'anno l'incontro inglese sarà pagato dall'ex ministro del Tesoro conservatore Kenneth Clarke (ministro senza portafoglio nell'odierno governo Cameron), da Thomas Enders, amministratore delegato di Eads, una delle più grandi aziende militari del pianeta, e da Peter Sutherland, presidente della Goldman Sachs, la banca numero uno della Terra. La sicurezza dei partecipanti, però, sarà a carico del governo britannico. 

I legami del gruppo Bilderberg: gli intrecci tra politica e finanza. Il circolo assomiglia a un'oligarchia globale dove si riunisce l'élite mondiale: nobili attivi nel campo della politica e della finanza. A cominciare dall'attuale presidente Henri de Castries, numero uno di Axa, scrive Giuliano Balestreri su “La Repubblica”. Le teorie del complotto, e della direzione occulta delle politiche mondiali, sono alimentate dalla presenza nel comitato direttivo del gruppo Bilderberg di personaggi profondamente connessi tra loro, espressione dell'élite mondiale e, spesso, anello di congiunzione tra le grandi aristocrazie e il mondo degli affari. Una sorta di oligarchia globale. Il presidente attuale, Herni de Castries, numero uno del colosso francese Axa, appartiene alla nobiltà transalpina, così come nobile era il principe Bernhard van Lippe Biesterfeld, tra i fondatori del gruppo e marito della regina Giuliana d'Olanda. Nobili, ma attivi nel mondo degli affari. Come Richard Perle, membro del direttivo, ideologo dei neocon americani, membro di gabinetto del ministro della Difesa sotto la presidenza di Ronald Reagan, consigliere di George Bush e fermo sostenitore della guerra in Iraq, un'area di "vitale importanza per gli Usa" per la concentrazione di petrolio. Nel 1998 scrisse un lettera a Bill Clinton per chiedere la rimozione di Saddam Hussein, con lui la firmarono Donald Rumsfeld e Paul Wolfowitz che diventeranno ministri di Bush. Del direttivo hanno fatto parte anche l'ex segretario di Stato americano, Henri Kissinger, Edmond de Rothschild e il primo presidente della Bce, Wim Duisenberg. Nel direttivo Bildenberg si sono succeduti 12 italiani, compreso il membro attuale, il presidente di Telecom Italia, Franco Bernabè. Ma a livello nazionale è interessante come molti di questi uomini siano legati, direttamente o indirettamente al mondo Fiat: lo stesso Bernabè oltre ad aver ricoperto il ruolo di "Chief economist" del Lingotto, si è anche seduto nel Consiglio di amministrazione.

Gli argomenti del Bilderberg tra lotta al comunismo e armi. I contenuti delle relazioni e delle conferenze sono top secret, ma sul sito del gruppo vengono pubblicati i temi affrontati: in cima alle preoccupazioni del circolo l'ex Urss e tutte le minacce per l'Occidente. Compresa la crisi economia mondiale, continua scrive Giuliano Balestreri su “La Repubblica”. Come detto i contenuti delle relazioni e degli interventi è top secret. Anche di fronte alla presenza di giornalisti tenuti a rispettare l'impegno a non divulgare le informazioni ricevute. Tuttavia sono pubblici i temi affrontati. Anche perché si tratta – spesso – di tematiche legate agli eventi politici e finanziari mondiali. Fin dagli albori, in cima alle preoccupazioni del Bilderberg c'è stata l'avanzata del comunismo e quindi come fronteggiare l'ex Urss. Tematiche che si sono evolute negli anni, prima con l'apertura al dialogo da parte di Nikita Kruscev, poi con la caduta del Muro di Berlino del 1989: il problema di come rapportarsi con la Russia è sempre stato centrale. Così come i conflitti in Medio Oriente e – a ondate alterne – la crisi di leadership degli Stati Uniti. Eventi vissuti come una minaccia per l'Occidente. All'interno del Bilderberg si discute spesso di rapporti tra Europa e Stati Uniti e, soprattutto, dalla metà degli anni 90 in poi, di economia: dalla gestione della crisi economica mondiale all'euro, dall'inflazione al protezionismo, dalla globalizzazione al petrolio. Ovviamente non mancano le discussioni legate al mercato delle armi.

Gli italiani al vertice del Bilderberg: dalla galassia Fiat a Letta e Tremonti. In 12 sono entrati nel consiglio direttivo del gruppo, molti sono stati legati al Lingotto: da Gianni e Umberto Agnelli a Monti e Padoa Schioppa. Tra i presidente del Consiglio dei ministri anche Romano Prodi è stato nel comitato esecutivo, conclude Giuliano Balestreri su “La Repubblica”.  Nel consiglio direttivo del gruppo Bilderberg si sono succeduti 12 italiani. L'elemento più interessante riguarda, probabilmente, la correlazione di molti con il mondo Fiat, a testimonianza della forza internazionale del Lingotto. Primi fra tutti, Gianni e Umberto Agnelli, nipoti del fondatore Giovanni e assidui frequentatori dei circoli internazionali, soprattutto a matrice americana. Come loro, ha frequentato il Bilderberg, Vittorio Valletta, il genovese che alla morte del fondatore gli succedette alla guida del gruppo fino al 1966, prima di passare la mano a Gianni Angelli. Instaurata una prassi, la tradizione è proseguita nel tempo con Franco Bernabè, attuale presidente di Telecom Italia, ma già amministratore di Fiat e ancora prima Chief economist del Lingotto. E ancora. Gian Gaspare Cittadini-Cesi, marchese, diplomatico, fu amministratore delegato di Fiat Francia, carica per la quale ottenne anche dal Quirinale l'onorificenza di Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana. L'ambasciatore ed ex ministro degli Esteri, Renato Ruggiero, è stato responsabile delle relazioni internazionali di Fiat, prima di passare al Wto e diventare presidente di Eni. Un ruolo al Lingotto, come membro del cda di Fiat Industrial, lo ha avuto anche Tomaso Padoa Schioppa, già ministro dell'economia del governo Prodi e membro del comitato esecutivo della Bce. Nel cda di Fiat è stato anche Mario Monti, poi commissario Ue e consulente - tra le altre - di Coca Cola e Goldman Sachs: Monti si dimise dal direttivo del Bilderberg dopo la nomina a presidente del Consiglio nel novembre 2011. Non era legato a Fiat l'ex premier ed ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, ma era alla guida dell'Iri quando Alfa Romeo, contesa anche dall'americana Ford, passò, al Lingotto. Nel comitato direttivo si sono seduti anche l'economista Pasquale Saraceno, tra i sostenitori della Cassa del Mezzogiorno, Stefano Silvestri, ex sottosegretario alla Difesa, filo americano, e Paolo Zannoni, ex numero uno di Prysmian, controllata, prima della quotazione in Borsa, dalla banca d'affari Goldman Sachs. Numerosi sono anche gli italiani invitati alle conferenze annuali: da John Elkann a Paolo Scaroni, da Mario Draghi a Giulio Tremonti, da Alfredo Ambrosetti a Domenico Siniscalco, da Rodolfo De Benedetti a Fulvio Conti e Corrado Passera, tutti hanno preso parte a più di un meeting. Molti altri sono stati invitati almeno una volta, a cominciare dal presidente del Consiglio dei ministri Enrico Letta.

Il Bilderberg Club di anime belle? (Sono arrivati gli spin doctor), scrive Marcello Foa su “Il Giornale”. Dunque il Bilderberg cambia tattica: non è più un’associazione segreta o almeno così lascia intendere. La grande novità della riunione annuale che inizia il 5 a Londra è infatti l’apertura di un ufficio stampa e addirittura di uno spazio per i contestatori. La sezione inglese del Bilderberg ha addirittura pubblicato in anticipo la lista dei partecipanti e un istoriato dell’associazione, meglio nota come il Club dei potenti del mondo. Ma si tratta di una vera svolta? Il Bilderberg è diventato improvvisamente democratico e trasparente, ponendo fine ai sospetti che lo circondano? Certi commentatori pensano di sì. Io sono più cauto e penso che più che altro si è affidato agli spin doctor. Negli ultimi 2-3 anni il Bilderberg è finito sotto pressione non tanto sui media ufficiali quanto su internet, sono stati pubblicati diversi libri di denuncia, non tutti attendibili e documentati a dir la verità, e i manifestanti che tentavano di rompere le asfissianti misure di sicurezza aumentavano di anno in anno. Insomma, stava salendo un pericoloso rumore mediatico, non più confinato a pochi siti di informazione alternativa. E allora il Club ha deciso di ricorrere allo spin difensivo ovvero a una mossa a sorpresa che serve a depotenziare i sospetti che ti vengono rivolti, appropriandoti delle accuse. Se l’accusa è quella di essere cospirazionisti tu devi aprire le porte, persino ai manifestanti (in aree ben circoscritte) e comunicare, comunicare, comunicare. O perlomeno dar l’impressione di farlo (e infatti gli osservatori più acuti non hanno abboccato come Charlie Skelton del Guardian). In tal modo da adesso in avanti sarà più difficile tacciare il Bilderberg di essere un Club segreto e il fronte degli accusatori si spaccherà. Una mossa molto abile, preparata da spin doctor professionisti, che hanno saputo confezionare molto bene il sito, aggiungendo spin allo spin; ad esempio invocando la trasparenza e la lotta alle lobby. Proprio loro che sono una mega lobby! Elogiano Transaprency international ovvero… un’organizzazione popolata da membri del Bilderberg. Tutto è stato preparato con estrema cura, al fine di relativizzare, minimizzare, edulcorare. Leggendo il sito del Bilderberg inglese si ha l’impressione che si tratti di un Club animato da persone disinteressate, che hanno a cuore solo il bene dell’umanità, quasi dei benefattori. Bravissimi i loro spin doctor, non c’è che dire. Resta il dubbio, fondato, sulle finalità reali di questo Club e sul modo in cui eserciti il proprio potere. Oggi si oscilla tra posizioni iperminimaliste – che non vedono nulla di male nel fatto che banchieri, manager di grandissime aziende, politici, banchieri centrali, grandi intellettuali si riuniscano dal Dopoguerra e promuovano un’agenda segreta e globalista – e posizioni cosiddette complottiste, come quelle di Estulin, che descrivono il Bilderberg come una grande Spectre. La verità, verosimilmente, è molto più raffinata e sottile e per questo difficile da decriptare. Probabilmente il Bilderberg è un anello di una rete di interessi più complessa e articolata. Un anello che peraltro sembra perdere smalto. I centri élitari davvero efficienti sono quelli che riescono a preservare la capacità di selezione dei membri; qualità che non appare più quella di un tempo, alla luce di alcune new entry anche italiane. Ma questo è un altro discorso…

I massoni e la sinistra italiana, scrive Andrea Cinquegrani – tratto da "La Voce della Campania". Il Gruppo Bilderberg nasce nel 1952, ma viene ufficializzato due anni più tardi, a giugno del 1954, quando un ristretto gruppo di vip dell’epoca si riunisce all’hotel Bilderberg di Oosterbeek, in Olanda. Da quel momento le riunioni si sono svolte una o due volte all’anno, nel più totale riserbo. In occasione di una delle ultime, nella splendida e appartata resort di Sintra, in Portogallo, il settimanale locale News riportò una notizia secondo cui il Governo avrebbe ricevuto migliaia di dollari dal Gruppo per organizzare «un servizio militare compreso di elicotteri che si occupasse di garantire la privacy e la sicurezza dei partecipanti». Ma torniamo agli esordi. I primi incontri si sono svolti esclusivamente nei paesi europei, ma dall’inizio degli anni ’60 anche negli Usa. Tra i promotori - precisano alcuni studiosi della semi sconosciuta materia - occorre ricordare due nomi in particolare: sua maestà il principe Bernardo de Lippe, olandese, ex ufficiale delle SS, che ha guidato il gruppo per oltre un ventennio, fino a quando, nel 1976, è stato travolto dallo scandalo Lockheed; e Joseph Retinger, un faccendiere polacco al centro di una fittissima trama di rapporti con uomini che per anni hanno contato sullo scacchiere internazionale della politica e dell’economia. «La loro ambizione - viene descritto - era quella di costruire un’Europa Unita per arrivare a una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali. Fin dalla prima riunione vennero invitati banchieri, politici, universitari, funzionari internazionali degli Usa e dell’Europa occidentale, per un totale di un centinaio di personaggi circa». Ecco cosa hanno scritto alcuni giornalisti investigativi inglesi nel magazine on line di Bbc News a pochi giorni dal meeting di Stresa. «Si tratta di una delle associazioni più controverse dei nostri tempi, da alcuni accusata di decidere i destini del mondo a porte chiuse. Nessuna parola di quanto viene detto nel corso degli incontri è mai trapelata. I giornalisti non vengono invitati e quando in qualche occasione vengono concessi alcuni minuti a qualche reporter, c’è l’obbligo di non far cenno ad alcun nome. I luoghi d’incontro sono tenuti segreti e il gruppo non ha un suo sito web. Secondo esperti di affari internazionali, il gruppo Bilderberg avrebbe ispirato alcuni tra i più clamorosi fatti degli ultimi anni, come ad esempio le azioni terroristiche di Osama bin Laden, la strage di Oklaoma City, e perfino la guerra nella ex Jugoslavia per far cadere Milosevic. Il più grosso problema è quello della segretezza. Quando tante e tali personalità del mondo si riuniscono, sarebbe più che normale avere informazioni su quanto sta succedendo». Invece, tutto top secret. Scrive un giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol: «Secondo alcune indiscrezioni che ho raccolto, il primo luogo nel quale si è parlato di invasione dell’Iraq da parte degli Usa, ben prima che ciò accadesse, è stato nel meeting 2002 dei Bilderberg». Di parere opposto un redattore del Financial Times, Martin Wolf, più volte invitato ai meeting: «L’idea che questi incontri non possano essere coperti dalla privacy è fondamentalmente totalitaria; non si tratta di un organismo esecutivo, nessuna decisione viene presa lì». Fa eco uno dei fondatori, anche lui inglese, lord Denis Healey: «Non c’è assolutamente niente sotto. E’ solo un posto per la discussione, non abbiamo mai cercato di raggiungere un consenso sui grandi temi. E’ il migliore gruppo internazionale che io abbia mai frequentato. Il livello confidenziale, senza alcun clamore all’esterno, consente alle persone di parlare in modo chiaro». Ed ecco cosa scrive un altro studioso di ordini paralleli e di gruppi e associazioni che agiscono sotto traccia, Giorgio Bongiovanni. «Bilderberg rappresenta uno dei più potenti gruppi di facciata degli Illuminati (una sorta di super Cupola mondiale, ndr). Malgrado le apparenti buone intenzioni, il vero obiettivo è stato quello di formare un’altra organizzazione di facciata che potesse attivamente contribuire al disegno degli Illuminati: la costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale e di un Governo Mondiale entro il 2012. Sembra che le decisioni più importanti a livello politico, sociale, economico-finanziario per il mondo occidentale vengano in qualche modo ratificate dai Bilderberg». «Il Gruppo - scrive ancora Bongiovanni - recluta politici, ministri, finanzieri, presidenti di multinazionali, magnate dell’informazione, reali, professori universitari, uomini di vari campi che con le loro decisioni possono influenzare il mondo. Tutti i membri aderiscono alle idee precedenti, ma non tutti sono al corrente della profonda verità ideologica di alcuni membri principali». I veri ‘conducator’- secondo questa analisi - i quali a loro volta fanno anche parte di altri segmenti strategici nell’organigramma degli Illuminati. Due in particolare: la Trilateral e la Commission of Foreign Relationship, nata nel 1921, la quale riunisce a sua volta tutti i personaggi che hanno fra le loro mani le leve del comando negli Usa. «Questi membri particolari - prosegue Bongiovanni - sono i più potenti e fanno parte di quello che viene definito il ‘cerchio interiore’. Quello ‘esteriore’, invece, è l’insieme degli uomini della finanza, della politica, e altro, che sono sedotti dalle idee di instaurare un governo mondiale che regolerà tutto a livello politico e economico: insomma, le ‘marionette’ utilizzate dal cerchio interiore perché i loro membri sanno che non possono cambiare il mondo da soli e hanno bisogno di collaboratori motivati e mossi anche dal desiderio di danaro e potere». Passiamo, per finire, alla Trilateral, vero e proprio luogo cult del Potere nascosto, in grado comunque di condizionare i destini del mondo. Ovviamente ‘sponsorizzato’ della star dell’imprenditoria multinazionale, come Coca Cola, Ibm, Pan American, Hewlett Packard, Fiat, Sony, Toyota, Mobil, Exxon, Dunlop, Texas Instruments, Mutsubishi, per citare solo le più importanti. L’associazione nasce nel 1973, sotto la presidenza “democratica” di Jimmy Carter e del suo consigliere speciale per la sicurezza, Zbigniew Brzezinsky, il vero deux ex machina. A ispirare il progetto, le famiglie Rothschield e Rockfeller, i Paperoni d’America. Un progetto che ha irresistibilmente attratto i potenti del mondo, a cominciare proprio dai presidenti Usa, con un Bill Clinton in prima fila. Così descriveva Giovanni Agnelli la Trilateral: «Un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti delle tre aree del mondo industrializzato (Usa, Europa e Giappone, ndr) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse». Il solito ritornello. Di diverso avviso il giornalista Richard Falk, che già nel 1978 - quindi a pochissimi anni dalla nascita - scrive sulle colonne della Monthly Review di New York: «Le idee della Commissione Trilaterale possono essere sintetizzate come l’orientamento ideologico che incarna il punto di vista sopranazionale delle società multinazionali, che cercano di subordinare le politiche territoriali a fini economici non territoriali». E’ la filosofia delle grandi corporation, che stanno privatizzando le risorse di tutto il pianeta, a cominciare dai beni primari, come ad esempio l’acqua: non solo riescono a ricavare profitti stratosferici ma anche ad esercitare un controllo politico su tutti i Sud - e non solo - del mondo. La logica della globalizzazione. E i bracci operativi di questo turbocapitalismo sono proprio due strutture che dovrebbero invece garantire il contrario: ovvero la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. 
«Entrambi - scrive uno studioso, Mario Di Giovanni - sotto lo stretto controllo del ‘Sistema’ liberal della costa orientale americana. Agiscono a tutto campo nell’emisfero meridionale del pianeta, impegnate nella conduzione e ‘assistenza’ economica ai paesi in via di sviluppo». E proprio sull’acqua, la Banca Mondiale sta dando il meglio di sé: con la sua collegata IFC (Internazionale Finance Corporation) infatti sta mettendo le mani sulla gran parte delle privatizzazioni dei sistemi idrici di mezzo mondo, soprattutto quello africano e asiatico, condizionando la concessione dei fondi all’accettazione della privatizzazione, parziale o più spesso totale, del servizio. Del resto, è la stessa Banca a calcolare il business in almeno 1000 miliardi di dollari… Scrive ancora Di Giovanni: «Le decisioni assunte dai vertici della Trilateral riguarderanno sempre di più quanti uomini far morire, attraverso l’eutanasia o gli aborti, e quanti farne vivere, attraverso un’oculata distribuzione delle risorse alimentari. Decisioni che riguarderanno l’ingegneria genetica, per intervenire nella nuova ‘umanità’. In una parola, tutto ciò che definitivamente distrugga il ‘vecchio’ ordine sociale, cristiano, per la creazione di un nuovo ordine. Ma tutto questo senza particolari scossoni. Non vi sarà bisogno di dittature, visto che le democrazie laiche e progressiste, condotte da governi di ‘centrosinistra’, servono già così efficacemente allo scopo. Governi che riproducono - conclude - una formula già sperimentata lungo l’intero corso del ventesimo secolo e plasticamente rappresentata dal passato governo Prodi-D’Alema: l’alleanza fra la borghesia massonica e la sinistra, rivoluzionaria o meno».

Che autogol, Concita: scrive di complotti ma svela quelli dei suoi amici. Su Repubblica racconta che per governare in Italia bisogna essere graditi ai poteri forti. Ma tutti i nomi che fa, da Amato a Prodi, sono suoi pupilli, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. Una mattina Concita De Gregorio, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutata in una complottista. Ieri, su Repubblica, è apparsa un’articolessa  di due pagine a sua firma, con notevole richiamo in prima, dal titolo: «Da Lockheed a Bilderberg quegli amici americani che “votano” per il Colle». Obiettivo del pezzo: spiegare l’influenza di Washington sugli affari italici, a partire dalla scelta della persona da spedire al Quirinale. Intrigante. Nell’articolo, la nostra Signorina Grande Firma preferita scomoda il meglio del meglio della dietrologia internazionale, dal succitato Bilderberg alla Trilateral, passando per Gladio, Goldman Sachs e  il golpe Borghese. Concita, che è successo? Hai scoperto i libri di Maurizio Blondet? Ti sei invaghita di Adam Kadmon, quello che a Mistero su Italia Uno dà la colpa di ogni catastrofe agli Illuminati? A pensar male, si direbbe che la biondocrinita giornalista si appresti a rubare il posto a Roberto Giacobbo: «E adesso, una bella inchiesta su come gli alieni hanno costruito le piramidi, dalla nostra inviata spaziale Concita De Gregorio!».  Per adesso, tuttavia, ci accontentiamo di leggere le dietrologie sugli oscuri signori che dominano il pianeta, di cui fino alla scorsa settimana la nostra cronista doveva essere ignara.  Concita ci spiega per esempio che il Club Bilderberg è una «associazione di finanzieri, banchieri, politici e uomini di Stato fondata nel ’54»,  i cui membri «si riuniscono ogni anno in un conclave a porte chiuse». Dovete sapere, infatti, che «ai grandi gruppi economico-politici internazionali, alla finanza e dunque alla politica nordamericana interessa molto e moltissimo chi governa, chi comanda, chi ha influenza in Europa e in subordine in Italia». Posto che ci meraviglieremmo del contrario, ci gustiamo l’enfatica prosa con cui la De Gregorio spiega che «l’ombra dell’America è verde come il colore dei dollari. Tuona come le armi che varcano l’oceano in perpetuo e spesso illecito commercio».  Non solo: l’ombra maligna degli Usa «parla la lingua dei banchieri, la sola lingua degli affari. Si affaccia sull’Italia dalla postazione mediterranea di Israele». Ah, già, mancava il complottone pluto-giudaico-massonico. Insomma, il succo del discorso è che esistono delle élite potentissime che ambiscono a governare per lo meno l’Occidente  in nome del profitto. E quindi non si fanno scrupolo a muovere le fila della politica globale, compresa quella italiana. Motivo per cui, se uno vuol comandare qui da noi, deve essere in qualche modo gradito a tali Signori Oscuri. Per svelare la scomoda verità, Concita interpella persino Paolo Cirino Pomicino, il quale confessa: «Senza le credenziali degli americani e in specie delle grandi banche d’affari oggi nessuno può pensare di aspirare seriamente al Quirinale». Ora, se  stupisce l’improvvisa trasformazione dell’inviata di punta e soprattutto di tacco di Repubblica in una Dan Brown in gonnella, sorprende ancora di più l’elenco dei nomi contenuto nel suo articolo. Già, perché una volta detto che Bilderberg, Trilateral e Aspen Insitute manovrano i nostri destini, bisogna anche dire chi sono i loro emissari. Eccoli qua. Al Bilderberg sono passati, tra gli altri, Monti, Draghi, Padoa Schioppa, Siniscalco, Prodi.  «Ogni tanto qualche giornalista (Lilli Gruber, per dire, ndr) una volta Veltroni, Emma Bonino». Nell’entourage della potentissima banca d’affari Goldman Sachs sono transitati Prodi, Draghi, Monti, Gianni Letta. Massimo D’Alema, invece, ha avuto un «rapporto che sarebbe durato nel tempo» con Clinton, mentre Prodi «voleva essere ricevuto subito, ma non si poteva». Quanto all’Aspen, «in Italia conta su Amato, Prodi e D’Alema». La Trilateral «fondata da Rockefeller  (...) Monti l’ha presieduta fino al 2011. La frequentano la consulente per la politica estera di D’Alema Marta Dassù (...), Enrico Letta...». Apprendiamo qualcosa pure su Scalfaro. Con lui al Colle, «c’è il ciclone Mani Pulite» che dà  «spazio a una generazione nuova. Più avvezza all’uso di mondo, alle relazioni internazionali, alla lingua degli uomini d’affari. È dal denaro, adesso, dalla finanza che passano gli interessi politici. (...) È ai banchieri che si ricorre quando la politica tace o sobbolle di sue interne diatribe». Riepiloghiamo: Monti, Scalfaro, D’Alema, Veltroni, Letta jr, Prodi, Amato... Scusate, eh, ma non sono personaggi che Repubblica ha supportato per anni e ancora sostiene? Non sono prodotti di quella sinistra di salotto che il quotidiano di Mauro ha contribuito a creare? E adesso Concita ci viene a dire che sono manovrati dagli americani per fare gli interessi della finanza? Incredibile. Fortuna che è già prevista una nuova puntata dell’inchiesta della De Gregorio. In onda a Voyager: ai confini dell’ignoto. Rimanete collegati. Sera.

Gruppo Bilderberg. Nomi e cognomi di tutti i partecipanti dal 1954 al 2012. In quale girone dell’inferno dantesco andranno a finire queste anime prave? Si chiede Matteo Vitiello. Guardate, sinceramente, penso che per questa feccia italiana sia addirittura troppo lusinghiero andare ad occupare un posto nella magnificenza dell’opera letteraria per antonomasia. Ipocriti, falsari, traditori e violenti. I politici: non dicono la verità ai cittadini italiani e, nonostante il loro dovere di uomini politici sarebbe quello di rappresentare e servire il popolo, lo ingannano. Banchieri: creano e sperperano il denaro per dominare e controllare. Imprenditori violenti: Finmeccanica, Fiat, Pirelli, Olivetti, Ferruzzi, Alenia, Selex, Fincantieri, Confindustria… sono tra i primi dieci nella scala mondiale di produttori d’armi! …e poi si comportano da puritani, protetti dal Vaticano… che poi non è nient’altro che la patria dei più falsi di tutti, i preti (se ne salvano alcuni). Di seguito trovate tutti i partecipanti della nostra nobile Italia alle diverse riunione di Gruppo Bilderberg, dal 1954 al 2011. Ricordate che il Gruppo Bilderberg non è la riunione più importante dei potenti ma è dove i “ranghi” più bassi (capi azienda, politici nazionali ed internazionali di turno, giornalisti corrotti) ricevono istruzioni dai padroni della finanza mondiale: cosa fare, che politiche attuare, cosa far credere alla gente e così via.  Ne discutono un poco e ne aggiustano i dettagli, quindi, occhio, non crediate che tutti i bildebergers siano gente particolarmente importante al mondo, proprio perché il loro potere decisionale è quasi nullo rispetto ai loro capi (ne parlo dettagliatamente negli altri articoli dedicati al Bilderberg). Vi ricordo i punti fondamentali che contraddistinguono gli obiettivi a lungo termine del Bilderberg. Vi aiuterà a capire il perché di tanta segretezza e di tante bugie da parte di banchieri, imprenditori, politici e giornalisti corrotti.

 1.      Un’identità internazionale: distruggere l’identità nazionale ed il concetto di Stato-Nazione, cioè depauperare la sovranità di ogni singolo Stato (come sta accadendo sotto i nostri occhi in Europa, ad esempio ndr), per creare un’unica “grande impresa”, un unico governo mondiale fondato sul denaro ed il mantenimento di uno status di “padrone-schiavi”

 2.      Un controllo centralizzato della popolazione

 3.      Una società a crescita zero

 4.      Uno stato di disequilibrio perpetuo 

5.      Un controllo centralizzato dell’educazione: qui rientra non solo la rilettura della storia da parte dei diretti interessati ma anche la fondamentale funzione di lavatrice del cervello svolta dalla televisione, dai giornali e da tutti i mezzi di comunicazione principali (un mezzo di comunicazione principale è una tv, un giornale, una radio a grande diffusione. Questa diffusione è ottenuta solo dai mezzi di comunicazione i cui direttori/presidenti decidono di non pubblicare notizie scomode ai potenti. Internet è, attualmente,  un’eccezione, comunque è controllato anch’esso… qualcosa ce lo lasciano scrivere per darci una sorta di valvola di sfogo).

 6.      Un controllo centralizzato di tutte le politiche nazionali ed internazionali

 7.      La concessione di un maggior potere alle Nazioni Unite

 8.      Un blocco commerciale occidentale

 9.      L’espansione della NATO e la creazione di un unico esercito in modo tale che la catena di comando risponda solo ad una cerchia ristrettissima di persone

10.  Un sistema giuridico unico

11.  Uno stato di benessere socialista

1954 Oosterbeek, Olanda 

Alcide De Gasperi

Raffaele Cafiero (senatore)

Giovanni Malagodi (parlamentare)

Alberto Pirelli (Amm. delegato Pirelli)

Pietro Quaroni (Ambasciatore italiano in Francia)

Paolo Rossi (parlamentare)

Vittorio Valletta (Presidente Fiat)

1955 Barbizon, Francia e Garmisch-Partenkirchen, Germania Ovest - irreperibile

1956 Fredensborg, Danimarca – irreperibile

1957 St Simons Island, Georgia, USA

Amintore Fanfani (Ministro Esteri)

Longo Imbriani (BNL)

Giovanni Malagodi (Presidente Senato)

1958 – Palace Hotel, Buxton, Inghilterra

Giovanni Agnelli

Guido Carli (Direttore Banca d’Italia)

Giovanni Malagodi (presidente del Senato)

Alberto Pirelli (Presidente Gruppo Pirelli)

Pietro Quaroni (Presidente RAI)

1963 – Cannes, Francia 

Alighiero De Micheli (Presidente Confindustria)

Aurelio Peccei (Direttore Generale Italconsult)

Mario Pedini (parlamentare)

Alberto Pirelli (Presidente Gruppo Pirelli)

Pietro Quaroni (Ambasciatore in Gran Bretagna)

Vittorino Chiusano (nobile, nipote del vescovo Paolo Maurizio Caissotti di Chiusano, membro consiglio amministrazione Juventus)

 1964 – Williamsburg, Virginia, USA

 Giovanni Agnelli

Ugo La Malfa (parlamentare)

Ettore Lolli (Manager BNL)

Franco Malfatti (Sottosegretario Ministro dell’Industria e del Commercio)

Aurelio Peccei (Direttore Generale Italconsult)

Giovanni Scaglia (parlamentare Democrazioa Cristiana)

Paolo Vittorelli (senatore)

Vittorino Chiusano (nobile, vedi 1963)

1965 – Villa D’Este, Lago di Como

 Giovanni Agnelli (FIAT)

Manlio Brosio (Segretario Generale NATO)

Guido Carli (Direttore Banca d’Italia)

Eugenio Cefis (parlamentare)

Ugo La Malfa (parlamentare)

Giovanni Malagodi (parlamentare)

Mario Pedini (parlamentare e membro P2)

Giuseppe Petrilli (Presidente IRI)

Leopoldo Pirelli (Gruppo Pirelli)

Mariano Rumor (parlamentare)

Paolo Vittorelli (senatore)

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Vittorino Chiusano (nobile, vedi 1963)

1966 – Wiessbaden, Germania

Giovanni Agnelli

Piero Bassetti (politico e imprenditore azienda Bassetti)

Manlio Brosio (Segretario Generale NATO)

Franco Malfatti (parlamentare e giornalista)

Mario Pedini (parlamentare e membro P2)

Vittorino Chiusano (nobile, vedi 1963)

 1967 – Cambridge, Inghilterra

 Giovanni Agnelli

Manlio Brosio (NATO)

Principe Guido Colonna di Paliano (commissario europeo, diplomatico NATO)

Mario Aggradi Ferrari (parlamentare, ministro, membro Democrazia Cristiana)

Aurelio Peccei (manager FIAT e OLIVETTI, membro fondatore del Club di Roma)

Leopoldo Pirelli (Gruppo Pirelli)

Paolo Vittorelli (senatore)

Vittorino Chiusano (nobile, vedi 1963)

1968 – Mont Tremblant, Canada

 Giovanni Agnelli

Roberto Olivetti (Gruppo Olivetti)

Aurelio Peccei (manager FIAT, Olivetti, Club di Roma)

Leopoldo Pirelli (Gruppo Pirelli)

Alberto Ronchey (ministro, scrittore e giornalista Corriere della Sera)

Altiero Spinelli (Club del Coccodrillo, commissario europeo, scrittore e politico)

Ugo Stille (giornalista Corriere della Sera)

1969 – Marienlyst, Danimarca

Giovanni Agnelli

Antonio Cariglia (senatore)

Fabio Luca Cavazza (editore, scrittore, giornalista)

Piero Ottone (giornalista Corriere della Sera)

Lorenzo Vallarino Gancia (imprenditore Gruppo Asti-Gancia)

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

1970 – Bad Ragaz, Svizzera

Giovanni Agnelli

Renato Altissimo (parlamentare)

Gilberto Bernardini (fisco e docente fisica nucleare Università di Bologna)

Arrigo Levi (giornalista Corriere Della Sera, RAI)

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

1971 – Woodstock, Vermont, USA

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Emanuele Gazzo (giornalista, fondatore Agenzia Europa)

Giuseppe Glisenti (Direttore Rai, cofondatore Democrazia Cristiana)

Gian Giacomo Migone (docente universitario, NATO, ONU)

Piero Ottone (giornalista Corriere della Sera)

Gianfranco Piazzesi (giornalista Corriere della Sera)

1972 – Knokke, Belgio

Giovanni Agnelli

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Umberto Colombo (scienziato italiano)

Principe Guido Colonna di Paliano (commissario europeo, diplomatico, NATO)

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Arrigo Levi (giornalista Corriere della Sera, RAI)

1973 – Saltsjöbaden, Svezia

Giovanni Agnelli

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Raffaele Girotti (manager Montedison, ENI, senatore Democrazia Cristiana)

Siro Lombardini (economista)

Cesare Merlini (Presidente Istituto Affari Internazionali)

Ugo Stille (giornalista Corriere della Sera)

1974 – Hotel Mont D’Arbois, Megévè, Francia

Giovanni Agnelli

Enzo Bettiza (senatore, giornalista Corriere della Sera, cofondatore de Il Giornale)

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Principe Guido Colonna di Paliano (commissario europeo, diplomatico, NATO)

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Giorgio La Malfa (parlamentare)

Arrigo Levi (giornalista Corriere della Sera, RAI)

Franco Maria Malfatti (senatore)

Alberto Rochey (giornalista Corriere Della Sera, scrittore)

1975 – Golden Dolphin Hotel, Cesme, Turchia

Giovanni Agnelli

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Guido Carli (politico e Presidente Confindustria)

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Francesco Forte (docente universitario, parlamentare)

Giorgio La Malfa (parlamentare)

Arrigo Levi (giornalista Corriere Della Sera, RAI)

1977 – Torquay, Inghilterra

Giovanni Agnelli

Tina Anselmi (politica, partigiana e Presidente della Commissione d’inchiesta sulla loggia massonica P2)

Gian Gasperi Cesi Cittadini (marchese e politico)

Guido Carli (politico, Presidente Confindustria)

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Marcella Glisenti (scrittrice)

Carlo Sartori (pittore)

Francesco Cossiga

1978 – Princeton, New Jersey, USA

 Giovanni Agnelli

Nino Andreatta

Gian Gasperi Cesi Cittadini

Roberto Ducci (ambasciatore, consigliere NATO)

Piero Ottone (giornalista Corriere Della Sera)

Paolo Savona (economista, docente universitario)

Stefano Silvestri (sottosegretario Affari Europei, consulente Difesa)

1979 – Baden, Austria 

Giovanni Agnelli

Vittorio Barattieri (Direttore generale Ministero Industria)

Gian Gasperi Cesi Cittadini

Stefano Silvestri (sottosegretario Affari Europei, consulente della Difesa)

Nicola Tufarelli (FIAT)

1980 – Aachen, Germania

 Luigi Barzini (scrittore)

Giorgio Benvenuto (sindacalista, segretario generale UIL)

Marchese Gian Gasperi Cesi Cittadini

Luigi Ferri (giurista)

Romano Prodi

Stefano Silvestri (sottosegretario Affari Europei, consulente della Difesa)

Barbara Spinelli (giornalista, cofondatrice Repubblica)

1981 – Burgenstock, Svizzera

 Giovanni Agnelli

Romano Prodi

Stefano Silvestri

1982 – Sandefjord, Norvegia

Piero Ostellino (giornalista Corriere della Sera)

Romano Prodi

Virginio Rognoni (Ministro Affari Interni)

Stefano Silvestri

1983 – Montebello, Quebec, Canada

Umberto Agnelli

Piero Bassetti (Bassetti Spa)

Mario Monti

Paolo Zannoni

1984 – Saltsjobaden, Svezia 

Giovanni Agnelli

Mario Monti

1985 – Rye Brook, New York, USA

Giovanni Agnelli

Umberto Cappuzzo (Generale Esercito Italiano)

Mario Monti

Guido Rossi (giurista e avvocato)

Giovanni Sartori (Docente Columbia University)

Paolo Zannoni (FIAT)

1986 – Gleneages, Scozia, Regno Unito 

Giovanni Agnelli

Antonio Maccanico (politico, segretario generale Ufficio Presidenza Repubblica Italiana)

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa (Direttore Banca d’Italia)

Renato Ruggiero (Segretario Ministero Affari Esteri)

Gaetano Scardocchia (editore, La Stampa)

Luigi Spaventa (docente economia Università La Sapienza)

Paolo Zannoni (FIAT)

Alfredo Ambrosetti (Presidente Studio Ambrosetti)

1987 – Villa D’Este, Cernobbio, Lago di Como, Italia 

Giovanni Agnelli

Luigi Caligaris (senatore)

Guido Carli (senatore)

Carlo Azelio Ciampi

Francesco Cingano (Direttore Banca Commerciale Italiana)

Raul Gardini (Direttore generale Ferruzzi Spa)

Mario Monti

Romano Prodi

Franco Reviglio (Direttore ENI)

Cesare Romiti (FIAT)

Renato Ruggiero (Segretario Ministero Affari Esteri)

Gaetano Scardocchia (editore, La Stampa)

Paolo Zannoni (FIAT USA)

Alfredo Ambrosetti

Alessandro Vanzetto (FIAT)

1988 – Telfs-Buchen, Austria

Giovanni Agnelli

Giorgio La Malfa

Mario Monti

Ugo Stille (Capo Editore Corriere della Sera)

Paolo Zannoni

1989 – La Toja, Spagna 

Giovanni Agnelli

Enrico Braggiotti (Banca Commerciale Italiana)

Raul Gardini (Ferruzzi Spa)

Mario Monti

Filippo Maria Pandolfi (politico Democrazia Cristiana, vice presidente Commissione Comunità Europea)

Paolo Zannoni

1990 – Glen Cove, New York, USA 

Giovanni Agnelli

Enrico Braggiotti (Banca Commerciale Italiana)

Raul Gardini (Ferruzzi Spa)

Mario Monti

Romano Prodi

Renato Ruggiero (Ministro Commercio Estero)

Paolo Zannoni

1991 – Baden Baden, Germania 

Giovanni Agnelli

Giampiero Cantoni (Direttore Banca Nazionale del Lavoro)

Gianni De Michelis (Ministro Affari Esteri)

Mario Monti

Renato Ruggiero (politico e diplomatico)

1992 – Evian-les-Bains, Francia

Giovanni Agnelli

Mario Monti

Sergio Romano (La Stampa)

Renato Ruggiero

Paolo Zannoni

1993 – Atene, Grecia

Giovanni Agnelli

Mario Monti

Renato Ruggiero

Barbara Spinelli

Marco Tronchetti Provera (Pirelli Spa)

1994 – Helsinki, Finlandia

Giovanni Agnelli

Umberto Agnelli

Alfredo Ambrosetti (Gruppo Ambrosetti)

Franco Bernabè (Telecom, ENI, banchiere e vicepresidente Rothschild Europa)

Innocenzo Cipolletta (Direttore Confindustria)

Mario Draghi

Mario Monti

Renato Ruggiero

1995 – Zurigo, Svizzera

Giovanni Agnelli

Umberto Agnelli

Mario Draghi

Renato Ruggiero

1996 – Toronto, Canada 

Giovanni Agnelli

Franco Bernabè

Mario Monti

Valter Veltroni 

1997 - Lake Lanier, Georgia, USA 

Giovanni Agnelli

Umberto Agnelli

Carlo Rossella (La Stampa)

Stefano Silvestri

1998 – Turnberry, Ayrshire, Scozia 

Giovanni Agnell

Franco Bernabè

Luigi Cavalchini

Rainer Masera (Direttore Gruppo SanPaolo IMI)

Tommaso Padoa-Schioppa

Domenico Siniscalco

Enrico Mattei

1999 – Sintra, Portogallo

Agnelli Umberto

Franco Bernabè

Francesco Giavazzi (Università Bocconi)

Paolo Fresco (FIAT)

Alessandro Profumo (Unicredit)

2000 – Genval, Bruxelles, Belgio

Giovanni Agnelli

Umberto Agnelli

Alfredo Ambrosetti

Franco Bernabè

Paolo Fresco

Gianni Riotta (La Stampa)

Renato Ruggiero (Schroder Salomon Smith Barney Italia)

Giulio Tremonti

2001 – Stenungsund, Svezia

Franco Bernabè

Mario Draghi

Gian Maria Gros-Pietro (FIAT, Atlantia, Seat, Edison)

Mario Monti

Gianni Riotta

2002 – Chantilly (Virginia), USA

Mario Draghi

Mario Monti

2003 – Versailles, Parigi, Francia

Alfredo Ambrosetti

Rodolfo De Bendetti (CIR)

Franco Bernabè

Mario Draghi

Mario Monti

Marco Panara (La Republica)

Corrado Passera (Banca Intesa BCI)

Roberto Poli (ENI)

Paolo Scaroni (Enel)

2004 – Stresa, Italia

Alfredo Ambrosetti

Rodolfo De Benedetti

Franco Bernabè

Ferruccio De Bortoli (RCS Libri)

Lucio Caracciolo (Direttore rivista italiana di geopolitica Limes)

Mario Draghi

Gabriele Galateri (Mediobanca)

Francesco Giavazzi (docente Bocconi)

Cesare Merlini

Mario Monti

Corrado Passera (Banca Intesa Spa)

Gianni Riotta (Corriere della Sera)

Paolo Scaroni (Enel)

Domenico Siniscalo

Giulio Tremonti

Marco Tronchetti Provera

Ignazio Visco (Banca d’Italia)

2005 – Rottach-Egern, Germania

Franco Bernabè

John Elkann

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa

Paolo Scaroni

Domenico Siniscalo

2006 – Ottawa, Canada

Franco Barnabè

John Elkann

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa

Paolo Scaroni

Giulio Tremonti

2007 – Istanbul, Turchia

Franco Bernabè

John Elkann

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa

Paolo Scaroni Paolo

Domenico Siniscalco

Giulio Tremonti

2008 Chantilly, Virginia, USA

Franco Bernabè

Mario Draghi

John Elkann

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa

2009 – Atene, Grecia

Franco Bernabè

Mario Draghi

John Elkann

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa, Minister of Finance, President “Notre Europe”

Romano Prodi

Domenico Siniscalco

2010 –  Sitges, Spagna

Franco Bernabè Franco, CEO, Telecom Italia s.p.a

Fulvio Conti Fulvio (ENI)

John Elkann John

Mario Monti

Tommaso Padoa-Schioppa

Gianfelice Rocca (Gruppo Techint, Confindustria)

Paolo Scaroni

2011 – Sant Moritz, Svizzera 

Franco Bernabè

John Elkann

Mario Monti

Paolo Scaroni

Giulio Tremonti Giulio

2012 - Chantilly, Virginia, USA

Franco Bernabè

Fulvio Conti (CEO and General Manager, Enel S.p.A)

John Elkann

Lilli Gruber

Enrico Letta

[fonte: Bilderberg Meeting Report]

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa.

La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali.

Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum.

Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale.

Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste.
Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione.

Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro.

Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto. Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità. Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere. Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto. Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose.

Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo: L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo”.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori.

A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”, brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille;

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

E poi c’è quello che non ti aspetti.

AFFARI DEI TEMPLARI LEGHISTI.

Affari dei Templari leghisti. Appalti dei Gran Maestri. Contratti con Asl, Pirellone, Comune di Brescia oltre ai ruoli nel partito: così la Suprema Militia piazza parenti e amici, scrive Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. Chi sono e, soprattutto, quali sono gli scopi che si sono prefissati gli adepti alla organizzazione templare attiva in Lombardia e in tutta Italia, detta la  “Suprema Militia”, composta come abbiamo visto nella prima puntata da uomini politici, prefetti, imprenditori? Persone decise ad assumere le vesti di epigoni del gran maestro Jacques de Molay, seguaci di quei cavalieri dispersi nel quattordicesimo secolo dalle persecuzioni dal Papa e dal re di Francia. A colpire sono soprattutto le implicazioni di rapporti cementati dall’appartenenza a un ambiente iniziatico ed esclusivo tra esponenti della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia. In teoria questa “Suprema Militia Equitum Christi” dovrebbe promuovere un percorso, per i suoi adepti che assomiglia molto a un lavoro iniziatico di conoscenza e di approfondimento dei temi principali dell’esistenza, da perseguire mediante la carità, la beneficenza, il servizio ai diseredati. Ma al suo interno si trovano affiliati che si occupano di questioni molto mondane e pratiche: consulenze professionali, incarichi pubblici, politica, imprese, strategie delle multiutility lombarde. Senza contare poi la presenza di chi, per dovere istituzionale, è chiamato a rappresentare lo Stato, non ultimo, il prefetto di Pesaro e Urbino, Attilio Visconti, pronto a vestire i panni di cerimoniere e a occuparsi della formazione degli adepti e dei novizi di una cupola riservata. Ieri Visconti ha spiegato: «Ma quale loggia massonica o associazione segreta: la Suprema Militia Equitum Christi è una onlus che fa beneficenza, non politica. Non ha legami con la Lega, ed elenco degli iscritti e bilanci sono pubblici». Visconti s’è detto «onorato di far parte di questa associazione». Fatto sta che insieme a lui ci sono altri esponenti delle istituzioni, come il vicesindaco di Brescia Fabio Rolfi, l’assessore regionale Monica Rizzi, e il dirigente comunale Marco Antonio Colosio, l’ex consigliere regionale e, ora, vicepresidente dell’Aler bresciana, Corrado Della Torre. E che dire poi della presenza, in un gruppo di duri e puri del cattolicesimo più intransigente, di un massone, come Marco Belardi, il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brescia, in forza alla Glri, la Gran Loggia Regolare d’Italia? A suscitare interrogativi è questo mix di rapporti e interessi profani e spirituali, trattati all’ombra di un gruppo coperto e lontano da occhi e orecchie indiscrete. È forse in virtù della comune militanza templare con il vicesindaco leghista, che l’ingegnere Belardi ottiene consulenze ben retribuite dal Comune di Brescia? Nel marzo del 2010, la sua società, la “Intertecnica Group” si vede assegnare un incarico per la ristrutturazione di impianti idrotermo-sanitari di una proprietà comunale; mentre nell’aprile del 2011, sempre la sua “Intertecnica” si aggiudica un incarico di progettazione e direzione lavori nell’area archeologica cittadina del Capitolium. Il vicesindaco Rolfi, da qualche mese anche segretario provinciale della Lega Nord, è censito come cavaliere dell’ordine templare già nel 2009 nella “Commanderia San Gottardo” di Brescia; almeno dallo stesso periodo risulta aver incrociato, a San Gottardo, proprio il “novizio” Marco Belardi, che proprio dall’ottobre del 2009 si insedia nella posizione delicata e prestigiosa di presidente dell’Ordine degli Ingegneri. È forse grazie a questa consorteria così profondamente annidata nel cuore della Lega Nord che Fabio Rolfi, fallito il primo tentativo di sistemare la moglie Silvia Raineri attraverso un concorso pubblico indetto dalla provincia di Brescia, la piazza all’Asl di Milano? Il concorso della provincia di Brescia aveva suscitato un clamore nazionale, perché delle sei vincitrici ben cinque erano leghiste e parenti di esponenti politici leghisti di primo piano del bresciano. Un tale clamore da rendere necessaria una commissione d’inchiesta e da indurre il presidente della provincia Molgora, pure leghista ma estraneo all’ambiente di Rolfi e dei cavalieri, a congelare le assunzioni. Così Rolfi si rivolge prima al gruppo leghista in regione Lombardia, che conferisce a Silvia Raineri un incarico, poi al leghista Giacomo Walter Locatelli, potente direttore generale dell’Asl di Milano: la Rainieri si piazza diciottesima in un concorso per l’assunzione di un solo impiegato, ma viene ugualmente assunta; si dimette dall’incarico in Regione, prende possesso dell’impiego all’Asl, ottiene immediatamente dal direttore generale un’aspettativa e riassume il suo incarico in Regione. C’è poi chi fa notare certe coincidenze: recentemente eletto alla carica di segretario provinciale della Lega Nord, Rolfi affronta il nodo di Montichiari, importante comune della provincia in cui la Lega governa dagli anni 90 e dove ha sofferto, in occasione delle ultime elezioni, una secessione che ha portato fuori dal partito tutto il gruppo dirigente locale, compreso sindaco e vicesindaco. Dopo anni la spaccatura viene ricucita e l’incarico di commissario della sezione leghista di Montichiari, tutt’ora percorsa da forti tensioni, va a Corrado Della Torre, il Grand Commandeur dei cavalieri di San Gottardo dei quali fa parte lo stesso Rolfi. Quel Della Torre che, intervistato da Marta Calcagno, su il Giornale del 09/10/2010, dichiarava che «nell’Ordine dei Templari ci sono vari gradi di cavalleria, che sono immutabili dal 1100. C’è una composizione sociale varia: dal generale dei carabinieri, a professionisti di diversi livelli, sino ad imprenditori e industriali». A San Gottardo non mancava mai un altro abitué del Tempio, il prefetto Attilio Visconti: nato a Benevento il 21 ottobre del 1961, per due anni, dal 1990 al 1992, presta servizio nel Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis). Nel 2006 è trasferito alla Prefettura di Brescia, dove gli viene conferito l’incarico di Capo di Gabinetto. Nel 2007 è chiamato a svolgere il ruolo di commissario straordinario per i Comuni di Offlaga, Travagliato e Borno. Il 12 dicembre del 2007 è nominato viceprefetto Vicario di Brescia. Nel giugno del 2008 è nominato commissario prefettizio del comune di Edolo (il paese di Bruno Caparini, il Gran Baylo dell’ordine templare in cui milita lo stesso Visconti). Poi l’incarico di viceprefetto vicario a Torino, l’arrivo a Caserta e la tanto agognata nomina a Prefetto di Urbino. In molti di questi incarichi, soprattutto in quelli di commissario prefettizio in comuni bresciani, Visconti è sempre accompagnato da due giovani leghisti: il fido Marco Antonio Colosio, presente nell’elenco dei templari bresciani, e l’architetto Franco Claretti, oggi sindaco leghista di Coccaglio, un paesone del bresciano. E  l’amministrazione comunale di Brescia, in cui Fabio Rolfi è vicesindaco e dominatore assoluto, nomina entrambi dirigenti fin dal debutto della giunta di centrodestra. Il capo del gruppo lombardo è Bruno Caparini, cofondatore assieme a Bossi della Lega e attuale membro del consiglio di sorveglianza di A2A. Di lui, fino a poco tempo fa, Monica Rizzi, assessore regionale allo Sport (una adepta della loggia templare fino all’anno scorso, espulsa, forse, per la vicenda della finta laurea in psicologia, più credibilmente per incompatibilità con l’ambiente e gli altri cavalieri leghisti, ormai di stretta osservanza maroniana), conservava una foto in assessorato: abito nero con mantello bianco e croce templare rossa sul cuore, spada Carlo V e decorazione dell’ordine appesa al collo.

PARLIAMO DI MASSONERIA, MAFIA, FINANZA E MAGISTRATURA.

Tanto si è detto sull'origine della massoneria, scrive Alessandro Olimpo. Chi la vuole sorta seimila anni fa in uno sconosciuto angolo della terra, chi ne semplifica la genesi alla storica data del 1717, ognuno ha un'idea diversa, un'immagine confusa dell'antica fratellanza. Il filosofo J.G.Fichte, uno dei maggiori rappresentanti dell'idealismo, affrontava la questione e scrisse. "….nei primi decenni del secolo XVIII, precisamente in Londra, si presenta in pubblico una società, che verosimilmente era sorta ancor prima, ma della quale nessuno sa dire donde venga, che cosa sia e che cosa voglia. Essa si propaga,nonostante ciò, con rapidità inconcepibile, e si diffonde attraverso la Francia e la Germania in tutti gli stati dell'Europa cristiana, e perfino in America. Uomini di tutte le classi, reggenti, principi, nobili, dotti, artisti, commercianti, entrano nella sua cerchia. Cattolici, luterani e calvinisti si fanno iniziare e si fanno chiamare fratelli." Ma per capire a fondo le origini della massoneria non saranno sufficienti date e luoghi. Fin dalle più remote antichità due contrastanti tendenze apparirono tra gli uomini: idealismo e materialismo. Fin dai primordi il genere umano si è diviso in due tipi di individui che assecondavano, ciascuno per la sua, tali opposte tendenze. Da una parte c'erano coloro i cui interessi erano volti unicamente al soddisfacimento dei propri bisogni terreni: cibo, sesso, ecc…, dall'altra si distinguevano menti più raffinate che ricercavano le motivazioni dell'esistenza, indagavano sui misteri della vita e dell'universo. Per meglio comprendere immaginiamo per un istante di trovarci presso un'antica tribù primitiva. Il tran-tran giornaliero poteva essere il procacciamento del cibo, la conquista delle donne più appetibili, la difesa dagli aggressori, fossero essi animali o altri uomini, la protezione dalle calamità naturali e così via. Contemporaneamente altri uomini più dotati intellettivamente, pensavano a soluzioni diverse e dal pensiero scaturivano le scoperte che conducevano il clan verso una vita più qualificata. Non c'era campo che questi filosofi non osassero investigare, ivi compreso quello del cosiddetto sapere divino. Nacque così la scienza e ad opera di tali uomini nacque l'arte. Scienza ed arte, fusi in un unico ordine di sapere, divennero il patrimonio di questi "diversi" il cui potere conoscitivo era grande ma nello stesso tempo, e proprio per questo, invidiato e quindi insidiato dai guerrieri e dai capi delle società dell'epoca. La difesa contro questi ultimi era quella di coalizzarsi e di difendere la conoscenza faticosamente acquisita, e trasmessa ai discepoli ritenuti adatti, al fine di evitarne utilizzazioni improprie da parte degli indegni. La frattura fra il bene e il male , fra potere sacro e potere profano, fra i filosofi e i politici era ormai insanabile. La conoscenza filosofica è potere reale in senso assoluto e mai deve cadere nelle mani di coloro che ne approfitterebbero per perseguire i loro fini personali e materiali a danno dell'evoluzione dell'umanità. Da queste premesse è facile dedurre il perché dell'origine delle fratellanze iniziatiche. I sacerdoti di Iside e di Osiride per lungo tempo, la comunità degli Esseni, gli Orfici, i Pitagorici, i primi cristiani e quindi i più recenti Templari, i Fedeli d'Amore, gli alchimisti,i Rosacroce e tanti altri,in ultimo la massoneria che da tutti costoro ha raccolto l'eredità morale e di pensiero, sono le società che hanno conservato nei loro templi il sapere dei millenni. L'evoluzione del pensiero è sempre associata a forti idee di personaggi in qualche maniera legati a culture esoteriche .Gli Esseni in Palestina, da cui probabilmente è sorto il cristianesimo che tanto ha prodotto in termini di crescita sociale dell'umanità;le scuole filosofiche di Pitagora prima e di Platone poi, lo stesso Dante Alighieri, membro della setta dei Fedeli d'amore, ma anche accreditato di appartenenza all'Ordine Templare; bacone, Newton, Goethe e tanti altri, noti per aver fatto parte di società segrete, quali i Rosacroce e la massoneria, tutto questo lascia intendere che la cultura storica è in parte carente laddove si voglia interpretare il ruolo delle società misteriche nel tessuto portante della storia. Se poi si voglia sapere quando la massoneria ha assunto la forma attuale con le odierne costituzioni ed i moderni rituali, allora bisogna riandare alle corporazioni di mestiere medioevali e risalire alla distruzione dell'Ordine del Tempio. Fondato nel 1119 con il compito di difendere la terra santa, quest'ordine religioso-militare - voluto da Ugo de Payns, primo gran maestro e appoggiato da Bernardo da Chiaravalle, monaco, dottore della chiesa e santo - conservava nel suo seno le dottrine segrete dell'iniziazione a cui venivano ammessi solo i cavalieri meritevoli sotto il duplice aspetto della morale e del desiderio di conoscenza. Non si conoscono esattamente le interrelazioni e i metodi di interscambio culturale che legavano tali potenti cavalieri ai vari monasteri ed alle suddette corporazioni di mestiere, fatto è che al loro tempo fiorirono nuovi stimoli interiori, nacque dal nulla una nuova forma architettonica, il gotico, che meravigliò il mondo intero. Tutto ciò non poteva durare. Le leggi dell'ignoranza e della superstizione, dell'egoismo e della malafede, prevalsero di nuovo sul buon senso e sulla giustizia. L'ingordo Filippo il Bello ed il papa Clemente V determinarono la fine del Tempio nel 1311. Jacques de Molays, gran maestro, e cinquantaquattro cavalieri vennero condannati al rogo. Il resto dell'Ordine fu disperso. Ma i cavalieri del Tempio non cessarono la loro attività iniziatica. Dispersi ai quattro angoli della terra si rifugiarono presso le logge dei liberi muratori germanici, scozzesi e dovunque il pensiero libero e la ricerca pura fossero i benvenuti. In Portogallo nacque l'Ordine del Cristo, in Scozia l'Ordine del Credo. Continuarono così a lavorare nell'ombra sino alla costituzione dell'Ordine dei Templari nel XVIII secolo: Così presumibilmente nacque la massoneria medievale, madre della massoneria moderna. Il 24 giugno 1717 i maestri delle quattro logge londinesi si incontrarono con alcuni rappresentanti della misteriosissima fratellanza della Rosacroce. Questi, perseguitati, chiesero alla fratellanza dei Liberi e Accettati muratori di entrare a far parte dell'Ordine. Così nasceva, in un albergo di Charles Street (che in seguito fu la sede della prima Gran Loggia d'Inghilterra) la frammassoneria moderna, decisa a combattere in campo aperto per la libertà di pensiero, di indagine, di coscienza, per la fratellanza universale, per il progresso, per la riconquista della dignità della persona umana. Subito molti Ordini misterici riapparvero in Europa come per incanto e quasi tutti entrarono a far parte della massoneria. Nobiltà, clero, scienziati, filosofi, artisti, commercianti: tutti chiedono di essere iniziati all'Arte Reale. " Quando i governi dispotici si allarmarono era ormai tardi. La reazione non potè arrestare la valanga che li avrebbe travolti. Il Contratto Sociale veniva discusso e commentato dovunque; l'agitazione cresceva, si parlava ormai apertamente dei Diritti dell'Uomo e finalmente scoppiava la Rivoluzione Francese." Ricordiamo ancora la Rivoluzione americana e la Carboneria italiana la cui ispirazione massonica è nota a tutti,non sono che pochi esempi dell'influsso delle idee muratorie sul mondo "profano", ma che servono a far meglio conoscere la capacità morale di quella fucina del libero pensiero che era la libera muratoria.

Già nell'analisi delle origini appaiono ben chiari gli scopi della massoneria.

- La "Dichiarazione dei principi" approvati dal convento dei supremi consigli confederati riuniti a Losanna nel settembre 1875: la massoneria.

- "…non impone alcun limite alla ricerca della verità, ed è per garantire a tutti questa libertà che esige da tutti la tolleranza."

- …"accoglie qualunque profano senza preoccuparsi di conoscere quali siano le sue opinioni politiche e religiose, purchè esso sia libero e di buoni costumi."

- "… ha per scopo di lottare contro l'ignoranza sotto tutte le sue forme; è una scuola scambievole, il cui programma si riassume in questi punti: obbedire alle leggi del proprio paese, vivere secondo l'onore, praticare la giustizia, amare i propri simili, lavorare senza posa al bene dell'umanità e perseguire la sua emancipazione progressiva e pacifica."

- " per innalzare l'uomo ai propri occhi, per renderlo degno della missione sulla terra, la Massoneria pone come principio che il Creatore supremo ha dato all'uomo, come il bene più prezioso, la libertà: la libertà, patrimonio dell'umanità tutta intera, raggio così luminoso che nessun potere ha diritto di spegnere o di offuscare e che è la fonte di ogni sentimento d'onore e di dignità".

La prefazione degli Statuti Generali delle società dei Liberi Muratori del Rito Scozzese Antico ed Accettato,ristampa del 1874:

" Quella unione di uomini saggi e virtuosi, che, con allegorico significato, si appella ordinariamente Società dei Liberi Muratori,è stata in ogni tempo considerata come il Santuario dei buoni costumi, l'asilo dell'innocenza, la scuola della virtù, il tempio della filantropia".

" …ha per fine il perfezionamento del cuore umano; e si propone, qual mezzo necessario per ottenere questo fine, l'esercizio e la pratica delle virtù."

" Il Fratello Libero Muratore deve per necessità essere uomo probo, sobrio, onesto e virtuosamente benefico. Chi non possiede queste necessarie doti non può affatto aspirare al merito di poter far parte di questa unione di saggi."

Ci sembra utile riportare le tesi del già citato Fichte: "…poiché il fine dell'esistenza è quello di chiarire il senso della vita alla luce dell'eternità, questa società offre all'essere ragionante il massimo di luce; di conseguenza, lo scopo della cultura umana è contemporaneamente quello della cultura massonica; questo fine verrebbe meno se tale cultura non sopprimesse i contrasti della divisione del lavoro e se non trasformasse in cultura universale le pluralità delle classi sociali; la sua azione nel mondo trae origine dall'influsso reciproco di tali classi; la massoneria non è fine a se stessa più che la Chiesa; dando alla religione una "educazione massonica", se ne svincola il concetto di universalità; la massoneria libera l'uomo dall'aspetto falsamente universale della sua religione; questo stesso uomo cessa di essere religioso, ma pensa e agisce religiosamente; lo scopo politico della massoneria è identico al suo scopo spirituale, perché unisce il patriottismo al cosmopolitismo; in tutto questo la massoneria è l'erede della cultura segreta dell'umanità, perché sempre sono esistiti uomini pronti a notare i difetti della società della loro epoca, e a gettare il seme per il futuro."

Citiamo infine la voce ufficiale della massoneria italiana.

"Quando si parla di Massoneria si suole identificarla come Ordine, ed, invero, le sue origini radicate nelle corporazioni dei Liberi Muratori si ricollegano ad una serie di livelli operativi quali Apprendista, Compagno, Maestro perfettamente sovraordinati l'uno all'altro e regolati da norme liberamente accettate da tutti gli adepti e perciò ancor più vincolanti che se fossero imposte. Tali norme consentono di conquistare progressivamente una sempre più profonda conoscenza di se stessi e di accostarsi alla verità ed alla perfezione rendendo così il Massone idoneo a svolgere il suo compito filantropico di operare per il bene ed il progresso dell'Umanità. Questa metodologia affascinò uomini delle più diverse condizioni accostandoli l'un l'altro in un'ansia di ricerca che aboliva ogni differenza sociale ed economica creando viceversa un vincolo profondo che si rafforzava via via che gli adepti acquistavano sempre maggiore coscienza della comune origine dal suolo italico e della missione unificatrice delle sue genti che essi assumevano.

Il “Gioco Grande”. Il mezzo secolo di intrecci tra massoneria deviata, mafia e servizi segreti deviati che ha sconvolto l’Italia. Dallo sbarco degli Alleati in Sicilia alle stragi di Capaci e via D’Amelio, il panorama italiano è stato governato da accordi tra mafia, massoneria e servizi segreti italiani e americani, scrive Gea Ceccarelli. All’inizio del ’900, circa un milione di siciliani abbandonò le proprie terre per trasferirsi negli States, in special modo a New York, città che, già dal 1870, era legata a Palermo grazie al commercio di agrumi. In mezzo alle centinaia di migliaia di emigranti, vi furono molti “uomini d’onore” che nella Grande Mela trovarono terreno fertile per le proprie attività delinquenziali; in particolar modo il traffico dei prodotti commerciali divenne una prerogativa italiana, le banchine dei porti di New York parlavano siciliano. Per decenni Cosa Nostra in America regnò indisturbata, il gangsterismo si configurò come una potenza occulta e feroce, in rapida crescita, mentre, in Sicilia, le famiglie d’onore venivano tartassate dal regime di Mussolini e vivevano in uno stato di profonda crisi in concomitanza della Seconda Guerra Mondiale. E proprio in questo contesto vi fu il primo vero e documentato approccio del governo americano alla mafia. Il 9 febbraio 1942, infatti, un ex transatlantico trasformato in unità di trasporto truppe, la Normandie, prese misteriosamente fuoco e si capovolse alle foci dell’Hudson. Subito si pensò che si fosse trattato di un sabotaggio e i primi ad essere additati come colpevoli furono gli italo-americani di New York. Per far luce sull’incidente, dunque, la Marina degli Stati Uniti decise di entrare in contatto con la mafia che controllava i docks del porto. Così, su raccomandazione di due boss, Joseph Socks Lanza e Meyer “Little Man” Lansky, gli ufficiali dell’US Navy contattarono Charles Lucky Luciano, già in carcere. Lui, considerato il padre moderno del crimine organizzato, primo boss ufficiale della famiglia Genovese, dall’alto del suo potere, era in grado di cambiare le sorti della guerra. E così, spinto dal patriottismo e dalla solidarietà verso i “cugini” mafiosi siciliani, vessati da Mussolini, Luciano decise di collaborare con le autorità e fece in modo che i porti newyorkesi si schierassero dalla parte degli Alleati. Un aiuto incredibile, grazie cui gli americani si resero effettivamente conto di quanto fosse importante avere dalla propria parte la mafia. Per questo, durante la preparazione dell’Operazione Husky, decisero di rivolgersi nuovamente a Luciano, stavolta tramite l’Oss, l’Office of Strategic Service, precursore della più nota Cia. Luciano, in cambio della grazia, mise in moto una serie di trattative che si videro compiute il 10 luglio del 1943, quando gli americani sbarcarono sulla costa sud della Sicilia. Lì trovarono un terreno favorevole per l’occupazione, proprio grazie alle famiglie mafiose contattate da Cosa Nostra Americana. Nel frattempo, l’agente Max Corvo, diretto referente di Allen Dulles, alto funzionario dell’Oss, formò un’unità militare denominata “the mafia circle”, grazie alle raccomandazioni di Luciano: tra i contatti “celebri” si contavano personalità quali il boss Vito Genovese e i finanzieri Michele Sindona e Licio Gelli. Grazie al loro contributo, i servizi segreti americani riuscirono a raggiungere le prigioni siciliane e liberarono circa 850 mafiosi per arruolarli. Una volta terminata la guerra, nella sola provincia di Palermo, almeno 62 di essi vennero nominati sindaci. Il legame con Luciano, nello spaccato della Seconda Guerra Mondiale, non fu certo l’unico ambiguo, per Dulles. Nello stesso periodo, infatti, l’alto funzionario mantenne contatti anche con il generale delle SS, Karl Wolff, che comandava i contingenti della Gestapo in Italia. Un rapporto scottante, che si vide compiuto nei negoziati dell’Operazione Sunrise. In base ad essi, le forze naziste sarebbero state “graziate” dagli americani, in cambio del loro appoggio nella battaglia pre-pianificata atta a sconfiggere la minaccia sovietica. Cioè la Guerra Fredda. Al tempo stesso, per permettere ai nazisti di salvarsi, Dulles consigliò a Wolff di avvalersi delle “ratlines”, le vie di fuga del Vaticano. Quelle stesse vie che furono poi utilizzate da Cosa Nostra, negli anni ’80, per il contrabbando di droga in America, l’ormai celebre operazione “Pizza Connection” su cui indagò anche Falcone. Non deve sorprendere l’affinità della Santa Sede con la Cia: molti illustri membri dell’agenzia segreta americana erano anche Cavalieri dello Smom, meglio conosciuto come Ordine dei Cavalieri di Malta, da sempre ritenuto il braccio armato del Vaticano. Fu così che, in nome degli accordi presi con gli Usa, gli ormai ex nazisti si spostarono tutti verso l’America Latina, laddove combatterono la minaccia comunista, allestendo di fatto il terreno per la Guerra Fredda. Non molto diverso fu il panorama in Europa, in cui il lavoro preparatorio aveva stabilito di rovesciare o contrastare i governi eletti democraticamente attraverso una rete di “unità Stay Behind”equipaggiata con uomini fascisti, in Italia organizzata sotto l’egida dell’Operazione Gladio, voluta prevalentemente dalla Nato. Nel nostro paese, la Gladio venne costituita il 26 novembre del 1956, con un protocollo di intesa tra servizi segreti italiani e americani. Si trattava di un’organizzazione atta a bloccare qualsivoglia invasione sovietica nel Paese. Nel 1972, questa struttura, che sorse in Sicilia, si collegò indissolubilmente al Sid di Vito Miceli. Erano gli anni in cui Gladio iniziava a potenziarsi: nascevano nuclei indipendenti, tra cui quello della neofascista Rosa dei Venti, coinvolto in numerosi atti eversivi, non in ultimo il celebre “Golpe Borghese”. Il primo a parlare di Gladio fu l’ex terrorista Vincenzo Vinciguerra, accusato della strage di Peteano. Nel 1984, all’interno del processo della strage di Bologna, l’uomo parlò apertamente di una struttura occulta nelle forze armate italiane, che era stata in grado di coordinare le varie stragi per evitare che il paese si spostasse troppo a sinistra; questo, sempre secondo la testimonianza dell’ex terrorista, a nome della Nato e con il supporto dei servizi segreti e di alcune forze politiche e militari italiane. E’ interessante notare come il perito balistico Marco Morin, che si occupò della strage di Peteano, nonché dell’omicidio Moro e di quello Dalla Chiesa, risultò essere legato all’organizzazione Gladio e, secondo il giudice Felice Casson, falsificò la perizia per nascondere come le armi utilizzate nella strage provenissero proprio dai depositi di Gladio. Nello stesso procedimento per la strage di Bologna, Gian Adelio Maletti, l’ex capo Reparto D del Sid, venne accusato di depistaggio delle indagini, come anche Licio Gelli. Nel 2001, in un’intervista, il generale dichiarò come, ai tempi, esistesse una “regia internazionale” delle stragi, relativa alla strategia della tensione, e come la Cia finanziasse sia il Sid che Gladio. Intanto, il Sid aveva formato una “altra Gladio”, ben più celata. Su di essa scrisse Paolo Biondani:Una struttura mista militari civili, parallela alla rete ‘Stay Behind’, con obiettivi analoghi ma con protagonisti diversi: nuovi nomi, ancora top secret, di presunti responsabili di operazioni coperte che i magistrati collegano alla strategia della tensione degli anni 1969-1974. Un’organizzazione che agiva sotto una sigla pseudo istituzionale, "Nuclei di difesa dello Stato", della quale finora nessuna autorità aveva mai parlato, neppure dopo la divulgazione degli elenchi dei 622 gladiatori ‘ufficiali’”. Sei anni dopo le allusioni di Vinciguerra, nel 1990, Giulio Andreotti rese pubblica l’esistenza di Gladio. Si disse che era una struttura atta a contrastare la criminalità organizzata. Nello stesso anno morì Miceli e due magistrati militari aprirono un’inchiesta per far luce sui misteri legati all’unità “Stay Behind” siciliana. Conducendo indagini, risalirono a diversi fascicoli archiviati dai Servizi. In essi si leggeva chiaramente come la Cia rivestisse un ruolo di primo piano nella vicenda. L’agenzia americana raccomandava ai Servizi italiani di mantenere il segreto su Gladio: “si dovrebbe sapere solo che ha il compito di creare quadri di guerriglieri destinati a svolgere attività armata contro l’occupante. Avrebbe poca importanza che le strutture Sios, i servizi segreti delle singole armi, vengano a conoscenza di questi compiti, l’importante è che pensino che i nominativi che forniscono sono destinati a questo scopo soltanto Inoltre, la Cia si sarebbe posta in prima linea per rendere operativo il tutto: “nostra cura creare altri due livelli organizzativi, che sarebbero di nostra esclusiva conoscenza nei quali immettere a varie tappe coloro che abbiano dato buona prova”. Sempre nel 1990 l’ex agente della Cia Richard Brenneke, raccontò di come l’agenzia, ai tempi, avesse pagato ingenti somme a Licio Gelli affinché mettesse in moto una serie di stragi, in maniera tale da far sprofondare l’Italia nel terrore. Lui, Gelli, entrato in contatto con gli americani dopo le raccomandazioni di Lucky Luciano durante la Seconda Guerra Mondiale, è una figura chiave di questi anni. I suoi rapporti con l’Agenzia segreta vennero rinforzati dalla sua collaborazione con Ronal Rewald, fondatore dell’Istituto finanziario Bishop, Baldwin, Rewald, Dillingham & Wong con base alle Hawaii, una società della CIA che poi divenne la Banca Nugan Hand, di proprietà della CIA stessa. Al tempo stesso, Gelli fu Maestro Venerabile della lista Propaganda 2, la celebre P2. La stretta connessione tra l’operazione Gladio e la loggia massonica la esplicò lui stesso in un’intervista del febbraio 2011, in cui dichiarò: “Io avevo la P2, Cossiga la Gladio, Andreotti l’Anello”. Erano, tutti e tre, apparati “segreti”, anelli di congiunzione tra la società civile e gli 007. Sulla figura di Gelli si concentrò anche il giudice bolognese Libero Mancuso, secondo cui, in Italia, operava un’unica centrale criminale, una sorta di holding in grado di mettere d’accordo tutti, raccogliendo fondi e investendo in aree, settori e uomini. In questo contesto, l’imprenditore si configurava come l’uomo di raccordo tra tutti i protagonisti: servizi segreti, mafia, massoneria, Vaticano, estremismo neofascista. Il potere di Gelli, in continua crescita, venne bruscamente interrotto nel 1979. I Servizi segreti americani scaricarono il massone, ormai troppo influente, inserendo, al suo posto, un faccendiere romano legato agli 007, Francesco Pazienza, anch’egli iscritto alla P2. Il tutto rientrava in un piano di preparazione in vista del 1980, quando, secondo la Cia, si sarebbe verificata una vera e propria rivoluzione, a cui Gladio avrebbe dovuto rispondere potenziandosi e modificandosi. Si parlava, cioè, del golpe di Michele Sindona. Raccomandato dal boss Luciano esattamente come Gelli, Sindona fu uno dei più potenti e corrotti massoni coinvolti nel “ Gioco Grande”. I suoi primi guai cominciarono nel 1967, quando, dopo aver comprato la Banca Privata Finanziaria, l’Interpol lo segnalò come implicato nel riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di stupefacenti, gestito da Cosa Nostra americana: numerosi boss, d’altronde, erano suoi soci. Nel 1969 Sindona s’associò alla banca vaticana, lo Ior, e, attraverso essa, fece trasferire enormi somme in Svizzera. Nel frattempo, tramite una serie di libretti al portatore, trasferì 2 miliardi di lire nelle casse della Democrazia Cristiana, mentre parecchi milioni di lire transitarono attraverso la CIA, la Franklin Bank e il SID per finanziare, secondo la commissione d’inchiesta del Senato degli Stati Uniti, la campagna elettorale di 21 politici italiani. Nonostante fosse stato più volte definito da Giulio Andreotti “il salvatore della Lira”, Sindona, nel 1974, spinse la Banca Privata Italiana in bancarotta per frode e cattiva gestione. Per questo venne ordinato un commissario liquidatore, Giorgio Ambrosoli, che assunse la direzione dell’istituto e, nel frattempo, esaminò tutte le trame occulte e criminose con cui il finanziere Sindona aveva cercato, negli anni, di salvare il banco. Un’indagine che gli costò la vita: nel ’79 venne ucciso dal sicario legato a Cosa Nostra americana William Jospeh Aricò (accusato di aver freddato, cento giorni prima, il giornalista Mino Pecorelli) su mandato di Michele Sindona. L’intento del finanziere era quello di nascondere le tracce di come avesse investito il denaro sporco di boss mafiosi della portata di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e Rosario Spatola. Gli stessi con cui, nello stesso 1979, il finanziere tentò il golpe: si recò in Sicilia cercando di convincere le cosche a scindere l’isola dal resto dell’Italia, per consegnarla in mano alle famiglie mafiose e alla P2, dove trovava spazio anche Umberto Ortolani, membro del consiglio interno dei Cavalieri di Malta, e considerato “il grande apri porta Vaticano”. Sindona era collegato a un’altra figura di spicco, di questi anni: Roberto Calvi, direttore del Banco Ambrosiano, una banca privata, strettamente legata allo Ior. Proprio grazie a Gelli e Sindona, Calvi entrò nella P2. Quando, al finire degli anni ’70, il Banco si trovò ad affrontare una crisi di liquidità, Calvi domandò aiuto a Eni e a Bnl, che finanziarono circa 150 milioni di dollari. Nel 1980, a una seconda crisi, l’uomo pagò tangenti a Claudio Martelli e a Bettino Craxi affinché la Eni tornasse a erogare stanziamenti per il Banco Ambrosiano. Nel 1981 esplose il caso della P2; Calvi, ormai in rotta anche con Sindona, rimase senza protezione e, nell’estremo tentativo di appianare il debito del Banco Ambrosiano, strinse rapporti con Flavio Carboni, finanziere legato a personalità del calibro di Gelli, Pippo Calò e i membri della banda della Magliana. Amicizie pericolose, che giocarono un grosso peso nel suo destino. Nel 1982, il banchiere venne ritrovato impiccato a Londra, appeso sotto il ponte dei Frati Neri, apparentemente suicida. Secondo la vedova, il vero capo della P2 era Andreotti, il quale avrebbe fatto uccidere l’uomo. Effettivamente, prima di partire per Londra, Calvi incontrò il politico, ma al riguardo non si sa altro. Nel frattempo, in Italia, fu aperta un’inchiesta, basata sulle testimonianze di diversi collaboratori di giustizia. Tra queste, quella di Francesco Marino Mannoia, il quale sostenne che Calvi e Gelli avevano investito denaro sporco nello Ior e nell’Ambrosiano per conto del boss mafioso. Al riguardo dichiarò: “Calvi fu strangolato da Francesco Di Carlo su ordine di Pippo Calò. Calvi si era impadronito di una grossa somma di danaro che apparteneva a Licio Gelli e a Pippo Calò. Prima di fare fuori Calvi, Calò e Gelli erano riusciti a recuperare decine di miliardi e, quel che più conta, Calò si era tolto una preoccupazione perché Calvi si era dimostrato inaffidabile.” Una versione contestata da Francesco Di Carlo, il quale negò di essere l’assassino, pur ammettendo che gli fosse stato domandato. Ma, sottolineò il pentito, “la questione venne risolta con i napoletani”. Antonino Giuffrè, un altro pentito, sposò questa tesi, spiegando come i camorristi legati ai Corleonesi - di cui Calò curava gli interessi - si fossero affidati a Calvi per i propri investimenti, e che dunque, una volta perso tutto, volessero vendicarsi. E ancora, il collaboratore Pasquale Galasso raccontò di come l’esecutore materiale dell’omicidio fosse Vincenzo Casillo, che doveva un favore a Pippo Calò, mentre Antonio Mancini, membro della banda Magliana, specificò che, oltre al boss mafioso, l’altro mandante dell’assassinio era Flavio Carboni. Non di poca rilevanza, inoltre, è il fatto che Roberto Calvi, su richiesta del Vaticano, finanziò “paesi e associazioni politico-religiose” in America Latina “allo scopo di contrastare la penetrazione e l’espandersi di ideologie filomarxiste”. Cioè, collaborava parallelamente all’operazione Sunrise voluta dalla Cia. Un altro membro della potente loggia fu Eugenio Cefis. Fu lui, dal suo ruolo di presidente dell’Eni, ad aiutare Roberto Calvi quando l’Ambrosiano riversava in gravi condizioni economiche. Imprenditore potentissimo, fu al centro di un libro inchiesta di Pier Paolo Pasolini. In questo volume, il regista, poco prima della misteriosa morte, ipotizzò che Cefis avesse avuto un ruolo nello stragismo legato alle trame internazionali. Inoltre, Pasolini lo indicò come principale sospettato nell’ambito della morte del suo predecessore e fondatore dell’Eni, Enrico Mattei. Sulla morte di Mattei ritorna ancora la Cia, così come Cosa Nostra. L’onorevole Oronzo Reale affermò come il mandante dell’assassinio fosse Cefis, dopo che Mattei scoprì che era manovrato dagli agenti segreti americani. Ma, al tempo stesso, un’altra ipotesi è stata mossa negli anni, ossia quella che vede nel fondatore dell’Eni un nemico per le “sette sorelle”, le compagnie petrolifere più ricche del mondo che domandarono dunque a Cosa Nostra di eliminare il rivale. Una tesi sostenuta da pentiti di mafia come Gaetano Iannì e Tommaso Buscetta, nonché da un agente del KGB di stanza in Italia negli anni ’60, Leonid Kolossov. Anche un eventuale intervento della Cia pare non poter essere preso sotto gamba: l’agenzia, proprio nei giorni in cui si verificò l’attentato contro Mattei, era impegnata in una fase cruciale della Guerra Fredda e, di conseguenza, aveva buone ragioni per sperare nella morte dell’imprenditore, che con la Russia aveva allestito una linea commerciale, rompendo di fatto l’embargo politico. Quel che è certo è che, il 27 ottobre 1962, il più potente manager di stato italiano venne ucciso dall’esplosione di una bomba sull’aeroplano privato su cui viaggiava. Venne aperta un’inchiesta, condotta dal pm Vincenzo Calia, il quale, durante le indagini, rintracciò anche un appunto del Sismi, nel quale veniva illustrato il ruolo di Cefis nella P2: ne era il fondatore. Precedentemente Pasolini, anche il giornalista Mauro De Mauro si interessò alla morte di Mattei, prima di sparire nel nulla. Ufficialmente è stato ucciso dalla mafia, come almeno altri due personaggi noti che si occuparono del caso: Boris Giuliano e Carlo Alberto Dalla Chiesa. Quest’ultimo, nel particolare, prima di essere ucciso da Cosa Nostra, si era occupato, tra gli altri casi, del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro, il quale aveva sollevato seri dubbi su ciò che Gladio compieva in Italia, tanto da citare l’organizzazione nei suoi memoriali. E non stupirà sapere che le carte relative al sequestro del politico, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo, sparirono inspiegabilmente dopo l’attentato che gli strappò la vita. Dopo Moro e Dalla Chiesa, un altro personaggio si interessò all’unità “stay behind” italiana: Giovanni Falcone. Il magistrato voleva approfondire l’incidenza di Gladio nei delitti politici di Palermo degli ultimi anni, tra cui quello di La Torre, di Reina e di Mattarella. Aveva inoltre supposto che dietro la morte del giornalista Mauro Rostagno potessero celarsi gli agenti segreti, visto e considerato che, durante le sue indagini, il cronista si era imbattuto in verità scottanti riguardo il contrabbando di droga e di armi con l’Africa. Verità talmente sconvolgenti da aver persino richiesto, prima di morire, un colloquio con Falcone, presumibilmente riguardante la base operativa Centro Scorpione, una propaggine di Gladio, a Trapani, creata nell’87. Per l’omicidio di Rostagno, avvenuto nell’88, fu sospettato come mandante il boss trapanese Vincenzo Virga, colui che, pochi anni dopo, fu incaricato dal boss Riina di procurare gli esplosivi per le stragi e da Marcello Dell’Utri di trattare il recupero di un credito di Publitalia con la Pallacanestro Trapani. Lo stesso mafioso è anche mandante della strage di Pizzolungo. E’ interessante notare come Rostagno avesse scoperto casualmente i traffici verso il Continente Nero, laddove, pochi anni dopo, nel marzo 1994, sarebbe stata uccisa in circostanze misteriose Ilaria Alpi. Inviata in Somalia a seguire in prima persona la guerra civile e per indagare sul traffico d’armi e di rifiuti tossici illegali, probabilmente scoprì che nella questione erano coinvolti anche i servizi segreti, come confermato successivamente da alcuni pentiti. Altresì, riveste i contorni di oscuro presagio il fatto che, nel novembre precedente, era stato ucciso, sempre in Somalia, l’informatore della stessa Alpi sul traffico illecito di scorie tossiche nel paese africano, il sottufficiale del SISMI Vincenzo Li Causi, capo del Centro Scorpione. Scrisse Alfio Caruso: “Che bel mistero quel Centro Scorpione, ufficialmente incaricato di contrastare dal basso Mediterraneo l’arrivo dell’Armata Rossa, viceversa invischiato in combinazioni poco chiare, talmente cieco – ma è possibile? – da non accorgersi che da Trapani per otto anni sono transitati tutti i carichi di missili, di esplosivo, di mine, di granate diretti verso l’Iran e l’Iraq, impegnatissimi a scannarsi vicendevolmente.” Falcone iniziò a sospettare qualcosa. Ritenne che esistessero strutture segretissime all’interno di Cosa nostra “con finalità ancora ignote ma certamente di enorme portata”. Trovò prove inoppugnabili di come la mafia fosse stata interpellata per salvare Aldo Moro, nonché collegamenti tra omicidi celebri e massoneria: su tutti Pierluigi Concutelli, assassino di Occorsio, tessera 4070 della Loggia Camea di Palermo. Ma, quando il giudice provò ad indagare sul Centro Scorpione di Trapani, gli venne impedito. Il procuratore Pietro Giammanco gli comunicò che avrebbe preferito condurre lui quell’inchiesta e il magistrato si trasferì a Roma, divenendo direttore degli affari penali, accettando il posto offerto da Martelli. Non per questo smise di interessarsi a Gladio e al Centro Scorpione. Fu la sua ultima indagine, sebbene non ufficiale. Conservò tutti gli appunti sul suo computer, forse arrivò veramente vicino alla verità. Così tanto che divenne impellente la necessità di eliminarlo. Il 23 maggio 1992, a Capaci, Falcone venne ammazzato e, con lui, la moglie e alcuni uomini della scorta. Nei cieli volava anche un piper sconosciuto, probabilmente dei Servizi. Poche ore dopo, qualcuno s’introdusse nell’ufficio del magistrato e manomise i dati su Gladio.

"La mafia braccio armato dell'altra massoneria". I rapporti inediti della stagione delle stragi: uomini di Cosa nostra infiltrati nelle logge siciliane, scrivono Francesco La Licata e Guido Ruotolo su “La Stampa”. Novembre del 2002. Documento della Dia, Divisione investigativa antimafia, alla Procura antimafia di Firenze che indaga sulle stragi del ‘93. «Cosa nostra, storicamente, per raggiungere determinati obiettivi essenziali - condizionamento dei processi e realizzazione di grossi arricchimenti - si è sempre mossa attivando da una parte referenti politico-istituzionali, dall’altra ponendo in essere azioni delittuose, alla bisogna, anche estreme. Altra determinante leva di pressione è stata sicuramente quell’alleanza con una parte della massoneria deviata, incarnata nelle logge occulte, riferibile, tra le altre, alla loggia del Gran Maestro della Serenissima degli Antichi Liberi Accettati Muratori-Obbedienza di Piazza del Gesù - Maestro Sovrano Generale del Rito Filosofico Italiano - Sovrano Onorario del Rito Scozzese Antico e Accettato, di origini palermitane, di stanza a Torino, il noto prof. Savona Luigi, particolarmente sentito nel decennio Ottanta, in seno a Cosa nostra, per il suo profondo legame con la cosca mazzarese, intrecciato attraverso il mafioso Bastone Giovanni, personaggio di primo piano nel panorama criminale torinese nel periodo succitato, che come si vedrà più avanti ha avuto un ruolo non certo insignificante nella vicenda relativa alla collocazione di un ordigno, non volutamente fatto brillare, nel giardino di Boboli a Firenze». Il rapporto della Dia si dilunga sui rapporti di Savona con i mafiosi della famiglia Lo Nigro, e più in generale della massoneria deviata con Cosa nostra: «Questo particolare aspetto relazionale deviante della massoneria, viene definito “mafioneria”; una sorta di ordinamento composto da mafiosi e massoni, che trova ambiti ben definiti in un’area oscura della politica, connotata da una perversa logica di potere». C’è un passaggio dell’informativa della Dia del 2002 che richiama alle polemiche di questi giorni sulla strategia stragista finalizzata a favorire la discesa in campo di nuovi soggetti politici: «L’avvio di una trattativa, nella logica pragmatica mafiosa, con le Istituzioni non poteva che prevedere l’apporto e l’intervento di soggetti asserviti a Cosa nostra... in questo quadro si inserisce il ruolo svolto dall’indagato Vincenzo Inzerillo, ex senatore Dc (poi la sua posizione è stata archiviata nell’ambito del fascicolo sui mandanti delle stragi di Firenze, Roma e Milano, ndr), collegato con la famiglia dominante del quartiere Brancaccio di Palermo, capeggiata all’epoca dai fratelli Graviano, cui l’Inzerillo era asservito». Inzerillo (condannato in Appello, l’11 gennaio del 2010, a 5 anni e 4 mesi per concorso in associazione mafiosa) in quell’autunno del ‘93 è impegnato nella nascita di un partito politico, Sicilia Libera. «La possibilità di poter disporre di una forza politica da inserire poi in un più ampio raggruppamento, che fosse espressione di un vero soggetto politico, avrebbe consentito a Cosa nostra, secondo il suo progetto, di poter realizzare direttamente e senza alcuna mediazione quegli affari abbisognevoli di appoggi di natura politica, ma anche di poter condizionare con subdoli interventi l’andamento dei processi avviati contro i propri sodali». Sempre la Dia, ma dieci anni prima (10 agosto 1993). Un documento corposo analizza scenari e moventi all’indomani delle stragi di luglio di Roma e Milano: «Lo scenario criminale delineato sullo sfondo di questi attentati ha messo in evidenza da un lato l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia, ma ha lasciato altresì intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le esigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa». Si sofferma sul punto il rapporto della Dia: «Si potrebbe pensare a una aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergano finalità diverse. Un gruppo che, in mancanza di una base costituita da autentici rivoluzionari si affida all’apporto operativo della criminalità organizzata. Gli esempi di organismi nati da commistioni tra mafia, eversione di destra, finanzieri d’assalto, funzionari dello Stato infedeli e pubblici amministratori corrotti non mancano». Infine un accenno alla massoneria: «Recenti indagini - si legge nel rapporto Dia del 10 agosto 1993 - hanno evidenziato la presenza di uomini di “cosa nostra” nelle logge palermitane e trapanesi, senza dimenticare il ruolo chiave svolto alla fine degli anni ‘70 da Michele Sindona nei contatti tra gli ispiratori di progetti golpisti ed elementi di spicco della mafia siciliana». Un salto di un anno. Siamo al 4 marzo del 1994. Questa volta si tratta di una informativa all’autorità giudiziaria da parte della Dia. Settanta pagine corpose. Un capitolo importante è dedicato al regime carcerario, al 41 bis: «Solo alcuni giorni prima degli attentati di Milano e Roma, il ministro di grazia e giustizia aveva disposto il rinnovo dei provvedimenti di sottoposizione al regime speciale per circa 284 detenuti appartenenti a organizzazioni mafiose. La logica che ha fatto considerare vincente l’attuazione di una campagna del terrore deve aver avuto alla base il convincimento che, dovendo scegliere se affrontare una situazione di caos generale o revocare i provvedimenti di rigore nei confronti dei mafiosi, le Autorità dello Stato avrebbero probabilmente optato per la seconda soluzione, facilmente giustificabile con motivazioni garantiste o, come avvenuto in passato, affidando all’oblio, agevolato dall’assenza di nuovi fatti delittuosi eclatanti, una normalizzazione di fatto».

Un'analisi organica dei rapporti fra massoneria deviata e cosche mafiose è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante, scrive Salvo Palazzolo. "Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi". Questo il punto di partenza dell'analisi proposta. "L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale ma corrisponde ad una scelta strategica - spiega la Commissione antimafia - Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. Ma le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per conclusione di grandi affari sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l'identità dei "fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato" (punto 57 della citata Relazione). Rapporti fra Cosa nostra e massoneria sono comunque emersi anche nell'ambito dei lavori di altre due Commissioni parlamentari d'inchiesta: quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2, che già avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Agli atti, le indagini della magistratura milanese e di quella palermitana, che avevano svelato i collegamenti di Sindona con esponenti mafiosi e con appartenenti alla massoneria. Il finanziere era stato aiutato da Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, capomafia della famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù e da Joseph Miceli Crimi: entrambi aderenti ad una comunione di Piazza del Gesù, "Camea" (Centro attività massoniche esoteriche accettate). Nel gennaio 1986 la magistratura palermitana dispone una perquisizione e un sequestro presso la sede palermitana del Centro sociologico italiano, in via Roma 391. Vengono sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figurano i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e Giacomo Vitale. Nel mese di gennaio dello stesso anno, la magistratura trapanese dispone il sequestro di molti documenti presso la sede del locale Centro studi Scontrino. Il centro, presieduto da Giovanni Grimaudo, era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram. L'esistenza di un'altra loggia segreta trova poi una prima conferma nell'agenda sequestrata a Grimaudo, dove era contenuto un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C". Tra questi, quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultano essere affiliati: Pietro Fundarò, che operava in stretti rapporti con il boss Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro. Nel processo, vari testimoni hanno concordato nel sostenere l'appartenenza alla massoneria di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo. Alle sei logge trapanesi e alla loggia "C" erano affiliati imprenditori, banchieri, commercialisti, amministratori pubblici, pubblici dipendenti, uomini politici (la Commissione antimafia, nella citata relazione, ricorda come l'onorevole democristiano Canino, nell'estate del '98 arrestato per collusioni con Cosa nostra, abbia ammesso l'appartenenza a quella loggia, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati). Già nel processo di Trapani e poi successivamente in quello celebrato nel '95 a Palermo contro Giuseppe Mandalari (accusato di essere il commercialista del capo della mafia, Totò Riina) sono emersi contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani. Mandalari, "Gran maestro dell'Ordine e Gran sovrano del rito scozzese antico e accettato" avrebbe concesso il riconoscimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo. Le indagini sui rapporti mafia-massoneria continuano. Seppur fra tante difficoltà. L'unica condanna al riguardo, ottenuta dai pm palermitani Maurizio De Lucia e Nino Napoli, riguarda proprio Pino Mandalari, il commercialista di Riina attivo gran maestro. Solo nel febbraio del 2002, è stata sancita in una sentenza la pesante influenza dei "fratelli" delle logge sui giudici popolari di un processo di mafia: la Corte d'assise stava seguendo il caso dell'avvocato palermitano Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno che doveva uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti. Non è stata facile la ricostruzione del pm Salvatore De Luca e del gip Mirella Agliastro, che poi ha emesso sette condanne: non c'erano mai minacce esplicite, solo garbati consigli a un "atteggiamento umanitario". Questo il volto delle intimidazioni tante volte denunciate. Il caso più inquietante di cui si sono occupate le indagini è quello di una misteriosa fratellanza, la Loggia dei Trecento, anche detta Loggia dei Normanni. Il pentito Angelo Siino ha fugato ogni dubbio: il divieto per gli aderenti a Cosa nostra di fare parte della massoneria restò sempre sulla carta. "Le regole erano un po' elastiche - spiega - come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali". Erano soprattutto i boss della vecchia mafia, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ad avere intuito l'utilità di aderire alle logge. Rosario Spatola seppe da Federico e Saro Caro che Bontade "stava cercando di modernizzare Cosa nostra. Vedeva più in là, vedeva la potenza della massoneria, e magari riteneva di potere usare Cosa nostra in subordine, come una sorta di manovalanza". Per questo aveva creato una sua loggia. Era appunto la Loggia dei Trecento. Anche Siino riferisce di "averne sentito parlare: si diceva che ne facevano parte parecchi personaggi quali i cugini Salvo, Totò Greco "il senatore" e uomini delle istituzioni. La loggia non era ufficiale e non aderiva a nessuna delle due confessioni, né a quella di Piazza del Gesù né a quella di Palazzo Giustiniani". Correvano a Palermo i ruggenti anni Settanta. Il pentito Spatola conferma il ruolo di Bontade come gran maestro della Loggia dei Trecento. E spiega: "Ne facevano parte soggetti appartenenti alle categorie più disparate, e per questo era molto potente. E troppa potenza si era creata anche attorno a Stefano Bontade, per questo andava eliminato lui ma anche la loggia". Il 23 aprile 1981, Bontade fu ucciso dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ha svelato Spatola che fu proprio Provenzano, attuale capo dell'organizzazione mafiosa, a prendere l'iniziativa di sciogliere la Loggia dei Trecento. Particolare davvero inedito e curioso. Quale autorità aveva mai don Bernardo per intervenire d'autorità su una fratellanza tanto riservata? Forse era massone anche lui? Forse, già allora, aveva ben presenti rapporti e complicità eccellenti che da lì a poco avrebbero fatto a gara per riposizionarsi e ingraziarsi i nuovi potenti?

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

Tommaso Buscetta. Nel 1984 parla per la prima volta del rapporto fra mafia e massoneria nel contesto del tentativo golpista di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970. Il collegamento tra Cosa nostra e gli ambienti che avevano progettato il colpo era stato stabilito attraverso il fratello massone di Carlo Morana, uomo d'onore. La contropartita offerta a Cosa nostra consisteva nella revisione di alcuni processi.

Leonardo Messina. Sostiene che il vertice di Cosa nostra sia affiliato alla massoneria: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Mariano Agate, Angelo Siino (oggi collaboratore di giustizia pure lui). Ritiene che spetti alla Commissione provinciale di Cosa nostra decidere l'ingresso in massoneria di un certo numero di rappresentanti per ciascuna famiglia.

Gaspare Mutolo. Conferma che alcuni uomini d'onore possono essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per "avere strade aperte ad un certo livello" e per ottenere informazioni preziose ma esclude che la massoneria possa essere informata delle vicende interne di Cosa nostra. Gli risulta che iscritti alla massoneria sono stati utilizzati per "aggiustare" processi attraverso contatti con giudici massoni.

Massoneria, poteri criminali, finanza e magistratura. Libro "La Massoneria smascherata" di Giacinto Butindaro. Fratelli nel Signore, ecco un altro mio libro confutatorio: si intitola ‘La massoneria smascherata: contro l’infiltrazione e l’influenza di questa diabolica istituzione nelle Chiese Evangeliche’. E’ un libro particolare, diverso per certi aspetti da tutti gli altri, e capirete il perchè leggendolo e studiandolo. La sua lettura e il suo studio vi richiederanno parecchio tempo e impegno, ma sappiate che questo è un libro molto importante che ognuno di voi deve leggere. Vi avverto da subito che questo è un libro che contiene informazioni e notizie che produrranno in voi sbigottimento, e tanta rabbia e tristezza. Ma nello stesso tempo sono sicuro che esso vi farà gioire ed esultare nel Signore e vi farà ringraziare Dio perchè smaschera una delle più potenti ed efficaci macchinazioni di Satana contro la Chiesa dell’Iddio vivente e vero, colonna e base della verità. Un’ultima cosa: molti di voi leggendo questo libro scopriranno di essere stati MASSONIZZATI, in quanto la Chiesa o la Denominazione o l’Associazione di cui fanno parte è sotto l’influenza o il controllo della Massoneria. A costoro dico: Ravvedetevi e separatevi immediatamente da coloro che vi hanno MASSONIZZATI. La grazia del nostro Signore Gesù Cristo sia con coloro che lo amano con purità incorrotta. Amen. Ho deciso di introdurre in questo mio libro anche una parte dedicata ai rapporti tra la Massoneria e i poteri criminali, perchè credo che sia importante conoscere a grandi linee le collusioni tra Massoneria e criminalità organizzata in Italia, per avere un quadro il più possibile chiaro sulla Massoneria. Citerò soprattutto delle informazioni presenti nel libro Fratelli d’Italia scritto dal giornalista Ferruccio Pinotti, che ritengo molto utile per capire questo aspetto della Massoneria, o meglio di una parte della Massoneria perchè non tutti i Massoni accettano o sono d’accordo con la presenza di criminali mafiosi nella Massoneria anche perchè l’ingresso di un criminale o di un mafioso nella Massoneria viola uno dei requisiti essenziali che deve avere il ‘profano’ per entrare nella Massoneria, cioè quello di essere di buoni costumi, che nel linguaggio massonico significa che il ‘profano’ per essere ammesso nella Massoneria ‘deve essere buon genitore, buon cittadino, rispettoso delle leggi, della morale comune e della libertà altrui; avere uno stile morale di vita, se non irreprensibile, almeno superiore alla media quanto a serietà, saggezza, discrezione e prudenza. Insomma non l’uomo perfetto, ma un uomo che mediamente, nel giudizio dei più, in una certa società ed in un determinato periodo, sia considerato persona onesta ed affidabile, corretto nelle relazioni umane, rispettoso delle leggi e degli altri. Dovrebbe essere questo l’individuo di “buoni costumi” del quale dobbiamo andare in cerca. Tratterò anche brevemente i legami della Massoneria con la finanza, perchè esistono e sono anche forti. Ed infine farò un accenno anche ai legami che esistono tra la Massoneria e certi ambienti della magistratura.

Cosa nostra. I rapporti tra massoneria e mafia risalgono già al periodo della seconda guerra mondiale, quando il ‘pastore’ protestante Frank Bruno Gigliotti, massone ed agente dell’OSS (poi CIA), preparò lo sbarco in Sicilia degli alleati attraverso i rapporti con la mafia e la massoneria. Quindi la massoneria siciliana ha avuto un ruolo fondamentale, insieme a elementi della mafia, nel preparare lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Ma questi rapporti sono proseguiti nel tempo e si sono rafforzati. L’ex Gran Maestro del GOI Giuliano Di Bernardo racconta che mentre era Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Armando Corona (1982-1990), siccome Corona fece riscrivere i regolamenti interni, le costituzioni del GOI, trasformando – come dice lui – la massoneria in una specie di società per azioni in cui la giunta è diventata un consiglio d’amministrazione, avvenne che la massoneria americana tolse il riconoscimento al GOI, e a questo punto rivela dei particolari a dir poco inquietanti: ‘La riforma della costituzione massonica voluta da Corona fece perdere al Grande Oriente il riconoscimento da parte della massoneria americana. I gran maestri regionali, soprattutto del Sud, che erano molto irritati, avevano rapporti molto stretti con la Gran Loggia di New York. Quindi anche con la mafia, infiltrata nella famosa loggia Garibaldi: un concentrato di esponenti dell’area grigia tra massoneria e malavita. Ricordo che una volta, quando andai in visita a quella loggia, pensai di avere intorno a me tutti i capi di Cosa nostra in America. Altre concrete prove sui rapporti tra Massoneria e Mafia provengono dal processo sull’omicidio di Roberto Calvi, infatti nella requisitoria del pubblico ministero Luca Tescaroli al processo "Omicidio di Roberto Calvi", si legge a proposito di Angelo Siino, ex «ministro dei lavori pubblici» di Cosa nostra ed ora collaboratore di giustizia: «Gran Maestro dell’Oriente di Palermo della loggia massonica Camea, con il grado di trentatré, Angelo Siino ha riferito di aver incontrato per caso Roberto Calvi a Santa Margherita Ligure all’interno della sede della loggia, una chiesa sconsacrata, adibita a tempio massonico, mentre stava parlando con l’allora Gran Maestro della loggia, Aldo Vitale, personaggio importante in quella zona, medico condotto. Siino si era recato a Santa Margherita con Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontate, massone parimenti appartenente alla loggia Camea». Siino descrisse quell’incontro in questa maniera: "Aldo Vitale, sempre espansivo, gentile ed accogliente nei suoi confronti, gli aveva detto di ‘aspettare un attimo’. Si era meravigliato ed aveva domandato al suo accompagnatore ‘ma chi è questo che è in compagnia di Vitale?". Questi gli aveva risposto che era Calvi, un banchiere di Milano un personaggio importante, anche perchè gestisce dei soldi nostri. Aveva usato il plurale maiestatis per fargli intendere che gestiva dei soldi di Cosa nostra. Nell’occasione, aveva detto che gestiva anche denaro di altri. Aveva usato l’espressione ‘e non solo’. Si era meravigliato del fatto che Aldo Vitale conoscesse Roberto Calvi. Era, però, un personaggio importante, anche amico di Licio Gelli, circostanza che aveva potuto constatare personalmente. Oltre al Siino, anche un altro ex mafioso ora collaboratore di giustizia che si chiama Gioacchino Pennino è un massone, infatti nella requisitoria si legge a suo proposito: «Uomo d’onore riservato, medico specialista, Gioacchino Pennino ha fatto parte di una loggia appartenente all’obbedienza di Palazzo Giustiniani e, prima ancora, sin dagli anni Sessanta, all’ordine di Rito Scozzese antico e accettato di cui era Gran Sovrano il principe Giovanni Alliata di Monreale, che aveva sede a Roma, in via del Gesù, e che si rifaceva alla loggia del Mondo di Washington. Negli anni Sessanta aveva ricevuto il titolo massonico di ‘dumitis’ dell’Ordine del gladio e dell’aquila, ed ha rivelato delle cose sulla massoneria che vale la pena trascrivere: "Il principe Gianfranco Alliata è appartenuto alla famiglia mafiosa di Brancaccio e, al contempo, ha rivestito il ruolo di Grande Sovrano della massoneria di piazza del Gesù, con il ruolo di sovrano dell’ordine di Rito scozzese antico ed accettato, che aveva come riferimento il duca di Kent, la Gran Loggia Unita di Inghilterra e, in America, la loggia del Mondo di Washington. E’ stato uno dei mandanti della strage di Portella delle Ginestre per conto del partito monarchico e della massoneria. Facevano parte di questa massoneria Michele Sindona e Antonino Schifando; ed era frequentata da alcuni associati a Cosa nostra, quali Angelo Cosentino, responsabile della famiglia di Santa Maria del Gesù a Roma, con il ruolo di capo decina; da Giuseppe Calò e Luigi Faldetta. Aveva appreso le circostanze sull’appartenenza e le frequentazioni massoniche di questi boss nel corso degli anni, da Stefano Bontate e dal cognato Giacomo Vitale, entrambi defunti e massoni. Non era in grado di precisare a quale massoneria apparteneva Bontate. Giacomo Vitale, dapprima, apparteneva alla massoneria di piazza del Gesù e, successivamente, aveva aderito alla Camea, loggia di origine ligure, con alcune logge in Sicilia e a Palermo soprattutto. Gianfranco Alliata aveva presentato Michele Sindona a Stefano Bontate". E proseguiamo, perchè di prove ce ne sono altre molto importanti. Infatti nell’aprile del 1986 la squadra mobile di Trapani fece irruzione nel Centro, situato in via Carreca, sequestrando gli elenchi di sette logge massoniche (circa 200 gli iscritti). Dopo un attento esame si scoprì che una delle sette logge era ‘coperta’ e i suoi quasi cento affiliati non erano presenti in alcun elenco o registro ufficiale. Dopo qualche settimana emersero i primi nomi degli affiliati segreti: funzionari del comune e della provincia, un burocrate della prefettura, imprenditori edili, commercianti, un famoso deputato della Democrazia Cristiana, e boss mafiosi. Il giornalista Attilio Bolzoni scrisse allora su La Repubblica: «Alcuni fratelli, ammette un investigatore, oltre ad essere in buoni rapporti con i boss, occupano posti importanti nella Pubblica amministrazione. Altri, forse, hanno anche in mano le chiavi della città … Un sospetto inquietante. Di quel Centro si occupò pure la Commissione parlamentare antimafia. Nel resoconto stenografico della seduta del 4 dicembre 1992, che era presieduta dall’onorevole Luciano Violante si legge: "Nell’aprile del 1986 la magistratura trapanese dispose il sequestro di molti documenti presso la locale sede del Centro studi Scontrino. Il centro studi, di cui era presidente Giovanni Grimaudo – con precedenti penali per truffa, usurpazione di titolo, falsità in scrittura privata e concussione – era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d’Alcamo, Cafiero ed Hiram. L’esistenza di un’altra loggia segreta, trovò una prima conferma nel rinvenimento, in un’agenda sequestrata al Grimaudo, di un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C"; tra questi quello di Natale L’Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d’Alcamo risultano essere stati affiliati: Fundarò Pietro, che operava in stretti rapporti con il boss mafioso Natale Rimi; Pioggia Giovanni, della famiglia mafiosa di Alcamo; Asaro Mariano, imputato nel procedimento relativo all’attentato al giudice Carlo Palermo". La relazione della Commissione antimafia dice ancora quanto segue: «Nel procedimento trapanese contro Grimaudo vari testimoni hanno concordato nel sostenere l’appartenenza alla massoneria di Mariano Agate; dagli appunti rinvenuti nelle agende sequestrate al Grimaudo risultano poi collegamenti con i boss mafiosi Calogero Minore e Gioacchino Calabrò, peraltro suffragati dai rapporti che alcuni iscritti alle logge intrattenevano con gli stessi. Alle sei logge trapanesi ed alla ‘loggia C’ erano affiliati amministratori pubblici, pubblici dipendenti (comune, provincia, regione, prefettura), uomini politici (l’onorevole Canino ha ammesso l’appartenenza a quelle logge, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati), commercialisti, imprenditori, impiegati di banca. Gli affiliati a questo sodalizio massonico interferivano sul funzionamento di uffici pubblici, si occupavano di appalti e di procacciamento di voti in occasione delle competizioni elettorali, tentavano di favorire posizioni giudiziarie e di corrompere appartenenti alle forze dell’ordine amici. Il Grimaudo risulta aver chiesto soldi agli onorevoli Canino (Dc) e Blunda (Pri) per sostenerne la campagna elettorale; la moglie di Natale L’Ala ha testimoniato che, su richiesta del Grimaudo, il marito si attivò per favorire l’elezione degli onorevoli Nicolò Nicolosi (Dc) e Aristide Gunnella (Pri)», e riferisce pure: «Particolare rilevanza assume, infine, nel contesto descritto, il rapporto di Grimaudo con Pino Mandalari. Mandalari fu arrestato nel 1974 per favoreggiamento nei confronti di Leoluca Bagarella e nel 1983, fu imputato con Rosario Riccobono. E’ legato a Totò Riina e socio fondatore nel 1974, con il mafioso Giuseppe Di Stefano, della società Stella d’Oriente di Mazara del Vallo, della quale fece parte dal 1975 Mariano Agate. Della società facevano parte parenti del boss camorristico Nuvoletta, membro di Cosa nostra. Mandalari è un esponente significativo della massoneria e riconobbe, nel 1978, le logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo». Il giornalista Antonio Nicaso definisce il Mandalari "il commercialista di Totò Riina" e "Gran Maestro dell’Ordine e Gran Sovrano del Rito scozzese antico e accettato, un uomo al centro di mille sospetti e di altrettanti misteri". Anche negli atti del processo Dell’Utri emergono collusioni tra la Massoneria e la Mafia, infatti nella lunga requisitoria pronunciata dai pubblici ministeri Antonio Ingroia e Nico Gozzo nel corso di diverse udienze viene detto dai pm: «Il tema della massoneria è centrale in questa parte della requisitoria che riguarda la fine degli anni ’70. E’ fondamentale per l’associazione mafiosa, e specie per Bontate, che voleva svezzare Cosa nostra ed introdurla ancora di più negli ambienti che contano. Tramite la massoneria viene acquisita una serie di contatti [...]. La massoneria – ed in particolare proprio Licio Gelli, fondatore della loggia massonica coperta Propaganda 2 – in quel periodo si trova al centro di una serie di interessi, che avevano come propri terminali associati mafiosi». Ed in effetti, come dice Ferruccio Pinotti, in Sicilia, tra il 1976 e il 1980, i mafiosi fanno a gara per entrare nella massoneria. Cosa nostra offre ai massoni l’efficacia della propria macchina militare, ma soprattutto una formidabile carta di pressione politica: il denaro. I massoni offrono ai boss i canali legali per riciclare e investire i soldi, i contatti politici giusti per concludere grandi affari e i magistrati adatti per l’«aggiustamento» dei processi. Le logge, negli anni Ottanta, fioriscono. Solo a Palermo, dopo la Camea, la Armando Diaz, la Normanni di Sicilia. Nella sola Sicilia all’epoca si contano più di centosettanta logge. Questa commistione tra Massoneria e Mafia è stata confermata dal collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, l’ex capo mafioso di Castelvetrano (Trapani). Ecco infatti cosa riporta la requisitoria del PM Tescaroli (nel processo sull’omicidio di Calvi) sulle sue dichiarazioni in merito ai rapporti tra mafia e massoneria: «Appare utile, per poter apprezzare l’attendibilità delle sue dichiarazioni dibattimentali, riportare quanto ha riferito Calcara sui temi d’interesse del presente processo. In data 2.12.1992, ha riferito: «Voglio adesso parlare di un argomento del quale avevo già iniziato a parlare con il Giudice Borsellino ma solo a voce. E con il quale avevamo rimandato la verbalizzazione di tali fatti. Esiste infatti un grosso collegamento tra la Loggia Massonica di Castelvetrano, Campobello e Trapani e l’organizzazione mafiosa che milita in quella zona. Infatti il Vaccarino è un massone, e anche l’avv. Pantaleo di Campobello. Voglio essere molto preciso nel parlare di queste cose perchè chiaramente sono cose molto delicate. So per certo che molti uomini d’onore delle famiglie di cui ho parlato sono appartenenti alle Logge Massoniche. Una volta il Vaccarino parlando di tale argomento, mi disse che la Massoneria era una cosa grande, più grande di noi. E mi disse che il suo piacere era che io facessi parte di tale organizzazione. Fu lo stesso Vaccarino a dirmi che lo Schiavone è massone e nell’ambito delle famiglie si diceva che anche il giudice Carnevale era massone. Ricordo, che una volta mi recai a Roma e lì andai a trovare lo Schiavone il quale mi accompagnò a Montecitorio perchè io dovevo consegnare per conto di Pantaleo una grande busta sigillata, da consegnare a mano all’on.le Miceli dell’Msi. A Montecitorio la Segreteria dell’on.le Miceli mi disse che l’onorevole non era in sede. Io allora uscii da Montecitorio (fuori mi aspettava lo Schiavone) e chiamai per telefono il Pantaleo che mi aveva consegnato la busta. Questi mi disse di consegnarla allo Schiavone. Di tali fatti chiesi spiegazione al Vaccarino che mi disse: ‘Cose di Massoni’ e in quell’occasione aggiunse che parlavano di una cosa più grande di noi. Sono argomenti estremamente difficili e delicati perchè di difficile riscontro. Bisogna anche considerare che i probabili anzi più che probabili elenchi dopo tutti questi fatti siano stati occultati. Ricordo che il giorno prima che Borsellino morisse, conversammo, per telefono; Borsellino in quella occasione mi disse che dovevamo vederci presto per parlare di quelle ‘cose importanti’ e chiaramente intendeva riferirsi a quei discorsi sulla Massoneria che insieme avevamo fatto. Voglio aggiungere sull’argomento che ho anche sentito dire che l’on.le Culicchia era massone e comunque ribadisco che moltissimi uomini d’onore delle famiglie di cui ho parlato fanno parte della Loggia Massonica e ciò perchè per la realizzazione di determinati traffici tale condizione li aiutava, e anche per quello che è la vita sociale in genere. Voglio però precisare che non intendo affermare che, per quanto a mia conoscenza, il semplice fatto di essere massone significhi essere legato all’organizzazione mafiosa. Certo è comunque, come ho già detto, che i mafiosi che fanno parte della Loggia Massonica evidentemente ne ricevevano i loro vantaggi». Come ha scritto giustamente un giornalista su La Repubblica: «Le affiliazioni massoniche offrono all’organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere per ottenere favori e privilegi in ogni campo, sia per la conclusione di grandi affari sia per l’aggiustamento di processi, come hanno rilevato numerosi collaboratori della giustizia». E io aggiungo, non solo all’organizzazione mafiosa, ma anche a quei pastori evangelici corrotti che si affiliano alla massoneria – non importa se a logge ufficiali o coperte – per ricevere aiuti dai criminali, che poi loro puntualmente presenteranno alle loro Chiese come aiuti provenienti da Dio! E di cosa bisogna meravigliarsi sapendo quanta corruzione e malvagità esiste nelle denominazioni evangeliche e che ci sono pastori in esse che si alleerebbero pure con il diavolo in persona per perseguire i loro interessi personali? Questi sono tra quei pastori amici di malfattori, che cercano il loro proprio interesse e non ciò che è di Cristo, e di cui il profeta Isaia dice: “I guardiani d’Israele son tutti ciechi, senza intelligenza; son tutti de’ cani muti, incapaci d’abbaiare; sognano, stanno sdraiati, amano sonnecchiare. Son cani ingordi, che non sanno cosa sia l’esser satolli; son dei pastori che non capiscono nulla; son tutti vòlti alla loro propria via, ognuno mira al proprio interesse, dal primo all’ultimo. ‘Venite’, dicono, ‘io andrò a cercare del vino, e c’inebrieremo di bevande forti! E il giorno di domani sarà come questo, anzi sarà più grandioso ancora!’” (Isaia 56:10-12). Guai a loro! La commistione tra Massoneria e mafia in Sicilia è tale che dopo le stragi di Capaci e di Via d’Amelio, avvenute nel 1992, in cui furono uccisi dalla mafia i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, il professor Orazio Catarsini, uno dei massimi esponenti del mondo accademico, presidente del collegio dei Maestri Venerabili, sottopone ai confratelli delle logge un documento di condanna delle stragi, ma il documento non passa. L’ex Gran Maestro del GOI Giuliano Di Bernardo, a tale proposito, ‘ha raccontato al Procuratore di Palmi che, in una riunione del Collegio dei Gran Maestri delle logge siciliane, il 26 luglio 1992, il suo presidente, il professor Catarsini «aveva ritenuto opportuno far approvare un documento che attestasse la presa di posizione della massoneria rispetto alla mafia, anche alla luce dei gravi fatti accaduti con l’uccisione di Falcone e Borsellino. Subito dopo la riunione, Catarsini mi telefonò alle Canarie» ricorda Di Bernardo «dove mi trovavo in vacanza, comunicandomi, turbato, la mancata approvazione del documento, che lo aveva disorientato e non sapeva come interpretare». Le conclusioni della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante: "Il complesso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia appare essere concordante su tre punti: - intorno agli anni 1977-1979 la massoneria chiese alla commissione di Cosa nostra di consentire l'affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose; non tutti i membri della commissione accolsero positivamente l'offerta; malgrado ciò alcuni di loro ed altri uomini d'onore di spicco decisero per motivi di convenienza di optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra; - nell'ambito di alcuni episodi che hanno segnato la strategia della tensione nel nostro paese, vale a dire i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, esponenti della massoneria chiesero la collaborazione della mafia; - all'interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l'adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli uomini d'onore".

‘Ndrangheta. C’è commistione anche tra la Massoneria e la ‘ndrangheta calabrese, una delle più potenti organizzazioni criminali in Italia, anzi la più potente secondo l’ex procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna che l’ha definita «la mafia più potente, l’agente monopolistico nel traffico degli stupefacenti. Ha collegamenti internazionali in Germania e in Francia e con logge massoniche coperte che non appartengono alla massoneria ufficiale: centri di interessi, di incontri, di agevolazioni». Nel 2007 Giancarlo Bregantini, il vescovo cattolico romano di Locri, in un convegno ha dichiarato che «la mafia è diventata ancora più insidiosa perchè ora è meno evidente e stringe sempre più i rapporti con la massoneria». Sui rapporti tra Massoneria e ‘ndrangheta il giornalista Mario Guarino – esperto in rapporti tra massoneria e criminalità – ha scritto: «Mentre i manovali del crimine eseguono dunque il lavoro sporco eliminando gli avversari, e mentre i capicosca trattano per accaparrarsi appalti e per concludere affari su enormi quantitativi di droga, ci sono Maestri della massoneria che, al riparo dei loro ‘centri studi’ o dei propri uffici commerciali o notarili, tessono la tela con pezzi del potere politico, finanziario o giudiziario. Essi rappresentano il ‘volto istituzionale’ delle ‘ndrine. E’ un passaggio obbligato, perchè attraverso la massoneria la ‘ndrangheta da organizzazione avulsa dalla società civile assume un’altra sembianza per diventare mafia imprenditrice». Anche il giornalista Antonio Nicaso – che risiede a Toronto perchè molti anni fa lasciò la Calabria e andò in Canada dietro suggerimento del magistrato Giovanni Falcone che praticamente gli disse: ‘Vattene, altrimenti ti uccideranno …’ – afferma sostanzialmente la stessa cosa: «La ‘ndrangheta ha modificato il suo assetto organizzativo per favorire l’ingresso dei suoi esponenti di vertice nelle logge coperte. Una sorta di enclave paramassonica in seno alla ‘ndrangheta è servita a favorire il dialogo diretto con esponenti delle istituzioni, della finanza, senza più delegare questo delicato compito ai politici. In Calabria, il processo di integrazione con gli ambienti eversivi e paramassonici avvenne nel 1979 quando, durante la latitanza a Reggio Calabria del terrorista nero Franco Freda, venne costituita la cosiddetta ‘Superloggia’, un organismo segretissimo con diramazioni a Messina e Catania, collegato alla Loggia dei Trecento, l’organizzazione massonica di Stefano Bontate. Alla Superloggia, oltre ai più importanti capibastone della ‘ndrangheta, avrebbero aderito esponenti della destra eversiva, ‘fratelli’ già affiliati alla P2 e ad altre logge coperte, uomini politici, rappresentanti delle forze dell’ordine e del mondo imprenditoriale, magistrati». Il magistrato Nicola Gratteri, che lavora presso la Procura della Repubblica di Reggio Calabria e che è un profondo conoscitore dei rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria, ha affermato che «massoneria, ‘ndrangheta, camorra e mafia si giovano del ‘trasversalismo’ che ormai impera anche nei rapporti tra politica e crimine organizzato, un trasversalismo che coinvolge sinistra, destra e centro senza distinzioni, da Forza Italia ai Ds», e traccia delle analogie tra la ‘ndrangheta e la massoneria che secondo lui favoriscono una sorta di riconoscimento reciproco. Tra queste analogie c’è quella del giuramento, dice infatti il magistrato: «Anche nella ‘ndrangheta, come nella massoneria, agli affiliati è richiesto un giuramento di fedeltà, che prevede di recitare una formula, che tradotta in italiano suona: ‘Giuro su quest’arma e di fronte a questi nuovi fratelli di Santa di rinnegare la società di sgarro e qualsiasi altra organizzazione, associazione e gruppo e di fare parte della Santa Corona e di dividere con questi nuovi fratelli di Santa la vita e la morte nel nome dei cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso. E se io dovessi tradire dovrei trovare nello stesso momento dell’infamia la morte». Comunque, per Gratteri la doppia appartenenza sia alla ‘ndrangheta che alla massoneria è possibile, in quanto «la doppia appartenenza è particolarmente utile quando si tratta di operazioni di un certo livello, di sedersi al tavolo della pubblica amministrazione per decidere gli appalti». Nel 1992 il procuratore di Palmi Agostino Cordova avviò una inchiesta sui rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria, e chiese al Grande Oriente d’Italia gli elenchi dei massoni calabresi. Allora era Giuliano Di Bernardo a capo del GOI. Il Di Bernardo mostrò un atteggiamento collaborativo, nonostante le pressioni interne, perchè si convinse che il lavoro di Cordova era fondato basandosi su elementi concreti. A tale riguardo, ecco dei particolari interessanti raccontati dal Pinotti sempre nel suo libro Fratelli d’Italia in cui intervista il Di Bernardo: "Di Bernardo, in quel momento, si sente in dovere di opporre resistenza all’inchiesta, ma qualcosa lentamente lo convince che il lavoro di Cordova non è infondato, che l’inchiesta del magistrato si basa su elementi concreti. E’ il passaggio più difficile del suo racconto. «Un giorno mi sono recato a incontrare Cordova in un luogo segreto. Ricordo ancora vividamente quell’incontro. Il Magistrato mi guardò fisso e mi apostrofò con queste parole: ‘Professore, lei lo sa di essere un fiore su una palude? Lo sa di rappresentare delle realtà con le quali lei non ha nulla a che fare?’ Cordova disse proprio così». Come valutò il professore quelle parole? «Inizialmente reagii male: ‘Come si permette di dire cose del genere? Le può dire solo se è in grado di dimostrarle’». Ma poi qualcosa mutò il suo atteggiamento. Di Bernardo spiega che Cordova gli produsse vasta evidenza empirica dei fatti, che le indagini sulle connessioni tra mafia, ‘ndrangheta e massoneria si basavano su denunce che provenivano addirittura dagli stessi massoni, cioè da liberi muratori onesti preoccupati del dilagare dei comitati d’affari e delle collusioni pericolose con ambienti malavitosi. Di fronte a queste rivelazioni, avvenute nell’incontro «segreto», Di Bernardo restò senza parole, ammutolito da una realtà molto più complessa di quella che poteva immaginare. Gli addebiti dell’inchiesta Cordova non erano fantasie, ma provenivano addirittura dall’interno del Grande Oriente. Non si trattava delle persecuzioni di un magistrato; ma di «fratelli» onesti, che erano stanchi di essere affiancati a disinvolti affaristi. Di Bernardo deve affrontare un grosso dilemma morale: collaborare con la magistratura, dando così ai «fratelli» l’impressione di averli traditi, o assumere un atteggiamento di cieca difesa, tradendo così la propria coscienza? Il Gran Maestro, in cuor suo, sente che non può ignorare quanto il magistrato gli sta dicendo; che il suo interlocutore ha delle ragioni serie per indagare. Sceglie così di collaborare con la giustizia, difendendo allo stesso tempo le ragioni della parte pulita della massoneria. Ma è una linea troppo sottile per essere compresa. Attorno a Di Bernardo si scatena un violento scontro, che non può essere percepito dall’esterno ma che scuote dalle fondamenta l’istituzione massonica". Questa sua collaborazione con Cordova fece dunque infuriare il GOI, che gli si rivolta contro e lo lascia solo per indurlo a dimettersi, e difatti il 20 marzo 1993 durante una assemblea il Di Bernardo quando prende la parola lancia accuse. Accuse contro gli istigatori dell’ormai evidente progetto. Contro coloro che ne erano diventati portavoce. Contro tutti quelli che si erano riuniti la sera precedente. Contro il governo dell’Ordine. Contro i Gran Maestri Onorari. Di Bernardo precisa e rilancia nuove accuse. Dichiara di essere stato lasciato solo. Isolato. Di non avere avuto alcun appoggio per le richieste di epurazione di alcuni fratelli. Di essere stato ostacolato nel suo progetto di trasparenza. Le accuse sono forti e cadono precise. Nella sala il silenzio è assoluto. Nel libro Oltre la cupola si legge a proposito di quegli eventi: "E dentro al Goi si scatena la bagarre. Il Gran Maestro Di Bernardo propone l’operazione trasparenza, ma nessuno lo segue su questo terreno. Anzi, gli fanno poco alla volta le scarpe. Al Vascello, la grande casa del Goi tra villa Pamphili e il Gianicolo, si apre una lotta senza esclusione di colpi. Armando Corona si mette alla testa dei rivoltosi, non perdona a Di Bernardo di essere stato morbido con Cordova. La battaglia si svolge per qualche settimana alla pari, ma il timore di sbragare di fronte ai giudici sposta definitivamente l’ago della bilancia a favore dei ribelli". Ma quel violento scontro scoppiato all’interno della Massoneria contro il Di Bernardo è fatto anche di gravissime minacce che ricevono sia il Di Bernardo che la sua famiglia, minacce che lo porteranno a decidere di dimettersi e di uscire dal Grande Oriente d’Italia. Egli infatti il 14 Aprile 1993 convoca una riunione dei membri di Giunta del Grande Oriente, in cui afferma: «Volevo comunicarvi le mie decisioni. Ho ricevuto minacce gravissime e con me tutta la mia famiglia. Ho visto mia madre piangere per l’inquietudine che avevano suscitato in lei quelle minacce. Ne hanno ricevute mia moglie e i miei figli. La mia famiglia è spaventata e vive in constante angoscia. Ho quindi deciso di dimettermi». Ma che fine ha fatto poi quell’inchiesta di Cordova? Innanzi tutto proseguì tra tanti ostacoli. Lo stesso Agostino Cordova – come si legge nel libro Oltre la cupola – il 9 luglio 1993 davanti alla Commissione antimafia denunciò che alla sua inchiesta stanno mettendo i bastoni fra le ruote. «Il fatto più allarmante è che sembra esservi una generale riluttanza ad eseguire le indagini. Abbiamo scritto pressoché a tutti gli organi di polizia giudiziaria – Digos, comandi provinciali dei carabinieri, guardia di finanza, eccetera – illustrandone l’oggetto. E’ raro però che vengano eseguite. Numerosi organi di polizia rispondono dicendo di non conoscere, nel loro territorio, l’esistenza di logge massoniche, talvolta anche in centri dove tali logge pullulano. Normalmente le indagini consistono nella spedizione di elenchi anagrafici di coloro che risultano iscritti alle varie logge. Quasi sempre gli elenchi li mandiamo noi, ma ad essi non segue nessuno sviluppo degli elementi acquisiti e ci si limita a mandare le generalità, notizie sull’attività svolta, qualche volta la denuncia dei redditi dell’ultimo anno e se quelle persone abbiano avuto “pregiudizi penali”, con ciò intendendo giudiziari. Ma questa è una attività che potremmo benissimo svolgere noi collegandoci all’anagrafe comunale e tributaria, o al terminale del ministero degli Interni. Questa degli organi di polizia è una strana indisponibilità, strana. La stranezza è subito spiegata. Negli elenchi in possesso di Cordova innumerevoli sono gli ufficiali (esercito, CC, Finanza e Ps) appartenenti alle logge. Moltissimi anche i generali. Ma essa proseguì anche tra tanti attacchi contro il magistrato, infatti sempre in Oltre la cupola si legge: ‘Nel frattempo il senatore Cossiga, sempre lui, viene a conoscenza del rapporto riservato che Cordova aveva inviato al Csm e reagisce in maniera furibonda. «Fascista. Paleostalinista. Modestissima persona. Ma chi ti ha fatto entrare in magistratura? Meno male che non lo feci nominare Superprocuratore antimafia», è solo qualche assaggio della vulgata cossighiana. Il senatore è infuriato per i riferimenti ai suoi rapporti con Armando Corona contenuti nella relazione. «Nel 1987», si legge nel rapporto «Corona, tramite l’onorevole Sergio Berlinguer (segretario generale del Quirinale), raccomandò a Cossiga il maresciallo De Lisa perchè fosse trasferito al Sismi.» L’ex capo dello Stato è «intervenuto molte volte in difesa della Massoneria, e Corona fu invitato all’insediamento di Cossiga e si recò da lui centinaia di volte». Nel caso di inviti improvvisi «Corona veniva prelevato all’aeroporto dagli autisti del Quirinale». Se ce ne fosse ancora bisogno, ecco un’ulteriore prova di interferenza della massoneria nei pubblici poteri: il capo dei massoni che raccomanda al capo dello Stato uno 007. Ma a Cossiga non pare così: «Cordova è andato a raccogliere spazzatura negli angiporti di qualche confidente delle forze di polizia» dirà ai giornalisti. La polemica non finisce lì, il senatore è fermamente intenzionato a dare una spallata decisiva all’inchiesta. Telefona al presidente Scalfaro e gli segnala una presunta illegalità del dossier Cordova, a cui fa seguire una interpellanza urgente al presidente del Consiglio e ai ministri di Grazia e Giustizia e dell’Interno dove adombra il sospetto di essere stato spiato da Cordova in maniera abusiva. Cossiga si sente perseguitato, tanto da sostenere di nutrire dubbi sulla sua incolumità e di avere bisogno di una scorta. Chiede persino che la Procura di Roma apra una indagine su chi lo avrebbe intercettato, visto che la raccomandazione di Corona gli arrivò per telefono. Questo dimostra di quanto sia difficile persino ad un magistrato indagare su questo fronte così delicato. Poi Agostino Cordova nell’ottobre 1993 fu trasferito a Napoli. Dice il giornalista Guarino: «Sperando che la smetta di occuparsi di questioni tanto destabilizzanti per la politica e la massomafia, i Palazzi del potere già da tempo avevano deciso di isolare Cordova, attraverso giornali ed emittenti amiche. La sua candidatura a Procuratore antimafia nazionale era stata bocciata, ma poichè il magistrato aveva le carte in regola, ecco il trasferimento-promozione alla Procura di Napoli, il 6 ottobre 1993. Un modo come un altro per far sì che non si impicciasse più di massomafia-politica. Prima di trasferirsi a Napoli, Cordova ha avuto la soddisfazione di assistere a una manifestazione popolare in suo favore». Poi le indagini vennero trasferite – per «incompetenza tecnica» della Procura di Palmi a occuparsi della materia – alla Procura di Roma nel giugno del 1994. Il procedimento rimase pressoché fermo per quasi sei anni, e poi nel dicembre 2000, il giudice per le indagini preliminari dispose l’archiviazione dell’inchiesta, nonostante nel corso degli anni fossero stati raccolti ottocento faldoni e ci fossero sessantun indagati.

Finanza. La Massoneria ha forti legami con l’alta finanza, l’economia e gli affari (legami che ovviamente determinano anche scelte e indirizzi politici sia a livello nazionale che internazionale); e questo perchè da sempre la libera muratoria rappresenta le élites, il mondo dell’establishment. Prima di parlare di questi legami però è bene tenere presente che la massoneria ha avuto un ruolo fondamentale nell’unità d’Italia, in quanto dietro Garibaldi e Cavour c’era la Massoneria inglese, che infatti finanziò la spedizione dei Mille condotta da Giuseppe Garibaldi, lui stesso massone (anzi ‘Primo massone d’Italia’). Ed inoltre bisogna considerare che i primi passi dell’Italia unita furono guidati da un Parlamento costituito in gran parte da massoni ed è cosa risaputa che i Massoni si aiutano tra di loro per cui i politici massoni spesso e volentieri aiutano e favoriscono i finanzieri e imprenditori massoni e viceversa. D’altronde è stato provato che persino nella magistratura i giudici massoni non sono imparziali, in quanto favoriscono i loro fratelli massoni nei processi. Tra i numerosi parlamentari che erano massoni ricordiamo i seguenti. Bonaventura Mazzarella (1818-1882). Il 27 gennaio 1861, quando si tennero le consultazioni elettorali per scegliere il primo Parlamento del Regno d’Italia, fu eletto nel collegio di Gallipoli. Nel gennaio 1863 riprese la sua attività di magistrato dopo essere stato richiamato dal ministro di Giustizia a svolgere le funzioni di consigliere presso la corte d’appello di Genova. La nomina a magistrato lo costrinse a dimettersi da deputato fino alle elezioni del 22 ottobre 1865, quando entrò alla Camera, dove sarebbe rimasto anche per le successive legislature schierato nelle fila dell’estrema Sinistra. Carlo Pellion di Persano (1806-1883). Deputato nelle legislature VII e VIII per il collegio della Spezia, divenne Ministro della Marina nel primo governo Rattazzi e fu nominato senatore l’8 ottobre 1865. Agostino Depretis (1813-1887). Fu presidente del Consiglio dei ministri italiano ben nove volte tra il 1876 e il 1887. Michele Coppino (1822-1901). Nel 1860 venne eletto nell’ultima legislatura del Regno di Sardegna, e rieletto nel 1861 nella prima legislatura del Regno d’Italia. Da allora fece parte del Parlamento quasi ininterrottamente per quarant’anni, e fu più volte Presidente della Camera dei deputati. Ministro della pubblica istruzione nel primo e nel secondo governo Depretis (1876-1878), nel 1877 varò la riforma (Legge Coppino) che rese obbligatoria e gratuita la frequenza della scuola elementare. Fu nuovamente ministro dell’istruzione nei governi Depretis e Crispi tra il 1884 e il 1888. Francesco Crispi (1818-1901). Fu presidente del consiglio dei ministri del Regno d’Italia dal luglio 1887 al febbraio 1891 e dal dicembre 1893 al marzo 1896. Giuseppe Zanardelli (1826-1903). Fu per alcune volte presidente della Camera; ministro dei Lavori Pubblici nel primo governo Depretis del 1876 e ministro della Giustizia nel governo Depretis del 1881. Fu inoltre Presidente del Consiglio dei ministri dal 1901 al 1903. Tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, la massoneria ebbe un ruolo importante nel decollo economico e finanziario del Nord Italia, infatti la Banca Commerciale Italiana (Comit) – che è stata una delle prime e più importanti banche italiane – fu fondata nel 1894 dal massone Otto Joel (insieme a Federico Weil) il quale ne fu direttore centrale tra il 1894 e il 1908, e successivamente ne fu amministratore delegato. Sarà proprio Otto Joel a chiamare in Italia il potente banchiere massone Giuseppe Toepliz nel 1891, il quale avrà grande parte nello sviluppo del Nord industriale italiano negli anni a venire. Terminata la prima guerra mondiale, la Comit contribuì alla riconversione postbellica dell’apparato produttivo. Nel corso degli anni venti, la banca – guidata da Giuseppe Toeplitz – fu sempre più coinvolta nel finanziamento dei grandi gruppi industriali, diventandone in molti casi azionista di maggioranza. Nello stesso periodo la Comit proseguì la sua espansione all’estero, soprattutto nell’Europa Centrale, Orientale e balcanica, fino alla Turchia e all’Egitto. La grande economia – spiega lo storico Aldo Mola – era in mano allora a uomini della finanza di appartenenza massonica: ‘Giuseppe Volpi, Otto Joel, Giuseppe Toepliz, vale a dire l’alta banca privata, Bonaldo Stringher, direttore generale della Banca d’Italia e membro autorevole della ‘Dante Alighieri’, e numerosi altri esponenti di prima fila del mondo finanziario, largamente rappresentato tra le colonne dei Templi massonici oltre che presso Borse, Camere di commercio, consigli d’amministrazione di società finanziarie, commerciali, industriali, erano andati ultimamente imprimendo fiduciosa e dinamica baldanza alla politica estera italiana» (Aldo Mola, Storia della Massoneria Italiana, pag. 393-394). Tra gli imprenditori massoni che in quel periodo contribuirono a far decollare l’economia dell’Italia Unita, segnaliamo il potente imprenditore Luigi Orlando che apparteneva alla Loggia segreta Propaganda, che era stata creata nel 1877 per accogliere importanti personaggi della vita politica, economica e finanziaria del paese. Luigi Orlando (1862-1933) comprò nel 1902 da un gruppo di francesi la Società Metallurgica Italiana (SMI) che era una società metallurgica con tre stabilimenti situati a Limestre, Livorno e Mammiano. Nel 1905 poi Orlando fondò la SELT – Società Ligure Toscana di Elettricità con il sostegno del gruppo industriale degli Odero di Genova e della Banca Commerciale Italiana. Nel primo dopoguerra la massoneria finanziò il movimento fascista aiutandolo ad andare al potere, e questo perchè ‘nel primo dopoguerra la massoneria, composta in prevalenza di elementi della piccola e media borghesia, sebbene si ispirasse a un patriottismo democratico di origine risorgimentale e coltivasse in larga misura propensioni progressiste, fu coinvolta dalla paura del bolscevismo e dall’ansia del ristabilimento dell’ordine. «Si spiega così come mai alcune logge vedessero con favore il movimento fascista fin dalle origini e molti massoni partecipassero a questo e poi al Pnf» …. «Questi massoni fascisti appartenevano in parte a logge dipendenti dal Grande Oriente di Palazzo Giustiniani, di cui era Gran Maestro Domizio Torrigiani, e in parte forse maggiore alle logge scissioniste di tendenza conservatrice, dipendenti dalla Gran Loggia di piazza del Gesù di cui era Gran Maestro Raoul Palermi, che a Mussolini, già incontrato alla vigilia della marcia su Roma, conferì in seguito la sciarpa e il brevetto di 33° grado». Il rapporto tra fascismo e massoneria, quindi, per alcuni anni fu tutt’altro che conflittuale. E’ così, a cominciare dal finanziamento offerto da alcune logge milanesi alle squadre fasciste che si apprestavano a marciare su Roma. L’andata al potere del fascismo, del resto, fu auspicata da Palazzo Giustiniani fin dal 19 ottobre del 1922, pur con l’avvertimento che i massoni sarebbero insorti a difesa della libertà, qualora venisse imposta all’Italia una dittatura o un’oligarchia. Tra i finanziatori del nascente fascismo vi furono gli industriali massoni Cesare Goldmann e Federico Cerasola e il ‘fratello’ Napoleone Tempini, poi perseguitati dallo stesso Mussolini. Il fascio di Milano fu fondato da Mussolini il 21 marzo del 1919 al numero 9 di piazza San Sepolcro, grazie a Cesare Goldmann, che mise a sua disposizione il salone dell’Alleanza industriale e commerciale di Milano. Fra gli intervenuti c’erano i ‘fratelli’ Eucardio Momigliano, Camillo Bianchi e Pietro Bottini; Michele Bianchi, affiliato a piazza del Gesù; Ambrogio Binda, medico personale di Mussolini e massone di piazza del Gesù; Federico Cerasola, presidente del Collegio dei venerabili delle logge milanesi obbedienti a Palazzo Giustiniani; Roberto Farinacci, iscritto alla massoneria di Palazzo Giustiniani nel 1915 e passato a quella di piazza del Gesù nel 1921; Decio Canzio Garibaldi, Mario Giampaoli e il citato Cesare Goldmann; Luigi Lanfranconi, massone di piazza del Gesù; Giovanni Marinelli; Umberto Pasella, affiliato a piazza del Gesù; Guido Podrecca, direttore de ‘L’Asino’; Luigi Razza, affiliato a piazza del Gesù: e Cesare Rossi’ (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 327-329). Ricordiamo peraltro che l’economista massone Alberto Beneduce (1877-1944), conoscitore e manovratore dei meccanismi finanziari, lavorò nell’ombra per lunghi anni con Benito Mussolini (che aveva grande stima di lui) e il suo ruolo fu essenziale nella ristrutturazione dell’economia italiana successiva alla crisi mondiale del 1929. Il Beneduce fu infatti tra gli artefici della creazione dell’IRI e suo primo presidente. L’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) è stato un ente pubblico italiano, istituito nel 1933 per iniziativa dell’allora capo del Governo Benito Mussolini al fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) e con esse il crollo dell’economia, già provata dalla crisi economica mondiale iniziata nel 1929. Nel secondo dopoguerra, alla ricostruzione dell’economia italiana ha dato un forte impulso oltre che la Comit anche Mediobanca, un istituto di credito italiano fondato nel 1946 per iniziativa di Raffaele Mattioli (allora Presidente della Banca Commerciale Italiana che ne fu promotrice insieme con il Credito Italiano) e di Enrico Cuccia (che ne fu il Direttore Generale dalla fondazione al 1982). ‘Mediobanca fu costituita per soddisfare le esigenze a media scadenza delle imprese produttrici e per stabilire un rapporto diretto tra il mercato del risparmio e il fabbisogno finanziario per il riassetto produttivo delle imprese, reduci dalle devastazioni della Seconda guerra mondiale’. Ebbene, il banchiere Enrico Cuccia (1907-2000), era un massone membro della loggia massonica segreta ‘Giustizia e Libertà’ (cfr. Aldo Mola, Storia della Massoneria Italiana, pag. 744), ed è stato uno degli uomini più potenti d’Italia (ed anche d’Europa) fino alla sua morte. Raffaele Mattioli, stando alla biografia ufficiale, non era massone, ma sul sito del Grande Oriente democratico si dice di lui che di Massoneria ed Esoterismo se ne intendeva assai. In merito al ruolo della Comit e di Mediobanca nella ricostruzione economica postbellica, è interessante quello che dice lo storico Silvano Danesi: «Il piano Marshall era uno strumento economico strettamente connesso con la Nato, ossia con la partecipazione a un’alleanza difensiva che legava tra loro le due sponde dell’Atlantico. Gli Americani, quando pensarono al nostro Paese, delegarono in buona sostanza il governo della nazione ai cattolici, che avevano il consenso della maggioranza della popolazione e una rete diffusa di presidi (le parrocchie) sul territorio; mentre la gestione dell’economia fu affidata alla finanza laica che, nella fattispecie, era incarnata da Comit e da Mattioli. Mattioli, la Comit, Mediobanca e Cuccia sono stati, dunque, gli interlocutori e i garanti di una ricostruzione che doveva avvenire all’interno di un patto, quello atlantico, che scaturiva dalla sconfitta del fascismo e del nazismo. [...] Mattioli fu il garante di quel patto sul versante finanziario, così come De Gasperi lo fu su quello politico. [...] La Comit e Mediobanca, indipendentemente dal fatto che Cuccia fosse massone, sono state, in primo luogo, la cabina di regia della ricostruzione dell’economia reale e del capitalismo italiani all’interno di uno schema atlantico». Veniamo ora alla FIAT che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo economico dell’Italia nel dopoguerra. Dice Ferruccio Pinotti che i padroni della Fiat hanno sempre avuto rapporti di simpatia e frequentazione con il mondo massonico [....]. Tutto l’ambiente in cui si muovono gli Agnelli, sin dalla fine dell’Ottocento, è di impronta massonica (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 351). Giovanni Agnelli senior (1866-1945), che fu tra i fondatori della casa automobilistica FIAT nel 1899 e ne fu amministratore delegato e presidente, aveva come stretto collaboratore di alto livello il professore Attilio Cabiati, che era un massone. Peraltro, nel 1908 la massoneria venne in aiuto a Giovanni Agnelli – che era imputato di illecita coalizione, aggiotaggio e falso in bilancio – infatti Vittorio Emanuele Orlando, che era l’allora ministro della Giustizia e che era un importante massone, esercitò un’ingerenza nei confronti della magistratura torinese e affermando che «un’azione penale nei confronti di Agnelli avrebbe avuto conseguenze negative sulla nascente industria nazionale, in particolare piemontese». E così con la benevola attenzione del ministro Vittorio Emanuele Orlando e attraverso ricorsi vari, Agnelli riuscì a rinviare il processo sino al 21 giugno 1911, e poi il 22 maggio 1912 il Tribunale assolse Agnelli, e a nulla servì il ricorso del pubblico ministero. Giovanni Agnelli nel 1921 chiamò alla Fiat come direttore centrale il massone Vittorio Valletta, che poi seguirà e affiancherà Giovanni Agnelli junior per alcuni decenni. Giovanni Agnelli assieme a Vittorio Valletta saranno tra i primi membri italiani del Bilderberg Group, che è un potente circolo finanziario paramassonico mondiale sorto ufficialmente nel 1954 ma le cui prime riunioni informali si tennero già nel 1951. Alla morte di Giovanni Agnelli senior, Valletta assumerà la presidenza della FIAT e ne rimarrà presidente fino al 1966 quando poi verrà nominato senatore a vita. Il suo posto lo prenderà Gianni Agnelli «l’avvocato» (1921-2003), che, secondo il giornalista Roberto Fabiani, conobbe la massoneria su incitamento dell’allora presidente della Fiat e massone Vittorio Valletta  e secondo Licio Gelli faceva parte di una loggia «coperta», la loggia di Montecarlo, il che non meraviglia affatto visto che l’appartenenza a logge coperte o segrete di importanti personaggi italiani dell’economia e della finanza è una cosa molto diffusa da molto tempo, in quanto ciò serve a proteggere questi importanti personaggi ‘da pressioni indebite da parte di altri «fratelli», parole queste di Giuliano Di Bernardo ex Gran Maestro del GOI, come anche non meraviglia che questa loggia a cui apparteneva Gianni Agnelli fosse all’estero, visto che l’affiliazione all’estero pare essere una prassi per i personaggi molto importanti della finanza, dell’economia e della politica. Peraltro Gianni Agnelli è stato uno dei fondatori della Commissione Trilaterale che collaborò con David Rockefeller. Non sorprende quindi affatto venire a sapere (lo ha dichiarato lo stesso Agnelli ai giudici, e la cosa è stata confermata dall’ex Gran Maestro del GOI Giuliano di Bernardo) che la FIAT ha finanziato abbondantemente il Grande Oriente d’Italia all’epoca quando era Gran Maestro Lino Salvini. Oltre a Gianni Agnelli, un altro noto imprenditore e finanziere massone che ha avuto un ruolo importante nell’economia e nella finanza in Italia è Carlo De Benedetti. Anche lui infatti – come Gianni Agnelli – risulta affiliato alla Massoneria, in quanto risulta essere entrato nella Massoneria a Torino, nella loggia Cavour del Grande Oriente d’Italia, «regolarizzato nel grado di Maestro il 18 marzo 1975 con brevetto n. 21272». L’anno prima, De Benedetti era diventato presidente dell’Unione Industriali di Torino. Nel 1978 entrò in Olivetti, di cui divenne presidente. In questa azienda pose le basi per un nuovo periodo di sviluppo, fondato sulla produzione di personal computer e sull’ampliamento ulteriore dei prodotti, che vide aggiungersi stampanti, telefax, fotocopiatrici e registratori di cassa. Però a causa di una grave crisi della Olivetti, nel 1996 decise di lasciare l’azienda, (di cui rimase presidente onorario fino al 1999) dopo aver fondato la Omnitel. Nel 1987, attraverso la CIR, De Benedetti entrò nell’editoria acquisendo una partecipazione rilevante nella Arnoldo Mondadori Editore e, attraverso di essa, nel gruppo Espresso-Repubblica. Nel 1997 l’Espresso incorporò Repubblica e assunse l’attuale denominazione di Gruppo Espresso. E veniamo all’imprenditore Silvio Berlusconi, l’ex presidente del Consiglio, che è uno degli uomini più ricchi e potenti in Italia, perchè anche lui è massone, in quanto risulta essersi iscritto alla Loggia P2 – anche questa una loggia coperta come quella di Montecarlo – di cui Licio Gelli era il Maestro Venerabile. Berlusconi fu iniziato alla Loggia massonica P2 (Tessera n° 1816, Fascicolo 0625) nel 1978. Per quale ragione Berlusconi è entrato nella Massoneria, ce lo dice Gioele Magaldi del Grande Oriente Democratico: «…. l’adesione di Berlusconi alla Massoneria non fu soltanto il desiderio di entrare a far parte di un network nazionale e internazionale molto potente: in lui c’era anche un desiderio filosofico autentico di percorrere un sentiero iniziatico di perfezionamento spirituale. Certo, la sua idea della Via massonica era e resta un’idea elitaria, gerarchica, oligarchica, in nome della quale dei Gruppi ristretti di Maestri (presunti) Illuminati hanno il diritto-dovere di manipolare le masse, asservendole ai loro disegni superiori». E sempre il Magaldi ci spiega come la Massoneria ha aiutato Berlusconi ad arrivare alla sua posizione dominante nel campo dei mezzi di comunicazione e ad entrare nel mondo della politica, infatti dice: Grazie alla protezione di Gelli e di altri potenti Fratelli Massoni piduisti, negli anni ’70 innanzitutto Berlusconi fu “sdoganato” dallo status di semplice imprenditore brianzolo a quello di player autorevole nel mondo dei media. I Fratelli Massoni consentirono al titolare della tessera P2 n.1816 di diventare un autorevole opinionista sul Corriere della Sera “piduista”, mentre iniziava l’acquisizione azionaria del Giornale di Indro Montanelli. Dopo di che, già dagli anni 1978-80, i dirigenti della P2 pianificarono che Berlusconi potesse essere il loro “cavallo di Troia” per la costituzione progressiva di un gruppo televisivo privato al servizio dei loro interessi, secondo quanto prevedeva il cosiddetto “Piano di rinascita democratica” stilato pochi anni prima. Non bisogna dimenticare, però, che a partire dalla primavera 1981, dopo il blitz di Castiglion Fibocchi del 17 marzo 1981 che dette origine al cosiddetto “scandalo P2”, il Fratello Berlusconi iniziò a “guardarsi intorno” in cerca di nuove protezioni. Che trovò immediatamente e in modo clamoroso proprio nel principale avversario di Licio Gelli nel G.O.I: l’ex Presidente della Corte Centrale (massonica) e Gran Maestro di Palazzo Giustiniani a partire dal 1982, Fratello Armando Corona. Proprio negli anni dal 1982 al 1990 Berlusconi verrà supportato in modo formidabile a incrementare e conservare lo status di semi-monopolista della televisione privata italiana, con importanti “sortite” industriali anche all’estero. E sarà supportato dalla Massoneria italiana e internazionale così come dal PSI craxiano a grande densità massonica. Ma dal 1982 al 1990 (anni della Gran Maestranza del G.O.I. di Armando Corona) i Fratelli che aiutarono Berlusconi a diventare dominus nel campo dei media non erano per la gran parte piduisti. Erano Massoni importanti, semmai, come il Gran Maestro Corona, che insieme al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga (dal 1985 al 1992), all’Onorevole Giuseppe Pisanu, a Flavio Carboni e ad altri, si riunivano spesso e volentieri per dei summit strategici con il Fratello Silvio Berlusconi . Sempre in merito a questo legame tra massoneria e finanza, ricordiamo che nel mese di Marzo del 2007 partì dalla Procura di Catanzaro, guidata dal sostituto procuratore Luigi De Magistris, un’inchiesta sui rapporti tra politica corrotta, massoneria, lobby d’affari e malavita organizzata. Il sistema affaristico indagato da De Magistris sarebbe stato tenuto, secondo l’ipotesi accusatoria, da una loggia massonica coperta con sede a San Marino: un comitato d’affari che avrebbe influito sulle scelte di amministrazioni pubbliche sia per l’utilizzo di finanziamenti europei che per l’assegnazione di appalti. Ed a conferma di questo stretto legame, nel libro Fratelli d’Italia di Ferruccio Pinotti c’è una testimonianza molto interessante fatta ad un banchiere di cui viene occultato il vero nome (come vengono occultati altri nomi per ragioni legali) e che viene chiamato Fabrizio Girelli, il quale racconta una storia reale – ambientata nel mondo bancario del profondo Nord – sostenuta da documenti depositati presso uno studio legale. Trascrivo una parte di questa testimonianza. «Sono stato assunto alla Banca Popolare nel 1994 dopo alcuni mesi di indecisione sulle mie future scelte professionali. Ero infatti in procinto di trasferirmi a Londra per Banque Paribas dopo aver sostenuto con successo il colloquio di selezione presso la sede inglese della banca d’affari. La decisione di scegliere l’istituto anziché Londra è stata presa per ragioni familiari; era infatti dal 1986 che la mia vita si svolgeva lontano da casa e vedevo la soluzione Banca Popolare come un’opportunità di avvicinamento. Non era facile per le mie caratteristiche professionali trovare un lavoro soddisfacente vicino a casa. Avevo lavorato esclusivamente in istituzioni finanziarie internazionali (Goldman Sachs, Merrill Lynch e ING) e la professionalità maturata in molti anni di lavoro con esperienze anche all’estero non rendevano facile una collocazione in una banca italiana. Dovetti accettare un ridimensionamento professionale ed economico significativo in cambio di una scelta di vita e mi sono rimesso in gioco. D’altronde pensavo che gestire la fase di ristrutturazione di un istituto di credito, anche se piccolo, avrebbe potuto creare delle opportunità e una nuova esperienza che poteva anche riuscire interessante.». Gli inizi furono un pò faticosi, per il giovane banchiere. «I primi mesi furono molto difficili perchè non riuscivo ad adeguarmi ai lenti ritmi di lavoro e la mentalità era un pò troppo arretrata. Dopo un mese circa di assoluta inattività iniziai a cercare di capire almeno i numeri della tesoreria per sapere come la banca gestiva il portafoglio titoli di proprietà e quali erano i risultati che si prospettavano per fine anno. Insomma, non si sapeva se si guadagnava o si perdeva e non c’erano strumenti di monitoraggio adeguati per valutare le posizioni d’investimento. Con mia enorme sorpresa, fu difficilissimo ottenere i dati relativi a un portafoglio titoli che era di quasi 600 miliardi nel 1994 e incontrai un certo ostruzionismo da parte di alcune persone che vedevano il mio interessamento come un’intrusione in affari altrui.» Quando chiese il perchè di questa strana difficoltà ad avere i dati, Fabrizio incontrò le prime allusioni alla massoneria e ad altri giri di potere occulto che alcune persone esercitavano nella banca, scoprendo che alcuni percorsi di carriera all’interno dell’azienda sembravano, per alcune persone, già tracciati e accettati dai più come cose fatte. «Ma non volli fermarmi a quelle voci e mi impegnai ancora di più nel lavoro. Con l’aiuto di un bravo impiegato del settore si iniziò la ricostruzione manuale di tutta la posizione in titoli che richiese più di un mese. Alla fine emerse con enorme stupore che la banca stava perdendo circa 150 miliardi ma nessuno lo sapeva, o almeno si cercava di non farlo sapere. 150 miliardi erano l’intero patrimonio di allora e quando me ne resi conto fui preso dal panico. Avevo deciso di venire a lavorare in un istituto dove avrei dovuto giocarmi tutto il mio passato e il mio futuro e ora mi accorgevo che la mia scelta era stata un gravissimo errore perchè la banca era virtualmente fallita. Tutto poteva finire in poche settimane nel peggiore dei modi. Potevo già immaginare una imminente aggregazione con un altro istituto dove avrei dovuto spiegare che io non c’entravo nulla e che avevo trovato una situazione disastrosa. La banca sarebbe fallita su errati investimenti in titoli e io ero il responsabile, seppure da pochi mesi, proprio di quel settore. Le voci su interferenze massoniche proseguivano, ma non sapevo che peso veramente attribuire a tali indiscrezioni e come valutarle. Cercai di tenere duro.» Fabrizio Girelli spiega: «In ogni caso non potevo tornare più indietro e mi diedi da fare per informare la direzione e cercare di uscire dalla tragica situazione. Il nuovo direttore generale Ramada dovette correre in Banca d’Italia per informare la vigilanza e dopo alcune titubanze gli fu concesso un anno per sistemare le cose. Con un pò di fortuna e una serie di operazioni azzeccate uscimmo da tale situazione; e nell’arco di un anno eravamo ancora in corsa per la possibilità di iniziare a esplorare nuove esperienze manageriali, nuove strategie e nuove iniziative. La banca era ripartita e i risultati erano veramente incoraggianti. Da parte mia ero riuscito a creare un gruppo di persone veramente affiatato e molto motivato. Quando ero arrivato mi avevano assegnato un ufficio di tre persone. Alla fine del 1999 avevo una intera direzione con oltre 60 persone e il 50 per cento dei ricavi dell’istituto provenivano direttamente e indirettamente dal settore finanziario. Tutto andava per il meglio fino a quando nell’estate del 1999 la direzione generale decise di acquistare una rete di promotori finanziari». Di nuovo il giovane banchiere non capisce, sente che c’è qualcosa di strano. «Quella decisione non venne motivata. E di nuovo iniziarono i rumors che parlavano di pressioni massoniche dell’ambiente romano per effettuare quella acquisizione. Purtroppo tale acquisto si rivelò una decisione sciagurata perchè la rete rilevata celava una serie di pesantissime minusvalenze sul portafoglio titoli e questa situazione era stata tenuta nascosta dai venditori alla direzione. Non essendo stata effettuata alcuna due diligence [verifica tecnica basata su parametri bancari specifici] sulla composizione delle attività finanziarie in essere sui clienti, nessuno si era accorto che la rete era ingestibile e che le perdite sui titoli della clientela avrebbero compromesso qualsiasi possibilità di ottenere reddito da tale acquisizione, anche perchè il portafoglio dei clienti avrebbe potuto rimanere immobilizzato per anni in attesa che i titoli obbligazionari strutturati, che erano stati collocati a suo tempo, tornassero al valore di emissione. Le minusvalenze complessive si quantificavano in circa 80 miliardi su un portafoglio di 500 miliardi circa. Una cifra enorme per una piccola banca del Nord come la nostra, dove tutti i ricavi di un anno (il margine lordo d’intermediazione), in quel periodo, assommavano a 200 miliardi di lire. Fui io a constatare il disastro in seguito ad alcune verifiche che avevo fatto fare da un collaboratore e informai con urgenza la direzione generale». Ma fu così che iniziarono i problemi di Fabrizio Girelli, che fu costretto a dimettersi nel 2002 perchè – con le sue prese di posizione contrarie alla filosofia aziendale – si era rifiutato di entrare nel giro dei grembiulini che dominava dentro e fuori la banca, e una volta uscito fu investito da una vasta ondata di diffamazione, infatti tra le altre cose la direzione cercò di far capire ai suoi ex colleghi che Girelli era stato licenziato perchè aveva provocato pesanti perdite alla banca. Girelli passò un periodo difficile pensando più volte al suicidio a causa del profondo stato di angoscia e depressione nel quale si trovava. Poi alla fine però, grazie all’intervento della magistratura con la quale il Girelli collaborò come persona informata dei fatti sul dissesto di Banca Popolare, magistratura che fece emergere connessioni criminali e giri pericolosi in cui era coinvolta l’ex banca di Girelli, venne fuori la verità, e lui ‘ha visto riconosciute le ragioni delle sue scelte coraggiose e contro corrente; in qualche modo ha «vinto» la sua lunga guerra. Ma il prezzo pagato è stato alto. Dal lungo racconto che fa il Girelli nell’intervista dunque emerge in maniera evidente che nel sistema bancario e finanziario italiano esistono forti pressioni massoniche. Stesso discorso ovviamente per quello internazionale. Esiste un forte rapporto tra finanza massonica e finanza Vaticana, che secondo l’ex direttore finanziario dell’Eni Florio Fiorini, ‘che conosce come pochi i rapporti tra finanza e poteri occulti, i canali sotterranei attraverso i quali si decidono le sorti del denaro (Ferruccio Pinotti, Fratelli d’Italia, pag. 370), si è venuto a creare con Giovanni XXIII (che fu eletto papa nel 1958), che risulta infatti essere stato affiliato alla massoneria. Dice Fiorini: ‘La finanza vaticana è stata più o meno stabile fin tanto che non è arrivato al soglio pontificio Giovanni XXIII. Prima di lui, ad avere in mano la finanza vaticana era la cosiddetta ‘nobiltà nera’, la quale era imparentata sia coi francesi – basti citare Paolina Bonaparte, che aveva sposato il principe Borghese – sia con gli inglesi, pensiamo al legame dell’ammiraglio Nelson con Napoli. Quindi la finanza vaticana, gestita dalla nobiltà romana, era infiltrata da elementi di contatto con la massoneria francese e inglese, che fungevano da ‘sponde’ internazionali in Europa. Tutto cambiò con Giovanni XXIII il quale, da buon figlio di contadini, non si sentiva legato a questo mondo della nobiltà romana ed europea. Era invece un uomo che aveva viaggiato e che come nunzio apostolico aveva conosciuto molte realtà. In particolare, fu il primo Papa a orientare la finanza vaticana verso gli Stati Uniti, e il tramite per operare quel cambiamento fu il potente cardinale di New York Francis Spellman, il «gran protettore» dei Cavalieri di Malta, il quale era vicino alla massoneria e attivo negli USA dal 1927, e che aveva intensi rapporti con l’ingegnere Bernardino Nogara, il noto amministratore delle finanze vaticane che lo Spellman definì ‘dopo Gesù Cristo la cosa più grande che è capitata alla Chiesa cattolica’, e questo perchè dopo che il Vaticano concluse i Patti Lateranensi con il Governo di Mussolini nel 1929, fu proprio Nogara ad amministrare i soldi che il Vaticano ricevette dallo Stato Italiano e a farli fruttare grandemente. Per cui si può dire che i mezzi finanziari che lo Stato italiano diede al Vaticano costituirono il fondamento su cui venne costruito quell’impero finanziario che il Vaticano costituisce oggi. Entriamo un pò nel merito per spiegare cosa avvenne. Il giorno stesso in cui l’accordo con Benito Mussolini fu ratificato Pio XI creò una nuova agenzia finanziaria, la Amministrazione Speciale della Santa Sede e ne nominò suo direttore e manager Bernardino Nogara. Costui accettò la proposta del papa perché il papa soddisfece le sue richieste tra cui c’erano queste: che tutti gli investimenti che egli scegliesse di fare fossero totalmente e completamente liberi da qualsiasi considerazioni religiose o dottrinali; che egli fosse libero di investire i fondi del Vaticano dovunque nel mondo. E così Nogara si mise in moto. Martin Malachi, Gesuita ex-professore al Pontificio Istituto Biblico di Roma, nel suo libro Rich Church, Poor Church (Chiesa Ricca, Chiesa Povera) edito nel 1984, dice: ‘Fedele ai suoi piani iniziali, i primi maggiori acquisti di Nogara in Italia furono attuati nel ramo del gas, dei tessili, nella costruzione pubblica e privata, nell’acciaio, nell’arredamento, negli alberghi, in prodotti minerari e metallurgici, prodotti dell’agricoltura, energia elettrica, armi, prodotti farmaceutici, cemento, carta, legname da costruzione, ceramica, pasta, ingegneria, ferrovie, navi passeggeri, telefoni, telecomunicazioni e banche. Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale il Vaticano acquisì il controllo di molte compagnie e banche sia in Italia che all’estero e in molte altre compagnie invece riuscì ad avere una partecipazione minore ma sostanziale. Verso gli anni ‘30 il Vaticano possedeva circa 3 milioni e 716.000 metri quadrati di beni immobili a Roma, e col tempo sarebbe diventato il maggior proprietario terriero in Italia dopo lo stesso governo italiano. Quando Mussolini ebbe bisogno di armamenti per l’invasione dell’Etiopia nel 1935 una sostanziosa parte di essi fu provveduta da una fabbrica di munizioni che Nogara aveva acquisito in nome del Vaticano. Il 27 giugno 1942 Pio XII, su proposta di Nogara, fondò una nuova società finanziaria nel Vaticano chiamata Istituto per le Opere Religiose (IOR). La proposta di Nogara era stata questa: ‘Stabilire una società ecclesiastica centrale per la Chiesa Universale, una società dotata dello status di una banca all’interno dello Stato sovrano della Città del Vaticano e che avesse il vantaggio di appartenere al papato e al Vaticano; una società che si specializzasse nell’investire e nel negoziare i fondi e le risorse degli enti ecclesiastici della Chiesa intera. Tramite lo IOR i vari organismi ecclesiastici erano in grado di investire il loro denaro in tutta segretezza ed esenti da tasse. Dopo la seconda guerra mondiale, sempre sotto Nogara, l’impero finanziario vaticano continuò a crescere. Quando Bernardino Nogara morì nel 1958 – lo stesso anno in cui salì al soglio pontificio Giovanni XXIII – lasciò un Vaticano enormemente ricco. Ma anche dopo la morte di Nogara le finanze continuarono a crescere, appunto tramite Giovanni XXIII (che fu papa dal 1958 al 1963) che orientò la finanza vaticana verso gli USA. Anche sotto Paolo VI (che fu papa dal 1963 al 1978), che era massone come il suo predecessore, il Vaticano continuò ad arricchirsi grandemente. Verso la metà degli anni sessanta, le agenzie finanziarie del Vaticano controllavano la metà delle agenzie di credito in Italia. Molte industrie avevano dietro denaro del Vaticano. L’Istituto Farmacologico Serono di Roma per esempio era di proprietà Vaticana. Nel 1968, secondo quanto dichiarò l’allora ministro delle Finanze Preti, la ‘S. Sede’ possedeva titoli azionari italiani per un valore di circa 100 miliardi, con un dividendo che oscillava dai tre ai quattro miliardi l’anno. Anche all’estero il Vaticano possedeva titoli azionari per molti miliardi. Esso aveva pacchetti azionari in diverse grandi compagnie internazionali tra cui la General Motors, la Shell, Gulf Oil, General Electric, Betlehem Steel, International Business Machines (IBM), e TWA. Nel 1971 Paolo VI nominò Paul Marcinkus (anche lui massone) presidente dello IOR, e sotto la sua direzione lo IOR risultò coinvolto in alcuni scandali finanziari a motivo di manovre finanziarie illegali da esso compiuto con l’aiuto del finanziere siciliano Michele Sindona (massone) – il mandato di cattura spiccato contro Sindona parlava "di prove documentali di operazioni irregolari effettuate da Sindona per conto del Vaticano" -, e di Roberto Calvi (anche lui massone), presidente del Banco Ambrosiano. Per tornare agli investimenti del Vaticano negli USA, essi hanno delle implicazioni massoniche perchè dopo il 1945 gli USA espressero la loro politica estera in Italia anche attraverso la massoneria, e il Vaticano sfruttò questi canali per i suoi investimenti negli USA. E così oggi la Chiesa Cattolica Romana americana è tra le cinque potenze immobiliari negli USA. Ovviamente il Vaticano è una potenza immobiliare anche in Italia. In un articolo dal titolo ‘San Mattone’ apparso su Il Mondo nel maggio 2007 e scritto da Sandro Orlando si legge per esempio: Un quarto di Roma, a spanne, è della Curia. Partendo dalla fine di via Nomentana, all’altezza dell’Aniene, dove le Orsoline possiedono un palazzo di sei piani da oltre 50 mila metri quadri di superficie, mentre le suore di Maria Ripatrarice si accontentano di un convento di tre piani; e scendendo a sud est per le centralissime via Sistina e via dei Condotti, fino al Pantheon e a piazza Navona, dove edifici barocchi e isolati di proprietà di confraternite e congregazioni si alternano a istituzioni come la Pontificia università della Santa Croce. E ancora, continuando giù per il lungotevere e l’isola Tiberina, che appartiene interamente all’ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio. E poi su di nuovo per il Gianicolo, costeggiando il Vaticano fino sull’Aurelia Antica dove si innalza l’imponente Villa Aurelia, un residence con 160 posti letto, con tanto di cappella privata e terrazza con vista su San Pietro, che fa capo alla casa generalizia del Sacro Cuore. È tutto di enti religiosi. Un tesoro immenso che si è accumulato nei decenni grazie a lasciti e donazioni: più di 8 mila l’anno scorso nella sola area di Roma città. Ma non c’è solo la Capitale. La Curia vanta possedimenti cospicui anche nelle roccaforti bianche del Triveneto e della Lombardia: a Verona, Padova,Trento. Oppure a Bergamo e Brescia, dove gli stessi nipoti di Paolo VI, i Montini, di mestiere fanno gli immobiliaristi. «Il 20-22% del patrimonio immobiliare nazionale è della Chiesa», stima Franco Alemani del gruppo Re, che da sempre assiste suore e frati nel business del mattone. Senza contare le proprietà all’estero. «A metà degli anni ‘90 i beni delle missioni si aggiravano intorno ai 800-900 miliardi di vecchie lire, oggi dovrebbero valere dieci volte di più», osserva l’immobiliarista Vittorio Casale, massone conclamato che all’epoca era stato chiamato dal cardinale Jozef Tomko a partecipare ad un progetto di ristrutturazione del patrimonio di Propaganda Fide, il ministero degli Esteri del Vaticano.

Magistratura. Alcune parole ora sui rapporti tra Massoneria e magistratura. Innanzi tutto va detto che affiliarsi alla Massoneria non è reato, in quanto la Massoneria non è tra le "associazioni segrete" proibite dalla Costituzione italiana con l’articolo 18 (Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare); tuttavia ‘il Consiglio Superiore della Magistratura ha affermato con chiarezza l’incompatibilità fra affiliazione massonica e l’esercizio delle funzioni di magistrato, perchè le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezioni a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell’immagine e del prestigio del magistrato e dell’intero ordine giudiziario»; e secondo la Cassazione, il giudice massone può essere ricusato dall’imputato, in quanto l’appartenenza a logge preclude «di per sè l’imparzialità» del magistrato (La Cassazione, 5a sezione penale n° 1563 / 98), in altre parole, perchè – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l’unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi ad interessi individuali nell’ emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia. Esistono allora magistrati che sono massoni? Sì. Per esempio ecco cosa si legge nell’articolo dal titolo "E sui magistrati massoni indagherà anche Conso" a firma di Franco Coppola e apparso su La Repubblica il 15 luglio 1993: Smentiscono, querelano, minacciano fuoco e fiamme. Ma i loro nomi sono lì, negli atti giudiziari raccolti dalle procure di Palmi e di Torino. Sono le toghe incappucciate, i magistrati sparsi per il territorio nazionale che hanno giurato fedeltà alla Costituzione e al credo massonico, qualcuno addirittura aderendo alle logge segrete, quelle espressamente vietate anche a chi non fa parte dell’ ordine giudiziario. Per ora sono usciti fuori 36 nomi, due o tre dei quali appartenenti a personaggi ormai in pensione che hanno appeso nell’armadio dei ricordi le toghe da magistrati ma forse non i grembiulini e i cappucci da massoni. E così ora di loro si occupano non più soltanto il Consiglio superiore della magistratura, che può trasferirli d’ufficio ad altra sede o ad altra funzione, ma anche il ministro della Giustizia Giovanni Conso e il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi che, come titolari dell’azione disciplinare, possono avviare un procedimento disciplinare, le cui conseguenze potranno essere, a seconda dei casi, blande o particolarmente severe.

MASSONERIA – I MAGISTRATI DALLA A ALLA ZETA, di Rita Pennarola (pubblicato il 7 gennaio 2010) su “La Voce delle Voci” e ripreso da tantissimi siti web. Può un magistrato venir meno al vincolo di fedeltà giurato, pena la morte, per entrare in massoneria? E quali prove possono addurre quei giudici o PM che affermano di esserne usciti? Qui sentiamo alcuni esperti e passiamo in rassegna le carriere di tante toghe che sicuramente quel patto di sangue lo avevano sottoscritto. Molti sono ancora in servizio. E rivestono ruoli apicali. Gli italiani lo hanno capito da tempo, a reggere davvero le sorti del Paese non sono né le banche né le istituzioni democratiche e nemmeno la magistratura: sono i massoni – regolari o, quasi sempre, appartenenti a logge coperte – che proprio in quei tre ambiti sono capillarmente infiltrati. A confermare questa consapevolezza arriva, da ultimo, il sondaggio lanciato sul sito della Voce, al quale hanno partecipato 466 lettori: un piccolo ma significativo campione, secondo il quale (56,8%) sono sempre loro, i confratelli, a detenere saldamente le leve del potere. E tutto attraverso quel vincolo di segretezza che, dopo l’iniziazione, si può cancellare solo con la morte. Lo dicono, chiaro e tondo, le parole stesse del giuramento: «prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra». Chiaro, no? Come la mettiamo, allora, con quei confratelli che rivestono ruoli apicali in settori nei quali è richiesta la loro facoltà decisionale? Basta insomma, per fare un esempio, che qualche magistrato se la cavi dicendo frasi del tipo «La massoneria? Io l’ho lasciata da tempo…», senza poterlo in alcun modo provare? E come si comporterà se l’imputato – o, più spesso, l’avvocato di quest’ultimo – è un grembiulino come lui? Cominciamo dal primo quesito. Giuseppe De Lutiis, uno fra i più autorevoli studiosi di eversione e di poteri occulti, consulente di numerose Procure della Repubblica, non ha dubbi: «dalla Massoneria si esce solo nel caso in cui si venga espulsi. Altrimenti si rimane “in sonno”, una condizione comunque revocabile in qualsiasi momento». Aggiunge un altro consulente, più volte fin dagli anni ‘80 al fianco dei PM in indagini sulle Logge segrete: «accade con una certa frequenza che un massone in sonno decida di rientrare tra i confratelli attivi, anche perché spesso la scelta dell’“assonnamento” è dovuta all’assunzione di cariche pubbliche. Il suo ritorno viene vissuto come una festa: non solo non occorre rifare tutti i complessi rituali dell’iniziazione, ma spesso riceve in dono il passaggio ad un grado superiore rispetto a quello che aveva lasciato. Questo indica che dalla massoneria non ci si può “dimettere”: loro lo vivono come un battesimo, che non prevede alcuna possibilità di “sbattezzarsi”». Tutto ciò riguarda le Logge regolari, con tanto di elenchi depositati, mentre sulle eventuali “norme” vigenti fra i massoni coperti non è possibile azzardare ipotesi. Di sicuro, il giuramento non viene meno né potrà essere mai svelata l’identità dei confratelli. Quali siano le “punizioni” per chi trasgredisce, si può a questo punto solo immaginarlo. È sulla base di questa premessa che siamo andati a cercare chi sono, dove sono ora e cosa fanno alcuni magistrati sulla cui originaria affiliazione massonica non ci sono dubbi. I 37 nomi che qui di seguito proponiamo, infatti, sono presi per buona parte dagli unici elenchi (comprensivi delle Logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ‘92 dall’allora procuratore capo di Palmi Agostino Cordova. Altri nomi li abbiamo invece ricavati dall’elenco ufficiale dei massoni pubblicato nel 2008 dalla Voce, che non include la consistente fascia di vip affiliati ad obbedienze cosiddette “non regolari”, ma assai più potenti e generalmente riconosciute da Logge estere. Sulla cima della piramide ci sarebbe in questo periodo, per fare un esempio, la “Gran Loggia Italiana Massonica”, i cui adepti, che si definiscono «un gruppo di Fratelli Massoni provenienti da varie Obbedienze, (G.O.I., Piazza del Gesù, Gran Loggia Regolare d’Italia, Gran Loggia Massonica Italiana, Logge di San Giovanni, Gran Loggia della Repubblica di San Marino)», adducono a fondamento della loro scelta la risibile motivazione di poter affiliare anche le esponenti del gentil sesso (facoltà ampiamente prevista da una delle due principali obbedienze regolari, vale a dire la Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi). Fondata ad Arezzo nel marzo 2002, la nuova compagine non poteva che essere benedetta da Licio Gelli in persona. Nessun problema, se non fosse per un piccolo particolare venuto a galla in un articolo della Nazione di fine 2006: la donazione fatta dal venerabile e dai suoi confratelli ai poveri del Sacro Cuore di Arezzo. Racconta al quotidiano il parroco, don Angelo Chiasserini: «Quello che valuto è la finalità dell’iniziativa, che è di beneficenza. È stato Tiberio Terzuoli, gran maestro della Serenissima Gran Loggia Nazionale, a contattarmi, spiegandomi successivamente che all’iniziativa avevano contribuito anche Gelli e Giuseppe Sabato, sovrano della Gran Loggia Massonica Italiana». Che di lì a poco si sarebbe invece ribattezzata Gran Loggia Italiana Massonica. Ma chi è Giuseppe Sabato il “sovrano”? Non sarà per caso lo stesso rampante manager di Banca Esperia, la holding finanziaria che fa capo a Silvio Berlusconi? Impossibile affermarlo con certezza, visto il segreto assoluto che vige nella neo-Loggia aretina. Di sicuro, però, oggi a dominar la scena sotto i cappucci sono i maghi dell’alta finanza. Come accade a Napoli, dove dominus incontrastato della Loggia Bovio è il commercialista Giovanni Esposito, assurto nell’olimpo supermassonico dell’Arco Reale, rito di York. «Il baricentro – dice ancora il nostro esperto – ai livelli medio-alti si sta spostando dalle Logge coperte a queste consorterie non riconosciute dalle obbedienze tradizionali, ma gemellate con compagini estere come la Loggia Montecarlo, che ha sede nel Principato di Monaco». Se questi sono ora gli assetti finanziari “globalizzati” dei confratelli, non meno interessante sarebbe definire quali e quanti magistrati vestono oggi il grembiule sotto la toga. Missione quasi impossibile, dal momento che a scoprire le carte dovrebbero essere i loro stessi colleghi, come in perfetto isolamento fece Cordova nel ‘92 e come, intorno al 2000, aveva provato a fare a Napoli un altro PM-coraggio, Luigi De Ficchy, attuale procuratore capo a Tivoli e all’epoca impegnato nell’inchiesta sulla Loggia deviata Spinello, naufragata nelle nebbie della Procura capitolina. Mentre i circa mille faldoni dell’inchiesta Cordova marciscono ancora nei sotterranei di piazzale Clodio, a Roma. Eppure, provando a scorrere le carriere delle toghe messe a nudo dal mastino di Palmi, più qualche nome venuto fuori in elenchi recenti, le sorprese non mancano. Ecco allora qui di seguito, in ordine alfabetico, alcuni esempi significativi fra i tanti magistrati che avevano giurato fedeltà alla massoneria.

ABBADESSA Lorenzo – Classe 1939, nato a Napoli (dove gli Abbadessa sono conosciuti come influente famiglia di medici), dal 2006 si è iscritto all’albo degli avvocati e risulta avere lo studio a Soverato, perla costiera della provincia di Catanzaro. Con la qualifica di “Magistrato” lo si ritrova invece negli elenchi dei massoni aggiornati a tutto dicembre 2007 e pubblicati dalla Voce nel 2008. Lorenzo Abbadessa è attualmente responsabile, proprio a Catanzaro, della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello, in via Falcone e Borsellino.

ALIBRANDI Tommaso – Nato a Roma l’8 agosto del 1933, è iscritto negli elenchi ufficiali della massoneria aggiornati a tutto il 2007 con la qualifica di “Magistrato al Consiglio di Stato”. Negli anni ‘90 era stato invece attivo presso la Corte dei Conti. Nel ‘93 il suo nome è fra gli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla telefonia dal PM della capitale Guglielmo Muntoni (giudice Maria Cordova) insieme – fra gli altri – a Carlo De Benedetti, al costruttore Mario Lodigiani e all’ex ministro Paolo Cirino Pomicino. In quegli anni Alibrandi era stato capo dell’ufficio legislativo del Ministero dei Beni Culturali, presidente del TAR della Val D’Aosta nonché ex “uomo ombra” dell’allora ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì. Di provata fede PRI è anche Alibrandi (già senatore del partito di Giorgio La Malfa), che nel 2003 ritroviamo in pista fra i promotori della resuscitata Voce Repubblicana. Dal 2008 esercita la professione di conciliatore bancario.

ARIOTI Alfredo – Un Alfredo Arioti nato a novembre del 1941 compare con la dicitura esplicita di “magistrato” negli elenchi ufficiali degli iscritti alla massoneria di Perugia a tutto dicembre 2007. Si tratta dello stesso Alfredo Arioti Branciforti presente nell’organico della magistratura italiana come “nato a Palermo il 26 novembre 1941”. Il che risulta fra l’altro dal suo curriculum pubblicato da E-Campus, formazione universitaria a distanza, nel quale viene specificato che «dopo essere stato uditore presso la Procura della Repubblica ed il Tribunale di Roma, veniva nominato pretore in Valle D’Aosta a Donnaz». Nel 1969 «si trasferiva a Perugia, dove svolgeva le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale». Dal 1981 Arioti è «sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Perugia. In tali funzioni esplicava numerose e delicatissime inchieste anche nei confronti di varie organizzazioni terroristiche quali Brigate Rosse, NAR, Prima Linea, Ordine Nuovo, talché subiva un attentato terroristico, perpetrato da una organizzazione eversiva, concretizzatosi in esplosioni di colpi di arma da fuoco nei confronti della sua abitazione».

Al CSM Arioti aveva dichiarato di essersi allontanato dalla Massoneria fin dal 1992, dopo che per ben due volte l’organo di autogoverno lo aveva dichiarato non idoneo a funzioni superiori proprio a causa di quella affiliazione, che gli aveva fra l’altro fatto meritare consistenti avanzamenti all’interno del sodalizio muratorio. Ne dava notizia, nel 2004, il bollettino di Magistratura Democratica, senza peraltro precisare quali prove avesse addotto il magistrato a riprova del suo allontanamento dalla massoneria, visto che il nome compare ancora negli elenchi 2007. Di Alfredo Arioti si sono comunque più recentemente occupate le cronache locali. È accaduto nel 2008, quando il coordinatore PdL Fabrizio Cicchitto (piduista) lo voleva come candidato a sindaco di Perugia; poi il diretto interessato preferì restare in magistratura – ci informa la Nazione il 19 novembre – e non se ne fece nulla.

ARMANI Giuseppe – Classe 1937, nato a Reggio Emilia, Armani è ancora presente in quanto “Magistrato” negli elenchi degli affiliati 2007, benché abbia da tempo lasciato la toga. Il suo nome venne alla luce già col sequestro Cordova nei primi anni ‘90 insieme a quelli di una ventina fra giudici, pretori e pubblici ministeri, tutti poi sottoposti al giudizio del CSM. Dedicatosi in seguito prevalentemente agli studi giuridici, Armani è autore di libri sulla Costituzione in uso negli istituti superiori. Nel 2006 ha pubblicato a Bologna un volume nel quale vagheggia l’idea di un’Italia laica e liberale.

CASOLI Giorgio – Compare negli elenchi 2007 pure Giorgio Casoli di Perugia, nato il 12 settembre del 1928. Anche il suo nome era rimbalzato alle cronache (e al Consiglio Superiore della Magistratura) dopo i sequestri del ‘92. Intrapresa la carriera come pretore ad Assisi e a Perugia, è a Milano come giudice di Corte d’Appello negli anni del terrorismo; passa poi in Cassazione dove diventa presidente di sezione. Di qui comincia anche la carriera politica: sindaco di Perugia dall’80 all’87, lo stesso anno entra a Palazzo Madama col PSI, dove siede nella giunta delle immunità parlamentari e nella commissione giustizia; sarà poi sottosegretario alle Poste nel governo presieduto da Giuliano Amato. Casoli torna alla ribalta nel 1996, quando conferma ai PM milanesi molte delle accuse lanciate dalla superteste Stefania Ariosto, cui è legato da antica amicizia. Soprannominato dagli amici “il Pertini dell’Umbria”, è considerato oggi in area PD, dopo l’avvicinamento di qualche anno fa al Partito Popolare.

D’AGOSTINO Luciano – La sua affiliazione esplode come una bomba nel ‘92, quando il napoletano D’Agostino, classe 1955, è PM a Locri. «Sono sconcertato – dichiara ai giornali – queste fughe di notizie sono inammissibili». Il vero problema era che il suo nome compariva negli elenchi di una Loggia coperta, la Luigi Ferrer del capoluogo partenopeo. Anche nel caso di D’Agostino assistiamo alle affermazioni – peraltro senza prove – su una presunta uscita dalla massoneria, proprio come si fa per dimettersi da un Cral: «prima di prendere servizio a Lamezia Terme avevo scritto alla loggia Luigi Ferrer di Napoli, regolare del Grande Oriente d’Italia, per segnalare che ritenevo l’esercizio di funzioni giurisdizionali non compatibile con l’appartenenza alla massoneria. Da allora non ho avuto alcun rapporto con i massoni». Basta la parola. Sapeva che era una Loggia coperta?, gli chiede il cronista del Corriere della Sera. E lui: «Un grande oratore del GOI ha detto che è una loggia coperta. Nel breve periodo in cui ne ho fatto parte, non lo era». Non riesce a convincere il CSM, che nel ‘95 gli infligge una sanzione disciplinare, dichiarando che l’appartenenza alla massoneria è lesiva dell’imparzialità dell’ordine giudiziario. Fino a inizio anni 2000 D’Agostino è sostituto procuratore a Catanzaro (dove si occupa, fra l’altro, della delicata questione del testimone di giustizia Pino Masciari), nel 2002 passa alle sezioni giudicanti dello stesso Tribunale. Dal 2007 è tornato a Locri, dove attualmente è giudice per l’udienza preliminare. Nel frattempo era stato alle prese come imputato in un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Salerno. L’accusa (condanna in primo grado per peculato e assoluzione in appello) riguardava l’affidamento ad una ditta dell’incarico di eseguire intercettazioni telefoniche, quando D’Agostino era in servizio alla DDA di Catanzaro.

DI BLASI Salvatore – Attualmente giudice al Tribunale civile di Milano, Di Blasi era fra le toghe iscritte alla massoneria dell’elenco Cordova. Nel 2001 aveva assunto anche il delicato incarico di presidente di sezione in seno alla Commissione Tributaria della Lombardia. In questo periodo il giudice Di Blasi si sta occupando invece della vicenda INNSE, la fabbrica milanese del legno a rischio chiusura.

FRANCIOSI Nicolò – Anche lui presente negli elenchi Cordova del lontano ‘92, oggi il giudice Franciosi, napoletano, classe 1942, è consigliere della Corte d’Appello a Milano. Nel 2003 fa parte della terna giudicante che respinge la richiesta avanzata dai legali di Cesare Previti di ricusazione dei giudici nel processo IMI-SIR. Turbolente le vicissitudini del giudice Franciosi dinanzi al CSM per quell’antica affiliazione: dopo la sanzione disciplinare fa ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Strasburgo condanna al risarcimento in favore di Franciosi non il CSM ma lo Stato italiano, reo di scarsa chiarezza sulle norme che regolano l’appartenenza alla massoneria nel caso di un magistrato. Il Consiglio Superiore, però, nel 2002 respinge la richiesta avanzata da Franciosi di revisione della sentenza di sanzione e, due anni dopo, dice no anche all’inserimento della sentenza europea nel suo fascicolo personale.

LA SERRA Renato – Ecco un magistrato-confratello di cui si sono praticamente perse le tracce. Le ultime notizie che lo riguardano risalgono al 1998 quando, nell’ambito dell’inchiesta a carico dell’ex procuratore generale di Roma Vittorio Mele e del ras della sanità pugliese Francesco Cavallari, vennero a galla i viaggi generosamente offerti dall’imprenditore agli amici in toga, compresa la leggendaria trasferta a Parigi cui prese parte anche l’allora pretore di Trani Renato La Serra. La sua affiliazione alle Logge, emersa negli elenchi Cordova del ‘92, gli era costata, due anni dopo, una sanzione disciplinare dinanzi al CSM.

MAESTRI Angelo Massimo – Classe 1944, originario della provincia milanese, è in servizio alla Corte d’Appello del Tribunale di Palermo. Un caso, il suo, analogo a quello di Nicolò Franciosi: dopo la scoperta dell’affiliazione attraverso il sequestro Cordova, riceve la sanzione disciplinare dal CSM, che sarà confermata anche in Cassazione. Nel 2004 la Corte di Strasburgo condanna lo Stato italiano a risarcire Maestri con 10.000 euro. I problemi, nella carriera di Maestri, però, sono stati anche altri: il suo trasferimento da La Spezia (dove era stato per lunghi anni pretore) a Palermo, era stato infatti disposto nel 2001 dal CSM, che lo accusava di aver ricevuto fidi bancari di consistente importo senza garanzie. Situazione che, sommata alle contestazioni per la affiliazione massonica, non solo determinò il trasferimento, ma anche la destinazione dell’ex pretore “ad un organo collegiale”.

MARSILI Mario – Carriera brillantissima per il genero del Venerabile Licio Gelli, del quale aveva sposato la figlia Maria Grazia. Venuto allo scoperto come massone in sonno nella P2 dopo il sequestro di Castiglion Fibocchi, il dottor Marsili si è gettato alle spalle l’onta di quello scandalo, ottenendo perfino una promozione dal CSM (nell’89), fino a balzare nel ruolo apicale che riveste oggi: sostituto procuratore generale al Tribunale di Roma. Una Procura del resto, quella di piazzale Clodio, che per anni aveva visto al vertice un altro piduista di fama, il massone Carmelo Spagnuolo.

Prima giudice istruttore ad Arezzo, poi alle sezioni giudicanti del Tribunale di Perugia, Marsili ebbe solo un piccolo incidente di percorso nell’84, quando fu sottoposto a procedimento penale dinanzi al Tribunale di Verona (per accuse relative alla sua carriera di piduista) e, per questo, gli fu sospeso lo stipendio. In seguito all’assoluzione, riprese la sua escalation nei ranghi della giustizia italiana. Tanto che furono affidate proprio a Marsili le indagini sull’eversione nera di stampo neofascista, comprese quelle a carico di Mario Tuti e l’inchiesta sulla strage dell’Italicus. Come sono andate a finire, lo sappiamo.

MEZZATESTA Michele – No, non era un’affiliazione massonica qualsiasi, quella del magistrato Michele Mezzatesta, nei primi anni ‘90 presidente del Tribunale fallimentare di Palermo. Perché alla stessa Loggia del capoluogo siciliano facevano capo anche fior di mafiosi (fra cui il “ragioniere” di Cosa Nostra Pino Mandalari e Salvatore Greco, fratello del “papa” Michele Greco), politici ed affaristi. “La pietra entra grezza ed esce levigata”, si leggeva all’ingresso di quel tempio, cui gli inquirenti erano arrivati seguendo le tracce di un narcotrafficante agrigentino.

La questione si è riaperta in qualche modo nei mesi scorsi, dopo che i pubblici ministeri di Caltanissetta hanno chiesto all’AISI, attuale sancta sanctorum dei servizi segreti italiani, di visionare gli archivi sulla strage di Capaci. In compenso Mezzatesta non figura più nei ranghi della magistratura italiana.

MONDELLO Fabio – Consigliere di Corte d’Appello a Roma, dopo il clamore seguito al ritrovamento del suo nome fra i massoni del sequestro Cordova, nel ‘96 Mondello finisce nuovamente nei guai a causa di un processo che lo vede imputato insieme all’allora presidente di Cassazione Filippo Verde per aver usufruito di viaggi offerti dalla Canon ad alti esponenti del Ministero di via Arenula, dove i due magistrati avevano prestato servizio nei primi anni ‘90. Il nome di Mondello rimbalzò contemporaneamente anche nell’ambito di un altro scottante procedimento, quello che vide coinvolto il gip della capitale Renato Squillante e l’avvocato Attilio Pacifico. In seguito alla condanna in primo grado riportata a Perugia per la vicenda Canon, Mondello ha lasciato la magistratura.

MONTI David – Un caso davvero spinoso, quello di David Monti, il cui nome è legato all’inchiesta, condotta quando era PM ad Aosta, denominata Phoney Money ed incentrata su traffici internazionali che coinvolgevano massoni, alti prelati e pezzi dello Stato. Correva l’anno 1996 e nessuno si ricordava più che il nome di David Monti era negli elenchi sequestrati da Agostino Cordova. Anche Monti, all’epoca, aveva fatto ricorso alla solita scusa: «la mia iscrizione alla massoneria? Una semplice curiosità giovanile». Sarebbe interessante sapere come ha fatto il magistrato (e con lui diversi altri colleghi) a cancellare il complesso rituale dell’affiliazione ma, soprattutto, a rinnegare il giuramento di sangue fatto dinanzi ai confratelli. Una bella letterina di dimissioni, come al circolo del golf? Di sicuro Monti ha proseguito senza impedimenti la sua carriera nell’ordinamento della magistratura italiana. Ed oggi è GIP a Firenze.

MONTI Mauro – Classe 1947, riveste attualmente l’alta carica di sostituto procuratore aggiunto al Tribunale di Bologna, la città dove è nato. Dopo la scoperta del suo nome negli elenchi sequestrati da Cordova, di Mauro Monti le cronache non si erano più occupate. Tornano a farlo ad agosto 2009 quando, su richiesta dello stesso Monti, il Tribunale accoglie le istanze avanzate in appello dai difensori di Saverio Masellis e Francesco Cardamone, esponenti del clan dei casalesi accusati per aver gestito bische clandestine nel riminese. Risultato: per i due la sentenza di condanna è stata annullata e gli atti tornano al GUP.

NANNARONE Paolo – I problemi cominciano fin dall’83, perché il nome di Nannarone è già lì, negli elenchi della Loggia Propaganda 2, insieme a quelli di altri magistrati. A differenza dei colleghi, Nannarone viene assolto dal CSM. E benché lo si ritrovi nuovamente negli elenchi Cordova del ‘92, il magistrato continua la sua carriera senza problemi; quello stesso anno presiede al Tribunale di Perugia (dove ha svolto la gran parte della sua attività) la Corte d’Appello che proscioglie il finanziere “a un passo da Dio” Pierfrancesco Pacini Battaglia, difeso dall’attuale parlamentare di AN Giulia Bongiorno. Nel ‘96 ritroviamo Nannarone a capo della Corte d’Assise chiamata a pronunciarsi sul delitto del giornalista Mino Pecorelli. Ritenuto incompatibile, sarà sostituito dal collega Giancarlo Orzella. Nel 2000, sempre a Perugia, pronuncia una storica sentenza: i clienti delle prostitute non sono punibili per favoreggiamento. Classe 1939, lasciata la magistratura Nannarone è oggi nell’organigramma di vertice della Banca Popolare di Cortona.

PINELLO Francesco – Classe 1932, presidente del Tribunale di sorveglianza di Palermo, nel 2005 fa parlare di sé per il regime di semilibertà concesso al pluriomicida del Circeo Angelo Izzo, tanto che l’allora guardasigilli Roberto Castelli decise di inviare gli ispettori in Sicilia. In precedenza il nome di Pinello era balzato alle cronache negli elenchi massonici del ‘92, che gli costarono un procedimento disciplinare del CSM a suo carico.

PONE Domenico – In quegli elenchi del ‘92 c’era anche Domenico Pone: una cosa da poco rispetto alla scoperta, avvenuta nel lontano 1983, della sua contemporanea affiliazione alla P2, proprio mentre prestava servizio alla suprema Corte di Cassazione. Segretario, all’epoca, di Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe, Pone rappresenta uno fra i pochissimi casi di magistrati rimossi dall’ordinamento giudiziario per appartenenza alla Loggia fondata da Licio Gelli.

RESTIVO Nicola – È giudice per le indagini preliminari a Perugia, Nicola Restivo. Una delle ultime operazioni che portano la sua firma risale a maggio 2009, quando convalida il sequestro di biomasse trasportate illecitamente nelle campagne umbre. Nel 2007 un altro blitz, questa volta a carico di operatori assenteisti nella locale azienda ospedaliera. Nel ‘92, quando era procuratore capo a Perugia, il suo nome rimbalzò fra quelli dei massoni nelle liste Cordova. Il che, come abbiamo visto, non ha intralciato la sua brillante carriera.

RINAUDO Antonio – Anche la iscrizione di Rinaudo alla massoneria viene a galla con gli elenchi del ‘92. Attualmente in servizio a Torino (la città in cui è nato nel 1948) come pubblico ministero, si è recentemente occupato dell’ex giocatore della Juve Michele Padovano, sotto accusa per un presunto traffico di droga col Marocco. Nel 2006 le intercettazioni a carico di Luciano Moggi disposte dalla Procura partenopea portano alla luce la frequentazione assidua fra l’ex plenipotenziario del calcio italiano ed il PM Rinaudo, fra cene con signore e scambi di regali natalizi. Ai magistrati napoletani che lo interrogano sulla sua possibile affiliazione alle Logge, Moggi risponderà: «Massone io? Mai»…

ROMAGNOLI Riccardo – È in servizio al Tribunale civile di Roma il dottor Romagnoli, che a gennaio dello scorso anno ha pronunciato una storica sentenza riguardante Poste Italiane. Nel 1996, a seguito del ritrovamento del suo nome negli elenchi massonici del ‘92, a Riccardo Romagnoli il CSM inflisse la perdita di due anni d’anzianità. Il che scatenò la vibrata protesta del Grande Oriente d’Italia.

ROMANO Guido – È presidente del TAR della Calabria, il magistrato Guido Romano. La sua affiliazione – il nome era presente negli elenchi del ‘92 – non ha dunque turbato una carriera piena di soddisfazioni professionali. La decisione dell’allora guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi.

SALEMI Guido – Consigliere di Stato, giudice al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche e componente della Commissione Tributaria Centrale. Queste le attuali qualifiche di Guido Salemi, che al Consiglio di Stato ha pronunciato nel corso degli anni numerose e rilevanti sentenze. La sua iscrizione in massoneria venne alla luce con gli elenchi del ‘92.

SCARAFONI Stefano – Fra quelle carte c’era anche il nome di Stefano Scarafoni. Romano, classe 1961, all’epoca giudice al Tribunale di Tolmezzo, Scarafoni doveva essersi iscritto giovanissimo alla massoneria. Oggi è in servizio come magistrato fra i più attivi alla sezione fallimentare del Tribunale di Tivoli.

SERGIO Ferdinando – Il suo nome – al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini – venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati, quando nel ‘77 erano stati eletti ai vertici della ANM.

SERIANNI Vincenzo – Originario di Motta Santa Lucia, in provincia di Catanzaro, fino al 2001 è stato presidente di Corte d’Appello a Milano. Presente negli elenchi del ‘92 (quando presiedeva una sezione giudicante al Tribunale di Torino), l’anziano magistrato calabrese, classe 1929, risiede da anni nella zona di Casale Monferrato, dove frequenta il locale Rotary e presiede la Giunta esecutiva alla Camera di Commercio.

SPINA Antonio – Ad aprile ‘95 il CSM gli commina la sanzione disciplinare per l’affiliazione alla massoneria, venuta alla luce con gli elenchi del ‘92, mentre Spina esercitava la funzione di pretore a Sciacca, in Sicilia. Attualmente non risulta presente nei ranghi della magistratura.

TONINI Paolo – Il nome di Tonini era compreso nella lista dei magistrati trovata nella villa sudamericana di Gelli (vedi Ferdinando Sergio). Da tempo Tonini è passato nei ranghi accademici come docente di diritto processuale penale, che insegna all’Università di Firenze. In tale veste organizza incontri patrocinati dal CSM per la formazione e il tirocinio delle nuove leve in magistratura.

TRAPANESE Mario – A lungo presidente di sezione al Tribunale di Ancona, dopo il ritrovamento del suo nome negli elenchi del ‘92 fu deferito – insieme ai colleghi-confratelli – alla sezione disciplinare del CSM dall’allora ministro Conso. Origini napoletane, l’anziano magistrato si dedica oggi, sempre ad Ancona, a sostenere le sorti di un’associazione benefica, la Lega del Filo d’Oro.

VELLA Angelo – Ha fatto epoca, nel 1990, la decisione di Palazzo dei Marescialli, che aveva bloccato la promozione di Vella a presidente di sezione del Tribunale felsineo per la sua dichiarata appartenenza alla massoneria. Un parere che scatenò le ire di Francesco Cossiga. Nel 1974 il giudice Vella si era occupato della strage dell’Italicus. In anni più recenti, almeno fino al 2001, è stato membro della Corte di Cassazione.

VITALI Massimo – Era sostituto procuratore a Brescia ai tempi della strage di Piazza della Loggia e proprio a lui, insieme ad altri due colleghi, furono affidate le indagini su una tragica vicenda della quale ancor oggi si cerca una verità. La affiliazione di Vitali alla Massoneria verrà alla luce solo con gli elenchi del ‘92. Cosa fa ora? Classe 1946, originario di Grosseto, Vitali è in servizio. Sempre a Brescia. Come consigliere di Corte d’Appello.

Una annotazione finale: diamo per scontato che tutti i magistrati qui elencati e le centinaia di colleghi iscritti alla massoneria svolgano il loro lavoro con diligenza e professionalità. Quello che il cittadino (vittima, imputato, parte offesa, imprenditore a rischio fallimento) ha il diritto di sapere è che restano legati fino alla morte a quel giuramento. Che la massoneria non è un gioco di società dal quale si esce a piacimento. E che violare quel patto ha significato, per molti, perdere la vita.

Correzione dalla Voce delle Voci dell’articolo su magistrati e massoneria. Dalla Voce delle Voci in edicola.

C’e’ un caso di omonimia nella nostra inchiesta di gennaio 2010 sui “Magistrati Massoni”. A seguito della lettera che qui di seguito pubblichiamo integralmente, precisiamo che il dottor Guido Romano, attualmente consigliere di Stato e gia’ presidente di sezione al Tar della Calabria, NON E’ l’omonimo magistrato ordinario Guido Romano il cui nome fu ritrovato, insieme a quelli di altri magistrati, fra le carte sequestrate nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Il dottor Guido Romano consigliere di Stato, residente a Roma, non ha mai fatto parte della massoneria ne’, come ipotizzavamo nell’articolo, e’ mai passato dai ranghi della magistratura ordinaria a quelli della magistratura amministrativa, dal momento che ha prestato servizio sempre e solo nella magistratura amministrativa. Ce ne scusiamo col diretto interessato, pregando i colleghi dei siti internet che avessero ripreso il nostro articolo di apportare al più presto – come già abbiamo fatto noi – la correzione e la rettifica.

Oggetto: richiesta di smentita ai sensi e per gli effetti della legge n. 47 del 8 febbraio 1948, nel testo vigente;

Lo scrivente Guido Romano, nato ad Aversa (Caserta) l’11 luglio 1945 e residente a Roma, via Nepi n. 28, nominato Giudice Amministrativo nel settembre 1984, quale vincitore di pubblico concorso, ha svolto le relative funzioni nei TT.AA.RR. della Lombardia, sede di Brescia, dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, della Campania, sede di Napoli, del Lazio, sede di Roma, e della Calabria, sede di Catanzaro, nonchè dal settembre 2007 presso il Consiglio di Stato ove tuttora esercita le funzioni giurisdizionali. Esso scrivente è venuto a conoscenza che nel n,1 dell’anno 2010 della versione cartacea del mensile “La Voce delle Voci” appare, in copertina, a lettere cubitali, il titolo “Magistrati Massoni” ed all’interno e’ inserito articolo a firma del condirettore Rita Pennarola nel quale vengono elencati, in ordine alfabetico, i nomi di magistrati che, per affermazione dell’articolista, sarebbero affiliati alla massoneria. In detto articolo è inserito il nome di “Romano Guido” che, essendo immediatamente seguito dalla precisazione “… è Presidente del Tar della Calabria…”, non può che riferirsi alla persona dello scrivente, tenuto conto che in tale sede giudiziaria amministrativa lo stesso scrivente ha prestato servizio per circa due anni, esercitando la funzione di Presidente della Seconda Sezione (e non anche di Presidente dell’intero TAR, come invece e’ affermato nell’articolo) e che nella storia del TAR Calabro nessun altro magistrato amministrativo, avente nome e cognome identico allo scrivente, vi ha mai prestato servizio fino ad oggi. Peraltro, tale oggettivo, quanto falso, riferimento alla persona dello scrivente ha trovato conferma anche nel fatto che numerosi colleghi, amici e conoscenti, specialmente nelle Regioni Campania e Calabria, hanno immediatamente manifestato allarme, incredulità e stupore per la notizia appresa nella lettura dell’articolo in questione, pubblicato anche sul sito Internet della “Voce delle Voci” e ripreso da altri siti Internet quali, per quel che allo stato consta, “Facebook” e “Terracina Social Forum”.

Ciò premesso, lo scrivente precisa al riguardo, innanzi tutto, che:

1) non è stato mai affiliato alla massoneria (ne’ coperta ne’ scoperta) e non lo è tuttora:

2) non ha mai fatto parte della Magistratura Ordinaria, ma soltanto della (distinta e autonoma) Magistratura Amministrativa, nei cui ruoli è iscritto dal 1984 a seguito di pubblico concorso;

3) ha esercitato dal 1968 l’attività di “praticante procuratore legale”, prima di accedere, dal 16 gennaio 1972, sempre a seguito di pubblico concorso, al ruolo dei “funzionari direttivi” del Ministero della Pubblica Istruzione, dal quale è, poi, transitato nella magistratura amministrativa (TAR).

Contesta, conseguentemente, ad ogni effetto di legge, che il riferimento alla propria persona, cosi’ come operato nell’articolo in questione, quale iscritto nell’elenco dei magistrati massoni, e’ certamente falsa ed e’ frutto del comportamento del tutto poco accorto e non diligente dell’autore dell’articolo predetto, tenuto conto che l’autrice non si e’ preoccupata, evidentemente, di operare alcuna verifica degli elementi utilizzati.

Infatti sarebbe stato sufficiente verificare se il nominativo “Guido Romano” – che si afferma nello stesso articolo essere contenuto, come gli altri nominativi di magistrati, negli “… unii elenchi (comprensivi delle logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ’92 dall’allora Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova…” – fosse l’unico esistente nei distinti ruoli delle varie Magistrature, per cui non poteva non essere quello del magistrato amministrativo individuato nell’articolo in questione come “…Presidente del TAR della Calabria…”, ovvero esistesse nel 1977 (data riportata nella lettera ritrovata nella villa uruguaiana di Licio Gelli e riferita al presunto finanziamento per l’elezione della A.N.M.) e nello stesso 1992 (data di redazione dei citati elenchi Cordova) altro magistrato ordinario con lo stesso nome e cognome; sarebbe stato sufficiente, altresì, ricorrere a nozioni di comune conoscenza quale la notoria distinzione dei magistrati amministrativi del TAR (quale lo scrivente dal 1984 e nel 1992) dai magistrati ordinari (civili e penali), amministrati da distinti organi di autogoverno (C.P.G.A. per i giudici amministrativi e C.S.M. per i magistrati ordinari). Inoltre, l’autrice dell’articolo non si è evidentemente preoccupata neppure di leggere il contenuto complessivo del proprio scritto poichè, diversamente, si sarebbe resa conto che il riferimento operato alla mia persona, attraverso lo specifico e qualificante richiamo alle funzioni di “…Presidente del TAR della Calabria…” contraddiceva, in maniera del tutto oggettiva, le altre notizie ed affermazioni contenute nello stesso articolo e cioe’, sia il successivo riferimento, operato sempre nello stesso contesto descrittivo della mia persona, al fatto che “… la decisione dell’allora Guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi…”, essendo notoriamente competente il predetto Guardasigilli soltanto per i magistrati ordinari, e non anche per quelli amministrativi, diversamente governati dal citato apposito organo di autonomia, sia l’affermazione, questa volta operata nel contesto del profilo descrittivo di altro magistrato ordinario citato dallo stesso articolista nell’elenco (Sergio Ferdinando), che quest’ultimo, “… al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini… (omissis) … venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati quando nel ’77 erano stati eletti ai vertici dell’ANM…”.

E’ evidente, in sintesi, che nel 1977 lo scrivente, in quanto funzionario direttivo dei ruoli del Ministero della Pubblica Istruzione, non apparteneva (come non ha mai appartenuto) alla magistratura ordinaria e, quindi, non poteva ne’ candidarsi, ne’ essere eletto nel direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati, del quale ha, invece, fatto parte l’omonimo “… magistrato ordinario Guido Romano”, citato nella lettera ritrovata nella villa di Gelli in Uruguay ed inserito negli elenchi “… sequestrati nel ’92 dall’allora Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova”.

Orbene, per tutto quanti sin qui precisato, lo scrivente chiede che venga, immediatamente, effettuata puntuale ed adeguata smentita – con le modalità prescritte dall’art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, nel testo vigente – della notizia contenuta nell’articolo di stampa in questione, concernente la mia persona, con la quale dovrà essere chiarito, con tutte le necessarie puntualizzazioni e senza alcuna possibilità di equivoco, che il nome del magistrato Guido Romano che appare nell’elenco riportato in detto articolo (pubblicato sia sul mensile cartaceo La Voce delle Voci n. 1 del 2010 e sia sul corrispondente sito Internet www.lavocedellevoci.it) non e’ in alcun modo riferibile al dottor Guido Romano, nato ad Aversa l’11 luglio 1945 e residente a Roma, via Nepi n. 28, già Presidente della Seconda Sezione del TAR Calabria ed attuale Consigliere di Stato, trattandosi all’evidenza di caso di mera omonimia con altro magistrato ordinario.

Alla rettifica, così come impone la citata norma di legge, dovrà essere dato il dovuto risalto. Attraverso collocazione, caratteri e dimensioni grafiche eguali a quelli utilizzati per la redazione dell’articolo in questione, e dovrà essere pubblicata non soltanto nel numero cartaceo del mensile La Voce delle Voci di febbraio 2010, ma anche, ed immediatamente, sul sito Internet sopra indicato, con speciale avvertenza degli effetti della citata legge, risultando esso, allo stato, certamente ripreso, come gia’ segnalato piu’ innanzi, da altri siti Internet quali “Facebook” e “Terracina Social Forum”. Lo scrivente, infine, resta in attesa di un pronto riscontro che assicuri l’immediata pubblicazione della rettifica richiesta, salvo e riservato ogni altro diritto ed azione a tutela della propria dignità ed onorabilità. Guido Romano.

Diffamazione, chiude “la Voce delle Voci”. Ma scatta indagine sul giudice che l’ha condannata. 

Nel 2008 i giornalisti del mensile campano scrivono un articolo sull'insegnante di Di Pietro Junior, poi diventata coordinatrice dell'Idv. Nel 2013 vengono condannati in primo grado a un maxi risarcimento che costringe la testata a chiudere dopo 30 anni. Inutili gli appelli al Quirinale (che salvò Sallusti). I giornalisti però nel 2014 denunciano il giudice che li ha condannati, ora indagato per abuso d'ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai loro danni. La decisione del Gip a giorni. E il caso rilancia il tema della censura dell'informazione attraverso il ricatto economico, scrive
 il 14 luglio 2015 su “Il Fatto Quotidiano”.
In Parlamento torna una gran voglia di “legge bavaglio”, pochi però si preoccupano delle manette che bloccano le rotative della libera informazione. Brandendo come una clava l’istituto della diffamazione. A farne le spese, in ultimo, è il mensile campano “la Voce delle Voci” che è in edicola da trent’anni e si è fatto largo nel panorama delle notizie con inchieste scomode su vari fronti, dalle infiltrazioni della camorra negli uffici pubblici ai fatti di corruzione e fino al coinvolgimento di logge massoniche in affari poco chiari. La storia è ingarbugliata ma emblematica. Al cuore di tutto c’è una sentenza emessa a marzo 2013 dal Tribunale  di Sulmona che ha imposto un risarcimento danni di 69 mila euro (più gli interessi) a favore dell’attuale coordinatrice dell’IdV del capoluogo abruzzese, Annita Zinni. La Zinni voleva avere soddisfazione per un articolo scritto nel 2008,  e successivamente parzialmente rettificato, che riguardava il suo ruolo per la formazione del figlio di Antonio di Pietro, Cristiano. La condanna emessa cinque anni dopo ha avuto conseguenze catastrofiche per il giornale, ridotto sul lastrico: per riscuotere la somma i legali della signora Zinni hanno pignorato i conti personali dei giornalisti e anche i contributi dello Stato, pari a 21mila euro, che la cooperativa editrice doveva ancora riscuotere. Il legale della Voce, l’avvocato Michele Bonetti, si era opposto affermando che quelli sequestrati sono fondi pubblici che lo Stato eroga per garantire un bene comune prezioso: il diritto ad essere informati andando oltre ciò che diffondono le veline dei Palazzi. Niente da fare. E alla fine è stata pignorata anche la testata giornalistica, costringendo il mensile a sospendere le pubblicazioni.Ma c’è di più. I giornalisti, in attesa che si celebri l’appello all’Aquila, hanno sporto denuncia contro Massimo Marasca, il magistrato di Sulmona che il 25 marzo 2013 ha pronunciato la sentenza di morte del mensile. Alla Procura generale della Cassazione, al ministero della Giustizia, al Csm e alla Procura di Campobasso hanno denunciato l’inerzia investigativa degli uffici giudiziari che fanno capo al magistrato sul cui tavolo era finita la vicenda Zinni. Marasca è ora indagato per abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai danni dei giornalisti Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola. Tocca ora a un giudice del Tribunale di Campobasso, Maria Rosaria Rinaldi, il delicato compito di pronunciarsi sulla condotta di un collega e stabilire se le indagini a suo carico debbano proseguire. Al termine della camera di consiglio del 7 luglio scorso, il Gip ha rinviato la decisione ai prossimi giorni. Così l’esistenza del mensile resta appesa a un filo, nel silenzio generale. Poche infatti sono le voci che si sono levate per rilevare l’evidente “sproporzione” tra l’errore contestato ai giornalisti, le dimensioni della testata, la capacità economica dei condannati  la condanna a morte della loro testata. Non ha prodotto i frutti sperati, ad esempio, il tentativo di interessare della vicenda Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Repubblica e del Consiglio superiore della Magistratura, l’organo competente a valutare le condotte dei singoli magistrati”. Al Capo dello Stato si erano rivolti i giornalisti de la Voce delle Voci il 22 aprile 2014. Con una lettera gli chiedevano di correggere gli effetti di una sentenza abnorme che determinava la cessazione delle pubblicazioni della testata. Infondo, avranno pensato, Napolitano si era dimostrato attento al delicato rapporto tra stampa e giustizia:  non erano passati due anni da ché aveva commutato il carcere in sanzione pecuniaria per Sallusti. Ma Napolitano non rispose mai direttamente. Lo fece il direttore dell’Ufficio per gli Affari dell’Amministrazione della Giustizia del Quirinale, Ernesto Lupo: “Pur nella migliore comprensione, non rientra tra le attribuzioni costituzionali del Capo dello Stato l’intervento su questioni appartenenti alla competenza dell’autorità giudiziaria”. L’esposto finì sul tavolo del Csm, e lì è rimasto. A tenere viva l’attenzione sul caso, invece, è l’Osservatorio “Ossigeno per l’Informazione”, promosso dalla Federazione Nazionale della Stampa e dall’Ordine dei giornalisti per monitorare casi di censura e minaccia a danni dei giornalisti. “Attendiamo con vivo interesse la decisione del gip” ha dichiarato il direttore Alberto Spampinato. “L’iter di questo processo – aggiunge – dimostra in modo plateale che le norme vigenti in Italia in materia di diffamazione a mezzo stampa consentono punizioni e censure che vanno ben oltre la previsione della pena detentiva e che non hanno nulla a che vedere con la difesa della reputazione personale. Ci dice poi che queste norme consentono di fare sparire un giornale dalle edicole e di ridurre sul lastrico chi è ritenuto colpevole di aver sbagliato. Il nostro interesse al caso della Voce delle voci è accresciuto dall’emergere dell’ipotesi di condotta scorretta del giudice che ha pronunciato siffatta sentenza. Penso perciò che il giudice per le indagini preliminari di Campobasso abbia fatto bene a riservarsi la decisione che deve dimostrare che la magistratura è capace di indagare sulla correttezza dei suoi stessi membri e di giudicare i loro comportamenti con la stessa severità con cui giudica quelli degli altri cittadini. Egregio giudice, faccia con calma, prenda il tempo che le serve per fare la cosa giusta”. Infine il messaggio a Parlamento e Governo: “Se la magistratura deve impedire le conseguenze ultronee delle sue sentenze, Parlamento e Governo devono correggere senza ulteriori indugi le norme sulla diffamazione che tuttora prevedono il carcere per i giornalisti per evitare che esse limitino il diritto di informare e di essere informati. Se  un giornalista e il suo giornale devono mettere in palio  tutto ciò possiedono, e anche la possibilità di proseguire la loro attività, ogni volta che pubblicano una notizia controversa, in questo paese non c’è più spazio per l’informazione giornalistica”.

Tutt'altra storia è il caso di Paolo Ferraro. Espulso dalla magistratura per aver “inventato” la presenza in Italia di sette e poteri occulti. C’è una storia di ordinaria ingiustizia, che rimbalza sulla rete ma non ottiene visibilità negli “autorevoli media” nazionali e che riguarda il dottor Paolo Ferraro, un giudice già attivo in battaglie esemplari quali la riconquista della nostra sovranità monetaria e della nostra indipendenza nazionale, oggetto delle attenzioni della casta e al quale si vuole, praticamente, togliere la dignità di cittadino ed essere umano. Contro Paolo Ferraro, espulso di recente dalla Magistratura con provvedimento del CSM perché accusato di essersi “inventato” la presenza e l’attività in Italia di massonerie e sette sataniche, sta andando avanti a tappe forzate una “damnatio”. Il Csm ha proposto innanzi al Tribunale di Roma un’istanza per porre Ferraro, addirittura, sotto ad “amministrazione di sostegno e cure farmacologiche”. In sostanza una richiesta di revoca di capacità giuridica di agire. Secondo Paolo Ferraro si tratta in sostanza di un accerchiamento da più lati (ci sono di mezzo le iniziative legali della coniuge separata) per bloccare la sua attività di denuncia e politica. “Per il 14 marzo 2013 – scrive Paolo Ferraro – sono stato convocato in udienza dinanzi al giudice tutelare di Roma (presidente della sezione Tribunale) per la “nomina di amministratore di sostegno” non alla mia anziana madre o alla signora terminale in ospedale… ma a me…Chi sa capisce quanto grave sia questa iniziativa che significa togliere a un soggetto autonomia capacità di agire ed in crescendo intrappolarlo rapidamente .. nella direzione finale che è stata evidentemente tracciata dall’odio di chi credeva di poter mettere tutto a tacere”. Paolo Ferraro svolgeva la funzione di sostituto pm presso la Procura di Roma ed era definito anche dai colleghi come un magistrato preparato, attento, scrupoloso e molto affidabile che ha sempre portato a termine in modo ottimale i suoi compiti. In ogni caso, verso la fine del 2008 formalizzava una denuncia in Procura assumendo che nella sua abitazione, nel quartiere romano della Cecchignola, nei tempi in cui lui non era in casa, avvenivano rituali satanici, pratiche sessuali in condizioni di ipnosi e comunque sotto l’effetto di sostanze alteranti, che vedevano coinvolti adulti, bambini e quale vittima posta in stato di incoscienza l’allora sua compagna. Una denuncia suffragata da registrazioni audio ambientali. Il sospetto di quanto potesse accadere a danno della sua donna e dei minori conduceva il dott. Ferraro ad intraprendere “ingenuamente e inconsapevolmente comprendendone i tasselli, legami e ruoli solo molto tempo dopo” – sue parole – una lunga e tortuosa attività di studio e approfondimento personali che, a suo dire, lo portavano a scoprire trame occulte e deviate tra i poteri istituzionali dello Stato, gli alti gradi militari (che trovavano nel quartiere della Cecchignola abitazione), psicologi, psichiatri e altri professionisti compiacenti, massoneria e sette sataniche. Perciò le sue “denunce”, inizialmente passavano per i canali “ufficiali e istituzionali”. Ciò l’avrebbe portato a “scoprirsi” e a divenire obiettivo da neutralizzare per tali poteri deviati. Così si spiegherebbero, dal suo punto di vista, un TSO convertito in ricovero volontario nel maggio/giugno 2009, con forzata assunzione di neurolettici; due procedure di dispensa dalle sue funzioni, avviate presso il CSM nel 2009 e 2010 su segnalazione delle Procure di Roma e Perugia e concluse con l’archiviazione; un’aspettativa per infermità di più di un anno (agosto 2011- dicembre 2012), seguita dalla delibera di dispensa dalle sue funzioni assunta per motivi di salute dal CSM lo scorso 06.12.2012 (che intende impugnare al TAR). La notifica del ricorso del Procuratore Capo di Roma per la nomina di un amministratore di sostegno che dovrà acconsentire in sua vece alla somministrazione a lui di psicofarmaci gli è giunta il 7 marzo. Come nota Armando Manocchia, giornalista di imolaoggi, “al di là della fondatezza o meno della sue tesi, va però tutelato il suo diritto individuale di libertà a decidere del suo stato di salute ed, eventualmente, la sua libertà di curarsi o meno; la nomina di un amministratore di sostegno, in assenza di condizioni di pericolosità alcuna, è una violenza per lui e violazione dei diritti e delle libertà fondamentali dell’individuo che non può venire tollerata. Non di meno il gravissimo fatto che lo sta coinvolgendo lede la fondamentale libertà di espressione e manifestazione del pensiero”. Un magistrato denuncia progetti di controllo mentale in Italia e l’esistenza di una setta occulta che coinvolgerebbe alte cariche militari, con legami nella giustizia, nella politica, nella psichiatria e nella massoneria deviata. Difficile individuarli. Coperti da corporazioni, lobby e governi, di destra e di sinistra, manipolano l’opinione pubblica e condizionano le menti di reclute, politici, malati psichici, giovani donne e bambini per avere il controllo sull’agenda mondiale e sulla storia. Il sostituto procuratore aggiunto di Roma Paolo Ferraro è stato ascoltato dai pubblici ministeri che indagano sulla morte di Melania Rea. Ferraro dopo avere raggiunto la procura è stato trasferito nella sede del comando provinciale dei carabinieri di Teramo, nella caserma Porrani per il colloquio con i pm Davide Rosati e Greta Aloisi ai quali lui stesso aveva chiesto di essere sentito sul delitto. L’udienza è durata circa tre ore. Ferraro ha parlato della sua indagine sulla presunta presenza di sette sataniche all’interno delle caserme italiane, partendo da quanto accertato, sempre secondo le sue affermazioni, nella caserma romana della Cecchignola. Il magistrato è stato di recente sospeso dal Consiglio superiore della magistratura, in via cautelativa per quattro mesi, per presunta infermità mentale. L’ex sostituto è stato poi sottoposto a due perizie psichiatriche che hanno stabilito essere sano di mente. Avrebbe riferito che le sue disavventure sono iniziate dal momento in cui fu resa nota la sua indagine su presunte presenze massoniche e di sette sataniche all’interno delle caserme italiane. L’ipotesi è che tali sette potrebbero essere state presenti anche nella caserma di Ascoli Piceno nella quale Parolisi prestava servizio come addestratore di reclute ed essere in qualche modo in relazione con l’atroce delitto di Melania Rea. A proposito di Melania lo stesso ex sostituto avrebbe dichiarato di averla notata o di aver notato una donna molto simile alla vittima, qualche tempo prima della sua scomparsa, negli uffici della procura di Roma.

Ma la Massoneria non e’ solo magistratura: è pure politica. Se a livello nazionale la polemica tra iscritti al Pd e massoneria crea imbarazzo, a livello locale molto meno, perlomeno laddove è tradizione consolidata. A Perugia, per esempio, dove più di qualcuno ha iniziato a fare “outing”. Mario Valentini, ex sindaco Psi negli anni Novanta e fondatore del Pd perugino, oggi ricorda: “L’esperienza della massoneria, della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino”. Il legame tra massoneria e Pd non un mistero in città, ma ora dopo il recente scandalo, il segretario locale invita alla calma: “Quella della massoneria è una questione sensibile – spiega Giacomo Leonelli -. Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente, altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti”. Sono soprattutto gli ex socialisti, ora confluiti nel Pd, ad avere dimestichezza con grembiuli e cappucci. Ma non tutti sono disposti ad ammettere di essere massoni. Cesare Fioriti dice: “Non sono massone, però difendo la massoneria. E poi i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee”. Angelo Pistelli, altro esponente Pd ex socialista, dopo la polemica non si sente più a suo agio nel partito: “In effetti del Pd ormai non condivido più tanto. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, a noi resta ben poco. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe”. A tal proposito uscì un articolo: I grembiulini del Pd di Perugia di Marco Sarti su “Il Riformista”. Il Pd e la massoneria. Due realtà inconciliabili? Mentre in Italia infuria la polemica, a Perugia il tema non appassiona più di tanto. La sintesi tra squadre, compassi e militanza politica di sinistra, qui esiste da decenni. E nessuno si stupisce più. Perché se il capoluogo umbro è un feudo elettorale del Partito democratico, è anche vero che solo nelle vie del centro si contano almeno 19 logge. E così, nella nuova casa massonica perugina, in un antico palazzo a Corso Cavour, c'è persino chi si indigna di fronte all'ipotesi che qualche fratello possa venire epurato dal Pd. «Ma quale polemica… - si sfoga un responsabile del Collegio Venerabile - Nessuno ha mai fatto caso che ogni volta che c’è una crisi si tira fuori questo argomento? I nostri luoghi di ritrovo sono pubblici. Già nel lontano 1985 abbiamo sistemato una targa fuori dalla sede di Palazzo Giustiniani. Allo stesso modo abbiamo messo bene in chiaro i nostri riferimenti sull’elenco telefonico. Qualcuno si scandalizza se non viene resa pubblica anche l'identità dei nostri fratelli? Eppure mi sembra che persino gli elenchi degli iscritti a partiti e associazioni siano riservati». «I massoni del Pd? - racconta un anonimo militante - Vengono tutti dal Partito socialista». In effetti, a Perugia, il movimento storicamente più vicino al Grande Oriente è proprio quello un tempo guidato da Bettino Craxi. La gente ancora ricorda una storica seduta del Consiglio comunale, nei primi anni 90, quando il sindaco Mario Valentini (eletto nelle liste del Psi, poi fondatore del Pd perugino) rivendicò con orgoglio la sua appartenenza a un'influente loggia cittadina. «L'esperienza della massoneria - racconta oggi Valentini - della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. E non mi riferisco solo al periodo post-fascista, parlo anche della Perugia laica dopo il governo papalino. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Una vicenda fatta da uomini esempio di vita e rettitudine nel governo della cosa pubblica. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino». Che tra i quadri del Pd perugino, ancora oggi qualcuno si cimenti con cappucci e grembiule non è un mistero. Solo che, dopo il recente scandalo, nessuno è disposto a parlare. Giacomo Leonelli, segretario del Partito democratico della città, predica calma: «Quella della massoneria è una questione sensibile. Sono temi dove ognuno esprime le proprie idee secondo convinzioni personali. Per carità, sono convinto che chi si iscrive al Pd lo fa perché crede nel nostro progetto politico, non per altri fini». A scanso di equivoci, il segretario si appella allo statuto. «Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente. Altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti». Eppure sembra che fare politica tra Piazza Morlacchi e Corso Vannucci non possa prescindere da certi riferimenti. «Quando si governa a Perugia - conclude Leonelli - è normale entrare in contatto con determinate realtà cittadine». Contattati al telefono, i componenti della piccola pattuglia socialista nel Pd non si stupiscono di certi accostamenti. Ma negano, con cortesia, qualsiasi coinvolgimento personale. Cesare Fioriti fa parte del direttivo del Pd di Perugia. Ex capogruppo del partito socialista in consiglio comunale, qualche anno fa è riuscito a fare intitolare una via alla memoria di Vittor Ugo Bistoni, storico esponente del Psi cittadino, presidente del Collegio umbro dei Maestri Venerabili e fondatore della Loggia “Guglielmo Miliocchi”. «Certo che è strano - ripete anche Fioriti - questa vicenda della massoneria viene fuori a orologeria. Secondo me serve a spostare il baricentro dell’opinione pubblica altrove, rispetto a temi come la crisi. Ricordo un altro scandalo simile: accadde nei primi anni 90, ai tempi di Tangentopoli». Fioriti non è legato ad alcuna loggia: «No, non sono massone - precisa subito -. Però difendo la massoneria. La penso esattamente come Voltaire (altro “illuminato”, ndr) “Anche se disapprovo quello che dite, difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. I consiglieri comunali devono avere piena libertà di espressione, quindi anche di associazione. E poi scusi, i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee». Squadra e compasso non creano alcun imbarazzo. «Il fine della massoneria è l’evoluzione del pensiero - continua Fioriti -. Mi spieghi lei come fa il Pd a condannare un’organizzazione del genere». Angelo Pistelli è un altro esponente del Pd umbro. Anche lui di provenienza socialista, fino a poco tempo fa era nell'esecutivo regionale. Dopo le ultime polemiche sulla massoneria non si trova più molto a suo agio nel partito. «In effetti del Pd ormai non condivido tanto - ammette Pistelli -. Ma io mi sento di sinistra e non ci sono altri partiti in cui potrei militare. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, e a noi resta ben poco». Sembra quasi che Pistelli sia pronto a fare coming out, quando corregge il tiro. «Specifico che non sono un massone. Diciamo che difendo ogni espressione personale. Credo che anche all’interno del partito ognuno debba essere libero di aderire a quello che gli pare. Non vogliono i massoni? Allora io dico che non voglio l’adesione di tutti quelli che provengono dal Pci. Hanno calcolato che in Italia ci sarebbero 4mila iscritti legati alla massoneria. A occhio e croce non mi sembrano mica tanti. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe».

E’ spuntato in internet ed ha già attirato la curiosità di molti. E’ il file in formato excel dove sono riportati i nomi dei 26.409 iscritti alla Massoneria italiana. Con tanto di data di nascita, residenza, e professione. Il percorso è presto detto: si parte da Google e, una volta inserita nella stringa la parola chiave “elenco massoni” ecco che al primo posto (su un totale di 58.500 voci) fa bella figura di sè il “files.meetup.com/207935/pidue.xls”. Basta un click e il gioco è fatto. Il documento non è di per sè una novità: si tratta di una lista datata, vecchia almeno di più decenni, già in parte pubblicata da quotidiani. Nel 1998 ci provò anche la rivista “Cuore” a pubblicare, a puntate, tutta quella massa di dati, ma l’esperimento si fermò al terzo numero. Nel 2004 il file arrivò alla redazione di Macchianera che non lo pubblicò perchè ormai era già disponibile nei siti peer to peer. Ma è evidente che chi oggi l’ha messa in rete, ha voluto gettare benzina sul fuoco del sempre tanto discusso e dibattuto tema della fratellanza: non fosse che lo stesso file, in chiusura, è stato ribattezzato “pidue”, quando nessuno dei 26mila risultava iscritto in quello della P2 di Licio Gelli che finì nel mirino della magistratura. Perchè, vale ricordarlo, essere iscritti ad una loggia non è reato. Diverso fu il caso della P2 i cui affiliati finirono coinvolti in diverse inchieste di eversione, stragi, depistaggi e tentato colpi di Stato. Ma torniamo al file. Alcuni di quella lista sono morti. Un centinaio infatti sono quelli che oggi avrebbero più di 100 anni. Non furono pochi quelli che, all’indomani dell’inchiesta del procuratore Agostino Cordova, uscirono dalla massoneria. “E’ fu un bene – dicono dagli ambienti ternani – molti erano entrati non perchè credessero nei nostri valori, ma perchè convinti che avrebbero potuto beneficiare di chissà quali favori. Chi ci credeva e ci crede è rimasto e alla fine quella indagine si rivelò una fortuna per l’onorabilità della massoneria”. Quelli rimasti hanno proseguito il loro ‘percorso’. A guardare quell’elenco c’è chi ha avuto fortuna. Ma c’è anche a chi non è andata affatto bene. Eccoli tutti insieme, tutti e 26.409: docenti, medici, impiegati, avvocati, commercianti, ferrovieri, geometri, ingegneri, agricoltori, bancari, farmacisti, architetti.

LE LOGGE: Tre i principali Ordini massonici. Il Grande Oriente d’Italia (GOI), il più numeroso con i suoi 30mila iscritti, la Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI) e la Gran Loggia d’Italia, l’unica a concedere l’accesso alle donne. Tutte hanno il loro sito internet al quale hanno affidato persino gli indirizzi delle loro strutture. Un po’ più difficile avere la lista degli iscritti (per quanto gli elenchi sono pubblici e dunque consultabili presso i rispettivi uffici). Grazie ad un iscritto ad una loggia di Perugia è possibile tracciare un quadro più aggiornato sugli iscritti in Umbria.

G.O.I: è la più antica, nata nel 1805 (il primo Gran Maestro fu Eugenio De Beauharnais, figliastro di Napoleone Bonaparte), e la più numerosa. Attualmente è presieduta dall’avvocato Gustavo Raffi. 29 in tutto le logge umbre, 24 in provincia di Perugia, 5 in quella di Terni. Perugia: La loggia storica per eccellenza è la “Francesco Guardabassi” (n. 146), una delle 18 logge perugine che vantano ca. 1.300 affiliati. Seguono “Fede e Lavoro”, “Riccardo Granata”, “Mario Angeloni”, “I Figli di Horus” (che si richiama al rito egizio di Memphis e Misraim), “Fratelli Bandiera”, “Concordia”, “Ver Sacrum”, “Bruno Bellucci”, “Luca Mario Guerrizio”, “Francesco Baracca”, “La Fermezza”, “Guglielmo Miliocchi”, “Humanitas”, “La Fenice”, “Quatuor Coronati”, “XX Giugno 1859” e “Enzo Paolo Tiberi” (la più recente, n. 1.325). Città di Castello: 150 i “muratori” che compongono le 4 logge presenti a Città di Cstello, ribattezzate “XI settembre”, “I Liberi”, “Armonia” e “Atlantide”. A Foligno sarebbero una trentina gli affiliati alla “Domenico Benedetti Roncalli” mentre un po’ di meno quelli alla “Luigi Pianciani” di Spoleto. Terni: cinque le logge per circa 200 iscritti. La prima ad essere aperta è la ‘Tacito’ seguita dalla “Giuseppe Petroni”, “Paolo Garofoli”, J.W. Goethe” e “Alessandro Fabri”.

G.L.R.I.: fondata da Giuliano Di Bernardo a seguito dello scisma nel 1993 dal GOI. Attualmente è presieduta dal dottr Fabio Venzi. In Umbria vanta un centinaio di iscritti e 4 logge: la “Luigino Marra” di Spoleto, Piero della Francesca” e “San Bevignate” di Perugia e la “Braccio Fortebraccio” di Umbertide. Tutte operano nel capoluogo di regione dove gli iscritti si ritrovano, a cadenza settimanale, in una nota struttura ricettiva.

G.L.I. (Obbedienza di Piazza Del Gesù Palazzo Vitelleschi): E’ un “Ordine iniziatico di uomini e donne”, l’unica infatti ad aprire le porte anche alle donne. Fondata nel 1910 è oggi retta dal professor Luigi Pruneti. La sede umbra (per gli Orienti di Terni e Perugia) è presso il Centro Sociologico Italiano in Via Valentini a Perugia. Gli iscritti sarebbero una cinquantina.

I massoni di Perugia: questa persecuzione deve finire. Dall’archivio de “Il Corriere della Sera” l’inchiesta di Bruno Tucci. LA CAPITALE DEI VENERABILI. Mille affiliati. Li accusano di condizionare la città e loro: "Siamo eredi dei laici che hanno sconfitto il Papa Troppe calunnie, quel magistrato viola il codice. Mille iscritti alle logge sparsi per la provincia: tutti nelle stanze dei bottoni. Ospedali, banche, università e poi ancora in magistratura, negli ordini professionali, tra gli avvocati, i medici, gli ingegneri fino alle istituzioni. La mappa della massoneria in questo lembo del Paese raggiunge percentuali da capogiro. Perugia si sente afflitta e condizionata? "Non diciamo eresie", esclama il presidente del collegio venerabile, Giancarlo Zuccaccia. "Chi ha conquistato posti importanti nella società non lo deve certo a noi, ma esclusivamente alla propria professionalità". Eppure, le accuse sono specifiche: vengono da un giudice calabrese che punta il dito contro i massoni e cerca di inchiodarli con elementi e prove inconfutabili. Lo avrete capito: il magistrato in questione è Agostino Cordova, procuratore di Palmi, il quale sta combattendo una battaglia personale in un campo così delicato e difficile. Le parole di Cordova non ammettono dubbi di sorta. In Umbria, e specificamente nella provincia di Perugia, i massoni sono tanti, troppi e condizionano la vita della città. Tutto passa attraverso il controllo delle logge: assunzioni, promozioni, avvicendamenti, scatti di carriera. Come mai? Semplice: al timone della barca ci sono loro e soltanto loro. "Fandonie, fesserie, calunnie", risponde a tono Giancarlo Zuccaccia, presidente dell' Ordine degli avvocati dall'ottobre del 1992. Sibila: "Sono stato eletto con 250 voti. Dovrebbero avere tutti una stessa etichetta, secondo Cordova. Ed invece, non è così, glielo posso assicurare. La verità è che questo magistrato ha preso di mira la massoneria. Ha sguinzagliato per tutta Italia i suoi scherani e siccome non è riuscito a trovare un bel nulla, allora tira fendenti alla cieca. Ma, attenzione, sta violando il codice penale". Un' accusa pesante, avvocato... "Già, è vero. Allora non la scriva. Però, rimane il fatto che noi siamo alla gogna, criminalizzati per episodi che non esistono. Siamo stanchi, mi creda, perché ne dobbiamo sopportare di tutti i colori". Dunque, non avete stretto tra di voi patti di alleanza spartitoria? Insomma, una specie di lottizzazione massonica? "Non scherziamo. Chi di noi raggiunge risultati professionali lo deve soltanto alla bravura ed all'onestà. Il resto sono chiacchiere che non stanno né in cielo, né in terra". Il presidente venerabile si difende, ammette che in Umbria ci sono 24 logge tra Perugia, Terni, Spoleto e Città di Castello, ma non vuole sentir parlare di favoritismi e di clientelismo. Sono parole sconosciute nel vocabolario dei massoni. Ma chi sa e conosce Perugia e dintorni non è d'accordo. Legge delle indagini condotte da Agostino Cordova e si frega le mani. "Finalmente! Era ora", grida qualcuno. "Questa storia, prima o poi, doveva pur finire. Speriamo si faccia in fretta, perché i giovani non ne possono più di un simile condizionamento". Parlano i perugini che non hanno niente a che spartire con la massoneria, però si trincerano dietro l'anonimato. Hanno paura di tarparsi le ali, di non poter combinare più nulla in futuro, se dovessero essere scoperti. Con tale premessa vanno avanti nel racconto e confessano al cronista che chi non sta dalla parte dei massoni incontra grossi ostacoli. I favoritismi sono a senso unico. Un esempio: se vuoi assicurarti un posto o se desideri compiere un salto di qualità, non hai altra scelta se non rivolgerti a quelli che contano. E, guarda caso, nelle stanze dei bottoni ci sono soltanto loro. Così è all' università, nelle banche, in ospedale, negli enti pubblici, dappertutto. "Noi agiamo alla luce del sole", replica Giancarlo Zuccaccia. "Non siamo un partito, abbiamo sempre combattuto la lottizzazione", aggiunge un altro "fratello perugino", l'avvocato Giacomo Borrione. "Anzi, sa che cosa le dico? E' vero il contrario: abbiamo sofferto l'infiltrazione dei partiti. Noi interveniamo soltanto quando un "fratello" è in stato di bisogno. E chi aiuta non appare, rimane tutto avvolto nel segreto". La voce di popolo grida a gran voce l'esatto contrario. Cita nomi, cognomi di affiliati: gente di potere che solidarizza solo con chi è iscritto. Ad esempio, la famiglia De Megni, sulla quale sono stati spesi fiumi di parole. "Alle cene annuali in casa loro partecipa il fior fiore della massoneria, il vertice delle logge umbre". Non si salva nessuno, nemmeno il rettore dell'Università, alcuni commissari di polizia, ufficiali dei carabinieri. Chiacchiere? "Se sono bugie, lo vedrete il giorno in cui Cordova avrà completato la sua inchiesta", rispondono i perugini. Giancarlo Zuccaccia va su tutte le furie: "Io ai pranzi di De Megni non ci sono mai stato. Se mi chiedete se sono massone, rispondo di sì. Sono apparso in gonnellino pure alla tv. Ma non andiamo oltre, parlando di sette, di logge segrete, di clientelismo. Il venerabile Licio Gelli (come lo chiamate voi) lo abbiamo espulso nel 1976, avete capito?". Ed allora perché tanti massoni a Perugia o in Umbria, se preferisce? "E' semplice: perché siamo laici ed abbiamo subito la dominazione pontificia per 400 anni. Lo sa che il 20 giugno, puntualmente, Perugia festeggia la cacciata dei papalini? Ed è una festa a cui partecipa tutta la città, comune compreso. Questa persecuzione di Cordova deve finire. Io ho subito minacce telefoniche e sono in allarme per la mia incolumità". In Corso Vannucci, la strada dello struscio, scuotono la testa e commentano: "I massoni? Se non stai con loro, è meglio che emigri. Sono forti, fortissimi ed hanno tutte le leve del potere. Quindi..."

Ma nella massoneria esistono anche avvocati, cancellieri, docenti di materie giuridiche, ufficiali giudiziari, e così via, che sono affiliati alla massoneria. Tutto ciò si evince ancora dal libro "La Massoneria smascherata" di Giacinto Butindaro. Ed ovviamente tutti costoro, in virtù del loro giuramento massonico (che recita tra le altre cose: ‘…. prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Libera Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato; prometto e giuro di prestare aiuto ed assistenza a tutti i Fratelli Liberi Muratori sparsi su tutta la superficie della Terra….’), devono anche loro aiutare i loro fratelli massoni, per cui è ovvio che quando un massone si troverà indagato o imputato in un processo, egli al ‘momento giusto’ riceverà una qualche forma di aiuto dai suoi fratelli che sono nella magistratura (o nella politica) che si muoveranno come sanno fare loro in questi casi. Un esempio di inchiesta giudiziaria contro dei massoni ‘affossata’ è quello dell’inchiesta del procuratore di Palmi Agostino Cordova da lui avviata nel 1992, a cui abbiamo accennato prima, che dopo che Agostino Cordova fu trasferito-promosso alla Procura di Napoli nel 1993 e che le indagini vennero trasferite (per «incompetenza tecnica» della Procura di Palmi a occuparsi della materia) alla Procura di Roma nel giugno del 1994, rimase pressoché ferma per quasi sei anni, e poi nel dicembre 2000, il giudice per le indagini preliminari dispose l’archiviazione dell’inchiesta, nonostante fossero stati raccolti centinaia di faldoni e tantissime fonti di prova sulle attività illecite di logge italiane con decine di indagati, coinvolgenti influenti personaggi del mondo imprenditoriale, finanziario, politico e istituzionale, nonché della stessa magistratura, collusi con la ‘ndrangheta con cui avevano costituito delle vere e proprie società di affari, attraverso le quali si spartivano i proventi derivanti dagli accordi perversi del sodalizio criminale. Per capire la portata dell’inchiesta di questo coraggioso magistrato consiglio di leggere Oltre la cupola: massoneria, mafia, politica, scritto da Francesco Forgione e Paolo Mondani, pubblicato da Rizzoli Editore nel 1994. Un esempio invece di processo in cui erano imputati dei massoni con evidenti prove di colpevolezza contro di essi, e che si è concluso con la loro assoluzione, è quello del "golpe Borghese". Il "golpe Borghese" fu un colpo di Stato tentato in Italia durante la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 e organizzato e guidato da Junio Valerio Borghese (ex comandante della X Mas nella repubblica sociale italiana, e leader dell’organizzazione neofascista Fronte nazionale), allo scopo di impedire l’accesso del Partito Comunista al governo. Il nome del colpo di stato aveva come nome in codice ‘Operazione Tora Tora’, in ricordo dell’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Tra i golpisti c’erano oltre che uomini dei servizi segreti e fascisti, anche massoni e mafiosi. In vista del ‘golpe Borghese’ infatti, la Massoneria aveva chiesto l’aiuto di Cosa nostra e della criminalità organizzata calabrese per averne un appoggio armato. La sera del 7 dicembre 1970, i congiurati – in gran parte armati, e provenienti da varie regioni d’Italia – si concentrarono nei vari punti prestabiliti della Capitale. Il piano eversivo prevedeva tra le altre cose, l’uccisione del capo della polizia Angelo Vicari, e l’irruzione al Quirinale di una squadra di congiurati armati comandati da Licio Gelli (capo della loggia massonica segreta P2) per sequestrare il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Ma ecco che poco dopo la mezzanotte ai congiurati arriva improvviso il contrordine: l’azione golpista è sospesa e rinviata. L’inchiesta giudiziaria che ne seguì non riuscirà a chiarire le circostanze dell’improvviso contrordine impartito ai congiurati. Secondo alcuni, la sospensione del golpe è da attribuire alla defezione di un importante personaggio che avrebbe reso impossibile l’attuazione dell’aspetto strategico del golpe. Secondo altri, il golpe non fu attuato, benchè avallato dagli USA, a causa dell’imprevista presenza della flotta russa nel Mediterraneo la notte tra il 7 e l’8 dicembre. Comunque il tentato golpe ci fu. In merito al procedimento giudiziario e il processo che si tenne contro coloro che furono coinvolti nel ‘Golpe Borghese’, ecco cosa dice il senatore Sergio Flamigni, che ha fatto parte della Commissione Parlamentare sulla Loggia P2: ‘Nel procedimento giudiziario scaturito dal «golpe Borghese» risulteranno coinvolti piduisti di primo piano: il generale Vito Miceli, promosso capo del Sid per intervento di Licio Gelli presso il ministro della Difesa Mario Tanassi (il cui segretario particolare, Bruno Palmiotti, e il cui fratello, Vittorio Tanassi, sono affiliati alla Loggia segreta); Giuseppe Lo Vecchio, colonnello dell’Aeronautica; Giuseppe Casero, ufficiale dell’Aeronautica; Giovanni Torrisi, ufficiale di Marina; Giovambattista Palumbo, Franco Picchiotti e Antonio Calabrese, ufficiali dei Carabinieri; Giuseppe Santovito, ufficiale dell’Esercito; il banchiere Michele Sindona; l’alto magistrato Carmelo Spagnuolo; il consigliere regionale andreottiano Filippo De Jorio (consigliere di Andreotti a Palazzo Chigi anche dopo il suo coinvolgimento nel tentato golpe). Tutti costoro risulteranno affiliati alla Loggia P2 nel gruppo Centrale, cioè in diretto collegamento con Gelli. Nella «Operazione Tora Tora» risulteranno coinvolti anche altri massoni, tra i quali: Duilio Fanali (capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, che nel tentato golpe aveva il compito di insediarsi nel ministero della Difesa e impartire ordini a tutto l’apparato militare); il costruttore romano Remo Orlandini; Sandro Saccucci (deputato nelle liste del Msi, nel 1972, per avvalersi dell’immunità parlamentare); Salvatore Drago (ufficiale medico della Polizia, fedelissimo del piduista Federico Umberto D’Amato); Gavino Matta e Tommaso Rook Adami (massoni appartenenti alla Comunione di Piazza del Gesù); Giacomo Micalizio. [....] Benchè nella «Operazione Tora Tora» abbia avuto un ruolo centrale, Licio Gelli non viene coinvolto nel processo seguito al «golpe Borghese». Il Venerabile gode infatti di particolari coperture e di ferree protezioni. Nel luglio 1974, nello studio privato del ministro della Difesa Giulio Andreotti, si tiene una riunione alla quale partecipano, oltre al ministro: il nuovo capo del Sid ammiraglio Mario Casardi il comandante dei Carabinieri generale Enrico Mino, il capo dell’ufficio D del Sid generale Gianadelio Maletti (piduista), e gli ufficiali del Sid colonnello Sandro Romagnoli e capitano Antonio Labruna (piduista). Oggetto della riunione è un dossier compilato dai Servizi sul «golpe Borghese», da inviare alla magistratura. Il dossier giunto al ministro Andreotti è già stato sottoposto a numerosi tagli; infatti il capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Eugenio Henke, ha disposto la cancellazione di ogni riferimento ad alcuni collaboratori del Sid. Ma a questo punto è Andreotti che suggerisce a Maletti di «sfrondare il malloppo e di eliminare i dati non riscontrabili». Così dal rapporto scompare il nome di Gelli [....]. Il processo per il «golpe Borghese», celebrato presso il Tribunale di Roma, consentirà di accertare una serie di gravissimi fatti. Ma tutti gli imputati piduisti, anche grazie al sotterraneo attivismo di Licio Gelli, verranno assolti. [....]. I gravissimi fatti culminati nel tentato golpe della notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 subiranno in fasi processuale un inopinato ridimensionamento. Benchè si sia trattato di un preciso piano eversivo sostenuto da ampi settori dei vertici militari in collegamento con gruppi armati di civili ramificati in tutto il Paese, a conoscenza dei comandi Nato e con la partecipazione di Cosa nostra e della ‘ndrangheta calabrese, nel corso dei vari gradi di giudizio il processo si risolverà in un progressivo insabbiamento, tra proscioglimenti e archiviazioni, fino alla generale assoluzione degli imputati superstiti da parte della Corte di Cassazione. [....] Le sentenze della Corte di assise di Roma del 14 novembre 1978 e della Corte di assise d’appello del 27 novembre 1984, affermando l’insussistenza del delitto di insurrezione armata, predisporranno la Corte di cassazione a trasformare il tentato golpe in un semplice «complotto di pensionati», e ad assolvere tutti gli imputati. Molti anni dopo, il giudice istruttore del Tribunale di Milano Guido Salvini scriverà infatti che «una vasta e continuativa trama golpista, corroborata sul piano probatorio anche da numerosi elementi documentati, [è stata] così ridotta ai progetti velleitari di qualche anziano Ufficiale nostalgico e di poche Guardie forestali. Certamente non è stato così». Il giudice citerà una serie di documenti e testimonianze, prove di un’ampia articolazione eversiva di forze: alti ufficiali delle Forze armate e Massoneria, P2 e servizi segreti, mafia siciliana e ‘ndrangheta calabrese, strutture clandestine di militari e civili e gruppi della destra eversiva e neofascista, con sullo sfondo i comandi della Nato.

A conferma che anche nella magistratura si muove la mano della Massoneria dal libro "La Massoneria smascherata" di Giacinto Butindaro vi propongo una parte di un interessante scritto dal titolo «Fratellanza giuridica». "I magistrati e la massoneria" a cura di Solange Manfredi, pubblicato sul blog di Paolo Franceschetti il 20 luglio 2010, che credo renda bene l’idea di questo intreccio, che spiega il perchè certe indagini che coinvolgono massoni vengono ostacolate o affossate, e dei processi contro esponenti della massoneria finiscono con l’assoluzione degli imputati. [....]. Quando mio padre (avvocato) morì, 15 anni fa, nella cassaforte di casa trovai, insieme al suo tesserino di affiliazione alla massoneria, centinaia di documenti massonici. Tra questi rinvenni un piccolo libricino rilegato che riportava in copertina: “Fratellanza Giuridica” Statuto. Appena ne lessi il contenuto rimasi sconvolto, come sconvolti sono rimasti avvocati e giudici (non massoni ovviamente) a cui l’ho mostrato. L’esistenza di uno Statuto che, all’interno delle varie logge (e quindi tra massoni già vincolati dal giuramento di silenzio, assistenza ed aiuto reciproci e dal divieto di denunciare un fratello al Tribunale profano), univa in una “più fraterna collaborazione” avvocati – cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri ed ufficiali giudiziari, in altri termini tutti i tasselli “sensibili” di un Tribunale, era sconvolgente. Un legame così stretto tra i protagonisti delle vicende giudiziarie si prestava veramente a deviazioni infinite. Il fatto, poi, che gli elenchi di questa “Fratellanza Giuridica” fossero a disposizione dei massoni iscritti alle varie logge italiane poteva rendere ogni Tribunale raggiungibile da qualsiasi fratello in cerca di aiuto massonico. Nessun rischio a chiedere un “aiutino”: il massone infatti ha giurato sia di aiutare sia di non denunciare mai un fratello al Tribunale profano. Non a caso ogni scandalo che ha riguardato magistrati e massoni è sempre stato originato dalla scoperta di documenti durante una perquisizione o, come in questo caso, da intercettazioni telefoniche; ma mai in nessun caso un’indagine ha avuto origine dalla denuncia di un fratello verso un altro fratello. Se all’interno della stessa loggia, della stessa cittadina, si ritrovano regolarmente per studiare, lavorare, o altro… avvocati, cancellieri, magistrati e ufficiali giudiziari, si sa, l’occasione fa l’uomo ladro. La frequentazione, l’amicizia, ma, soprattutto, il giuramento di reciproco aiuto ed assistenza, fanno sì che in queste “logge” possa scattare la richiesta di “aiutino”. In fondo, per insabbiare un processo, per depistare, per creare confusione, basta poco: una notifica sbagliata, un fascicolo sparito, una nullità non rilevata, ecc.. piccoli errorini, idonei a deviare il corso di un processo; ma errorini per cui in Italia non si rischia assolutamente nulla. Certo si parla di possibilità, non è detto che accada però, come già sottolineato, l’occasione fa l’uomo ladro. Proprio per questo i magistrati ed avvocati più attenti a livello deontologico (non vi preoccupate, è una razza ormai quasi estinta) evitano le frequentazioni con avvocati almeno dello stesso foro in cui esercitano. Il motivo di tale comportamento è chiaro (o dovrebbe esserlo) il giudizio del magistrato, per non lasciare adito ad alcun dubbio, deve essere il più possibile scevro da condizionamenti di qualunque genere. Chi frequenta i Tribunali, invece, spesso si trova a dover costatare comportamenti ben diversi, e si può incappare in situazioni in cui avvocati e magistrati dello stesso foro dividono l’affitto di una garconier con cui andare con le rispettive amanti. Sarà, dunque, forse un caso che più di 7 processi su dieci saltano per notifiche sbagliate? Sarà forse un caso che spesso le indagini o processi che vedono coinvolti massoni hanno un iter burrascoso con avocazioni di indagine (Why not, Toghe Lucane), trasferimenti di sede (Piazza Fontana, Golpe Sogno, Scandalo loggia P2) od altro? Probabilmente si, non vogliamo in alcun modo pensar male anche se, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma, raramente, si sbaglia. Trascrivo qui il contenuto dello Statuto rinvenuto tra i documenti di mio padre. Ovviamente, e per estrema correttezza, avverto il lettore che non posso assicurare che detto statuto sia vero, ma, dati i rapporti che intratteneva mio padre (avvocato), ciò che mi aveva detto riguardo i magistrati che frequentavano regolarmente la nostra casa e il fatto di averlo rinvenuto all’interno di una cassaforte insieme a centinaia di documenti giuridici firmati da “fratelli”, mi fa propendere per il si. Se così fosse parrebbero esistere “Fratellanze” costituite esclusivamente da magistrati, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari, professori universitari, ecc.. le cui “deviazioni” potrebbero condizionare il sistema giudiziario ostacolando il corso di processi importanti.

A.G.D.G.A.D.U.
GRAN LOGGIA NAZIONALE
DEI LIBERI MURATORI D’ITALIA
“GRANDE ORIENTE D’ITALIA”
*
STATUTO
DELLA
“FRATELLANZA GIURIDICA”
(Approvato a Roma, il 21 settembre 1968)

1. La Fratellanza Giuridica è costituita da Fratelli attivi e quotalizzanti nelle rispettive Logge della Comunione italiana, appartenenti alle seguenti categorie professionali, e che ne facciano domanda: avvocati e procuratori legali –cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri – ufficiali giudiziari.

2. La Fratellanza Giuridica ha come principali finalità: a) Dare, quando richiestane, pareri giuridici al Grande Oriente o ai vari Organi massonici, attraverso la Gran Segreteria; b) Promuovere lo studio dei problemi interessanti i vari aspetti del diritto, internazionale e nazionale, e quelli delle singole categorie iscritte alla Fratellanza; c) Consentire una più fraterna collaborazione, nell’ambito di ciascuna categoria, per l’esercizio dell’attività degli iscritti; d) Indicare nominativi di difensori d’ufficio, se richiestane dai Tribunali massonici; e) Curare la raccolta della giurisprudenza delle decisioni degli organi giudiziari massonici, anche comparata con l’opera giudiziaria delle altre Comunioni regolari; f) Studiare ed approfondire ogni altra questione attinente all’esercizio professionale degli iscritti, nel rispetto delle leggi e delle tradizioni massoniche.

3. La Fratellanza Giuridica ha sede presso il suo Presidente effettivo. Essa può essere sciolta in qualunque momento, o per decisione del Gran Maestro, previo il parere favorevole del Consiglio dell’Ordine, o per decisione dell’Assemblea degli iscritti. Le elezioni e le decisioni dei vari Organi della Fratellanza Giuridica sono valide a maggioranza semplice ed impegnano anche gli assenti e, per il caso di scioglimento, con il voto favorevole di almeno due terzi degli iscritti. Le cariche non sono rinunciabili ed impegnano gli eletti sino a quando non siano accettate eventuali loro dimissioni, da inoltrarsi al Consiglio Direttivo.

4. Sono Organi della Fratellanza Giuridica:
a) L’Assemblea degli iscritti;
b) Il Consiglio Direttivo;
c) L’Ufficio di Presidenza;
d) Ufficio di Segreteria e Tesoreria.

5. L’Assemblea degli iscritti è convocata dall’Ufficio di presidenza almeno una volta l’anno, entro il 31 marzo, o quando appaia opportuno, ovvero quando gliene faccia richiesta la maggioranza semplice del Consiglio Direttivo oppure almeno un quinto degli iscritti. Alla Assemblea sono demandate tutte le decisioni comunque riguardanti la Fratellanza Giuridica, anche nelle materie di spettanza dei singoli Organi.

6. Il Consiglio Direttivo è composto dai Delegati circoscrizionali, che durano in carica tre anni e sono rieleggibili. I Delegati circoscrizionali vengono eletti, anche mediante schede inviate per posta, dagli iscritti alla Fratellanza Giuridica, nell’ambito delle circoscrizioni regionali massoniche. Il Consiglio Direttivo si riunisce per convocazione dell’Ufficio di Presidenza, almeno due volte l’anno, ovvero quando ne faccia richiesta, allo stesso Ufficio di Presidenza, almeno un terzo dei suoi membri.

7. Le riunioni del Consiglio Direttivo sono valide con la presenza di almeno la metà dei suoi componenti. In caso di parità di voti prevale quello del presidente.

8. Ciascun delegato circoscrizionale deve promuovere riunioni di iscritti, iniziative e attività varie, nell’ambito della propria circoscrizione, in armonia con le leggi massoniche, con le finalità della Fratellanza Giuridica, con le deliberazioni dell’Assemblea e del Consiglio Direttivo.

9. L’Ufficio di Presidenza è composto:
a) Dal Gran Maestro;
b) Dal presidente effettivo, che viene eletto dal Consiglio Direttivo;
c) Da un Vice-Presidente.
Al Presidente effettivo (o, in caso di suo impedimento o assenza, al Vice-Presidente) spettano la rappresentanza, la direzione, le decisioni di ordinaria amministrazione della Fratellanza Giuridica.

10. L’Ufficio di Segreteria è composto:
a) Dal Gran Segretario;
b) Da un Segretario o da un Vice-Segretario, nominati dal Consiglio Direttivo, ai quali spetta la tenuta degli schedari, dei verbali, della corrispondenza della Fratellanza Giuridica. L’Ufficio di Segreteria effettua il controllo annuale della regolare appartenenza alle Logge della Comunione di tutti gli iscritti della Fratellanza.
Il Segretario o il Vice-Segretario possono essere eletti anche al di fuori del Consiglio Direttivo, nel qualcaso vi partecipano senza diritto di voto.

11. Il Tesoriere è nominato da Presidente effettivo, anche non fra i Delegati circoscrizionali, nel qual caso partecipa al Consiglio Direttivo senza diritto di voto. Il Tesoriere cura l’amministrazione, la contabilità, la riscossione delle quote e degli eventuali contributi volontari, e quant’altro attiene alla economia della Fratellanza Giuridica. Il Tesoriere redige, entro il 31 dicembre di ciascun anno il bilancio consuntivo degli incassi e delle spese, ed un bilancio preventivo per l’anno successivo, da sottoporre all’approvazione dell’Assemblea.

12. Per far fronte alle spese di organizzazione e funzionamento della Fratellanza Giuridica, tutti gli iscritti devono versare una quota annuale.

13. Entro il 31 maggio di ciascun anno il Consiglio Direttivo:
a) Predispone ed approva bilanci consuntivi e preventivi redatti dal Tesoriere da sottoporre all’Assemblea;
b) Fissa l’ammontare della quota annuale obbligatoria a carico degli iscritti;
c) Redige una relazione morale sull’attività compiuta nell’anno precedente che, se approvata dall’Assemblea, viene inviata alla Gran Maestranza;
d) Delibera la destinazione delle somme pervenute per contributi volontari dai vari iscritti.

14. Ogni notizia relativa agli elenchi degli iscritti potrà essere chiesta e fornita dai rispettivi Delegati circoscrizionali, a ciascuno dei quali tali elenchi verranno consegnati, ovvero, in mancanza, dall’Ufficio di Segreteria.

15. Il presente Statuto potrà essere modificato con delibera di almeno un terzo degli iscritti, i Assemblea.

16. E’ demandata al Consiglio Direttivo la formulazione del regolamento di attuazione del presente Statuto.

Note: Come rivela una sentenza a sezioni unite del Tribunale massonico del 28/X/1978, per il principio n. 1 Cap. IV degli Antichi Doveri” il massone anche se a conoscenza di un reato non può neanche minacciare di denunciare un fratello a quello che viene definito “Tribunale Profano”, ovvero l’organo giudiziario previsto dalla Costituzione italiana, pena l’immediata espulsione dalla loggia. Peraltro, vorrei anche dire che quando un magistrato (o un politico e così via) afferma: «La massoneria? Io l’ho lasciata da tempo…», e non prova in alcuna maniera questa sua affermazione, quello che intende dire è che in effetti lui non ha lasciato la Massoneria, ma soltanto che si è messo ‘in sonno’, che nel linguaggio massonico significa che un massone ha deciso per sue esigenze personali di autosospendersi dai lavori rituali e dalla vita dell’ordine, ma egli rimane a tutti gli effetti un massone obbligato ad osservare il giuramento massonico, pena gravissime conseguenze per la sua vita; e questa sua condizione di ‘dormiente’ è revocabile in qualsiasi momento e quando uscirà dal suo stato di ‘sonno’ i suoi fratelli massoni faranno festa.

Massoneria e mafia, la vera storia occulta del generale Ganzer. Un reportage  di Paride Leporace. La ricostruzione di una storia italiana dopo la clamorosa condanna a 14 anni del generale dei Ros: i misteri d’ Italia, i processi ai movimenti, le trame..Rinasce la P3, il solito Dell’Utri, il coordinatore di Forza Italia, il vecchio faccendiere Carboni. Siamo abituati. Un po’ meno al fatto che un generale dei carabinieri, capo dell’ineffabile Ros, sia duramente condannato a 14 anni in primo grado per aver messo in piedi una rete che acquista cocaina in Colombia per far meglio carriera. Il generale Ganzer non ha fatto una piega. Aspetta le motivazioni di una sentenza del processo meno raccontato dai media italiani. Eppure i protagonisti e i fatti meritavano approfondimenti. Ma oggi nel Belpease chi si mette a scrivere delle ombre del reparto operativo più osannato nella lotta al crimine? A Milano hanno condannato anche ufficiali e sottoufficiali del Ros e un alto generale. Si chiama Mauro Obinu. Vice di Ganzer. Ma anche imputato in altri processi poco raccontati. A Palermo fa coppia sul banco degli imputati con il generale Mori. Sono accusati di non aver catturato Binnu Provenzano. In quel periodo attraverso i Ciancimino avevano avuto anche il mandato di trattare con Cosa Nostra invece di pensare ad arrestare boia e mandanti delle stragi che uccisero Falcone, Borsellino e le loro scorte. Obinu sta all’Aise. Che non è un’azienda di elettrodomestici ma una delle sigle dei nostri straordinari servizi segreti che ogni tanto cambiano sigla per rinverdire il brand. Il capo di Obinu è Gianni De Gennaro condannato in Appello ad un anno e quattro mesi per la macelleria messicana della scuola Diaz di Genova quando era il capo della polizia italiana. Poi richiamo alla vostra memoria che il comandante generale della Guardia di Finanza,Roberto Speciale era stato condannato ad un anno e mezzo per peculato ed è stato ricompensato con una nomina a senatore del partito berlusconiano. Vogliamo aggiungere Niccolò Pollari direttore del Sismi salvato dalle accuse per il rapimento di Abu Omar con il segreto di Stato e ricompensato con una qualifica di Consigliere di Stato. Vi meravigliate? Io ho poco disincanto forse perché essendo un direttore di giornale ho potuto verificare che in favore di Pollari con dossier mirati si muovevano strani personaggi calabresi in odor di massomafia. Non avete mai incontrato uomini delle istituzioni che si sentono Stato più Stato degli altri? Spesso in rapporto stretto con giornalisti di grido dotati di ottimi fonti e che nelle redazioni possono far emergere titoloni su quel personaggio o capaci di far circolare dossier molto documentati contro avversari interni o esterni. Anche loro P3? Chissà. Stiamo ai fatti senza troppo dietrologia e comprendiamo chi è il generale Ganzer condannato a 14 anni da un Tribunale di quello Stato che doveva servire. Accademia Militare di Modena. Capitano e allievo del generale Dalla Chiesa tiene il fortino strategico di Padova dove coordina il blitz contro l’Autonomia. Si tratta del processo «7 aprile» ovvero quando l’inquisizione politica consente l’eclisse del Diritto. Il dossier che arriva al giudice Calogero porta le firma di Ganzer. Sul fronte della criminalità cattura la banda dei giostrai. Poi infiltra uno dei suoi uomini nella “Mafia del Brenta” di Felice Maniero. Pochi ricordano che un pm indaghi l’ufficiale dei carabinieri per falsa testimonianza a difesa dell’infiltrato. La circostanza è citata da Fiorenza Sarzanini del Corsera che la elogia in positivo chiosando : “preferì finire sotto processo piuttosto che tradire un collaborante”. Carabinieri su una linea d’ombra. Stato nello Stato. Ma ci sono anche magistrati che non fanno sconti. Parte da lontano la vicenda che ha visto condannare il capo Dei Ros ad una pesantissima condanna a 14 anni di carcere. A Ganzer è andata male perché ha trovato un mastino sulla sua strada. Lo stesso magistrato che ha indagato sul Sismi di Pollari. Un pm tostissimo. Armando Spataro della Procura di Milano. Che si fida ciecamente di Ganzer. Ma quelli come Spataro non si bevono tutto come oro colato. Anche se ti chiami Ganzer. Il pm riceve la richiesta di un’ autorizzazione a ritardare il sequestro di una partita di droga. Questo il racconto del pm dagli atti processuali:«Mi disse che il Ros disponeva di un confidente colombiano che aveva rivelato l’arrivo nel porto di Massa Carrara di un carico di 200 chilogrammi di cocaina. Era destinata alla piazza di Milano e il confidente era disposto a fornire al Ros le indicazioni necessarie per seguire il carico fino a destinazione e catturare i destinatari della merce». Spataro firmò il decreto di ritardato sequestro. Ma i piani del Ros cambiarono: l’operazione infatti fu effettuata. Ma, dopo aver compiuto l’operazione, il Ros non diede più informazioni. Insospettito, Spataro si presentò negli uffici romani del Raggruppamento operativo speciale e chiese notizie attorno al sequestro dei due quintali di cocaina. Gli fu mostrata della droga conservata in un armadio. Quando, molti mesi dopo, Ganzer gli prospettò l’ipotesi di vendere quella droga a uno spacciatore di Bari, Spataro decise di informare il capo della procura e alcuni suoi colleghi. E ordinò la distruzione della droga. Un copione che sarebbe poi stato ricalcato molte altre volte. Secondo l’accusa, gli stessi carabinieri erano diventati protagonisti del traffico e le brillanti operazionì non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi all’ opinione pubblica. Anche Fabio Salomone pm bresciano indaga sul Ros. Quello di Bergamo. I carabinieri reclutano giovani pusher su piazza. Trovano i clienti e vendono la coca. Un gruppo di carabinieri fa carriera con operazioni dove i soldi spariscono e che hanno una sorta di regia etorodiretta. Un esponente della malavita, Biagio Rotondo, detto «Il Rosso» racconta al pm Salomone che nel 1991 due carabinieri del Ros lo avvicinarono in carcere e gli proposero di diventare un confidente nel campo della droga. In realtà, secondo l’accusa, questi confidenti (tra il 1991 e il 1997 ne furono reclutati in gran numero) venivano utilizzati come agenti provocatori, come spacciatori, come tramiti con le organizzazioni dei trafficanti. «Il Ros – scrivono i giudici nel rinvio a giudizio – instaura contatti diretti e indiretti con rappresentanti di organizzazioni sudamericane e mediorientali dedite al traffico di stupefacenti senza procedere nè alla loro identificazione nè alla loro denuncia… ordina quantitativi di stupefacente da inviare in Italia con mercantili o per via aerea, versando il corrispettivo con modalità non documentate e utilizzando anche denaro ricavato dalla vendita in Italia dello stupefacente importato. Denaro di cui viene omesso il sequestro». «Si tratta – annota la Procura di Milano – di istigazione ad importare in Italia sostanze stupefacenti». I sottoufficiali indagati nascondono microspie ambientali e registrano l’interrogatorio del Pm. Per Ganzer è un gioco facile denunciare Salomone per abuso alla procura di Venezia e paralizzare per lungo tempo l’inchiesta. Un’inchiesta, nata a Brescia nel 1997 (pm Fabio Salamone) passata poi a Milano (pm Davigo, Boccassini e Romanelli) perchè coinvolgeva un pm bergamasco, salvo poi essere mandata a Bologna (per un episodio a Ravenna), restituita da Bologna a Milano, girata a Torino e rispedita a Bologna, che sollevò conflitto di competenza in Cassazione, la quale stabilì infine la competenza di Milano. Un giro d’Italia che ha ritardato la fine di un processo durato un’eternità e che a quello di piazza Fontana gli fa un baffo per quanti tribunali ha visitato nel silenzio generale. E Biagio Rotondo detto “Il Rosso”? Il testimone che ha permesso di scoprire i giochi del Ros è morto suicida in carcere a Lucca il 29 agosto nel 2007. Cinque giorni prima la squadra mobile lo ha arrestato nell’ambito di un’inchiesta su delle rapine avviata con delle intercettazioni. Fuori dal ristorante dove lavora è stata trovata avvolta in un tovagliolo una vecchia pistola di strana provenienza e che ha giustificato il fermo per porto d’armi abusivo. Nella sua ultima lettera indirizzata anche ai magistrati che hanno gestito la sua collaborazione c’è scritto: “Confermo che tutto quello che ho detto corrisponde a verità. E’ un momento tragico per la mia vita, sono fallito come tutto e ritrovarmi in carcere senza aver fatto nulla è per me insopportabile…Vi chiedo scusa per questo insano gesto”. C’è un’altra presunta mela marcia in questa storia. E’ il magistrato Mario Conte che a Bergamo offre la copertura legale al supermarket carrierista della droga. E quando l’inchiesta Salomone decolla Conte si fa trasferire a Brescia acconto alla stanza di Salomone. Per motivi di salute la sua posizione è stralciata e si trova in attesa di giudizio. Si vedrà. Per il momento una sentenza di primo grado ci dice che il metodo Ganzer nella lotta alla droga ha permesso l’ arresto di molti pesci piccoli, sono aumentate le finanze di molti narcos ed è aumentato il volume della cocaina nel nostro Paese. Senza dimenticare le violazioni del diritto e la deviazione delle istituzioni. Chissà se vi è capitato di assistere in televisione a vedere i servizi di quelle operazioni antidroga come “Cobra” o “Cedro” e che nulla altro sarebbero state che delle recite a soggetto. I Ros di Ganzer avrebbero anche installato una finta raffineria a Pescara per rendere più brillante l’operazione. Ma tutto questo non era un’associazione a delinquere secondo il Tribunale di Milano. Resta con la prescrizione una zona d’ ombra anche per un carico arrivato dal Libano di 4 bazooka,119 kalasnikov, 2 lanciamissili in quel caldissimo 1993 italiano e che secondo l’originario capo d’accusa i Ros avrebbero venduto alla cosca dei Macrì-Colautti. I soldi dell’affare non si trovano. Solo qualche traccia bancaria sbiadiata. Guadagni forse personali e qualche conto off shore che l’inchiesta non è stata in grado di trovare. Ganzer e Obinu sapevano quello che combinavano i sottoposti. Sono stati tutti condannati insieme al loro tramite libanese Jean Ajai Bou Chaya che dovrà scontare 18 anni di carcere. Intanto a Milano per arrivare a questa sentenza sono stati escussi trecento testimoni (a favore di Ganzer la difesa ha anche chiamato l’ex procuratore nazionale Vigna) e accorpati centoquaranta fascicoli. Tenute 163 udienze in cinque anni, 28 tra requisitorie e arringhe, 8 giorni di camera di consiglio. Nessuno ha seguito il processo fatto salvo rinvio a giudizio, richiesta pena e cronache sulla sentenza. L’unica eccezione è rappresentata da un articolo dell’Unità apparso in pagina il 25 febbraio del 2009 a firma di Nicola Biondo. Il generale Ganzer in tutto questo trambusto è diventato capo del Ros dal 2002 con beneplacito di destra e sinistra. A Mario Mori sotto processo a Palermo succede Ganzer condannato ieri a Milano. Allievi di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nucleo speciale. Molti ufficiali e poca truppa. Investigazione speciale e segreta. I magistrati sono stati spesso al loro guinzaglio, intercettazioni invasive e operazioni nella terra di mezzo con il confidente. Una strana miscela che ha fatto esplodere conflitti esplosivi come quello tra il colonnello Riccio e Mori in Sicilia. Anche per Riccio condotte illegali nelle indagini antimafia gli sono costate una condanna in Appello a 4 anni e 10 mesi. Chi è più Stato dello Stato? I Ros di Ganzer oggi gestiscono le inchieste sui fondi neri a Finmeccanica, i ricatti a Marrazzo, tutte le nobile gesta della cricca, l’asse calobro-lombarda delle ndrine e gli affari della Camorra. Può il generale rimanere al suo posto? Secondo il ministro dell’Interno leghista e per il Comando generale dell’Arma non ci sono dubbi, dall’opposizione non vola neanche una mosca. L’ attuale presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, da ministro dell’Interno vide lungo e chiese che alcune competenze dei reparti speciali italiani andassero ai comandi territoriali. Il Gico della Guardia di Finanza e lo Sco della Polizia hanno ottemperato alla disposizione. Tranne il Ros dei carabinieri che con le sue ventisei sezioni dislocate nelle Procure distrettuali restano delle monadi impenetrabili. Da quei reparti vengono uomini come Angelo Jannone, Giuliano Tavaroli, Marco Mancini e finiti tutti nello scandalo dei dossier illegali Telecom-Sismi. E gli ex Sismi accusano gli ex Ros di avere contatti proprio con Ganzer che con il Ros di Roma va a Palermo a disarticolare l’ufficio di Genchi subito sospeso dall’incarico senza essere formalmente indagato mentre il generale resta al suo posto mancando solo la promozione di generale di brigata. I Ros sono quelli che arrestarono a Milano il calabrese Daniele Barillà, sette anni di carcere innocente risarcito con soldi e la fiction di Beppe Fiorello “L’uomo sbagliato”. Potremmo narrarvi tante storie sul Ros. Ma io che sono un cronista di provincia ricordo che il Ros di Ganzer si occupò anche dei No Global di Cosenza e della Rete del Sud ribelle dopo i fatti di Genova. E dal mio archivio pesco un documentato articolo di Peppino D’Avanzo che su Repubblica ci svelava questa trama: «ACCADE che il Raggruppamento Operazioni Speciali (Ros) dell’Arma dei Carabinieri si convinca che dietro i disordini di Napoli (7 maggio 2001) e di Genova (21 luglio 2002) non ci sia soltanto il distruttivo, nichilistico furore di casseur europei o il violento spontaneismo delle teste matte (e confuse) di casa nostra, ma addirittura un’associazione sovversiva. Concepita l’ipotesi, gli investigatori dell’Arma intercettano, spiano, osservano, pedinano. In assenza di contraddittorio, s’acconciano come vogliono cose, frasi, dialoghi, eventi, luoghi edificando una conveniente e coerente cabala induttiva. È il sistema che più piace agli addetti: “lavorare su materia viva, a mano libera”. Organizzato il quadro, occorre ora trovare un pubblico ministero che lo prenda sul serio. Alti ufficiali del Ros consegnano il dossier, rilegato in nero, di 980 pagine più 47 di indici e conclusioni ai pubblici ministeri di Genova. Che lo leggono e concludono che ‘quel lavoro è del tutto inutilizzabile’. Gli investigatori dell’Arma non sono tipi che si scoraggiano. Provano a Torino. Stesso risultato: “Questa roba non serve a niente”. Il dossier viene allora presentano ai pubblici ministeri di Napoli. L’esito non è diverso: il dossier, da un punto di vista penale, è aria fritta. Finalmente gli ufficiali del Ros rintracciano a Cosenza il pubblico ministero Domenico Fiordalisi. Fiordalisi si convince delle buone ragioni dell’Arma dei Carabinieri. Ora rendere conto delle buone ragioni del Ros che diventano buone ragioni per il pubblico ministero e il giudice delle indagini preliminari, Nadia Plastina, è imbarazzante per la loro e nostra intelligenza». Nadia Plastina è stata promossa, Fiordalisi è diventato pm in una procusa sarda e vive sotto scorta per le minacce ricevute. I militanti arrestati nell’operazione No global sono stati tutti assolti nel processo di primo grado e devono affrontare quello d’appello. Il generale Ganzer è stato condannato da un tribunale dello Stato e resta al suo posto di comandante del Ros.

L'inchiesta a Bergamo di Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”. Le toghe a tavola fanno festa coi boss del narcotraffico. Spuntano le foto di tre magistrati bergamaschi con Patrizio e Massimo Locatelli: finiti in carcere dopo il papà per traffico di droga.  Della famiglia di malavitosi parla Roberto Saviano nel suo ultimo libro "ZeroZeroZero". «Il nome di un trafficante di droga non lo ricorda mai nessuno». Lo scrive Roberto Saviano nel suo ultimo libro, ZeroZeroZero, in cui parla di cocaina e spiattella la storia del boss bergamasco Pasquale Claudio Locatelli. Attualmente è in carcere: poco dopo il suo arresto finirono in cella pure i due figli Patrizio e Massimiliano. Saviano si sorprende che nessuno, neanche nella provincia lombarda, avesse sentito puzza di bruciato quando i rampolli facevano fortune con un’industria edile come la Lopav Spa, mentre il papà-boss era già in galera con accuse pesantissime e il sospetto di legami con i clan di mezzo mondo, tra cui quello camorristico dei Mazzarella. Saviano ha ragione: nessuno sembrava sospettare. Neanche i magistrati bergamaschi. Tanto che alcuni di loro, tra i più seri e brillanti, facevano festa e pranzavano proprio con i figli del narcotrafficante. Facendosi addirittura fotografare per una rivista locale. Era infatti successo che poco prima di essere arrestati per ordine del gip di Napoli, i due ragazzi avessero organizzato un evento per riunire i 150 dipendenti e le relative famiglie. Era domenica 19 settembre 2010. Alle Ghiaie di Bonate, oltre ai titolari e agli operai, c’erano parecchi ospiti vip. Qualche politico. Alcuni religiosi, come l’arcivescovo Gaetano Bonicelli. E soprattutto tre magistrati: Carmen Pugliese, Angelo Tibaldi, Mario Conte. Non erano soli. C’era anche un ispettore di polizia in servizio in Procura. Questo dicono le fotografie. In più, alcuni dei presenti ricordano di aver visto pure il direttore del carcere di Bergamo Antonino Porcino e un sottoufficiale della Guardia di Finanza. Circa un mese dopo, Patrizio e Massimiliano Locatelli finiranno in manette con l’accusa di concorso in traffico di stupefacenti e riciclaggio. Gli hanno sequestrato beni per circa 10 milioni. Già questo avrebbe dell’incredibile. Ma il peggio è che il padre, Pasquale Claudio, era un fuoriclasse della malavita. Saviano lo racconta bene nel libro. Quando aveva vent’anni si dedicava al furto di auto di grossa cilindrata. Locatelli - scrive Saviano - è furbo e inizia a imparare le lingue per allargare i suoi interessi. Austria. Francia. Poi Spagna. S’inventa parecchi soprannomi e si stabilisce in una villa nei dintorni di Saint-Tropez. Viene arrestato nel 1989. In casa gli trovano 41 chili di coca colombiana. Finito nel carcere di Grasse per scontare una decina di anni, si rompe un braccio. Gli agenti lo trasportano a Lione. Quando arriva a destinazione, un commando attacca la scorta e scappa col boss. È fuga. Va in Spagna e si fa chiamare «Mario di Madrid». Come racconta Saviano, è l’uomo di riferimento dei narcos colombiani in Europa e proprietario di una flotta navale per il traffico internazionale di cocaina. Non proprio un pesce piccolo, insomma. Lo scrittore lo definisce un «broker della polvere». E scrive: «Ha intuìto che l’eroina come mercato di massa stava finendo, mentre il mondo ne consumava ancora tonnellate». Nel 1991 riuscirà a scappare da una villa nel Bresciano, dove era andato dalla sua compagna Loredana. Pochi anni più tardi verrà pizzicato con un avvocato e il sostituto procuratore di Brindisi: nel processo il magistrato riuscirà a dimostrare di non sapere chi fosse Pasquale Locatelli e verrà prosciolto. Evidentemente, qualche boccone con le toghe sono un vizio di famiglia. Dopo anni di galera in Spagna, il boss torna nella prigione di Grasse (quella dell’evasione), ma nel 2004 devono estradarlo a Napoli. Una sentenza della Corte di cassazione gli ridà la libertà. E Locatelli senior torna in Spagna, dove fa dentro e fuori da galera distribuendo false identità. Intanto i due figli sono rimasti in Italia e mettono in piedi la Lopav Spa, che si occupa di pavimentazioni. Vincono pure un appalto da 500mila euro all’Aquila. Oltre a quello per il nuovo centro commerciale di Mapello, Bergamo, che a fine 2010 verrà scandagliato per la scomparsa della 13enne Yara Gambirasio, inghiottita nel buio di Brembate Sopra il 26 novembre 2010 e trovata cadavere tre mesi dopo. Nel maggio 2010 Pasquale Locatelli finisce in carcere, dopo che gli inquirenti avevano pedinato proprio il figlio che lo stava raggiungendo in Spagna. Pochi mesi dopo, anche i rampolli subiranno lo stesso trattamento. Nel corso delle indagini su Yara, era emerso che il padre della ragazza, Fulvio Gambirasio, aveva avuto rapporti di lavoro con la Lopav. Per Saviano, aveva addirittura testimoniato in un processo contro Pasquale Locatelli. Ma la pista di un possibile collegamento con la scomparsa della 13enne è stata abbandonata in fretta. Erano tanto sicuri di sé, i rampolli Locatelli, da invitare a pranzo dei magistrati. Angelo Tibaldi fu tra i più giovani ed efficaci sostituti procuratori che indagarono sugli episodi di corruzione che, nell’era di Tangentopoli, riguardavano anche Bergamo. Da anni è giudice del tribunale civile. Carmen Pugliese è attualmente il sostituto procuratore di maggior anzianità della Procura orobica. Si è occupata di più settori: dallo spaccio di droga alla pedofilia. Mario Conte, già sostituto procuratore a Bergamo e oggi giudice del tribunale civile, negli anni ’90 ha lavorato anche a Milano con Di Pietro. Recentemente è stato assolto dalla Corte d’assise di Milano dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti nel procedimento che lo vedeva imputato per i suoi rapporti con i carabinieri del Ros del generale Giampaolo Ganzer. Questa volta ha ragione Saviano. «Il nome di un trafficante di droga non lo ricorda mai nessuno».

Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

SE TU DENUNCI LE INGIUSTIZIE DIVENTI MITOMANE O PAZZO. IL SISTEMA E LA MASSOMAFIA TI IMPONE: SUBISCI E TACI. LA STORIA DI FREDIANO MANZI E PIETRO PALAU GIOVANETTI.

FREDIANO MANZI UN GESTO ESTREMO CONTRO L'ABBANDONO DEGLI USURATI.

Si è dato fuoco, davanti alla sede milanese della Rai, Frediano Manzi, presidente dell’associazione SOS Racket e Usura. Un gesto disperato, estremo, compiuto per richiamare l’attenzione delle istituzioni sulle tante, troppe, vittime del pizzo, dei soldi prestati a strozzo. Attività monopolio della criminalità organizzata per la quale non esiste crisi. Manzi ha lasciato comunque una lettera in cui spiega le ragioni del gesto e avanzerebbe alcune richieste: “Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno”; “rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura”. L’uomo avrebbe riportato ustioni di terzo grado su tutto il corpo, specie alla braccia e al torace. L’episodio è avvenuto poco dopo le 20.30 del 5 febbraio 2013 in corso Sempione. Dopo essersi cosparso il corpo di benzina il coordinatore di SOS Racket e Usura, secondo i giornalisti presenti, ha detto: “Tra 5 minuti mi do fuoco per tutte le vittime di usura. Addio”. Poi ha tirato fuori un accendino e si è dato fuoco. Ad intervenire per primo, mentre Manzi era avvolto dalle fiamme, è stato un autista del tram numero 19 che vedendo la scena è sceso dal mezzo pubblico con l’estintore e l’ha scaricato addosso a Manzi, che altrimenti rischiava davvero la morte o comunque conseguenze ancora peggiori di quelle in cui si trova adesso. L’autista ha raccontato: “Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato. Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l’estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva”. Il 4 gennaio 2013 Manzi si era già tagliato le vene denunciando di trovarsi in una situazione economica disperata e di aver dovuto chiudere due attività. Sotto minaccia da parte dalla criminalità organizzata (“per la ‘ndrangheta sono un morto che cammina”) a fine 2011 aveva scioccato tutti dicendo di aver commissionato due attentati a una della sue attività, un negozio di fiori. Perché? Per attirare l’attenzione su Sos Racket e Usura. Per questo finì indagato a Milano e Busto Arsizio e la sua credibilità, inevitabilmente, subì un duro colpo. Manzi aveva patteggiato un anno e otto mesi di reclusione dopo aver confessato di aver commissionato per 1.200 euro al pluripregiudicato Alberto Marcheselli un finto attentato a un suo chiosco di fiori a Parabiago, per poi denunciare che si trattava di un atto di intimidazione contro l'attività della sua associazione. Ciò non toglie che grazie all’attività dell’associazione da lui presieduta e alle sue denunce sono state aperte diverse inchieste, come nel 2010 quando a Milano erano state arrestate alcune persone per il racket sulle case popolari. Era stato sempre Manzi a sporgere denuncia contro l’ex prefetto di Napoli Carlo Ferrigno, che due anni fa per le accuse di millantato credito e prostituzione minorile ha patteggiato una pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione. Manzi aveva chiesto di parlare ai giornalisti che si occupavano del telegiornale e quando gli addetti alla portineria lo hanno invitato ad allontanarsi ha minacciato di darsi fuoco. Poco dopo, si è cosparso di liquido e ha dato corpo alla sua minaccia. L'uomo è stato soccorso da un tramviere dell'Atm. "Stavo transitando in corso Sempione quando ho visto le fiamme e istintivamente mi sono fermato", ha raccontato il soccorritore. "Poi ho capito che era un uomo e sono sceso con l'estintore e ho spento il fuoco che lo avvolgeva". Sul posto sono intervenuti i carabinieri, che si sono fatti consegnare la lettera lasciata da Manzi agli uscieri e che cominciava così: "Ho deciso di darmi fuoco per portare l'attenzione delle istituzioni su tutte le vittime dell'usura". Prima di cospargersi di benzina e appiccare le fiamme a se stesso con un accendino, Manzi ha consegnato alla tv di Stato una lettera in cui ribadisce il motivo del suo gesto, accompagnandolo con delle richieste, disperate tanto quanto lui. «Per le vittime dell’usura che nessuno aiuta», si legge nel foglio, scritto a mano. Poi alcune richieste, quelle degli ultimi 10 anni di lotte. «Una commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno», o «rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura». In realtà Frediano Manzi da tempo versava in uno stato di profonda prostrazione, e aveva recentemente già tentato il suicidio tagliandosi le vene. Dopo i clamori seguiti alle importanti inchieste che le denunce della sua associazione (che negli anni è diventata un punto di riferimento per le vittime del racket) avevano fatto partire, nell’ambito non solo dell’usura ma dell’intreccio tra la criminalità organizzata e gli enti locali, lui stesso era scivolato nel baratro finendo a sua volta denunciato per aver simulato un attentato a uno dei suoi negozi di fiori. Così era inevitabilmente cominciato il declino della sua credibilità. Una situazione che, insieme ai suoi problemi economici e alle continue minacce della criminalità organizzata, lo avevano minato profondamente spingendolo ormai a una vita border line. 

Povero Frediano Manzi. Non sa che per essere finanziato e sostenuto basta santificare i magistrati ed essere di sinistra?

IN CARCERE PER AVER DIFESO LA GIUSTIZIA.

Lui non si chiama SALLUSTI... è PIETRO PALAU GIOVANETTI presidente di AVVOCATI SENZA FRONTIERE... sta per finire in carcere in ITALIA  per avere difeso i diritti dei cittadini... 

«Se potete vi prego di fare qualcosa è assurdo che mi mettano in carcere per avere denunciato la corruzione giudiziaria. Pensate che ieri abbiamo scoperto che la Procura Generale di Brescia ha omesso di trasmettere alla Cassazione il Ricorso per incidente di esecuzione che mi nega sia la prescrizione sia la continuazione sia l'errore di calcolo della pena residua. Lo Stato di diritto è morto....» Pietro Palau Giovannetti.

Tra le altre cose questo signore ha scritto sul suo sito questo pezzo.

QUANDO IL P.M. FA L'AVVOCATO DEGLI IMPUTATI: LO SCANDALOSO CASO MASTROGIOVANNI

Udienza 2 ottobre 2012, Vallo della Lucania. Per l'omicidio preterintenzionale di Francesco Mastrogiovanni, come prevedibile il P.M. Martuscelli ha chiesto di derubricare i reati più gravi, smontando l'impianto accusatorio del precedente P.M., Francesco Rotondo, "promosso" per impedirgli di concludere il processo, scrive “La Voce di Robin Hood”.

La Segreteria di Avvocati senza Frontiere, mentre è ancora in corso la requisitoria, rende noto che, a seguito della mancata astensione del P.M. Renato Martuscelli che ha ignorato la richiesta del difensore della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood, costituita parte civile con l'Avv. Michele Capano del Foro di Salerno, ha inviato un circostanziato Esposto al C.S.M. e al Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Salerno per procedere in sede disciplinare nei confronti del P.M. Martuscelli e per valutare la rilevanza penale delle gravi e molteplici violazioni procedimentali che si sono verificate nell'ambito del processo in corso da oltre tre anni. Dopo aver sottoposto ad attenta disamina lo svolgimento del processo, nonché le attività svolte dalle parti, i legali dell'Associazione si sono resi conto dell'intollerabile assenza del P.M. che in spregio alle sue funzioni istituzionali ha assunto in maniera sfacciata, senza mezzi termini, la difesa degli imputati, cercando di minimizzare le gravi responsabilità degli stessi, rivolgendo, viceversa, le proprie attività d'accusa nei confronti della vittima, nel precipuo scopo di alleggerire le condotte dei medici e del personale ospedaliero, nonché delle stesse forze dell'Ordine che hanno eseguito con modalità illegittime, il brutale fermo di una persona assolutamente sana di mente e pacifica che implorava di non venire portato presso il lager psichiatrico del San Luca di Vallo della Lucania, preavvertendo con grande lucidità che sarebbe stato ucciso. A riguardo, i legali di Avvocati senza Frontiere hanno ricordato la pregressa attività persecutoria del P.M. nei confronti del maestro elementare Francesco Mastrogiovanni, quando il povero Mastrogiovanni era ancora in vita, sottoponendolo, ingiustamente, già anni orsono, alla misura della custodia cautelare per oltre 9 mesi, per fatti del tutto insussistenti di pretesa "resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale", dai quali l'odierna vittima è stata poi assolta con formula ampia dalla Corte d'Appello di Salerno, riconoscendo l'abuso da parte delle Forze dell'Ordine, e condanna dello Stato Italiano da parte della Corte Europea per i Diritti dell'Uomo di Strasburgo, per l'ingiusta detenzione.
L'esposto prosegue denunciando l'anomalo comportamento endoprocessuale e l'assoluta inerzia investigativa del P.M. Martuscelli, anche nel connesso procedimento R.G.N.R. 1799/09, nell'ambito del quale ha richiesto nelle scorse settimane l'archiviazione nei confronti dei medici che avevano disposto il TSO di Mastrogiovanni, risultando perciò evidentemente incompatibile e impensabile che potesse oggi sostenere la Pubblica Accusa, sostituendo l'originario P.M. che aveva svolto in maniera ineccepibile le indagini e disposto i rinvii a giudizio, venendo infine rimosso, mediante promozione: "promoveatur ut amoveatur" (noto brocardo latino, la cui traduzione è "sia promosso affinché sia rimosso", usato per esprimere la necessità di liberare un ruolo chiave dell'organigramma dalla persona che lo occupa, promuovendola ad un qualunque altro ruolo di rango superiore, quale unico mezzo per poterlo "legalmente" allontanare dalla posizione occupata, ritenuta scomoda agli interessi dei poteri dominanti). Ciò non bastando, anche le stesse condotte endoprocessuali tenute dal Dr. Martuscelli nel corso del dibattimento hanno rivelato la sua manifesta parzialità, animosità e acrimonia verso la persona del defunto Mastrogiovanni, nei cui confronti giungeva addirittura ad infierire con diffamanti e false insinuazioni, dipingendolo come pericoloso sovversivo, spingendo i testimoni ad esprimere valutazioni negative e del tutto inconferenti alla illegittima prolungata contenzione che ne ha provocato la morte. D'altro canto, il Martuscelli rivelava prevenzione e grave inimicizia, omettendo qualsiasi attività, quale rappresentante della Pubblica Accusa, neppure ravvisando la necessità di sollevare eccezione di inammissibilità circa l'ammissione della testimonianza della Dr.ssa Di Matteo, in quanto indagata nel parallelo procedimento connesso R.G.N.R. 1799/09, relativo al TSO, giungendo, infine, ad omettere di richiedere l'acquisizione del video integrale delle oltre 83 ore di tortura con mani e piedi legati, senza acqua nè cibo, da cui si poteva, altresì, accertare la presenza del primario che invece la difesa sosteneva in ferie.
Ragioni per cui prima di conoscere l'esito della requisitoria del P.M. che si è poi appreso aver richiesto la derubricazione dei reati più gravi, premonitoriamente il comunicato stampa di Avvocati senza Frontiere avanzava l'ipotesi che vi erano fondati motivi per ritenere che il Martuscelli avrebbe richiesto l'assoluzione del primario del lager psichiatrico e pene miti nei confronti dei terzi imputati aventi causa.
In effetti, l'anomala Pubblica Accusa è andata ben oltre, ritenendo insussistente il reato di sequestro di persona, contestato in origine dal P.M. rimosso, a tutti i 18 imputati tra medici ed infermieri, ha fatto cadere l'imputazione di cui all'art. 586 c.p. (morte come conseguenza di altro delitto), sostenendo la mancanza dell'elemento doloso del delitto, chiedendo, infine, la derubricazione ad omicidio colposo. Attraverso tale capzioso percorso argomentativo, insultando il buon senso e l'intelligenza del popolo italiano che ha visto il video integrale dell'atroce agonia inflitta ad un uomo sano, libero e in pieno possesso della sue facoltà mentali, il P.M. Martuscelli, ritenendo la contenzione che ha provocato l'atroce morte della vittima, come "blanda e irrilevante", ovvero (sic!) un "atto medico dovuto", anzichè barbara tortura medievale, ha chiesto lievi pene comprese tra i due anni e i due anni e 7 mesi per il personale medico e sanitario in servizio la notte tra il 3 e il 4 agosto 2009. La difesa di Avvocati senza Frontiere anticipa che nella propria arringa richiederà anche ai sensi dell'art. 523 c.p.p., la visione del filmato integrale, sottolineando che, senza l'acquisizione agli atti di tale basilare prova, nessun giusto verdetto potrà scaturire all'esito del processo. E' da ritenersi infatti che l'anomalo P.M. non si mai neppure peritato di esaminare integralmente il filmato, in quanto ove avesse trovato il coraggio di farlo, posto di fronte alla consapevolezza dei fatti e a quali atroci sofferenze e' stata ininterottamente sottoposta la vittima di tali disumani trattamenti, definiti del tutto incoscientemente "atti medici dovuti" non avrebbe di certo avuto l'ardire di definire la contenzione praticata "blanda e irrilevante", nè tantomeno di coprire le ben più gravi responsabilità penali e sarebbe giunto a ben diverse ipotesi, contestando invece l'omicidio preterintenzionale.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Per il pubblico ministero decade dunque il capo d'imputazione principale contestato ai sanitari, e di conseguenza anche quello ad esso collegato, la morte come conseguenza di altro delitto. Martuscelli ha così derubricato quest'ultima imputazione, chiedendo invece la condanna per omicidio colposo dei soli medici e infermieri in servizio il 3 agosto del 2009, l'ultimo giorno di agonia del maestro cilentano (che muore alle 2 di notte del 4 agosto). Nel dettaglio: tre anni di reclusione per Michele Di Genio, il primario del reparto; due anni e sei mesi per Americo Mazza e Rocco Barone e due anni e sette mesi per Anna Ruberto (i tre medici in servizio quel giorno). Il pm ha contestato l'omicidio colposo anche ai sei infermieri in servizio il 3 agosto (Antonio De Vita, Antonio Tardio, Alfredo Gaudio, Antonio Luongo, Nicola Oricchio e Raffaele Russo), per i quali ha chiesto la condanna a due anni. In sostanza Martuscelli sostiene che chi era di turno l'ultimo giorno di vita di Mastrogiovanni avrebbe dovuto accorgersi del peggioramento delle sue condizioni. E che l'unica colpa penalmente rilevante dei sanitari di quel reparto sia questa. Viene invece confermata per tutti i medici l'accusa di falso in atto pubblico, per non aver registrato la contenzione sulla cartella clinica: Martuscelli ha chiesto condanne per un anno e due mesi di carcere (oltre che per i tre medici sopra citati, anche per Michele Della Pepa e Raffaele Basso), eccezion fatta per il primario Di Genio (la richiesta è di un anno e quattro mesi). Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla 'cattura' avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la 'storia sanitaria' di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto". Il processo continuerà il 16 ottobre, con l'arringa di Caterina Mastrogiovanni, l'avvocato dei familiari della vittima, e dei legali delle altre parti civili. A seguire ci saranno le arringhe dei difensori degli imputati, fino alla pronuncia della sentenza, prevista per il 30 ottobre.

CHI E’ PIETRO PALAU GIOVANNETTI.

Sono Pietro Palau Giovannetti, presidente del Movimento per la Giustizia Robin Hood e della rete "Avvocati senza Frontiere", nonché direttore responsabile del giornale on line www.lavocedirobinhood.it, Enti no profit che dirigo da oltre 25 anni, battendomi in prima persona per l'affermazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e una giustizia pulita libera da mafie, partiti, logge massoniche e corruzione. Mi permetto di richiedere la solidarietà di tutti gli spiriti liberi e le persone oneste, perché tra qualche giorno sarò tratto ingiustamente in arresto, senza aver mai commesso alcun reato, se non quello che non può certo considerarsi tale, di aver denunciato, sin dai tempi di "mani pulite", la dilagante corruzione politico-giudiziaria e gli abusi nei confronti dei soggetti più deboli che non hanno mezzi o stuoli di avvocati prezzolati, in grado di condizionare le istituzioni, ostacolando il regolare corso della Giustizia. Se nei prossimi giorni il P.G. di Brescia riterrà di arrestarmi, sono pronto ad andare in carcere a testa alta, perché credo in una Legge molto più grande di quella umana, controllata da logiche perverse e dalle varie mafie che soffocano la legalità. Sono intimamente convinto che in uno «Stato-mafia», come quello in cui viviamo che imprigiona ingiustamente i deboli e lascia deliberatamente impuniti colletti bianchi, criminali politici e mafiosi, "anche una prigione sia un luogo adatto per un uomo giusto", come affermava Henry David Thoreau, grande pensatore del Rinascimento americano, il quale nel saggio "Disobbedienza civile", sosteneva tra l'altro che è ammissibile non rispettare le leggi quando esse vanno contro la coscienza e i diritti dell'uomo, ispirando cosi i primi movimenti di protesta e resistenza non violenta. A fronte del mio incessante impegno civile e lotta alla "massomafia", ho subito oltre 750 procedimenti penali, di cui ben 114 solo in Cassazione, con le accuse più disparate per pseudoreati di natura ideologica, scaturenti dalle mie stesse denunce, ritenute assurdamente "corpi di reato", o dagli articoli pubblicati sui siti web dell'Associazione. Procedimenti da cui sono sempre stato per lo più assolto, per manifesta infondatezza delle notizie di reato. Ma ciò nonostante, dal 1986, sono stato fatto continuamente oggetto di rinvii a giudizio e addirittura di ripetute richieste di perizie psichiatriche, come in uso nelle dittature dei Paesi dell'Est, costringendomi a difendermi, senza sosta, in ogni sede, per gran parte della mia vita. Solo attraverso una ferrea difesa e la mia fede nella vera Giustizia sono riuscito a contrastare questa impressionante mole di attività persecutorie che non trovano precedenti nella storia del diritto internazionale, anche tenuto conto dell'enorme dispendio di risorse pubbliche impiegate per l'istruzione di svariate migliaia di udienze e centinaia di procedimenti penali, privi di qualsiasi consistenza, rilevanza e interesse sociale. Per l'abnormità delle procedure adottate il mio caso richiama quello del pacifista nonviolento, Danilo Dolci, che dagli anni '50, in Sicilia, dedicò la sua vita alla causa degli ultimi, lottando per l'emancipazione dalla povertà e dall'ignoranza, venendo, come me, ingiustamente arrestato e condannato per reati di opinione dalla magistratura di regime dell'epoca, tutt'oggi, purtroppo, ancora, asservita agli interessi della politica e della "massomafia", cioè di quel regime occulto trasversale ai partiti che da oltre 150 anni governa il Paese. La sua condanna venne infatti scandalosamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, seppure in sua difesa avessero testimoniato Premi Nobel ed intellettuali di fama mondiale del calibro di Carlo Levi, Erich Fromm, Norberto Bobbio, Elio Vittorini, Lucio Lombardo Radice, Padre David Turoldo, Don Zeno, etc., e l'arringa fosse stata pronunciata da Piero Calamandrei, tra i padri fondatori della nostra amata Costituzione. Oggi anch'io rischio il carcere, stante la definitività di alcune inique condanne per oltre 5 anni di reclusione, confermate dalla Cassazione per reati di pretesa "diffamazione, calunnia, oltraggio, resistenza", nei confronti di magistrati, avvocati e altri infedeli rappresentanti delle istituzioni, seppure, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza - che qui cito testualmente - i cosiddetti "precedenti penali" a me ascritti: "concernono sostanzialmente situazioni e contesti legati ad iniziative sociali quali quelle patrocinate dal Movimento per la Giustizia Robin Hood". Ma ciò nonostante mi vogliono mandare in galera dopo avermi perseguitato per oltre un quarto di secolo, neanche rappresentassi un pericolo pubblico! Le condanne inflittemi non colpiscono infatti un pericoloso delinquente, bensì un Human Rights Defender che, da oltre 25 anni, si adopera a tutela della legalità, denunciando gli abusi del potere e l'impunità di cui godono gli affiliati ai vari comitati d'affari e logge massoniche, che hanno occupato lo Stato, soffocando la democrazia, attraverso il controllo capillare delle istituzioni, dell'economia, dei media e della cultura, garantendosi in tal modo il «controllo sociale» e una forma di governo parallelo, che Ernst Fraenkel denominò "Doppio Stato". Cioè, la compresenza nell'assetto statuario di "normatività" e "discrezionalità", dove a fianco di un sistema apparentemente democratico, convive un ordine perverso, che applica, come ai tempi della Germania nazista, la discrezionalità sistematica nell'applicazione e nel rispetto delle leggi, allo scopo di intimidire, reprimere e sopprimere ogni forma di dissenso, perpetuando proprio grazie a questa autoreferenziale contraddizione di sistema, l'organizzazione del consenso e il dominio sui governati, dove le istituzioni sono invase da politici, pubblici amministratori e magistrati corrotti, in simbiosi con banchieri, massoni e mafiosi, mentre una parte sana ma minoritaria e priva di mezzi dello Stato e della Società civile, cerca di contrastarli, a rischio della propria stessa vita o di venire delegittimati, come fu per Falcone, Borsellino, Cordova, De Magistris, Ingroia e tanti altri fedeli servitori dello Stato. A riguardo, sin dagli anni '80, ho infatti inascoltatamente segnalato, anche con grandi manifesti, che la mafia aveva messo le mani sulla città, denunciando l'imperversante speculazione edilizia e gli abusi ambientali nei quartieri metropolitani milanesi, da parte dei vari comitati d'affari che, già da allora, all'ombra di illecite protezioni, spadroneggiavano impunemente, controllando il territorio e i gangli vitali delle istituzioni, attraverso quella che i P.M. di "mani pulite" definirono come "corruzione ambientale", senza poi però riuscire ad andare sino in fondo. Denunce, occorre ricordare, che hanno permesso alla Procura di Milano di portare alla luce massicci episodi di corruzione nella Guardia di Finanza e nella stessa magistratura, portando all'arresto, tra gli altri, del Generale Giuseppe Cerciello, e dell'allora insospettato Presidente del Tribunale di Milano, Diego Curtò, entrambi da me denunciati, sin dal 1989, venendo io, però, dapprima, incriminato per diffamazione e calunnia, nonché preso per "visionario", fino al loro arresto e alla definitiva condanna degli stessi per fatti di corruzione (quest'ultimo, come molti ricorderanno, in relazione alla megatangente Enimont e al lodo Mondadori). Il Movimento per la Giustizia Robin Hood, spezzando in parte l'azione ostruzionistica nei suoi confronti, ottenne poi il riconoscimento quale Onlus nella sezione civile del Registro del Volontariato della Regione Lombardia, con effetto retroattivo dal 1998, in forza di due sentenze del T.A.R., di cui una per obblighi di fare. Nonostante l'alto valore sociale di tali attività, come riconosciuto dallo stesso Tribunale di Sorveglianza, lo scorso 15/1/13, i giudici bresciani che avevano precedentemente sospeso il processo, rinviandolo a nuovo ruolo, in attesa dell'esito dei giudizi pendenti in Cassazione per incidente di esecuzione e avanti la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - che se accolti comportano la revisione automatica del processo "non equo" -, hanno invece cambiato indirizzo, riservandosi sulla revoca del mio affidamento ai Servizi Sociali, cosa che implicherà nei prossimi giorni l'obbligo di arresto per scontare una pena residua di 2 anni, 8 mesi, 17 giorni, dopo aver già espiato anni 1, mesi 5 e giorni 7 di reclusione, oltre ad 1 anno di Libertà controllata, neanche fossi un mafioso o un criminale, per un totale di ben oltre 5 anni di carcerazione! Taluni media falsamente garantisti quando si tratta di coprire i potenti, sicuramente cercheranno di gettare altro fango, insinuando ogni sorta di dubbio e calunnia nei miei confronti, a partire da il Giornale di Sallusti, che ho già avuto modo di denunciare per il contenuto diffamatorio dell'articolo: "Il nuovo eroe antipremier? E' in realtà un bancarottiere condannato per calunnia", articolo apparso in data 14/5/11, in occasione del processo Mills e del mio fermo illegale avanti al Tribunale di Milano, ad opera della Digos, che molti forse ricorderanno, avendo destato anche presso la stampa estera, notevole indignazione e scalpore per le modalità brutali e la manifesta ingiustizia. Voglio quindi si sappia che, al di là delle calunnie della stampa di regime, non ho mai subito alcuna definitiva condanna per reati societari come il padrone di Sallusti e che l'unica vera ragione dell'accanimento di settori deviati della magistratura nei miei confronti, risiede nel fatto che ho denunciato, per primo, l'esistenza di poteri esterni allo Stato, ovvero di un «Regime occulto», in grado di condizionare l'intero arco parlamentare, media, forze dell'ordine e organi giurisdizionali, sino alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, mettendo in luce il ruolo di subalternità delle mafie agli apparati dell'alta finanza e dello Stato e, quel che, sicuramente, più disturba, alla Massoneria internazionale, secondo la stessa prospettiva investigativa di Giovanni Falcone, che partendo dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta aveva capito, sin dal 1984, come la Massoneria rappresenti il «collante» dei vari poteri criminali con la politica, le istituzioni e i servizi segreti. Non credo perciò di meritare di andare in carcere per le mie denunce, come non lo meritava neppure Sallusti, seppure coltivasse ragioni diametralmente opposte alle mie, perché in un Paese veramente libero nessuno può venire incarcerato per le proprie idee. Grazie di cuore per la Vs. attenzione e per il Vs. sostegno nelle forme che più riterrete opportune.

Pietro Palau Giovanetti secondo “Il Giornale”. E meno male che Sallusti sa cosa vuol dire essere perseguito per reato di opinione. Le urla, «vergogna, vergogna», gli spintoni, la polizia che arriva e trascina via il contestatore: il tutto sotto gli obiettivi delle telecamere, che documentano in diretta l'ennesimo caso di repressione del dissenso. La scena accade davanti al tribunale di Milano, blindato dale forze dell'ordine per la nuova udienza a carico di Silvio Berlusconi. Protagonista della protesta solitaria, racconteranno le cronache e le telecronache, un avvocato: un professionista indignato per le malefatte del capo del governo, e deciso a manifestare il suo sostegno a Ilda Boccassini e ai suoi colleghi. Ma alle 15.36 di ieri pomeriggio un comunicato dell'Ordine degli avvocati milanesi costringe a rivedere la faccenda: «A seguito dei recenti fatti di cronaca divulgati in data 9 maggio 2011 in relazione allo svolgimento del processo Mills, in occasione del quale si è riferito di un contestatore, Pietro Palau Giovannetti, indicato dalla stampa come avvocato, si comunica che tale Pietro Palau Giovannetti non risulta iscritto negli elenchi professionali tenuti dal consiglio dell'Ordine degli avvocati di Milano». E quindi? Se non è un avvocato, come hanno scritto i giornali, chi è il signore alto e robusto che i carabinieri hanno trascinato via mentre urlava «vergognatevi buffoni» ai militanti del Pdl in attesa di Berlusconi sotto il tribunale? L'aspirante icona della sinistra (emulo di Pietro Ricca, che nel 2003 urlò «buffone» a Berlusconi in tribunale e su questo costruì una carriera) è in realtà un personaggio di cui le cronache giudiziarie si sono dovute occupare in più di un'occasione. Titolare di una piccola azienda di auto d'epoca, la Classic Cars, Palau finisce gambe all'aria all'inizio degli anni Novanta e viene inquisito per bancarotta fraudolenta. A quel punto si trasforma in un implacabile accusatore della magistratura che - a suo dire - lo avrebbe ingiustamente inquisito. Attraverso l'associazione «Robin Hood» di cui è presidente, segretario e unico militante lancia la sua crociata contro le malefatte dei giudici. Se la prende in particolare con il procuratore Francesco Saverio Borrelli, che accusa di malefatte di ogni genere: querelato dal capo di Mani Pulite, Palau viene condannato per calunnia. Ma non si arrende, anzi. E qui la faccenda si fa interessante. Il nome di Palau Giovannetti viene infatti citato in una intervista al Corriere, nel maggio 1997, dal pm Piercamillo Davigo. Si parla del misterioso «dossier Achille», un documento attribuito al Sisde in cui si ipotizzavano tra l'altro infiltrazioni ebraiche e massoniche nel pool Mani Pulite. Ed ecco cosa dice Davigo: «Per carità, io posso fare solo un'ipotesi. L'unica cosa che mi viene in mente è la valanga di denunce presentate da Pietro Palau Giovannetti... La conosce la sua storia? Quel signore abitava in uno stabile di un immobiliarista milanese, Virginio Battanta. Ricevuto lo sfratto, Palau lo ha denunciato. Poi, quando è finito sotto inchiesta per due fallimenti, ha cominciato a presentare esposti a Brescia contro i pm di Milano che, a suo dire, non avrebbero indagato. Di lì è nato un groviglio di inchieste a catena, con decine o forse centinaia di denunce incrociate, penso che ora se ne occupi Trento ma non escludo che prima o poi, passando da una Procura all'altra, finisca tutto a Trieste. Ecco, ricordo che una delle tante denunce di Palau fu indirizzata al procuratore Cordova (all'epoca procuratore di Palmi), che all'epoca era titolare della maxi-inchiesta sulle logge coperte. Che io ricordi, quella è l'unica denuncia che abbia mai ipotizzato infiltrazioni giudaico-massoniche, espressione forse usata in senso generico, approssimativo, tra i magistrati di questa Procura». Sono passati quattordici anni. E lunedì scorso il bancarottiere che allora accusava la Procura milanese di essere un covo di massoni riemerge all'improvviso, trasformandosi in «avvocato» e incarnando per mezza giornata la nuova icona del popolo filo-giudici.

Marco Travaglio a riguardo ha qualcosa da dire.

HANNO AVUTO IL CORAGGIO DI CHIAMARLA "GUERRA TRA PROCURE", QUANDO L'UNICA VERA GUERRA E' QUELLA MOSSA DAI POTERI OCCULTI ALLA PARTE SANA DELLA MAGISTRATURA PER INSABBIARE LE INDAGINI SUGLI INTRECCI TRA MAFIA, STATO E MASSONERIA. IL TRISTE EPILOGO ALL'ITALIANA DELLE INCHIESTE SCIPPATE ALLA PROCURA DI SALERNO E I PROVVEDIMENTI CONTRO IL PROCURATORE APICELLA E GLI ALTRI MAGISTRATI CHE INDAGAVANO SUI FILONI DI DE MAGISTRIS NE SONO LA PIU' CHIARA DIMOSTRAZIONE. STATO E C.S.M. HANNO DATO L'ENNESIMA PROVA DI STARE DALLA PARTE DELL'ILLEGALITA', INSIEME AL PRESIDENTE NAPOLITANO CHE AL DI LA' DELLE SOLITE DICHIARAZIONI RETORICHE DI FINTA EQUIDISTANZA NON HANNO SAPUTO FAR ALTRO CHE DIFENDERE I PERVERSI INTERESSI DELLA POLITICA E DI CHI VUOLE METTERE LE MANI SULLA GIUSTIZIA.

Di seguito pubblichiamo sul tema un intervento di Marco Travaglio tratto dal Blog Voglio Scendere: "Scontro finale tra politica e magistratura".
"Buongiorno a tutti.
Non so se avete notato la miseria di questo dibattito sulla questione morale.
Il ritorno del dibattito sulla questione morale: i giornali pullulano di interviste dei vari Pomicini, De Michelis, Di Donato.
Vari parenti di Craxi... persino Capezzone che dice che Veltroni dovrebbe chiedere scusa a Bettino Craxi.
La questione morale, come al solito, viene usata per buttarsi addosso a vicenda le proprie vergogne anziché guardarle e possibilmente cancellarle.
Tant'è che il massimo di risposta che sono riusciti a partorire i vertici del PD, quando Berlusconi ha visto la questione morale - ovviamente soltanto la loro e non la sua che è talmente gigantesca che non riesce nemmeno più a vederla, data la statura fra l'altro - è stata: "ma tu hai portato in Parlamento inquisiti e condannati".
Naturalmente hanno dimenticato i propri.
Il massimo che possono dire è "noi ne abbiamo di meno", come se ci si potesse difendere o addirittura attaccare dicendo "noi abbiamo meno inquisiti e meno condannati di te".
Bisognerebbe poter dire "noi non ne abbiamo".
Quando Grillo e tanti altri hanno proposto questa legge di iniziativa popolare per cacciare i condannati dalle liste elettorali, anche se le firme raccolte questa volta erano quelle giuste e nessuno ha potuto metterle in discussione, nemmeno Carnevale, il Parlamento se l'è presa comoda, tant'è che non siano ancora nemmeno arrivati a una discussione sul tema.
Lasciamo perdere queste menate di partiti che ormai stanno chiaramente disfacendosi, sfarinandosi, dissolvendosi senza nemmeno che se ne rendano conto, e vediamo di parlare dell'altro grande titolo che campeggia sui giornali da quasi una settimana.
Cioè da mercoledì scorso, quando la procura di Salerno è scesa a Catanzaro per sequestrare gli atti dell'indagine Why Not e comunicare a un bel po' di magistrati calabresi e lucani che sono indagati per il mega complotto ipotizzato contro Luigi De Magistris.
Il titolo che è andato in edicola e in onda a reti unificate e a edicole unificate è "Guerra fra procure", "Guerra fra PM", "Scontro fra procure, interviene Napolitano".
Questo è l'unico dato costante.
La prima riga del titolo serviva a giustificare la seconda: se c'è effettivamente una guerra fra procure deve intervenire qualcuno a spegnare l'incendio, e quindi meno male che c'è il Capo dello Stato.
La domanda è: ma davvero c'è una guerra fra procure? Davvero c'è uno scontro fra PM? Davvero Salerno e Catanzaro stanno sullo stesso piano e si attaccano vicendevolmente, ma abusivamente tanto da giustificare l'intervento del pompiere del Quirinale e dei pompieri del Consiglio Superiore della Magistratura?
Vediamo. I fatti sono questi.
Qualche mese fa, De Magistris viene trasferito dalle funzioni che occupa e dalla sede che occupa, cioè da Pubblico Ministero e da Catanzaro, dal Consiglio Superiore che stabilisce come lui non possa più fare il Pubblico Ministero e non possa più fare il magistrato a Catanzaro.
Quindi viene trasferito alla giudicante a Napoli.
Nel frattempo arrivano in pellegrinaggio alla procura di Salerno decine di suoi inquisiti o di suoi superiori o colleghi che vogliono denunciarlo per enormi nefandezze da lui commesse durante i tre anni di procura a Catanzaro.
Soprattutto, si concentrano sulle tre indagini importanti che De Magistris aveva fatto e che, secondo questi denuncianti in processione, sono tutte quante viziate da ogni sorta di nequizia.
L'indagine Poseidone, sui depuratori che si dovevano fare in Calabria e che sono stati finanziati dall'Unione Europea con 800 milioni di euro e non se n'è mai visto uno, di depuratore.
L'indagine sulle toghe lucane, per i comitati d'affari che collegano magistrati della Basilicata, sui quali è competente a indagare Catanzaro e per questo se ne stava occupando De Magistris.
Eppoi l'indagine Why Not, quella che, oltre a vari faccendieri, ex piduisti, ufficiali dei servizi segreti, della Guardia di Finanza, politici, giornalisti collusi, qualche mafiosetto di passaggio, aveva come principale imputato questo Antonio Saladino, capo della Compagnia delle Opere che è il braccio finanziario-affaristico di Comunione e Liberazione.
E, al suo fianco, una lobby trasversale di uomini politici che coinvolge personaggi che stanno intorno all'allora presidente del Consiglio Prodi, che viene lui stesso indagato ma non perché sia accusato di avere fatto qualcosa lui personalmente, ma perché c'era uno di questi del suo giro coinvolto nei rapporti poco chiari con Saladino, che utilizzava un cellulare in uso anche a Prodi.
Per vedere come veniva usato questo cellulare viene indagato Prodi, proprio per poter chiedere al Parlamento l'autorizzazione a utilizzare e indagare su quei tabulati.
Poi Mastella, l'ultimo degli indagati perché appena viene indagato, allora ministro della Giustizia - siamo all'ottobre del 2007 - De Magistris si vede togliere anche questa indagine.
Bene, queste tre indagini, secondo tutti questi processionari che vanno a Salerno, sarebbero viziati da gravi reati commessi da De Magistris: fughe di notizie, abusi.
Perché vanno a Salerno a denunciare De Magistris? Perché Salerno è competente a indagare sugli eventuali reati commessi da magistrati di Catanzaro.
Per fortuna i magistrati di Catanzaro non possono indagare su se stessi, indaga Salerno.
Se poi Salerno ha commesso irregolarità, indaga Napoli. Su Napoli indaga Roma, su Roma indaga Perugia e così a catena.
Una volta c'erano le competenze incrociate tra le procure: Perugia indagava su Roma e Roma su Perugia.
Brescia indagava su Milano e Milano su Brescia.
Genova su Torino e Torino su Genova.
Catanzaro indagava su Salerno e Salerno su Catanzaro.
Ma se io indago su Beppe Grillo e Beppe Grillo indaga su di me, alla fine può capitare che, se siamo due poco di buono, ci mettiamo d'accordo: io non indago su di te, tu non indaghi su di me, una mano lava l'altra e così continuiamo a fare le nostre porcherie, indisturbati.
Ecco perché, nel 1998, furono cancellate le competenze incrociate e quindi si stabilì che se io indago su Grillo, lui non può indagare su di me: su di me deve indagare una terza persona, in modo che così non ci possiamo mettere d'accordo perché non abbiamo il do ut des.
Quindi Salerno è competente per indagare sui reati dei magistrati di Catanzaro, e lì arrivano coloro che vogliono denunciare De Magistris per quello che ha fatto a Catanzaro.
Ma anche De Magistris a Salerno fa delle denunce: denuncia a sua volta i sui superiori e alcuni suoi imputati, avvocati di suoi imputati, giornalisti al seguito dei suoi imputati o dei suoi superiori, che secondo lui lo avrebbero screditato, calunniato, isolato, espropriato delle sue inchieste.
Insomma, avrebbero creato i presupposti per levare prima le inchieste e poi lui.
Quindi i magistrati di Salerno non possono fare altro, perché ricevono queste denunce, di De Magistris e contro De Magistris, essendo competenti devono approfondirle per vedere quali sono fondate e quali no.
La legge glielo impone, è obbligatoria l'azione penale.
Ricevi una denuncia, devi verificarla.
Quindi cominciano a lavorare, per mesi e mesi, nessuno ne sa niente, di quello che succede a Salerno.
Lavorano in silenzio, nessuno li ha mai visti in televisione, nessuno li ha mai sentiti parlare, nessuno sa nemmeno che faccia abbiano i pubblici ministeri Gabriella Nuzi e Dionigi Verasani e il loro capo che si chiama Luigi Apicella.
A un certo punto, questi tre magistrati di Salerno vengono sentiti dal Consiglio Superiore: la prima volta nell'ottobre dell'anno scorso, quattordici mesi fa, l'altra volta il 9 gennaio di quest'anno, undici mesi fa.
Vennero sentiti perché, fermo restando che loro si occupano delle questioni penali, se ci sono reati negli uffici giudiziari di Catanzaro, il CSM si occupa dei profili disciplinari e di incompatibilità.
Anche se non c'è un reato da parte di un magistrato, se si scopre che un magistrato ha violato le regole deontologiche della sua professione deve essere punito.
Se invece è in condizioni di incompatibilità, cioè non può stare in quel posto, non per colpa sua ma perché magari è parente di qualche avvocato, amico di qualche avvocato, fidanzato di qualche avvocato, fidanzato o parente o amico di qualche indagato... non è colpa sua ma non è bene che stia lì, ma da un'altra parte.
Trasferimento per incompatibilità ambientale oppure procedimento disciplinare nel caso in cui un magistrato, pur non commettendo reati, abbia fatto delle scorrettezze di tipo professionale.
Quindi, il CSM sente i magistrati di Salerno per capire che cosa sta emergendo.
Anche perché il CSM, in quel momento, deve decidere sul trasferimento proposto dal procuratore generale della Cassazione in seguito alle ispezioni ministeriali disposte prima da Castelli e poi, soprattutto, da Mastella contro De Magistris, per incompatibilità ambientale con Catanzaro e funzionale con il ruolo di PM.
Vogliono capire che cosa sta emergendo per poter farsi un'idea di qual è il caso De Magistris e, nello stesso tempo, farsi un'idea se ci sono altri, a Catanzaro, che è meglio mandare via oppure sanzionare.
I pubblici ministeri di Salerno raccontano, per ore e ore, quello che sta emergendo dalle loro indagini.
E quello che raccontano è clamoroso: dicono che le denunce contro De Magistris si sono rivelate totalmente infondate.
Cioè non risulta che De Magistris abbia fatto nessuna scorrettezza, anzi dicono: "le indagini di De Magistris sono corrette, non emergono reati a carico di De Magistris" e quindi tutte le denunce che sono state presentate contro di lui, erano decine e decine, saranno archiviate.
E infatti, pochi mesi dopo, arriva l'archiviazione per tutte le indagini su De Magistris che viene liberato da ogni sospetto.
Le sue indagini erano doverose, tutto quello che ha fatto l'ha fatto bene, in buona fede.
Anche l'iscrizione di Mastella sul registro degli indagati era doverosa, si imponeva in base agli elementi che erano venuti fuori, niente da eccepire.
Il CSM dovrebbe prendere atto del fatto che, comunque, di è stabilito che De Magistris si è comportato correttamente.
Il CSM se ne infischia e lo trasferisce con dei cavilli, che non sto qui a spiegare ma poi vi dico, se volete approfondire, quali libri potete trovare che lo spiegano.
Invece, i magistrati di Salerno, sempre nell'audizione al CSM del 9 gennaio di quest'anno, raccontano anche che cosa sta emergendo sull'altro tipo di denuncia, quella fatta da De Magistris contro quel comitato trasversale, quello che lui chiama la nuova P 2.
Non c'è più Licio Gelli, ci sono alcuni piduisti.
Ma non è un problema di ex iscritti alla P2, il problema è un network di persone che dovrebbero controllarsi le une con le altre e che invece stanno pappa e ciccia e si coprono a vicenda.
E quando arriva qualche magistrato che sta fuori dal network, libero e indipendente come De Magistris, si coalizzano per andargli addosso e fare in modo che se ne vada.
Quindi è necessario che ci siano magistrati, giornalisti, politici, avvocati, faccendieri, imprenditori, qualche bel mafiosetto... eccetera.
Tutti insieme contro di lui, questa è la denuncia di De Magistris.
Queste denunce, secondo i magistrati di Salerno, si sono rivelate fondate.
Tant'è che dicono e rimane scritto nel verbale che firmano nell'audizione al CSM, che De Magistris è stato costretto a lavorare "in un contesto giudiziario fortemente condizionato da interessi extragiurisdizionali, talvolta illeciti, perché ci sono magistrati legati ad avvocati, imputati" che poi ricevono dei favori, moltissimi favori.
Per esempio hanno ricevuto magistrati da Saladino, che ha fatto assumere loro amici, parenti, nelle sue società e quindi ha un credito di riconoscenza, e questi magistrati hanno un credito, e infatti si sono dedicati tutti a interferire nel lavoro di De Magistris che su Saladino stava indagando.
Viene fuori, quindi, un quadro gravissimo.
Fermo restando che la procura di Salerno deve occuparsi dei reati di questi magistrati di Catanzaro, il CSM dovrebbe prendere immediatamente la palla al balzo per punire disciplinarmente o trasferire da Catanzaro tutti quelli che risultano incompatibili.
Chi ha ricevuto favori, a Catanzaro, da un imprenditore calabrese come Saladino, indagato in questa inchiesta, come minimo deve essere cacciato e mandato da un'altra parte.
Invece il CSM non fa nulla: cioè trasferisce De Magistris, la vittima del presunto complotto, ma gli autori del presunto complotto li lascia tutti al loro posto.
Tant'è che, l'altro giorno, i magistrati di Salerno sono andati a perquisirli e a notificargli che sono indagati e li hanno trovati tutti al loro posto, a Catanzaro.
Pensate, se il CSM avesse fatto il suo dovere di mandarne via qualcuno, di sospenderne qualcuno e di punirne qualcuno, l'altro giorno quando c'è stato il blitz, avrebbe potuto dire "ma noi avevamo già provveduto, avevamo già risolto il problema, adesso vedete se hanno commesso anche reati".
Paradossalmente, anche se il CSM ritiene che De Magistris meritasse di andare via, anche gli altri dovevano andare via.
Se è vero che quando c'è una contesa si mandano via tutti, se questa è la prassi che adotta il CSM, mandassero via anche quelli che hanno ostacolato De Magistris.
Invece no, sono rimasti tutti al loro posto e così l'effetto del blitz di Salerno a Catanzaro è stato dirompente, perché stavano tutti lì, nell'esercizio delle loro funzioni.
Come se nulla fosse stato detto a gennaio dai magistrati di Salerno, che avevano avvertito il CSM di come stavano andando le indagini e quale direzione avrebbero preso.
Questo è l'antefatto.
Noi abbiamo una procura che, per legge, deve indagare su quelle denunce e se le ritiene fondate deve perseguire i reati commessi da questi magistrati di Catanzaro.
Quindi cosa fanno? A un certo punto, dato che si stanno anche occupando dell'insabbiamento delle indagini di De Magistris perché l'ipotesi d'accusa è che sia stato privato delle sue indagini perché venissero date a colleghi più malleabili, i quali con i soliti giochi di prestigio, stralci, archiviazioni, parcellizzazione del materiale alla fine hanno insabbiato tutto.
Voi sapete che a De Magistris l'indagine Poseidone sui depuratori l'ha tolta il suo capo, non appena ha indagato l'On. Pittelli di Forza Italia.
Pittelli è anche l'avvocato del procuratore capo, amico del procuratore capo dell'epoca, Lombardi, il quale ha una seconda moglie che ha un figlio da un altro uomo.
Il figlio della seconda moglie di Lombardi è socio in affari dell'On. Pittelli.
Possibile che il procuratore capo tolga a De Magistris l'indagine appena indaga Pittelli che è socio del figlio della sua convivente?
Questo, per esempio, è il primo caso scandaloso.
Secondo caso: non appena viene indagato Mastella, il procuratore generale Dolcino Favi, facente funzioni perché lui era l'avvocato generale dello Stato, toglie a De Magistris anche l'indagine Why Not, dove sono indagati Prodi, Mastella, Saladino e gli altri.
Con quale argomento?
Dicendo che dato che Mastella gli ha mandato gli ispettori e poi ha chiesto al CSM di trasferirlo, allora De Magistris non può indagare su Mastella perché vuol dire che ce l'ha con lui, è in conflitto di interessi.
In realtà è troppo comodo: è un po' come sostenere che nella favola del lupo e dell'agnello ha ragione il lupo, che sta a monte e accusa l'agnello di intorbidargli l'acqua a valle.
Lì non era Mastella vittima di De Magistris, era De Magistris vittima di Mastella.
Non è che De Magistris ce l'aveva con Mastella, era Mastella che ce l'aveva con De Magistris perché stava lavorando su di lui e quindi ha chiesto di trasferirlo prima di essere indagato.
Poi De Magistris l'ha indagato e il procuratore generale gli ha detto che non poteva indagare perché ce l'hai con Mastella!
Il ribaltamento totale della logica.
Tolta anche l'indagine Why Not, gli restava toghe lucane sul malaffare politico-affaristico-giudiziario in Basilicata, dirompente anche questa perché è un'indagine che coinvolge addirittura un ex big del CSM, cioè l'On. Bucicco, sindaco di Matera, parlamentare di AN, un avvocato importante.
Anche lui indagato.
Quell'indagine, toghe lucane, insieme al fatto che coinvolge un sacco di magistrati della Basilicata, De Magistris riesce a portarla a termine ma non proprio fino alla fine.
Quando lo trasferiscono da Catanzaro a Napoli, ormai l'inchiesta è finita e allora fa gli avvisi di chiusura delle indagini, cioè avvisa gli indagati che le indagini sono finite e hanno venti giorni di tempo per chiedere un supplemento istruttorio.
Dopodiché, farà le richieste di rinvio a giudizio e chiuderà il suo lavoro in quell'indagine.
Bene, gli impediscono anche di fare quei venti giorni per poter scrivere le richieste di rinvio a giudizio.
Lo cacciano da Catanzaro, fisicamente, un attimo prima che lui sia riuscito a scrivere le richieste di rinvio a giudizio.
Nessuna, quindi, delle tre indagini clamorose si è conclusa con la firma di De Magistris.
Perché dico questo? Perché il CSM sapeva che i magistrati stavano scoprendo che queste indagini gli erano state tolte per brutti fini.
Sapeva che secondo la procura di Salerno competente, aveva ragione De Magistris e torto i suoi avversari.
Sapeva soprattutto, il CSM, perché la procura di Salerno lo informava, che da mesi la procura di Salerno stava chiedendo a quella di Catanzaro la copia degli atti delle indagini Why Not sulla quale si stava, appunto, indagando per verificarne l'eventuale insabbiamento.
Una volta l'hanno chiesta, due volte, tre, quattro... sette volte la procura di Catanzaro rifiuta a quella di Salerno l'invio delle copie di questa indagine.
Ecco perché l'altro giorno c'è stato il blitz: perché quelli di Salerno, che ormai aspettavano da quasi un anno quegli atti e se li vedevano negare illegalmente - non puoi rifiutarti di esibire un atto che un magistrato competente ti chiede - sono andati a prenderseli.
Con la polizia giudiziaria sono andati lì, hanno spazzolato tutto ciò che c'era nelle cassaforti, cassetti, uffici e anche nelle abitazioni.
Nei computer privati dei magistrati.
Dice: "ma uno è stato denudato".
A parte che quelli di Salerno dicono che non è vero, ma in ogni caso se uno è in pigiama e si cerca un pen drive e non lo si trova, per evitare che se lo sia messo nelle mutande è giusto perquisirlo anche corporalmente, è una cosa che succede a chiunque venga perquisito quando si cerca non un transatlantico ma un temperino!
I magistrati sono soggetti alla legge come tutti gli altri.
Quello era un magistrato indagato, quello che è stato forse perquisito anche nel pigiama.
Se gli davano le carte, non andavano a prenderle. Non gliele hanno date: sono andati a prendersele.
Illegalmente? No, con un provvedimento di sequestro perfettamente motivato.
Sono 1700 pagine. Se qualcuno ha voglia di farsi un'idea precisa su questo caso, gli suggerisco di perdere una giornata e di leggersi almeno le parti sottolineate di questo decreto di perquisizione, che è rintracciabile sul blog di Carlo Vulpio, giornalista valoroso del Corriere - che infatti non viene più fatto scrivere su questa storia, carlovulpio.it, e sul nostro www.voglioscendere.it.
Se la leggete scoprite un sacco di cose scandalose, delle quali i giornali, salvo rare eccezioni, non parlano.
Perché parlano di guerra fra procure, che non esiste.
Salerno legittimamente va a prendersi le carte e a fare le perquisizioni, è competente.
Catanzaro fa una cosa che non potrebbe fare: il procuratore generale di Catanzaro se ne va in TV a dire che l'atto di Salerno è eversivo e in realtà compie lui un atto che se non è eversivo sicuramente è poco regolare.
Perché incrimina lui i colleghi di Salerno che lo hanno incriminato, come se fosse competente lui!
A parte che lui è un procuratore generale e non può indagare, può farlo il procuratore capo.
Ma soprattutto lui è procuratore generale di Catanzaro e i reati di Salerno li valuta Napoli, quindi se voleva denunciare dei reati di Salerno doveva fare un esposto a Napoli.
Poi se sei parte in causa, addirittura indagato, come puoi pensare di indagare sui tuoi indagatori!
C'è un conflitto di interessi clamoroso, e infatti per legge chi è parte in causa, da magistrato, deve astenersi in un processo.
Non c'è una guerra fra due cattivi: c'è un atto legittimo e doveroso della procura di Salerno al quale si risponde con atti abusivi e abnormi da parte di quella di Catanzaro.
E' questa che viene definita la guerra fra procure, perché bisogna fare pari e patta.
Allora come si fa a controbilanciare l'abominio di quello che ha fatto Catanzaro? Bisogna addebitare qualcosa a Salerno.
E dato che Salerno non ha fanno nulla di male, ecco che ci si inventa il fatto che li hanno fatti denudare, anche se non è vero - c'è stata forse una perquisizione corporale di un indagato in pigiama, visto che erano le 7 del mattino -, si inventa che sarebbe abnorme il decreto di sequestro degli atti solo perché è di 170 pagine.
Perché, c'è una legge che stabilisce quante pagine deve avere un decreto?
Se ne facevano due, di pagine, avrebbero detto "son due paginette, non c'è niente, è tutto campato per aria".
Se lo motivi bene, con 1700 pagine, non va bene lo stesso.
E poi dicono: "sono andati a sequestrare l'originale di un fascicolo giudiziario in corso, bloccando l'attività di indagine".
A parte che languivano per conto loro da mesi, da quando le avevano tolte a De Magistris, ma è chiaro che il sequestro serviva a fare le fotocopie, cioè ad avere quella copia che Catanzaro non aveva mai mandato.
Non è che bloccavano per sempre le indagini.
Bene, per queste quisquilie il Capo dello Stato ha addirittura chiesto gli atti dell'indagine a Salerno, prima di fare lo stesso con Catanzaro.
Come se Salerno dovesse rendere conto al Capo dello Stato di quello che fa.
Questo sì è un atto inaudito, mai visto, mai sentito: il Capo dello Stato che chiede degli atti a una procura.
Come si deve sentire un magistrato di Salerno se il Capo dello Stato gli chiede gli atti quando lui sta facendo semplicemente il suo mestiere, il suo dovere previsto dalla legge?
Apoteosi finale: il CSM nel giro di 24 ore - non so come abbiano fatto a leggersi 1700 pagine in 24 ore, io ci sto provando da giorni e ancora non sono riuscito a finire - valuta il tutto con la rapidità della luce e propone al plenum di trasferire sia il procuratore generale di Catanzaro, quello che ha detto che i suoi colleghi erano eversori, sia quello di Salerno che ha fatto semplicemente il suo dovere!
Pari e patta, guerra fra procure.
Ecco perché i giornali e i politici hanno detto "guerra fra procure", perché dovevano coprire un atto incredibile come quello commesso dal Capo dello Stato, mai visto, e uno altrettanto incredibile fatto dal CSM.
Facciamo finta che De Magistris abbia torto, che abbia sbagliato tutto, che sia un incapace come ci viene raccontato.
Allora, per quale motivo non si lascia che concluda le sue indagini? E non si lascia che Salerno, competente su quella faccenda, concluda le sue?
Se è un incapace e viene sempre smentito dai giudici, dai GIP, dai tribunali del riesame, lasciate che finisca le sue indagini, che finisca davanti a un GIP o a un riesame che gliele bocci.
Così fa brutta figura De Magistris!
Perché, invece, gliele tolgono sempre prima in modo da consentirgli di dire che gliele hanno impedite di concludere?
Allora vuol dire che hanno paura che non sia così incapace. Hanno paura che abbia scoperto delle cose molto gravi, altrimenti se uno deve andare a sbattere lascialo andare a sbattere, no?
Allo stesso modo, se ha torto, si lasci che concluda la procura di Salerno. Se poi la procura di Salerno ha a sua volta torto, ci sarà un GIP, un tribunale del riesame, un tribunale normale, una corte d'appello, una Cassazione che darà torno a Salerno.
Perché impedire a Salerno di andare avanti con questi atti violenti, trasferimento del capo, ispezioni ministeriali del solito Alfano, avvertimenti strani del Capo dello Stato, CSM scatenato, politici e giornali pure?
Viene persino il dubbio che loro l'abbiano capito chi aveva ragione e chi aveva torto.
Però devono continuare a raccontarci che sono tutti uguali, che c'è una guerra fra bande così hanno la scusa per mettere le mani sulla giustizia.
Una volta si pensava alla Berlusconi che le mani sulla giustizia le potesse mettere la politica contro il volere della magistratura, adesso si sta cercando di coinvolgere una parte, la peggiore, della magistratura, il peggior CSM che si sia mai visto, e un Capo dello Stato che sicuramente non sta brillando per le sue funzioni di garanzia, proprio perché collaborino tutti quanti alla normalizzazione di quei pochi magistrati e quelle poche procure che ancora fanno il loro dovere senza guardare in faccia a nessuno.
Per fortuna la verità è più forte di qualunque pressione, per cui chiusa una porta esce dalla finestra, chiusa la finestra la verità rompe il vetro.
Quindi, chi pensava di archiviare il caso De Magistris e quello collegato della Forleo, adesso è di nuovo preoccupato perché cacciati i due magistrati, la verità sta tornando fuori più prepotente che mai.
Per chi la vuole conoscere fino in fondo suggerisco, per Natale, dei libri: Roba Nostra di Carlo Vulpio, pubblicato da Il Saggiatore; Il caso De Magistris, di Antonio Massari pubblicato da Aliberti; Il caso Forleo, sempre di Antonio Massari pubblicato sempre da Aliberti.
Poi c'è il nostro vecchio Toghe Rotte di Bruno Tinti, che spiega i meccanismi, e c'è il nostro Mani Sporche dove c'è l'inizio del caso De Magistris. Poi tutti gli sviluppi li trovate in un libro che sta per uscire, Per chi suona la banana, pubblicato per Garzanti, che raccoglie gli articoli che ho dedicato anche a questi casi sull'Unità.
Vi saluto e come al solito, dopo la lettura, passate parola!"

MASSONI. QUEGLI UOMINI IN NERO NASCOSTI TRA POLITICA, MAGISTRATURA ED AFFARI.

La massoneria? «Conta davvero molto più di quanto si immagini». Parola di Cesare Geronzi, ultimo "banchiere di sistema", tranne il superstite Giovanni Bazoli. E se allora si provasse a ribaltare la vulgata che vuole la politica unica responsabile dello scandalo del Monte dei Paschi di Siena e si guardasse un po' più nel capitalismo feudal-relazionale percorso da solidi intrecci di esoterismo massonico, che può tingersi di rosso e anche di bianco? Si chiede Alberto Statera su “La Repubblica”. Nessuno negherà che a Siena la rossa la politica sceglie da sempre attraverso la Fondazione i manager del Monte. Ma chi è il Leone e chi la Volpe, la politica o l'economia? Il Centauro che combina insieme forza e astuzia a Siena ha un timbro platealmente iniziatico persino nella toponomastica. Ma è in tutta l' Italia senza borghesia e con pochi princìpi che si annodano in nome del potere e del denaro legami e solidarietà trasversali. Tra l'alta burocrazia e la finanza, tra gli alti gradi delle forze armate e l'università, tra i servizi segreti e le grandi imprese, tra i gabinetti ministeriali, i tribunali amministrativi, naturalmente la politica e persino le sacre stanze vaticane. Racconta Geronzi, campione per un trentennio dei poteri trasversali nelle memorie consegnate a Massimo Mucchetti: «Una volta andai a trovare nel suo nuovo ufficio in Vaticano un importante prelato che era appena stato elevato alla porpora cardinalizia. Nell'avvicinarmi alla sua scrivania rimasi di sale. Sul montante lungo era applicato un tondo che recava in bassorilievo i simboli massonici». Curioso, peraltro, lo stupore dell'ex banchiere "di sistema" visto che il suo sodale Gianni Letta è il trait d'union tra chiesa, Opus Dei e massoneria, ruolo che per tre lustri ha svolto con passione da Palazzo Chigi e che ha continuato a svolgere imponendo alcuni catto-massoni nel governo di Mario Monti. Il quale ha dovuto smentire la sua affiliazione: «Non sono massone e non so neanche bene cosa sia la massoneria». Sarebbe un torto all'intelligenza credere che davvero il presidente del Consiglio, ex presidente della Bocconi, ex commissario europeo e grande consulente della finanza internazionale da decenni, frequentatore di tutti i consessi del potere mondiale, a cominciare da Bilderberg, non sappia che cos'è la massoneria. Ma il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi si era forse spinto un po' troppo oltre quando aveva dichiarato: «Mario Monti è un gran galantuomo, potenzialmente ha tutte le carte in regola per essere un ottimo fratello». Il Grande Oriente d' Italia, 22 mila fratelli e 762 logge, centinaia di "bussanti" che per entrare devono attendere i passaggi di fratelli anziani all' Oriente eterno è la maggiore "obbedienza" italiana, ma tante altre, regolari e irregolari, pullulano quasi sempre in lotta tra loro, dilaniate da lotte intestine, travolte dall'indebolimento del "fondamento iniziatico" e dalla "profanizzazione". Raffi, avvocato ravennate con antichi rapporti professionali col Monte dei Paschi di Siena, Gran Maestro da quattordici anni, è al centro di una combattiva opposizione interna, che ha portato alla costituzione di una sorta di corrente, come nei partiti politici, denominata Grande Oriente d'Italia Democratico. Per accrescere il suo prestigio, vorrebbe parlare inglese perché la Gran Loggia Unita d' Inghilterra, è la madre di tutte le massonerie mondiali. Ma non può perché il Grande Oriente d'Italia non è più riconosciuto da Londra. Fu espulso per volontà del duca di Kent dopo l'ultima scissione del 1993, dodici anni dopo lo scandalo della P2 di Licio Gelli, quando il Gran Maestro Giuliano Di Bernardo fondò la Gran Loggia Regolare d' Italia, invocando la revoca del riconoscimento al GOI e ottenendolo per sé. Non contento, ha fondato anche l'Accademia degli Illuminati, che si richiama agli Illuminati di Baviera e si riunisce una volta l'anno a Roma. Trai suoi adepti, Di Bernardo colloca più o meno esplicitamente, come ha confessato al giornalista Ferruccio Pinotti, anche il presidente di Intesa San Paolo Giovanni Bazoli, oltre a Vincenzo De Bustis, il banchiere considerato vicino a D'Alema che portò al Monte dei Paschi per un prezzo considerato allora esorbitante la Banca del Salento. E poi ancora Carlo Freccero, ex Fininvest e poi Rai, Rubens Esposito degli Affari legali Rai, Sergio Bindi, ex consigliere Rai e antico portaborse del democristiano Flaminio Piccoli, Severino Antinori, specialista della fecondazione assistita, il filosofo Vittorio Mathieu, il generale Bartolomeo Lombardo, ex Sismi. Banche, informazione, medicina, cultura, Servizi segreti, non manca niente. Ma la Rai sembra un luogo privilegiato di coltura della massoneria se è vero, come testimonia il professor Aldo Mola, che a un certo punto al Grande Oriente giunse in dote una Loggia coperta, retta dal Venerabile Giorgio Ciarocca, di cui facevano parte Cesare Merzagora, Eugenio Cefis, Giuseppe Arcaini dell'Italcasse, nonché Guido Carli, Enrico Cuccia, Raffaele Ursini, Michele Sindona e Ettore Bernabei, notoriamente soprannumerario dell'Opus Dei. Anche la Gran Loggia d' Italia, obbedienza di Piazza del Gesù Palazzo Vitelleschi, al contrario di Di Bernardo, non gode di buona reputazione a Londra perché il 30 per cento dei fratelli sono sorelle, unica obbedienza tra le grandi famiglie massoniche italiane che ammette la presenza femminile, trascurando la tradizione britannica che concepisce invece la massoneria come un club esclusivamente maschile. «Certo - spiega Alessandro Meluzzi, ex deputato di Forza Italia, massone, ma anche diacono della comunità di Pierino Gelmini - la Loggia implica un' iniziazione solare, mentre le donne rappresentano la metà lunare del cielo, le stelle d' oriente e non di occidente». «L' idiota religione massonica è roba da diciottesimo secolo», disse Benedetto Croce. E in certi casi come dargli torto? Ma è possibile che grandi banchieri e uomini d' affari misurino le loro mosse sui binari dell' ortodossia massonica? È escluso, ma non è affatto escluso che utilizzino per i loro scopi più o meno commendevoli la miriade di confraternite del potere che impiombano questo paese. Di certo «non è vero che tutti i massoni sono delinquenti, ma non ho mai conosciuto un delinquente che non fosse anche un massone», disse il massone Felice Cavallotti prima di essere ucciso in duello da un suo fratello massone.

MASSONERIA: GLI INSOLITI NOTI CHE SONO IN MEZZO A NOI.

E' ricomparso in questi giorni su Repubblica.it il personaggio di una gag televisiva de "Il caso Scafroglia", il fortunato programma tv di Corrado Guzzanti. Era il lontano 2002 e Guzzanti impersonava il "massone", un incappucciato nero con tanto di compassi e squadre, che si esprimeva in uno sgrammaticato napoletano, che ammetteva cose indicibili, quali quella di essere a un passo dal regime, ieri, in Italia, e negava cose scontate, quali la tendenza del nuovo sistema informativo a ... disinformare, appunto. Così  scrive Francesco Specchio su “Eco Costiera”. Oggi viene usato, il personaggio, per contribuire alla battaglia civile contro la cosiddetta legge bavaglio sulle intercettazioni, la legge figlia prediletta dei figli prediletti della massoneria (deviata?) italiana. Una cosa però ce la dobbiamo pur chiedere: come mai, visto che a parlarne possono essere solo i degnissimi eredi della tradizione dei cantastorie medioevali (gli unici minimamente autorizzati a criticare i potenti, seppure sotto la forma dello sberleffo), a tenere costantemente il bavaglio sono tutti gli altri, giornalisti compresi, intorno a fatti, progetti, persone, alleanze, soprattutto vittorie della massoneria italiana? Eppure questi fratelli massoni sono proprio in mezzo a noi, se ne stanno tranquilli, tutte persone per bene (loro), non danno mai nell'occhio, sono noti ma insolitamente poco vistosi, per un'Italia rumorosa ed appariscente. Se poi decidono di delegare qualcuno a rappresentarli pubblicamente, lo scelgono tra i più irrefrenabili, tra i meno affidabili in fatto di riservatezza, e, dopo averlo messo in sonno, si dice così tra di loro, lo tengono lì come un burattino, prigioniero del silenzio, e della trama dei loro interessi indescrivibili. Il prode Mussolini fece approvare una legge contro di loro, che però sarebbe servita contro gli anti-fascisti, e a sbugiardarlo in aula, a Montecitorio, in una delle ultime sedute vere, fu proprio Antonio Gramsci, indicando l'autentico obiettivo-bersaglio di quella legge, e sostenendo che l'autentico partito della borghesia, appunto la massoneria, avrebbe provveduto a cooptarli, lui ed i suoi accoliti fascisti, e ad usarli a dovere. Così come in effetti avvenne. Ma furono bravi, i fratelli massoni italiani, anche a nascondere i rinnovati legami instaurati dalle nuove autorità italiane con le potentissime logge nordamericane, già con la liberazione della Sicilia da parte delle prime truppe alleate, Non riuscì altrettanto bene per i contatti, comprovati storicamente già dopo una decina di anni, tra i servizi segreti alleati e la mafia siciliana: eppure in quel caso l'attitudine alla segretezza sarebbe dovuta essere totale. No, la mafia non è altrettanto brava dei fratelli cattivi, da sempre, tanto è vero che oggi a squarciare il velo della ignobile trattativa tra lo stato repubblicano e la mafia stessa, quella che fu anticipata, accompagnata e chiusa dalle stragi del '92, hanno provveduto adepti dell'organizzazione criminale siciliana, mentre quelli che l'avevano ordita, la trama, e l'avevano chiuso, l'accordo politico, sulla pelle di Borsellino, continuano a starsene zitti e, non tanto oggi, tranquilli, coperti non dai loro grembiulini, ma dai loro ermellini, dalle loro scrivanie ultra-accessoriate (soprattutto di apparecchiature elettroniche), dai loro intrecci inestricabili, e poi dai loro palazzi romani. In altri Paesi la massoneria esaurisce l'intero sistema politico, come succede in Argentina, dove spazia dalla destra fascista alla sinistra guerrigliera (quella che furono i montoneros), ma lo fa apertamente, persino quando organizza un colpo di stato militare, con i suoi generali felloni e sanguinari. Negli Stati Uniti è lo stesso sistema istituzionale ad essere pervaso dai suoi miti, dal suo spirito, dalle sue stesse leggi, eppure anche lì è quasi tutto pubblico, fino al punto di conoscere la loggia a cui è iscritto l'ultimo, il più atipico, il nero, il progressista Obama. E se no, come avrebbe potuto anche sognare la presidenza USA? Da noi no, deve rimanere tutto segreto, o poco credibile, o fantasioso. Chi ne parla, nelle riunioni politiche, quelle dei consessi democratici, ovviamente, si vede attribuire giudizi che oscillano tra il folle visionario e il fissato un pò romantico. Mai che si accetti di discutere dei fatti, e delle relative responsabilità, si incomincia sempre a parlare di altro, un altro meno scomodo. In Italia la massoneria sembra essere tutto un sogno, e così continua ad essere l'incubo della democrazia. Su quanto sta emergendo, del patto scellerato stato-massoneria, era già tutto scritto, in ultimo nel ponderoso libro Il caso Genchi, tutto: fatti, date, personaggi, eppure era Genchi, o chi prima di lui, ad essere il pazzo. Sul fatto che la P2 non si fosse mai sciolta lo aveva affermato e preventivato la lungimirante Tina Anselmi (partigiana, madre della Repubblica e sua leale servitrice), nel suo ruolo di coraggiosa Presidente della Commissione parlamentare sulla P2. Ma allora c'era un Presidente della Repubblica vero, un altro partigiano avvezzo alle battaglie a viso aperto, anche contro i poteri occulti, i più pericolosi. Da quanto oggi si viene a sapere della cricca, una delle tante camere stagne della rinnovata P2, si riscopre un personaggio singolare, un po' defilato, ma pur sempre un sottosegretario del Governo nazionale, che, si badi bene, venne ampiamente citato e sanzionato sia nella relazione di maggioranza (Anselmi), che in quella di minoranza (Matteoli, si, proprio lui, allora esponente di AN, antimassone, e oggi folgorato sulla via dei governi Berlusconi), indicato dalla Commissione come il "messaggero" della P2. E che dire dei rapporti ormai comprovati tra le compagnie religiose della Lombardia e le massonerie-"ndranghete della lontana Calabria: tutto già scritto, già analizzato da Cordova prima e da De Magistris poi. Per entrambi e per loro inchieste uguale responso: pazzi loro e fantasie irresponsabili agli atti. Volendo seguire le successive esperienze partenopee del Procuratore Cordova, verremmo pure a scoprire che anche lì diventò improvvisamente scomodo, anche per i salotti democratici e progressisti della città, che pure in un primo tempo lo avevano osannato, non appena incominciò a lavorare su alcune collusioni in grembiulino. Non era cambiato lui; erano cambiati, o si erano scoperti i frequentatori dei salotti.

Insomma in Italia, non appena qualcuno sparla, o anche solo parla di massoneria, cade in disgrazia.

Qualche volta succede che, come da tutte le chiese, si conceda la dispensa. Ed è successo, questo evento, per una giornalista televisiva, cui è spettato il compito, professionale, sia chiaro, di lasciar trasparire, anzi far apparire l'immagine della buona massoneria, o l'immagine buona della massoneria, questo onestamente non lo sapremmo dire. Fatto sta che da una parte ci sono nobili parole, e nobili dichiarazioni di principio, antenati illustri e fulgidi esempi di rettitudine ed eroismo, passati, elenchi specchiati e specchiabili, oggi, dall'altra parte c'è tutt'altro. Ora, è vero che la massoneria italiana se l'è dovuta vedere, storicamente, non solo con sovrani e principi, reazionari e retrivi, ma anche con papi e cardinali, scaltri e disincantati, nonchè sanguinari (essendo pur vero, sempre storicamente, l'intreccio e il reciproco inquinamento tra le due chiese), ma quanto ancora e per quanto tempo dovrà pagare, questo nostro Paese, per colpe sicuramente non attribuibili al suo popolo?

Forse è proprio venuto il tempo che questo popolo conquisti il diritto a sapere. A sapere sulle sue sorti passate, e quindi sul suo torbido presente.

Come tutti i diritti, il diritto a sapere va però conquistato, sul campo della battaglia politica democratica. Ho sempre considerato la massoneria un mondo a me estraneo, spiega Roberto Galullo. Non per altro: in democrazia mi sembrano paradossali e buffi i vincoli di segretezza e fratellanza che talvolta degenerano in patti esclusivi per affari e prodigiose scalate al potere. Potere tout court da girare e rigirare tra “fratelli” in ogni settore, talvolta a scapito dei migliori. O degenerano in ben altro: ricordate lo scandalo P2? Di massoni sono pieni le banche, i partiti (tutti), il Parlamento, le assemblee elettive, i vertici ministeriali, la Rai, i media televisivi, i giornali e poi ci sono giudici, prefetti, professori universitari, avvocati, commercialisti, gli ordini professionali, le associazioni, le imprese, la sanità, il mondo dello spettacolo e tutto quanto fa classe sociale: esclusiva e spesso intoccabile. E la Chiesa? Beh, lasciamo perdere…Ora direte, cari amici di blog, perché ce ne parli proprio ora. Chissenefrega dei massoni te lo ha mai detto nessuno? E come no! Soprattutto i massoni che conosco ma che non sanno che io so…E si, perché la segretezza (che poi viene violata se a saperlo sono già in due e nelle logge due non sono mai) è sacra: perché poi? Se non c’è da vergognarsi escano allo scoperto… Come ho fatto io, quando esattamente 16 anni fa fui avvicinato da un conoscente, alto dirigente (ancora oggi) di un’importantissima associazione che mi voleva far conoscere le meraviglie della fratellanza. Io, che un fratello già ce l’ho, ed è un capitano dell’Esercito (a proposito, le Forze dell’Ordine sono zeppe di massoni) ho risposto picche. “Ma ti aiuta nella carriera” mi disse. E chissenefrega risposi. Punto e a capo (per fortuna sono stato apprezzato lo stesso e di questo ringrazio il mio attuale gruppo editoriale che, cambiando manager e direttori, non ha mai cambiato atteggiamento nei miei confronti). I motivi per cui ne scrivo ora sono tanti. Il mensile la “Voce delle Voci” della “Voce della Campania”, ha appena finito di (ri)pubblicare un elenco sterminato di oltre 26mila massoni iscritti alle logge ufficiali. Sarà forse per questo che il 3 dicembre il suo sito è stato devastato dagli hacker? Comunque le liste pubblicate mi sembrano – lo dico sinceramente – ampiamente incomplete e datate, forse datatissime: alcuni risultano ancora iscritti come impiegati della Sip. Chi di voi si ricorda cos è la Sip? Ve lo dico io: la vecchia compagnia telefonica di Stato, sì quella dei telefoni con il dito da infilare nei buchi per girare la ghiera e comporre i numeri. Ah, bei vecchi tempi andati. Bene, quella lista mi ha sorpreso non tanto perché vi ho ritrovato persone che conosco (e che, sarà un puro caso, hanno fatto carriera nelle loro professioni anche se secondo me avrebbero meritato di essere cancellate dalla vita lavorativa) ma soprattutto per le persone che “non” ho trovato, compreso quel mio conoscente che voleva farmi indossare un grembiulino (ma vi pare! un grembiulino, come alla scuola materna, suvvia!). Non saranno massoni allora, penserete voi. Beata ingenuità: mai sentito parlare di logge coperte? E veniamo a noi (non nel senso fascista del termine). La massoneria mai come adesso va di gran moda. Un successone “venerabile”. Per chi volesse fare due conti vi elenco una serie di episodi su cui riflettere. Alla fine le somme le tirerete voi. Partiamo da Sanremo, dove martedì 9 dicembre 2008 il Casinò ospiterà nei “martedì letterari” Licio Gelli, il Venerabile, che presenterà un libro sulla P2 (è un suo diritto, lo premetto, siamo in democrazia). “Dal 1983 – scrivo riportando testualmente quel che compare nel sito del Casinò - in oltre venti anni di vita i martedì letterari hanno ospitato più di mille scrittori di caratura nazionale e internazionale. Si è spaziato dai temi filosofici a quelli scientifici, da quelli religiosi agli argomenti storici”. Ecco, ora conosciamo i motivi dell’invito: la caratura nazionale e internazionale dello scrittore Gelli, accolto in un’elite di mille, non a caso come quelli di Giuseppe Garibaldi (Gran Maestro massone, ma altra epoca). Gelli – che scrive, compare in tv e richiama ancora oggi folle come un tempo, chissà perché - parla con tutti tranne che con i magistrati, come i pm della Dda di Palermo Roberto Scarpinato, Fernando Asaro e Paolo Guido che il 4 novembre sono partiti di Palermo e sono arrivati ad Arezzo (nella sua residenza Villa Wanda) per interrogarlo sull’intreccio tra Cosa Nostra e massoneria. Il Venerabile si è avvalso della facoltà di non rispondere. La gola e l’ugola, evidentemente, vanno preservate per le occasioni pubbliche. Ebbene – a parte qualche pasdaran ligure e alcune associazioni che lo aspetteranno al varco davanti al Casinò – pochissimi hanno notato l’appuntamento e lo hanno criticato (nel bene e nel male). Magari per chiedergli conto del perchè il Venerabile-scrittore non risponde ai magistrati. O meglio: il Pd imperiese ha stigmatizzato l’episodio ma il giorno in cui Gelli visiterà il Casinò per parlare alle folle, a Sanremo gli amministratori locali del Pd invece che darsi appuntamento davanti al Casinò saranno chiamati alle 21 presso il Centro Melograno (raccomandata la puntualità, come si legge sul sito del Pd di Imperia) a dibattere su un ordine del giorno che prevede la “problematica rifiuti” (manco fossero in Campania) e la conferenza programmatica provinciale. Vitale! Prima però, alle 18, tutti nella sede di Arma di Taggia per discutere del tesseramento. Impegnati! Quando la situazione stava scappando di mano a molti, il Consiglio Provinciale di Imperia nella seduta di martedì 25 novembre ha dato mandato al presidente Gianni Giuliano di esprimere al Presidente del Casinò di Sanremo, di cui la Provincia è azionista di minoranza, le perplessità del Consiglio sull'invito a Licio Gelli per i "martedì letterari". Il dibattito si è aperto in seguito ad una richiesta dei consiglieri Giovanni Trucco di Sinistra Democratica e Sergio Scibilia del Partito Democratico, alla quale hanno aderito gli altri consiglieri di minoranza. Gli altri: partiti, Chiesa e società civile, zitti e mosca. Ma forse è per questo che – secondo la classifica sulla felicità pubblicata dal mio giornale il 17 dicembre 2007 – gli imperiesi sono i più felici in Italia! Toda gioia toda beleza!

Da Imperia a Catanzaro c’è un bel viaggio (soprattutto da Salerno in avanti e non solo per l’autostrada) ma noi atterriamo subito in Calabria. Bene bene bene. Avete presente Luigi De Magistris, il magistrato a cui hanno avocato l’inchiesta sulla cupola affaristico-politico-mafiosa-massonica? Bene, quando lo intervistai oltre un anno fa a Catanzaro, mi disse una cosa che non scrissi per il quotidiano del quale sono inviato, il Sole-24 Ore, perché era un’accusa vaga. Ora non più e assume un altro sapore, che vi invito a gustare. “I massoni – mi confidò – nella Procura di Catanzaro e non solo, sono sopra, sotto, a destra e a sinistra”. Non fece nomi anche se lo invitai a farli – allora sì che sarebbe diventato interessante scriverlo - ma nisba. Certo che quel “sopra” a mio giudizio parla chiaro ma oltre non vado, lo lascio alla vostra immaginazione, così come si va forse corroborando da quello che sta accadendo in queste ore sull’“autostrada politico-mafioso-affaristico-massonico” Salerno-Catanzaro (strano, nessun magistrato della Procura di Catanzaro è presente nelle logge ufficiali i cui nomi sono stati pubblicati dalla “Voce delle Voci”). E ora andiamo alle dichiarazioni di due personaggi agli antipodi: il giudice Clementina Forleo e Angela Napoli. «Avevo capito – si legge nel libro-intervista a Forleo “Un giudice contro", appena editato da Aliberti e scritto da Antonio Massari - che il nervo scoperto non erano tanto le inchieste Why Not e Poseidone, quanto quella sulle Toghe Lucane, che apriva uno squarcio sui malanni del terzo potere dello Stato, il potere giudiziario. De Magistris, a mio avviso, a prescindere dai singoli indagati in Toghe Lucane, stava affondando le mani in un contesto ben preciso: le infiltrazioni nella masso-mafia meridionale, ed era incappato in magistrati che rivestivano ruoli direttivi (...)”. Chiaro? E ora veniamo all’onorevole Angela Napoli, fuggita da An e membro della Commissione parlamentare antimafia. In un’intervista rilasciata il 3 dicembre a Traiano Bertolini dell’”Opinione”, giornale diretto da Arturo Diaconale, si legge tra l’altro:

Onorevole Napoli quale idea si è fatta della gestione politica nella sua regione?

«Lo scenario attuale e la materia delle inchieste in corso confermano la validità degli allarmi che ho lanciato a più riprese in merito al connubio esistente in Calabria tra mondo criminale, in particolare 'ndrangheta, mondo politico ed imprenditoriale. Non dobbiamo sottovalutare nel contempo anche l'importanza della massoneria deviata, che ha contribuito a confondere e ad insabbiare le attività illegali esistenti nella regione, rendendo difficile l'attività investigativa e il normale corso delle inchieste della magistratura.»

Perché fa riferimento alla massoneria deviata?

«La massoneria deviata è al vertice assoluto in Calabria. E' ormai comprovato che uomini delle principali cosche della 'ndrangheta, ripuliti ed in possesso di un titolo di studio, i cosiddetti colletti bianchi, si sono infiltrati nella massoneria e le inchieste, come "Why not", seppur frammentate in diversi filoni ed in diverse procure, stanno facendo emergere un sistema di collusioni e di malaffare, che è alla base del mancato sviluppo della regione»”.

Ora è chiaro l’incrocio tra massoneria (deviata, per carità, ed è sacrosanto riconoscerlo) e quello che sta accadendo in tutta Italia, a partire dalla Calabria? No, e allora proviamo a fare un altro ragionamento sui fratelli massoni calabresi. Sapete chi c’è nell’elenco degli iscritti calabresi alla massoneria così come riportato dalla “Voce delle Voci”? Vittorio Zupo. E chi è? direte voi. Calma: è un commercialista cosentino, bocciato nel ’94 alle elezioni politiche per il Senato dove si presentava nel centro-destra, che cura gli affari di una grande fetta del mondo imprenditoriale calabrese. E che, insieme a F.I., altro commercialista (quest’ultimo indagato proprio nell’inchiesta Why Not ma poi la sua posizione è stata archiviata nel corso delle indagini preliminari a distanza di circa due anni) e Vincenzo Gatto (fratello di Tonino Gatto, presidente della Despar, da una vita sotto i riflettori dei magistrati antimafia), l’11 agosto ‘99 figurava nel cda di G.H.N. S.A., Soci.t. Anonyme. Siege social: L-2449 Luxembourg, 26, boulevard Royal. R. C. Luxembourg B 54.579, società anomima lussemburghese. Per carità, questo non vuol dire nulla, non è un reato (anche se su molte cose la magistratura continua a indagare). A me – semplicemente - tutto ciò che suona di segretezza, fratellanza, anonimato, mi suona strano ed estraneo. Chissà perché poi, ci trovo radici comuni che non sono e non saranno mai le mie.

Le inchieste "Why Not", "Poseidone" e "Toghe Lucane", dovevano essere fermate ad ogni costo, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica”. I personaggi a vario titolo coinvolti, erano "eccellenti" e "potenti". C'erano politici, massoni, magistrati, imprenditori in odor di mafia e tanto altro. E su tutto questo ci fu anche il "silenzio" del presidente della Repubblica Napolitano, "nonostante avessi pubblicamente auspicato un suo intervento". Queste le accuse che il pm Luigi De Magistris, titolare di quelle inchieste ha consegnato ai colleghi di Salerno in numerosi interrogatori. "Le indagini "Why Not" - racconta De Magistris ai magistrati di Salerno - stavano ricostruendo l'influenza dei poteri occulti. In particolare si stavano ricostruendo i contatti intrattenuti da Giancarlo Elia Valori, Luigi Bisignani, Franco Bonferroni ed altri e la loro influenza sul mondo bancario ed economico finanziario. Elia Valori pareva risultate, dagli accertamenti preliminari che stavamo svolgendo con la massima riservatezza, ai vertici della massoneria "contemporanea". Elia Valori si è occupato spesso di lavori pubblici. Nel recente passato, agli inizi del 2000 ha trovato anche una sponda rilevante a sinistra, all'interno del governo D'Alema, in Marco Minniti. E si era anche interessato di telefonia, - settore in cui, come poi dirò, si è interessato anche il professor Francesco Delli Priscoli, figlio del pg della Cassazione Mario (che aveva promosso l'azione disciplinare nei confronti di De Magistris ndr). Non posso però non tenere conto dei seguenti elementi, pur se non si volesse mettere in discussione onestà e serenità di giudizio delle persone elencate: sul vice presidente del Csm, Nicola Mancino (che presiede la sezione disciplinare che dovrà giudicarmi) che ha già fatto intendere in una intervista che avrei violato il codice etico della magistratura, del consigliere togato, Fabio Roja, del giudice Luerti attuale presidente dell'Anm che ha stretti rapporti con la Compagnia delle Opere".

MAGISTRATI ED AVVOCATI MASSONI?

Magistrati e avvocati massoni? Dalle intercettazioni pare proprio di sì. Quei magistrati che il Gip di Salerno lascia al loro posto, scrive Franco Venerabile su “L’Indipendente Lucano”. Non ci sarebbe nulla di male, sia beninteso. Lo stesso presidente Napolitano usa esprimere familiari auguri e sentimenti cordiali al Gran Maestro di turno. Ma sarebbe utile capire, avere qualche risposta a questioni che aleggiano da alcuni anni. Almeno dal 2007, da quando, in una telefonata intercettata tra un giornalista di cui il PM Annunziata Cazzetta ed il Gip Angelo Onorati erano all'affannosa ricerca delle fonti, qualcuno disse che Vincenzo Autera (magistrato della Corte d'Appello di Potenza) ed Emilio Nicola Buccico (avvocato materano) erano in forza ad una loggia estera. La fonte, in quel caso, era un appartenente alla Massoneria noto per questa sua legittima adesione, ma nessuno ritenne di approfondire la questione e tutto rimase in un nastro ed in qualche foglio di trascrizione. Sembra che solo a nominarla, la Massoneria crei imbarazzo. Poi, molto poi, si accertò che tutte quelle intercettazioni, Cazzetta ed Onorati le avevano disposte e tenute illecitamente e nel giugno 2012 un giudice stabilì di trasferire il procedimento a Catanzaro. Anche lì, Vincenzo Autera aveva un precedente: indagato per associazione mafiosa dal 2007 al 2009 (ma l'iscrizione originaria, a Firenze, era del 2005), procedimento archiviato. In quei quattro anni, nessuno aveva comunicato l'iscrizione di una ipotesi di reato così grave alla Procura presso la Corte di Cassazione. Il che è gravissimo, pare! Anche Cazzetta era ben nota a Catanzaro, alcune decine di procedimenti la vedevano indagata per reati anche gravissimi. Quasi tutti definiti con archiviazione, alcuni pendenti. Ma tutti senza alcuna attività d'indagine, almeno tutti quelli tenuti dal PM Paolo Petrolo: più che un magistrato inquirente si potrebbe definire un magistrato paragnosta. Tranne che per l'identità degli indagati (se magistrati), che suole iscrivere nell'imminenza della formulazione della richiesta di archiviazione, per il resto i fascicoli appaiono scevri di qualsivoglia attività ma motivati da potenti precognizioni. Significativo il caso in cui si accertò la mancanza di oltre cento faldoni che, secondo il Gip, non avrebbero potuto contenere alcun elemento utile a modificare la decisione di archiviare. Quasi che quegli atti d'indagine che nessuno aveva potuto visionare fossero carta straccia. Che a Catanzaro la preveggenza non sia una virtù, lo si scopre attraverso una recentissima inchiesta della Procura di Salerno. "La 'ndrangheta non esiste più, fa parte della massoneria. Abbiamo amicizie: medici, avvocati, politici, giudici, commissari", la frase è di un noto boss della 'ndrangheta ed è intercettata dalle microspie dei Carabinieri del ROS di Salerno. Il collante è proprio l'appartenenza alla massoneria. Massone è anche il magistrato /Gip) Giancarlo Bianchi che di favori, secondo la Procura di Salerno, ne distribuisce più d'uno. E qui ritroviamo il PM Paolo Petrolo, parte de "l'ingranaggio" a disposizione della 'ndrangheta. Un sistema di contatti, che ruota attorno al giudice Bianchi e a due sostituti procuratori della Dda di Catanzaro: Giampaolo Boninsegna e Paolo Petrolo. Per questi tre magistrati, il PM di Salerno aveva chiesto l'interdizione: negata! Se fossero stati semplici poliziotti sarebbero stati arrestati ma non tutti nascono col cappuccio. Resta un'ultima domanda, questa al Dr. Paolo Petrolo: scusi, lei è massone?

PARLIAMO DI MASSONERIA

In internet un file ‘anonimo’ con tutti i dati. Ma non è aggiornato. 32 logge in Umbria fra Perugia, Terni, Spoleto, Foligno, Castello e Umbertide.

E’ spuntato in internet ed ha già attirato la curiosità di molti. E’ il file in formato excel dove sono riportati i nomi dei 26.409 iscritti alla Massoneria italiana. Con tanto di data di nascita, residenza, e professione. Il percorso è presto detto: si parte da Google e, una volta inserita nella stringa la parola chiave “elenco massoni” ecco che al primo posto (su un totale di 58.500 voci) fa bella figura di sè il “files.meetup.com/207935/pidue.xls”. Basta un click e il gioco è fatto.

Il documento non è di per sè una novità: si tratta di una lista datata, vecchia almeno di più decenni, già in parte pubblicata da quotidiani. Nel 1998 ci provò anche la rivista “Cuore” a pubblicare, a puntate, tutta quella massa di dati, ma l’esperimento si fermò al terzo numero. Nel 2004 il file arrivò alla redazione di Macchianera che non lo pubblicò perchè ormai era già disponibile nei siti peer to peer. Ma è evidente che chi oggi l’ha messa in rete, ha voluto gettare benzina sul fuoco del sempre tanto discusso e dibattuto tema della fratellanza: non fosse che lo stesso file, in chiusura, è stato ribattezzato “pidue”, quando nessuno dei 26mila risultava iscritto in quello della P2 di Licio Gelli che finì nel mirino della magistratura. Perchè, vale ricordarlo, essere iscritti ad una loggia non è reato. Diverso fu il caso della P2 i cui affiliati finirono coinvolti in diverse inchieste di eversione, stragi, depistaggi e tentato colpi di Stato. Ma torniamo al file. Alcuni di quella lista sono morti. Un centinaio infatti sono quelli che oggi avrebbero più di 100 anni. Non furono pochi quelli che, all’indomani dell’inchiesta del procuratore Agostino Cordova, uscirono dalla massoneria. “E’ fu un bene – dicono dagli ambienti ternani – molti erano entrati non perchè credessero nei nostri valori, ma perchè convinti che avrebbero potuto beneficiare di chissà quali favori. Chi ci credeva e ci crede è rimasto e alla fine quella indagine si rivelò una fortuna per l’onorabilità della massoneria”. Quelli rimasti hanno proseguito il loro ‘percorso’. A guardare quell’elenco c’è chi ha avuto fortuna. Ma c’è anche a chi non è andata affatto bene. Eccoli tutti insieme, tutti e 26.409: docenti, medici, impiegati, avvocati, commercianti, ferrovieri, geometri, ingegneri, agricoltori, bancari, farmacisti, architetti.

LA LISTA UMBRA: nel 1992 erano poco più del 4% gli umbri iscritti alle varie logge. 845 quelli residenti nella provicnia di Perugia, 232 in quella di Terni. La parte del leone la facevano i nati nel capoluogo di regione (562), seguiti da Terni (156), Città di Castello (65), Foligno (35), Gubbio (17), Spoleto (16), Bastia Umbra (13), Assisi (11), Amelia (7) etc..

LE LOGGE: Tre i principali Ordini massonici. Il Grande Oriente d’Italia (GOI), il più numeroso con i suoi 30mila iscritti, la Gran Loggia Regolare d’Italia (GLRI) e la Gran Loggia d’Italia, l’unica a concedere l’accesso alle donne. Tutte hanno il loro sito internet al quale hanno affidato persino gli indirizzi delle loro strutture. Un po’ più difficile avere la lista degli iscritti (per quanto gli elenchi sono pubblici e dunque consultabili presso i rispettivi uffici). Grazie ad un iscritto ad una loggia di Perugia è possibile tracciare un quadro più aggiornato sugli iscritti in Umbria.

G.O.I: è la più antica, nata nel 1805 (il primo Gran Maestro fu Eugenio De Beauharnais, figliastro di Napoleone Bonaparte), e la più numerosa. Attualmente è presieduta dall’avvocato Gustavo Raffi. 29 in tutto le logge umbre, 24 in provincia di Perugia, 5 in quella di Terni. Perugia: La loggia storica per eccellenza è la “Francesco Guardabassi” (n. 146), una delle 18 logge perugine che vantano ca. 1.300 affiliati. Seguono “Fede e Lavoro”, “Riccardo Granata”, “Mario Angeloni”, “I Figli di Horus” (che si richiama al rito egizio di Memphis e Misraim), “Fratelli Bandiera”, “Concordia”, “Ver Sacrum”, “Bruno Bellucci”, “Luca Mario Guerrizio”, “Francesco Baracca”, “La Fermezza”, “Guglielmo Miliocchi”, “Humanitas”, “La Fenice”, “Quatuor Coronati”, “XX Giugno 1859” e “Enzo Paolo Tiberi” (la più recente, n. 1.325). Città di Castello: 150 i “muratori” che compongono le 4 logge presenti a Città di Cstello, ribattezzate “XI settembre”, “I Liberi”, “Armonia” e “Atlantide”. A Foligno sarebbero una trentina gli affiliati alla “Domenico Benedetti Roncalli” mentre un po’ di meno quelli alla “Luigi Pianciani” di Spoleto. Terni: cinque le logge per circa 200 iscritti. La prima ad essere aperta è la ‘Tacito’ seguita dalla “Giuseppe Petroni”, “Paolo Garofoli”, J.W. Goethe” e “Alessandro Fabri”.

G.L.R.I.: fondata da Giuliano Di Bernardo a seguito dello scisma nel 1993 dal GOI. Attualmente è presieduta dal dottr Fabio Venzi. In Umbria vanta un centinaio di iscritti e 4 logge: la “Luigino Marra” di Spoleto, Piero della Francesca” e “San Bevignate” di Perugia e la “Braccio Fortebraccio” di Umbertide. Tutte operano nel capoluogo di regione dove gli iscritti si ritrovano, a cadenza settimanale, in una nota struttura ricettiva.

G.L.I. (Obbedienza di Piazza Del Gesù Palazzo Vitelleschi): E’ un “Ordine iniziatico di uomini e donne”, l’unica infatti ad aprire le porte anche alle donne. Fondata nel 1910 è oggi retta dal professor Luigi Pruneti. La sede umbra (per gli Orienti di Terni e Perugia) è presso il Centro Sociologico Italiano in Via Valentini a Perugia. Gli iscritti sarebbero una cinquantina.

L'INCHIESTA di  CURZIO MALTESE su “La Repubblica”: Chi comanda nelle città. Perugia, il potere soft tra Medioevo e futuro.

Un viaggio in Umbria è sempre un viaggio nel tempo, in molti sensi. Anzitutto, non bisogna aver fretta. Il cuore d'Italia ha il battito lento, la terra dove "la calma si trova a due passi dalla passione" (De Musset) attira più pellegrini che turisti. Non solo ad Assisi. In fondo anche i milioni di visitatori di Umbria Jazz, di Eurochocolat, di "Cantine Aperte" e della marcia della Pace, a modo loro sono in pellegrinaggio verso santuari laici. Disposti a perdersi nell'incanto dei paesaggi, nelle valli belle come la Toscana, ma meno oleografiche, più ruspanti e segrete. Di gran moda fra le star, come Sting e Bruce Springsteen, che hanno appena traslocato famiglie e clan dal Chiantishire a Montone. Ed è un viaggio nelle epoche, in una regione sospesa fra Medioevo e futuro. Come la pittura umbra, che salta dal Perugino a Burri. Perugia, l'"Oxford italiana" di Indro Montanelli, con la sua università antica di sette secoli, le mura alte e perfette, la Rocca Paolina, è un museo vivente ma anche il laboratorio sociale di un felice "melting pot" all'italiana, con una popolazione di immigrati fra le più alte e un indice di criminalità fra i più bassi. Non esiste consiglio comunale che non abbia consiglieri immigrati ed è palestinese il deputato di Perugia, Ali Rashid di Rifondazione. L'università per gli stranieri è il miglior ponte culturale fra Italia e Cina, per non dire l'unico, visto che qui studia la metà degli studenti cinesi presenti nel nostro Paese. L'euforia di un'aria pulita, il carezzevole tratto degli orizzonti, lo splendore dell'arte, il profumo stordente dei fiori e delle utopie, tutto rende questa terra a prima vista paradisiaca. Perfino la globalizzazione in Umbria è stata dolce. E' arrivata prima che altrove, con i due colossi industriali, la Buitoni-Perugina e le acciaierie di Terni, finite nelle mani di Nestlè e Krupp. In compenso la perugina Colussi è diventata una multinazionale e fa shopping nel mondo dei marchi (Misura, Liebig, Sapori, Flora) e le medie imprese innovative si sono organizzate per rispondere con guizzi di originalità e oggi c'è chi vende frigoriferi agli eschimesi, legno ai canadesi, energia solare agli spagnoli, cioccolata agli svizzeri, cashmere agli indiani, jazz agli americani.  Medioevo e futuro s'intrecciano nelle strutture del potere. Perugia è un groviglio di circoli chiusi, impenetrabili come fortezze, con una massiccia presenza della massoneria: trentaquattro logge in una città di 160 mila abitanti. Il tradizionale legame fra università e massoneria si attiva molto in queste settimane di campagna elettorale per i rettorati. Sono favoriti gli uscenti, il microbiologo Francesco Bistoni all'università per italiani e l'italianista Stefania Giannini agli stranieri, ma si combatte a colpi di comizi e riunioni. E' la vera campagna elettorale perugina. Le altre si chiudono di fatto quando i Ds locali comunicano i nomi dei candidati alle poltrone di sindaco, presidenti di provincia e regione, seggio alla Camera e al Senato. E' diviso in feudi anche il potere nell'informazione, con i due giornali di Perugia, il Giornale dell'Umbria e il Corriere dell'Umbria, in mano a due cementieri, entrambi eugubini, il gruppo Colaiacovo (colosso con tremila dipendenti) e il concorrente Barbetti, che li usano per farsi la guerra, in omaggio a un vecchio adagio umbro: "Il sogno segreto/ dei corvi di Orvieto/ è mettere a morte/ i corvi di Orte". Con una netta prevalenza di Carlo Colaiacovo, al centro di un sistema di potere che comprende anche tre tv locali, la presidenza dell'associazione industriali e della fondazione bancaria, senza farsi troppi scrupoli di conflitto d'interessi. Eppure nel Medioevo umbro si aprono squarci di modernità. Non c'è forse un'altra regione in Italia, per esempio, dove s'incontrino altrettante donne nei posti di comando. Tutte nipotine di Luisa Spagnoli, la pioniera che nel 1907 fondò la Perugina, inventò il celebre "Bacio", si dice per amore di Francesco Buitoni, e poi la celebre catena di negozi, oggi gestita con talento dalla pronipote Nicoletta. Sono le sorelle Maria Grazia e Teresa a mandare avanti la Lungarotti, colosso del vino. Una quarantenne di Foligno, Catia Bastioli, amministratore delegato della Novamont, ha progettato una plastica biodegradabile e per questo è candidata al premio di inventore europeo dell'anno. Sono donne i sindaci di Todi e Città di Castello, la rettore dell'università degli stranieri e naturalmente lei, la "regina dell'Umbria", la presidente Maria Rita Lorenzetti. Contraria alle "quote rosa" perché non ne ha mai avuto bisogno. A meno di trent'anni era sindaco di Foligno, a trentacinque presidente della commissione parlamentare dell'ambiente, a quaranta (nel 2000) prima e unica governatrice d'Italia, riconfermata nel 2005 con un plebiscito, il 63,2 per cento, record nazionale. A conferma di una regione al femminile, come testimonial della Regione Umbria si è offerta Monica Bellucci, nata a Città di Castello. La popolarità della "regina" Lorenzetti si spiega con la ricostruzione dopo il terremoto del 1999 e con la fama di politico più antiberlusconiano d'Italia per via di alcune clamorose polemiche con l'ex presidente del Consiglio, sulla marcia Perugia-Assisi, sul 25 aprile e appunto sul terremoto. "Quando crollò quella scuola in Molise, Berlusconi ebbe il coraggio di dire: non faremo come l'Umbria. Perché non viene adesso a vedere come sono stati restaurati i borghi, più belli di prima?". Tutto vero, con qualche eccezione. Per esempio il centro storico di Nocera Umbra, ancora in macerie. "Guarda caso, l'unico dove c'è un sindaco di destra", risponde pronta. "Siamo circondati da una fama di regione vecchia, bella ma immobile. I problemi ci sono, a partire dall'invecchiamento della popolazione, duecentomila pensionati su ottocentocinquantamila abitanti. Ma guardi Perugia, il modo in cui ha integrato gli stranieri, eliminato il traffico cittadino con le scale mobili che ci copiano da tutto il mondo, inventato manifestazioni di successo nel mondo. Provi a visitare i nuovi distretti tecnologici verso il Trasimeno, a parlare con i giovani imprenditori e vedrà che stiamo vivendo una piccola rivoluzione". Seguo il consiglio e a una decina di chilometri da Perugia, vicino Corciano, visito quella che è forse la più piacevole fabbrica del mondo, la Cucinelli. Un borgo del '300, Solomeo, del tutto restaurato, dove le operaie lavorano nei casolari, all'ombra degli affreschi, guadagnano il doppio delle colleghe dei maglifici senza mai fare un'ora di straordinario e mangiano in una mensa da Gambero Rosso. Brunello Cucinelli, 43 anni, è il re del cashmere, esporta in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone, ora in Cina e India, ma è l'esatto contrario dell'esangue e manierato stilista. Figlio di contadini, un passato di estremista, ha l'aria del francescano di sinistra e ricorda da vicino Mario Capanna. La sua rivoluzione l'ha fatta con i colori e il cashmere, ma ora si preoccupa "di restituire alla società una parte della mia fortuna". Ha salvato Solomeo dalla distruzione, adesso pensa a costruire un teatro neoclassico, che Luca Ronconi dovrebbe inaugurare, parchi per la meditazione religiosa, fondazioni benefiche. Cita Sant'Agostino, San Benedetto e Aristotele molto più di quanto non parli del bilancio consolidato o delle sfilate milanesi. In maniera perfino sospetta per uno che aumenta il fatturato del 20 per cento all'anno. E' presidente dei quindici teatri umbri, uno più bello dell'altro, e direttore dello Stabile di Perugia. Come quasi tutti gli industriali umbri, coltiva ulivi e vigne. "L'amore per il territorio era un lusso e oggi è diventato un marchio di garanzia nei mercati internazionali". Un altro imprenditore filosofo è Gianluigi Angelantoni, erede di Giuseppe, a capo di un'altra fabbrica-convento, sullo splendido Cimacolle davanti a Todi, che è un gioiello della tecnologia italiana. L'Angelantoni è specializzata in ingegneria del freddo, ha costruito simulatori ambientali usati in cinque continenti, il più avanzato simulatore per testare i satelliti, venduto all'India e inaugurato nel febbraio scorso a Bangalore durante il viaggio di Prodi, il sistema per conservare l'Uomo di Similaun e altro ancora. La prossima scommessa di Gianluigi Angelantoni è il progetto Archimede, in collaborazione col premio Nobel Rubbia. "E' un nuovo sistema di produzione di energia solare mutuato dallo stesso concetto degli specchi ustori di Archimede" spiega. "Sarà destinato ad abbattere i costi dell'energia solare. Gli spagnoli l'hanno già prenotato su vasta scala. In Italia, come sempre, siamo molto prudenti...". La terza tappa dell'Umbria Jazz Economy mi porta in una specie di giardino dell'Eden, a Montefalco, la terra del Sagrantino. Le industrie Caprai, settore tessile, hanno trasformato in business il tradizionale hobby degli industriali umbri per la vinificazione. Marco Caprai ha investito sul Sagrantino, vino originalissimo e fra i migliori d'Italia, quando nessuno ci credeva. Il risultato è un boom paragonabile a quello del Brunello negli anni Novanta. E' appena tornato dalla California, dove due produttori gli hanno chiesto una consulenza per riprodurre il Sagrantino: "Avevo soltanto capito che prima o poi la gente si sarebbe stufata di bere soltanto Merlot, Cabernet e Chardonnay, bastava aspettare e resistere". Al ritorno a Perugia incontro Eugenio Guarducci, 42 anni, autentico mito nascente dell'imprenditoria umbra. E' l'uomo che ha inventato Eurochocolate, un milione di visitatori, una sagra della cioccolata moltiplicata per mille. "Sono uno che ha inventato l'acqua calda" dice lui. "Che cosa ci voleva? Perugia è la città dei baci di cioccolata, la capitale della dolcezza. La città è bellissima e gli stranieri ci vengono sempre volentieri. Bastava soltanto mettere i manifesti". Peccato che nessuno ci avesse pensato prima. Dopo il successo di Eurochocolate, anche gli svizzeri si sono accorti di non averci pensato prima e hanno chiamato Guarducci per organizzare la festa europea della cioccolata. Intanto a Perugia, con gli incassi della fiera, ha aperto un centro congressi e una catena di alberghi tematici, uno dedicato naturalmente alla cioccolata, un altro al vino e il terzo, appena inaugurato, al jazz. Grazie ai Cucinelli, Angelantoni, Caprai, Guarducci, alla vivacità dell'imprenditoria al femminile, l'Umbria cresce più del resto d'Italia e ha l'indice di disoccupazione più basso al di sotto della pianura padana. Qualche anno fa Ernesto Galli della Loggia, in un lungo dialogo con il deputato diessino Stramaccioni, dedicò un pamphlet ("Rossi per sempre") all'Umbria come metafora del declino nazionale. Se questo è il declino, ci possiamo stare.

I massoni di Perugia: questa persecuzione deve finire. Dall’archivio de “Il Corriere della Sera” l’inchiesta di Bruno Tucci. LA CAPITALE DEI VENERABILI. Mille affiliati. Li accusano di condizionare la città e loro: "Siamo eredi dei laici che hanno sconfitto il Papa Troppe calunnie, quel magistrato viola il codice. Mille iscritti alle logge sparsi per la provincia: tutti nelle stanze dei bottoni. Ospedali, banche, università e poi ancora in magistratura, negli ordini professionali, tra gli avvocati, i medici, gli ingegneri fino alle istituzioni. La mappa della massoneria in questo lembo del Paese raggiunge percentuali da capogiro. Perugia si sente afflitta e condizionata? "Non diciamo eresie", esclama il presidente del collegio venerabile, Giancarlo Zuccaccia. "Chi ha conquistato posti importanti nella società non lo deve certo a noi, ma esclusivamente alla propria professionalità". Eppure, le accuse sono specifiche: vengono da un giudice calabrese che punta il dito contro i massoni e cerca di inchiodarli con elementi e prove inconfutabili. Lo avrete capito: il magistrato in questione è Agostino Cordova, procuratore di Palmi, il quale sta combattendo una battaglia personale in un campo così delicato e difficile. Le parole di Cordova non ammettono dubbi di sorta. In Umbria, e specificamente nella provincia di Perugia, i massoni sono tanti, troppi e condizionano la vita della città. Tutto passa attraverso il controllo delle logge: assunzioni, promozioni, avvicendamenti, scatti di carriera. Come mai? Semplice: al timone della barca ci sono loro e soltanto loro. "Fandonie, fesserie, calunnie", risponde a tono Giancarlo Zuccaccia, presidente dell' Ordine degli avvocati dall'ottobre del 1992. Sibila: "Sono stato eletto con 250 voti. Dovrebbero avere tutti una stessa etichetta, secondo Cordova. Ed invece, non è così, glielo posso assicurare. La verità è che questo magistrato ha preso di mira la massoneria. Ha sguinzagliato per tutta Italia i suoi scherani e siccome non è riuscito a trovare un bel nulla, allora tira fendenti alla cieca. Ma, attenzione, sta violando il codice penale". Un' accusa pesante, avvocato... "Già, è vero. Allora non la scriva. Però, rimane il fatto che noi siamo alla gogna, criminalizzati per episodi che non esistono. Siamo stanchi, mi creda, perché ne dobbiamo sopportare di tutti i colori". Dunque, non avete stretto tra di voi patti di alleanza spartitoria? Insomma, una specie di lottizzazione massonica? "Non scherziamo. Chi di noi raggiunge risultati professionali lo deve soltanto alla bravura ed all'onestà. Il resto sono chiacchiere che non stanno né in cielo, né in terra". Il presidente venerabile si difende, ammette che in Umbria ci sono 24 logge tra Perugia, Terni, Spoleto e Città di Castello, ma non vuole sentir parlare di favoritismi e di clientelismo. Sono parole sconosciute nel vocabolario dei massoni. Ma chi sa e conosce Perugia e dintorni non è d'accordo. Legge delle indagini condotte da Agostino Cordova e si frega le mani. "Finalmente! Era ora", grida qualcuno. "Questa storia, prima o poi, doveva pur finire. Speriamo si faccia in fretta, perché i giovani non ne possono più di un simile condizionamento". Parlano i perugini che non hanno niente a che spartire con la massoneria, però si trincerano dietro l'anonimato. Hanno paura di tarparsi le ali, di non poter combinare più nulla in futuro, se dovessero essere scoperti. Con tale premessa vanno avanti nel racconto e confessano al cronista che chi non sta dalla parte dei massoni incontra grossi ostacoli. I favoritismi sono a senso unico. Un esempio: se vuoi assicurarti un posto o se desideri compiere un salto di qualità, non hai altra scelta se non rivolgerti a quelli che contano. E, guarda caso, nelle stanze dei bottoni ci sono soltanto loro. Così è all' università, nelle banche, in ospedale, negli enti pubblici, dappertutto. "Noi agiamo alla luce del sole", replica Giancarlo Zuccaccia. "Non siamo un partito, abbiamo sempre combattuto la lottizzazione", aggiunge un altro "fratello perugino", l'avvocato Giacomo Borrione. "Anzi, sa che cosa le dico? E' vero il contrario: abbiamo sofferto l'infiltrazione dei partiti. Noi interveniamo soltanto quando un "fratello" è in stato di bisogno. E chi aiuta non appare, rimane tutto avvolto nel segreto". La voce di popolo grida a gran voce l'esatto contrario. Cita nomi, cognomi di affiliati: gente di potere che solidarizza solo con chi è iscritto. Ad esempio, la famiglia De Megni, sulla quale sono stati spesi fiumi di parole. "Alle cene annuali in casa loro partecipa il fior fiore della massoneria, il vertice delle logge umbre". Non si salva nessuno, nemmeno il rettore dell'Università, alcuni commissari di polizia, ufficiali dei carabinieri. Chiacchiere? "Se sono bugie, lo vedrete il giorno in cui Cordova avrà completato la sua inchiesta", rispondono i perugini. Giancarlo Zuccaccia va su tutte le furie: "Io ai pranzi di De Megni non ci sono mai stato. Se mi chiedete se sono massone, rispondo di sì. Sono apparso in gonnellino pure alla tv. Ma non andiamo oltre, parlando di sette, di logge segrete, di clientelismo. Il venerabile Licio Gelli (come lo chiamate voi) lo abbiamo espulso nel 1976, avete capito?". Ed allora perché tanti massoni a Perugia o in Umbria, se preferisce? "E' semplice: perché siamo laici ed abbiamo subito la dominazione pontificia per 400 anni. Lo sa che il 20 giugno, puntualmente, Perugia festeggia la cacciata dei papalini? Ed è una festa a cui partecipa tutta la città, comune compreso. Questa persecuzione di Cordova deve finire. Io ho subito minacce telefoniche e sono in allarme per la mia incolumità". In Corso Vannucci, la strada dello struscio, scuotono la testa e commentano: "I massoni? Se non stai con loro, è meglio che emigri. Sono forti, fortissimi ed hanno tutte le leve del potere. Quindi..."

MASSONERIA – I MAGISTRATI DALLA A ALLA ZETA, di Rita Pennarola (pubblicato il 7 gennaio 2010) su “La Voce delle Voci” e ripreso da tantissimi siti web.

Può un magistrato venir meno al vincolo di fedeltà giurato, pena la morte, per entrare in massoneria? E quali prove possono addurre quei giudici o PM che affermano di esserne usciti? Qui sentiamo alcuni esperti e passiamo in rassegna le carriere di tante toghe che sicuramente quel patto di sangue lo avevano sottoscritto. Molti sono ancora in servizio. E rivestono ruoli apicali. Gli italiani lo hanno capito da tempo, a reggere davvero le sorti del Paese non sono né le banche né le istituzioni democratiche e nemmeno la magistratura: sono i massoni – regolari o, quasi sempre, appartenenti a logge coperte – che proprio in quei tre ambiti sono capillarmente infiltrati. A confermare questa consapevolezza arriva, da ultimo, il sondaggio lanciato sul sito della Voce, al quale hanno partecipato 466 lettori: un piccolo ma significativo campione, secondo il quale (56,8%) sono sempre loro, i confratelli, a detenere saldamente le leve del potere. E tutto attraverso quel vincolo di segretezza che, dopo l’iniziazione, si può cancellare solo con la morte. Lo dicono, chiaro e tondo, le parole stesse del giuramento: «prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato, sotto pena di aver tagliata la gola, strappato il cuore e la lingua, le viscere lacere, fatto il mio corpo cadavere e in pezzi, indi bruciato e ridotto in polvere, questa sparsa al vento per esecrata memoria di infamia eterna. Prometto e giuro di prestare aiuto e assistenza a tutti i fratelli liberi muratori su tutta la superficie della terra». Chiaro, no? Come la mettiamo, allora, con quei confratelli che rivestono ruoli apicali in settori nei quali è richiesta la loro facoltà decisionale? Basta insomma, per fare un esempio, che qualche magistrato se la cavi dicendo frasi del tipo «La massoneria? Io l’ho lasciata da tempo…», senza poterlo in alcun modo provare? E come si comporterà se l’imputato – o, più spesso, l’avvocato di quest’ultimo – è un grembiulino come lui? Cominciamo dal primo quesito. Giuseppe De Lutiis, uno fra i più autorevoli studiosi di eversione e di poteri occulti, consulente di numerose Procure della Repubblica, non ha dubbi: «dalla Massoneria si esce solo nel caso in cui si venga espulsi. Altrimenti si rimane “in sonno”, una condizione comunque revocabile in qualsiasi momento». Aggiunge un altro consulente, più volte fin dagli anni ‘80 al fianco dei PM in indagini sulle Logge segrete: «accade con una certa frequenza che un massone in sonno decida di rientrare tra i confratelli attivi, anche perché spesso la scelta dell’“assonnamento” è dovuta all’assunzione di cariche pubbliche. Il suo ritorno viene vissuto come una festa: non solo non occorre rifare tutti i complessi rituali dell’iniziazione, ma spesso riceve in dono il passaggio ad un grado superiore rispetto a quello che aveva lasciato. Questo indica che dalla massoneria non ci si può “dimettere”: loro lo vivono come un battesimo, che non prevede alcuna possibilità di “sbattezzarsi”». Tutto ciò riguarda le Logge regolari, con tanto di elenchi depositati, mentre sulle eventuali “norme” vigenti fra i massoni coperti non è possibile azzardare ipotesi. Di sicuro, il giuramento non viene meno né potrà essere mai svelata l’identità dei confratelli. Quali siano le “punizioni” per chi trasgredisce, si può a questo punto solo immaginarlo. È sulla base di questa premessa che siamo andati a cercare chi sono, dove sono ora e cosa fanno alcuni magistrati sulla cui originaria affiliazione massonica non ci sono dubbi. I 37 nomi che qui di seguito proponiamo, infatti, sono presi per buona parte dagli unici elenchi (comprensivi delle Logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ‘92 dall’allora procuratore capo di Palmi Agostino Cordova. Altri nomi li abbiamo invece ricavati dall’elenco ufficiale dei massoni pubblicato nel 2008 dalla Voce, che non include la consistente fascia di vip affiliati ad obbedienze cosiddette “non regolari”, ma assai più potenti e generalmente riconosciute da Logge estere. Sulla cima della piramide ci sarebbe in questo periodo, per fare un esempio, la “Gran Loggia Italiana Massonica”, i cui adepti, che si definiscono «un gruppo di Fratelli Massoni provenienti da varie Obbedienze, (G.O.I., Piazza del Gesù, Gran Loggia Regolare d’Italia, Gran Loggia Massonica Italiana, Logge di San Giovanni, Gran Loggia della Repubblica di San Marino)», adducono a fondamento della loro scelta la risibile motivazione di poter affiliare anche le esponenti del gentil sesso (facoltà ampiamente prevista da una delle due principali obbedienze regolari, vale a dire la Gran Loggia d’Italia di Palazzo Vitelleschi). Fondata ad Arezzo nel marzo 2002, la nuova compagine non poteva che essere benedetta da Licio Gelli in persona. Nessun problema, se non fosse per un piccolo particolare venuto a galla in un articolo della Nazione di fine 2006: la donazione fatta dal venerabile e dai suoi confratelli ai poveri del Sacro Cuore di Arezzo. Racconta al quotidiano il parroco, don Angelo Chiasserini: «Quello che valuto è la finalità dell’iniziativa, che è di beneficenza. È stato Tiberio Terzuoli, gran maestro della Serenissima Gran Loggia Nazionale, a contattarmi, spiegandomi successivamente che all’iniziativa avevano contribuito anche Gelli e Giuseppe Sabato, sovrano della Gran Loggia Massonica Italiana». Che di lì a poco si sarebbe invece ribattezzata Gran Loggia Italiana Massonica. Ma chi è Giuseppe Sabato il “sovrano”? Non sarà per caso lo stesso rampante manager di Banca Esperia, la holding finanziaria che fa capo a Silvio Berlusconi? Impossibile affermarlo con certezza, visto il segreto assoluto che vige nella neo-Loggia aretina. Di sicuro, però, oggi a dominar la scena sotto i cappucci sono i maghi dell’alta finanza. Come accade a Napoli, dove dominus incontrastato della Loggia Bovio è il commercialista Giovanni Esposito, assurto nell’olimpo supermassonico dell’Arco Reale, rito di York. «Il baricentro – dice ancora il nostro esperto – ai livelli medio-alti si sta spostando dalle Logge coperte a queste consorterie non riconosciute dalle obbedienze tradizionali, ma gemellate con compagini estere come la Loggia Montecarlo, che ha sede nel Principato di Monaco». Se questi sono ora gli assetti finanziari “globalizzati” dei confratelli, non meno interessante sarebbe definire quali e quanti magistrati vestono oggi il grembiule sotto la toga. Missione quasi impossibile, dal momento che a scoprire le carte dovrebbero essere i loro stessi colleghi, come in perfetto isolamento fece Cordova nel ‘92 e come, intorno al 2000, aveva provato a fare a Napoli un altro PM-coraggio, Luigi De Ficchy, attuale procuratore capo a Tivoli e all’epoca impegnato nell’inchiesta sulla Loggia deviata Spinello, naufragata nelle nebbie della Procura capitolina. Mentre i circa mille faldoni dell’inchiesta Cordova marciscono ancora nei sotterranei di piazzale Clodio, a Roma. Eppure, provando a scorrere le carriere delle toghe messe a nudo dal mastino di Palmi, più qualche nome venuto fuori in elenchi recenti, le sorprese non mancano. Ecco allora qui di seguito, in ordine alfabetico, alcuni esempi significativi fra i tanti magistrati che avevano giurato fedeltà alla massoneria.

ABBADESSA Lorenzo – Classe 1939, nato a Napoli (dove gli Abbadessa sono conosciuti come influente famiglia di medici), dal 2006 si è iscritto all’albo degli avvocati e risulta avere lo studio a Soverato, perla costiera della provincia di Catanzaro. Con la qualifica di “Magistrato” lo si ritrova invece negli elenchi dei massoni aggiornati a tutto dicembre 2007 e pubblicati dalla Voce nel 2008. Lorenzo Abbadessa è attualmente responsabile, proprio a Catanzaro, della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello, in via Falcone e Borsellino.

ALIBRANDI Tommaso – Nato a Roma l’8 agosto del 1933, è iscritto negli elenchi ufficiali della massoneria aggiornati a tutto il 2007 con la qualifica di “Magistrato al Consiglio di Stato”. Negli anni ‘90 era stato invece attivo presso la Corte dei Conti. Nel ‘93 il suo nome è fra gli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla telefonia dal PM della capitale Guglielmo Muntoni (giudice Maria Cordova) insieme – fra gli altri – a Carlo De Benedetti, al costruttore Mario Lodigiani e all’ex ministro Paolo Cirino Pomicino. In quegli anni Alibrandi era stato capo dell’ufficio legislativo del Ministero dei Beni Culturali, presidente del TAR della Val D’Aosta nonché ex “uomo ombra” dell’allora ministro repubblicano delle Poste Oscar Mammì. Di provata fede PRI è anche Alibrandi (già senatore del partito di Giorgio La Malfa), che nel 2003 ritroviamo in pista fra i promotori della resuscitata Voce Repubblicana. Dal 2008 esercita la professione di conciliatore bancario.

ARIOTI Alfredo – Un Alfredo Arioti nato a novembre del 1941 compare con la dicitura esplicita di “magistrato” negli elenchi ufficiali degli iscritti alla massoneria di Perugia a tutto dicembre 2007. Si tratta dello stesso Alfredo Arioti Branciforti presente nell’organico della magistratura italiana come “nato a Palermo il 26 novembre 1941”. Il che risulta fra l’altro dal suo curriculum pubblicato da E-Campus, formazione universitaria a distanza, nel quale viene specificato che «dopo essere stato uditore presso la Procura della Repubblica ed il Tribunale di Roma, veniva nominato pretore in Valle D’Aosta a Donnaz». Nel 1969 «si trasferiva a Perugia, dove svolgeva le funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale». Dal 1981 Arioti è «sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Perugia. In tali funzioni esplicava numerose e delicatissime inchieste anche nei confronti di varie organizzazioni terroristiche quali Brigate Rosse, NAR, Prima Linea, Ordine Nuovo, talché subiva un attentato terroristico, perpetrato da una organizzazione eversiva, concretizzatosi in esplosioni di colpi di arma da fuoco nei confronti della sua abitazione».

Al CSM Arioti aveva dichiarato di essersi allontanato dalla Massoneria fin dal 1992, dopo che per ben due volte l’organo di autogoverno lo aveva dichiarato non idoneo a funzioni superiori proprio a causa di quella affiliazione, che gli aveva fra l’altro fatto meritare consistenti avanzamenti all’interno del sodalizio muratorio. Ne dava notizia, nel 2004, il bollettino di Magistratura Democratica, senza peraltro precisare quali prove avesse addotto il magistrato a riprova del suo allontanamento dalla massoneria, visto che il nome compare ancora negli elenchi 2007. Di Alfredo Arioti si sono comunque più recentemente occupate le cronache locali. È accaduto nel 2008, quando il coordinatore PdL Fabrizio Cicchitto (piduista) lo voleva come candidato a sindaco di Perugia; poi il diretto interessato preferì restare in magistratura – ci informa la Nazione il 19 novembre – e non se ne fece nulla.

ARMANI Giuseppe – Classe 1937, nato a Reggio Emilia, Armani è ancora presente in quanto “Magistrato” negli elenchi degli affiliati 2007, benché abbia da tempo lasciato la toga. Il suo nome venne alla luce già col sequestro Cordova nei primi anni ‘90 insieme a quelli di una ventina fra giudici, pretori e pubblici ministeri, tutti poi sottoposti al giudizio del CSM. Dedicatosi in seguito prevalentemente agli studi giuridici, Armani è autore di libri sulla Costituzione in uso negli istituti superiori. Nel 2006 ha pubblicato a Bologna un volume nel quale vagheggia l’idea di un’Italia laica e liberale.

CASOLI Giorgio – Compare negli elenchi 2007 pure Giorgio Casoli di Perugia, nato il 12 settembre del 1928. Anche il suo nome era rimbalzato alle cronache (e al Consiglio Superiore della Magistratura) dopo i sequestri del ‘92. Intrapresa la carriera come pretore ad Assisi e a Perugia, è a Milano come giudice di Corte d’Appello negli anni del terrorismo; passa poi in Cassazione dove diventa presidente di sezione. Di qui comincia anche la carriera politica: sindaco di Perugia dall’80 all’87, lo stesso anno entra a Palazzo Madama col PSI, dove siede nella giunta delle immunità parlamentari e nella commissione giustizia; sarà poi sottosegretario alle Poste nel governo presieduto da Giuliano Amato. Casoli torna alla ribalta nel 1996, quando conferma ai PM milanesi molte delle accuse lanciate dalla superteste Stefania Ariosto, cui è legato da antica amicizia. Soprannominato dagli amici “il Pertini dell’Umbria”, è considerato oggi in area PD, dopo l’avvicinamento di qualche anno fa al Partito Popolare.

D’AGOSTINO Luciano – La sua affiliazione esplode come una bomba nel ‘92, quando il napoletano D’Agostino, classe 1955, è PM a Locri. «Sono sconcertato – dichiara ai giornali – queste fughe di notizie sono inammissibili». Il vero problema era che il suo nome compariva negli elenchi di una Loggia coperta, la Luigi Ferrer del capoluogo partenopeo. Anche nel caso di D’Agostino assistiamo alle affermazioni – peraltro senza prove – su una presunta uscita dalla massoneria, proprio come si fa per dimettersi da un Cral: «prima di prendere servizio a Lamezia Terme avevo scritto alla loggia Luigi Ferrer di Napoli, regolare del Grande Oriente d’Italia, per segnalare che ritenevo l’esercizio di funzioni giurisdizionali non compatibile con l’appartenenza alla massoneria. Da allora non ho avuto alcun rapporto con i massoni». Basta la parola. Sapeva che era una Loggia coperta?, gli chiede il cronista del Corriere della Sera. E lui: «Un grande oratore del GOI ha detto che è una loggia coperta. Nel breve periodo in cui ne ho fatto parte, non lo era». Non riesce a convincere il CSM, che nel ‘95 gli infligge una sanzione disciplinare, dichiarando che l’appartenenza alla massoneria è lesiva dell’imparzialità dell’ordine giudiziario. Fino a inizio anni 2000 D’Agostino è sostituto procuratore a Catanzaro (dove si occupa, fra l’altro, della delicata questione del testimone di giustizia Pino Masciari), nel 2002 passa alle sezioni giudicanti dello stesso Tribunale. Dal 2007 è tornato a Locri, dove attualmente è giudice per l’udienza preliminare. Nel frattempo era stato alle prese come imputato in un procedimento penale dinanzi al Tribunale di Salerno. L’accusa (condanna in primo grado per peculato e assoluzione in appello) riguardava l’affidamento ad una ditta dell’incarico di eseguire intercettazioni telefoniche, quando D’Agostino era in servizio alla DDA di Catanzaro.

DI BLASI Salvatore – Attualmente giudice al Tribunale civile di Milano, Di Blasi era fra le toghe iscritte alla massoneria dell’elenco Cordova. Nel 2001 aveva assunto anche il delicato incarico di presidente di sezione in seno alla Commissione Tributaria della Lombardia. In questo periodo il giudice Di Blasi si sta occupando invece della vicenda INNSE, la fabbrica milanese del legno a rischio chiusura.

FRANCIOSI Nicolò – Anche lui presente negli elenchi Cordova del lontano ‘92, oggi il giudice Franciosi, napoletano, classe 1942, è consigliere della Corte d’Appello a Milano. Nel 2003 fa parte della terna giudicante che respinge la richiesta avanzata dai legali di Cesare Previti di ricusazione dei giudici nel processo IMI-SIR. Turbolente le vicissitudini del giudice Franciosi dinanzi al CSM per quell’antica affiliazione: dopo la sanzione disciplinare fa ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Strasburgo condanna al risarcimento in favore di Franciosi non il CSM ma lo Stato italiano, reo di scarsa chiarezza sulle norme che regolano l’appartenenza alla massoneria nel caso di un magistrato. Il Consiglio Superiore, però, nel 2002 respinge la richiesta avanzata da Franciosi di revisione della sentenza di sanzione e, due anni dopo, dice no anche all’inserimento della sentenza europea nel suo fascicolo personale.

LA SERRA Renato – Ecco un magistrato-confratello di cui si sono praticamente perse le tracce. Le ultime notizie che lo riguardano risalgono al 1998 quando, nell’ambito dell’inchiesta a carico dell’ex procuratore generale di Roma Vittorio Mele e del ras della sanità pugliese Francesco Cavallari, vennero a galla i viaggi generosamente offerti dall’imprenditore agli amici in toga, compresa la leggendaria trasferta a Parigi cui prese parte anche l’allora pretore di Trani Renato La Serra. La sua affiliazione alle Logge, emersa negli elenchi Cordova del ‘92, gli era costata, due anni dopo, una sanzione disciplinare dinanzi al CSM.

MAESTRI Angelo Massimo – Classe 1944, originario della provincia milanese, è in servizio alla Corte d’Appello del Tribunale di Palermo. Un caso, il suo, analogo a quello di Nicolò Franciosi: dopo la scoperta dell’affiliazione attraverso il sequestro Cordova, riceve la sanzione disciplinare dal CSM, che sarà confermata anche in Cassazione. Nel 2004 la Corte di Strasburgo condanna lo Stato italiano a risarcire Maestri con 10.000 euro. I problemi, nella carriera di Maestri, però, sono stati anche altri: il suo trasferimento da La Spezia (dove era stato per lunghi anni pretore) a Palermo, era stato infatti disposto nel 2001 dal CSM, che lo accusava di aver ricevuto fidi bancari di consistente importo senza garanzie. Situazione che, sommata alle contestazioni per la affiliazione massonica, non solo determinò il trasferimento, ma anche la destinazione dell’ex pretore “ad un organo collegiale”.

MARSILI Mario – Carriera brillantissima per il genero del Venerabile Licio Gelli, del quale aveva sposato la figlia Maria Grazia. Venuto allo scoperto come massone in sonno nella P2 dopo il sequestro di Castiglion Fibocchi, il dottor Marsili si è gettato alle spalle l’onta di quello scandalo, ottenendo perfino una promozione dal CSM (nell’89), fino a balzare nel ruolo apicale che riveste oggi: sostituto procuratore generale al Tribunale di Roma. Una Procura del resto, quella di piazzale Clodio, che per anni aveva visto al vertice un altro piduista di fama, il massone Carmelo Spagnuolo.

Prima giudice istruttore ad Arezzo, poi alle sezioni giudicanti del Tribunale di Perugia, Marsili ebbe solo un piccolo incidente di percorso nell’84, quando fu sottoposto a procedimento penale dinanzi al Tribunale di Verona (per accuse relative alla sua carriera di piduista) e, per questo, gli fu sospeso lo stipendio. In seguito all’assoluzione, riprese la sua escalation nei ranghi della giustizia italiana. Tanto che furono affidate proprio a Marsili le indagini sull’eversione nera di stampo neofascista, comprese quelle a carico di Mario Tuti e l’inchiesta sulla strage dell’Italicus. Come sono andate a finire, lo sappiamo.

MEZZATESTA Michele – No, non era un’affiliazione massonica qualsiasi, quella del magistrato Michele Mezzatesta, nei primi anni ‘90 presidente del Tribunale fallimentare di Palermo. Perché alla stessa Loggia del capoluogo siciliano facevano capo anche fior di mafiosi (fra cui il “ragioniere” di Cosa Nostra Pino Mandalari e Salvatore Greco, fratello del “papa” Michele Greco), politici ed affaristi. “La pietra entra grezza ed esce levigata”, si leggeva all’ingresso di quel tempio, cui gli inquirenti erano arrivati seguendo le tracce di un narcotrafficante agrigentino.

La questione si è riaperta in qualche modo nei mesi scorsi, dopo che i pubblici ministeri di Caltanissetta hanno chiesto all’AISI, attuale sancta sanctorum dei servizi segreti italiani, di visionare gli archivi sulla strage di Capaci. In compenso Mezzatesta non figura più nei ranghi della magistratura italiana.

MONDELLO Fabio – Consigliere di Corte d’Appello a Roma, dopo il clamore seguito al ritrovamento del suo nome fra i massoni del sequestro Cordova, nel ‘96 Mondello finisce nuovamente nei guai a causa di un processo che lo vede imputato insieme all’allora presidente di Cassazione Filippo Verde per aver usufruito di viaggi offerti dalla Canon ad alti esponenti del Ministero di via Arenula, dove i due magistrati avevano prestato servizio nei primi anni ‘90. Il nome di Mondello rimbalzò contemporaneamente anche nell’ambito di un altro scottante procedimento, quello che vide coinvolto il gip della capitale Renato Squillante e l’avvocato Attilio Pacifico. In seguito alla condanna in primo grado riportata a Perugia per la vicenda Canon, Mondello ha lasciato la magistratura.

MONTI David – Un caso davvero spinoso, quello di David Monti, il cui nome è legato all’inchiesta, condotta quando era PM ad Aosta, denominata Phoney Money ed incentrata su traffici internazionali che coinvolgevano massoni, alti prelati e pezzi dello Stato. Correva l’anno 1996 e nessuno si ricordava più che il nome di David Monti era negli elenchi sequestrati da Agostino Cordova. Anche Monti, all’epoca, aveva fatto ricorso alla solita scusa: «la mia iscrizione alla massoneria? Una semplice curiosità giovanile». Sarebbe interessante sapere come ha fatto il magistrato (e con lui diversi altri colleghi) a cancellare il complesso rituale dell’affiliazione ma, soprattutto, a rinnegare il giuramento di sangue fatto dinanzi ai confratelli. Una bella letterina di dimissioni, come al circolo del golf? Di sicuro Monti ha proseguito senza impedimenti la sua carriera nell’ordinamento della magistratura italiana. Ed oggi è GIP a Firenze.

MONTI Mauro – Classe 1947, riveste attualmente l’alta carica di sostituto procuratore aggiunto al Tribunale di Bologna, la città dove è nato. Dopo la scoperta del suo nome negli elenchi sequestrati da Cordova, di Mauro Monti le cronache non si erano più occupate. Tornano a farlo ad agosto 2009 quando, su richiesta dello stesso Monti, il Tribunale accoglie le istanze avanzate in appello dai difensori di Saverio Masellis e Francesco Cardamone, esponenti del clan dei casalesi accusati per aver gestito bische clandestine nel riminese. Risultato: per i due la sentenza di condanna è stata annullata e gli atti tornano al GUP.

NANNARONE Paolo – I problemi cominciano fin dall’83, perché il nome di Nannarone è già lì, negli elenchi della Loggia Propaganda 2, insieme a quelli di altri magistrati. A differenza dei colleghi, Nannarone viene assolto dal CSM. E benché lo si ritrovi nuovamente negli elenchi Cordova del ‘92, il magistrato continua la sua carriera senza problemi; quello stesso anno presiede al Tribunale di Perugia (dove ha svolto la gran parte della sua attività) la Corte d’Appello che proscioglie il finanziere “a un passo da Dio” Pierfrancesco Pacini Battaglia, difeso dall’attuale parlamentare di AN Giulia Bongiorno. Nel ‘96 ritroviamo Nannarone a capo della Corte d’Assise chiamata a pronunciarsi sul delitto del giornalista Mino Pecorelli. Ritenuto incompatibile, sarà sostituito dal collega Giancarlo Orzella. Nel 2000, sempre a Perugia, pronuncia una storica sentenza: i clienti delle prostitute non sono punibili per favoreggiamento. Classe 1939, lasciata la magistratura Nannarone è oggi nell’organigramma di vertice della Banca Popolare di Cortona.

PINELLO Francesco – Classe 1932, presidente del Tribunale di sorveglianza di Palermo, nel 2005 fa parlare di sé per il regime di semilibertà concesso al pluriomicida del Circeo Angelo Izzo, tanto che l’allora guardasigilli Roberto Castelli decise di inviare gli ispettori in Sicilia. In precedenza il nome di Pinello era balzato alle cronache negli elenchi massonici del ‘92, che gli costarono un procedimento disciplinare del CSM a suo carico.

PONE Domenico – In quegli elenchi del ‘92 c’era anche Domenico Pone: una cosa da poco rispetto alla scoperta, avvenuta nel lontano 1983, della sua contemporanea affiliazione alla P2, proprio mentre prestava servizio alla suprema Corte di Cassazione. Segretario, all’epoca, di Magistratura Indipendente, la corrente moderata delle toghe, Pone rappresenta uno fra i pochissimi casi di magistrati rimossi dall’ordinamento giudiziario per appartenenza alla Loggia fondata da Licio Gelli.

RESTIVO Nicola – È giudice per le indagini preliminari a Perugia, Nicola Restivo. Una delle ultime operazioni che portano la sua firma risale a maggio 2009, quando convalida il sequestro di biomasse trasportate illecitamente nelle campagne umbre. Nel 2007 un altro blitz, questa volta a carico di operatori assenteisti nella locale azienda ospedaliera. Nel ‘92, quando era procuratore capo a Perugia, il suo nome rimbalzò fra quelli dei massoni nelle liste Cordova. Il che, come abbiamo visto, non ha intralciato la sua brillante carriera.

RINAUDO Antonio – Anche la iscrizione di Rinaudo alla massoneria viene a galla con gli elenchi del ‘92. Attualmente in servizio a Torino (la città in cui è nato nel 1948) come pubblico ministero, si è recentemente occupato dell’ex giocatore della Juve Michele Padovano, sotto accusa per un presunto traffico di droga col Marocco. Nel 2006 le intercettazioni a carico di Luciano Moggi disposte dalla Procura partenopea portano alla luce la frequentazione assidua fra l’ex plenipotenziario del calcio italiano ed il PM Rinaudo, fra cene con signore e scambi di regali natalizi. Ai magistrati napoletani che lo interrogano sulla sua possibile affiliazione alle Logge, Moggi risponderà: «Massone io? Mai»…

ROMAGNOLI Riccardo – È in servizio al Tribunale civile di Roma il dottor Romagnoli, che a gennaio dello scorso anno ha pronunciato una storica sentenza riguardante Poste Italiane. Nel 1996, a seguito del ritrovamento del suo nome negli elenchi massonici del ‘92, a Riccardo Romagnoli il CSM inflisse la perdita di due anni d’anzianità. Il che scatenò la vibrata protesta del Grande Oriente d’Italia.

ROMANO Guido – È presidente del TAR della Calabria, il magistrato Guido Romano. La sua affiliazione – il nome era presente negli elenchi del ‘92 – non ha dunque turbato una carriera piena di soddisfazioni professionali. La decisione dell’allora guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi.

SALEMI Guido – Consigliere di Stato, giudice al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche e componente della Commissione Tributaria Centrale. Queste le attuali qualifiche di Guido Salemi, che al Consiglio di Stato ha pronunciato nel corso degli anni numerose e rilevanti sentenze. La sua iscrizione in massoneria venne alla luce con gli elenchi del ‘92.

SCARAFONI Stefano – Fra quelle carte c’era anche il nome di Stefano Scarafoni. Romano, classe 1961, all’epoca giudice al Tribunale di Tolmezzo, Scarafoni doveva essersi iscritto giovanissimo alla massoneria. Oggi è in servizio come magistrato fra i più attivi alla sezione fallimentare del Tribunale di Tivoli.

SERGIO Ferdinando – Il suo nome – al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini – venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati, quando nel ‘77 erano stati eletti ai vertici della ANM.

SERIANNI Vincenzo – Originario di Motta Santa Lucia, in provincia di Catanzaro, fino al 2001 è stato presidente di Corte d’Appello a Milano. Presente negli elenchi del ‘92 (quando presiedeva una sezione giudicante al Tribunale di Torino), l’anziano magistrato calabrese, classe 1929, risiede da anni nella zona di Casale Monferrato, dove frequenta il locale Rotary e presiede la Giunta esecutiva alla Camera di Commercio.

SPINA Antonio – Ad aprile ‘95 il CSM gli commina la sanzione disciplinare per l’affiliazione alla massoneria, venuta alla luce con gli elenchi del ‘92, mentre Spina esercitava la funzione di pretore a Sciacca, in Sicilia. Attualmente non risulta presente nei ranghi della magistratura.

TONINI Paolo – Il nome di Tonini era compreso nella lista dei magistrati trovata nella villa sudamericana di Gelli (vedi Ferdinando Sergio). Da tempo Tonini è passato nei ranghi accademici come docente di diritto processuale penale, che insegna all’Università di Firenze. In tale veste organizza incontri patrocinati dal CSM per la formazione e il tirocinio delle nuove leve in magistratura.

TRAPANESE Mario – A lungo presidente di sezione al Tribunale di Ancona, dopo il ritrovamento del suo nome negli elenchi del ‘92 fu deferito – insieme ai colleghi-confratelli – alla sezione disciplinare del CSM dall’allora ministro Conso. Origini napoletane, l’anziano magistrato si dedica oggi, sempre ad Ancona, a sostenere le sorti di un’associazione benefica, la Lega del Filo d’Oro.

VELLA Angelo – Ha fatto epoca, nel 1990, la decisione di Palazzo dei Marescialli, che aveva bloccato la promozione di Vella a presidente di sezione del Tribunale felsineo per la sua dichiarata appartenenza alla massoneria. Un parere che scatenò le ire di Francesco Cossiga. Nel 1974 il giudice Vella si era occupato della strage dell’Italicus. In anni più recenti, almeno fino al 2001, è stato membro della Corte di Cassazione.

VITALI Massimo – Era sostituto procuratore a Brescia ai tempi della strage di Piazza della Loggia e proprio a lui, insieme ad altri due colleghi, furono affidate le indagini su una tragica vicenda della quale ancor oggi si cerca una verità. La affiliazione di Vitali alla Massoneria verrà alla luce solo con gli elenchi del ‘92. Cosa fa ora? Classe 1946, originario di Grosseto, Vitali è in servizio. Sempre a Brescia. Come consigliere di Corte d’Appello.

Una annotazione finale: diamo per scontato che tutti i magistrati qui elencati e le centinaia di colleghi iscritti alla massoneria svolgano il loro lavoro con diligenza e professionalità. Quello che il cittadino (vittima, imputato, parte offesa, imprenditore a rischio fallimento) ha il diritto di sapere è che restano legati fino alla morte a quel giuramento. Che la massoneria non è un gioco di società dal quale si esce a piacimento. E che violare quel patto ha significato, per molti, perdere la vita.

Correzione dalla Voce delle Voci dell’articolo su magistrati e massoneria. Dalla Voce delle Voci in edicola.

C’e’ un caso di omonimia nella nostra inchiesta di gennaio 2010 sui “Magistrati Massoni”. A seguito della lettera che qui di seguito pubblichiamo integralmente, precisiamo che il dottor Guido Romano, attualmente consigliere di Stato e gia’ presidente di sezione al Tar della Calabria, NON E’ l’omonimo magistrato ordinario Guido Romano il cui nome fu ritrovato, insieme a quelli di altri magistrati, fra le carte sequestrate nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Il dottor Guido Romano consigliere di Stato, residente a Roma, non ha mai fatto parte della massoneria ne’, come ipotizzavamo nell’articolo, e’ mai passato dai ranghi della magistratura ordinaria a quelli della magistratura amministrativa, dal momento che ha prestato servizio sempre e solo nella magistratura amministrativa. Ce ne scusiamo col diretto interessato, pregando i colleghi dei siti internet che avessero ripreso il nostro articolo di apportare al più presto – come già abbiamo fatto noi – la correzione e la rettifica.

Oggetto: richiesta di smentita ai sensi e per gli effetti della legge n. 47 del 8 febbraio 1948, nel testo vigente;

Lo scrivente Guido Romano, nato ad Aversa (Caserta) l’11 luglio 1945 e residente a Roma, via Nepi n. 28, nominato Giudice Amministrativo nel settembre 1984, quale vincitore di pubblico concorso, ha svolto le relative funzioni nei TT.AA.RR. della Lombardia, sede di Brescia, dell’Emilia Romagna, sede di Bologna, della Campania, sede di Napoli, del Lazio, sede di Roma, e della Calabria, sede di Catanzaro, nonchè dal settembre 2007 presso il Consiglio di Stato ove tuttora esercita le funzioni giurisdizionali. Esso scrivente è venuto a conoscenza che nel n,1 dell’anno 2010 della versione cartacea del mensile “La Voce delle Voci” appare, in copertina, a lettere cubitali, il titolo “Magistrati Massoni” ed all’interno e’ inserito articolo a firma del condirettore Rita Pennarola nel quale vengono elencati, in ordine alfabetico, i nomi di magistrati che, per affermazione dell’articolista, sarebbero affiliati alla massoneria. In detto articolo è inserito il nome di “Romano Guido” che, essendo immediatamente seguito dalla precisazione “… è Presidente del Tar della Calabria…”, non può che riferirsi alla persona dello scrivente, tenuto conto che in tale sede giudiziaria amministrativa lo stesso scrivente ha prestato servizio per circa due anni, esercitando la funzione di Presidente della Seconda Sezione (e non anche di Presidente dell’intero TAR, come invece e’ affermato nell’articolo) e che nella storia del TAR Calabro nessun altro magistrato amministrativo, avente nome e cognome identico allo scrivente, vi ha mai prestato servizio fino ad oggi. Peraltro, tale oggettivo, quanto falso, riferimento alla persona dello scrivente ha trovato conferma anche nel fatto che numerosi colleghi, amici e conoscenti, specialmente nelle Regioni Campania e Calabria, hanno immediatamente manifestato allarme, incredulità e stupore per la notizia appresa nella lettura dell’articolo in questione, pubblicato anche sul sito Internet della “Voce delle Voci” e ripreso da altri siti Internet quali, per quel che allo stato consta, “Facebook” e “Terracina Social Forum”.

Ciò premesso, lo scrivente precisa al riguardo, innanzi tutto, che:

1) non è stato mai affiliato alla massoneria (ne’ coperta ne’ scoperta) e non lo è tuttora:

2) non ha mai fatto parte della Magistratura Ordinaria, ma soltanto della (distinta e autonoma) Magistratura Amministrativa, nei cui ruoli è iscritto dal 1984 a seguito di pubblico concorso;

3) ha esercitato dal 1968 l’attività di “praticante procuratore legale”, prima di accedere, dal 16 gennaio 1972, sempre a seguito di pubblico concorso, al ruolo dei “funzionari direttivi” del Ministero della Pubblica Istruzione, dal quale è, poi, transitato nella magistratura amministrativa (TAR).

Contesta, conseguentemente, ad ogni effetto di legge, che il riferimento alla propria persona, cosi’ come operato nell’articolo in questione, quale iscritto nell’elenco dei magistrati massoni, e’ certamente falsa ed e’ frutto del comportamento del tutto poco accorto e non diligente dell’autore dell’articolo predetto, tenuto conto che l’autrice non si e’ preoccupata, evidentemente, di operare alcuna verifica degli elementi utilizzati.

Infatti sarebbe stato sufficiente verificare se il nominativo “Guido Romano” – che si afferma nello stesso articolo essere contenuto, come gli altri nominativi di magistrati, negli “… unii elenchi (comprensivi delle logge coperte) che siano mai venuti alla luce: quelli sequestrati nel ’92 dall’allora Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova…” – fosse l’unico esistente nei distinti ruoli delle varie Magistrature, per cui non poteva non essere quello del magistrato amministrativo individuato nell’articolo in questione come “…Presidente del TAR della Calabria…”, ovvero esistesse nel 1977 (data riportata nella lettera ritrovata nella villa uruguaiana di Licio Gelli e riferita al presunto finanziamento per l’elezione della A.N.M.) e nello stesso 1992 (data di redazione dei citati elenchi Cordova) altro magistrato ordinario con lo stesso nome e cognome; sarebbe stato sufficiente, altresì, ricorrere a nozioni di comune conoscenza quale la notoria distinzione dei magistrati amministrativi del TAR (quale lo scrivente dal 1984 e nel 1992) dai magistrati ordinari (civili e penali), amministrati da distinti organi di autogoverno (C.P.G.A. per i giudici amministrativi e C.S.M. per i magistrati ordinari). Inoltre, l’autrice dell’articolo non si è evidentemente preoccupata neppure di leggere il contenuto complessivo del proprio scritto poichè, diversamente, si sarebbe resa conto che il riferimento operato alla mia persona, attraverso lo specifico e qualificante richiamo alle funzioni di “…Presidente del TAR della Calabria…” contraddiceva, in maniera del tutto oggettiva, le altre notizie ed affermazioni contenute nello stesso articolo e cioe’, sia il successivo riferimento, operato sempre nello stesso contesto descrittivo della mia persona, al fatto che “… la decisione dell’allora Guardasigilli Giovanni Conso di deferire al CSM i magistrati massoni, fra i quali Romano, fu aspramente criticata dal gran maestro Eraldo Ghinoi…”, essendo notoriamente competente il predetto Guardasigilli soltanto per i magistrati ordinari, e non anche per quelli amministrativi, diversamente governati dal citato apposito organo di autonomia, sia l’affermazione, questa volta operata nel contesto del profilo descrittivo di altro magistrato ordinario citato dallo stesso articolista nell’elenco (Sergio Ferdinando), che quest’ultimo, “… al pari di quelli dei colleghi Domenico Pone, Guido Romano e Paolo Tonini… (omissis) … venne fuori in una lettera sequestrata nella villa di Licio Gelli in Uruguay. Dalla missiva emergeva che il venerabile avrebbe finanziato con 25 milioni di vecchie lire la campagna elettorale di quei quattro magistrati quando nel ’77 erano stati eletti ai vertici dell’ANM…”.

E’ evidente, in sintesi, che nel 1977 lo scrivente, in quanto funzionario direttivo dei ruoli del Ministero della Pubblica Istruzione, non apparteneva (come non ha mai appartenuto) alla magistratura ordinaria e, quindi, non poteva ne’ candidarsi, ne’ essere eletto nel direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati, del quale ha, invece, fatto parte l’omonimo “… magistrato ordinario Guido Romano”, citato nella lettera ritrovata nella villa di Gelli in Uruguay ed inserito negli elenchi “… sequestrati nel ’92 dall’allora Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova”.

Orbene, per tutto quanti sin qui precisato, lo scrivente chiede che venga, immediatamente, effettuata puntuale ed adeguata smentita – con le modalità prescritte dall’art. 8 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, nel testo vigente – della notizia contenuta nell’articolo di stampa in questione, concernente la mia persona, con la quale dovrà essere chiarito, con tutte le necessarie puntualizzazioni e senza alcuna possibilità di equivoco, che il nome del magistrato Guido Romano che appare nell’elenco riportato in detto articolo (pubblicato sia sul mensile cartaceo La Voce delle Voci n. 1 del 2010 e sia sul corrispondente sito Internet www.lavocedellevoci.it) non e’ in alcun modo riferibile al dottor Guido Romano, nato ad Aversa l’11 luglio 1945 e residente a Roma, via Nepi n. 28, già Presidente della Seconda Sezione del TAR Calabria ed attuale Consigliere di Stato, trattandosi all’evidenza di caso di mera omonimia con altro magistrato ordinario.

Alla rettifica, così come impone la citata norma di legge, dovrà essere dato il dovuto risalto. Attraverso collocazione, caratteri e dimensioni grafiche eguali a quelli utilizzati per la redazione dell’articolo in questione, e dovrà essere pubblicata non soltanto nel numero cartaceo del mensile La Voce delle Voci di febbraio 2010, ma anche, ed immediatamente, sul sito Internet sopra indicato, con speciale avvertenza degli effetti della citata legge, risultando esso, allo stato, certamente ripreso, come gia’ segnalato piu’ innanzi, da altri siti Internet quali “Facebook” e “Terracina Social Forum”. Lo scrivente, infine, resta in attesa di un pronto riscontro che assicuri l’immediata pubblicazione della rettifica richiesta, salvo e riservato ogni altro diritto ed azione a tutela della propria dignità ed onorabilità. Guido Romano.

Diffamazione, chiude “la Voce delle Voci”. Ma scatta indagine sul giudice che l’ha condannata. 

Nel 2008 i giornalisti del mensile campano scrivono un articolo sull'insegnante di Di Pietro Junior, poi diventata coordinatrice dell'Idv. Nel 2013 vengono condannati in primo grado a un maxi risarcimento che costringe la testata a chiudere dopo 30 anni. Inutili gli appelli al Quirinale (che salvò Sallusti). I giornalisti però nel 2014 denunciano il giudice che li ha condannati, ora indagato per abuso d'ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai loro danni. La decisione del Gip a giorni. E il caso rilancia il tema della censura dell'informazione attraverso il ricatto economico, scrive
 il 14 luglio 2015 su “Il Fatto Quotidiano”.
In Parlamento torna una gran voglia di “legge bavaglio”, pochi però si preoccupano delle manette che bloccano le rotative della libera informazione. Brandendo come una clava l’istituto della diffamazione. A farne le spese, in ultimo, è il mensile campano “la Voce delle Voci” che è in edicola da trent’anni e si è fatto largo nel panorama delle notizie con inchieste scomode su vari fronti, dalle infiltrazioni della camorra negli uffici pubblici ai fatti di corruzione e fino al coinvolgimento di logge massoniche in affari poco chiari. La storia è ingarbugliata ma emblematica. Al cuore di tutto c’è una sentenza emessa a marzo 2013 dal Tribunale  di Sulmona che ha imposto un risarcimento danni di 69 mila euro (più gli interessi) a favore dell’attuale coordinatrice dell’IdV del capoluogo abruzzese, Annita Zinni. La Zinni voleva avere soddisfazione per un articolo scritto nel 2008,  e successivamente parzialmente rettificato, che riguardava il suo ruolo per la formazione del figlio di Antonio di Pietro, Cristiano. La condanna emessa cinque anni dopo ha avuto conseguenze catastrofiche per il giornale, ridotto sul lastrico: per riscuotere la somma i legali della signora Zinni hanno pignorato i conti personali dei giornalisti e anche i contributi dello Stato, pari a 21mila euro, che la cooperativa editrice doveva ancora riscuotere. Il legale della Voce, l’avvocato Michele Bonetti, si era opposto affermando che quelli sequestrati sono fondi pubblici che lo Stato eroga per garantire un bene comune prezioso: il diritto ad essere informati andando oltre ciò che diffondono le veline dei Palazzi. Niente da fare. E alla fine è stata pignorata anche la testata giornalistica, costringendo il mensile a sospendere le pubblicazioni.Ma c’è di più. I giornalisti, in attesa che si celebri l’appello all’Aquila, hanno sporto denuncia contro Massimo Marasca, il magistrato di Sulmona che il 25 marzo 2013 ha pronunciato la sentenza di morte del mensile. Alla Procura generale della Cassazione, al ministero della Giustizia, al Csm e alla Procura di Campobasso hanno denunciato l’inerzia investigativa degli uffici giudiziari che fanno capo al magistrato sul cui tavolo era finita la vicenda Zinni. Marasca è ora indagato per abuso d’ufficio ed omissione di atti d’ufficio ai danni dei giornalisti Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola. Tocca ora a un giudice del Tribunale di Campobasso, Maria Rosaria Rinaldi, il delicato compito di pronunciarsi sulla condotta di un collega e stabilire se le indagini a suo carico debbano proseguire. Al termine della camera di consiglio del 7 luglio scorso, il Gip ha rinviato la decisione ai prossimi giorni. Così l’esistenza del mensile resta appesa a un filo, nel silenzio generale. Poche infatti sono le voci che si sono levate per rilevare l’evidente “sproporzione” tra l’errore contestato ai giornalisti, le dimensioni della testata, la capacità economica dei condannati  la condanna a morte della loro testata. Non ha prodotto i frutti sperati, ad esempio, il tentativo di interessare della vicenda Giorgio Napolitano, all’epoca Presidente della Repubblica e del Consiglio superiore della Magistratura, l’organo competente a valutare le condotte dei singoli magistrati”. Al Capo dello Stato si erano rivolti i giornalisti de la Voce delle Voci il 22 aprile 2014. Con una lettera gli chiedevano di correggere gli effetti di una sentenza abnorme che determinava la cessazione delle pubblicazioni della testata. Infondo, avranno pensato, Napolitano si era dimostrato attento al delicato rapporto tra stampa e giustizia:  non erano passati due anni da ché aveva commutato il carcere in sanzione pecuniaria per Sallusti. Ma Napolitano non rispose mai direttamente. Lo fece il direttore dell’Ufficio per gli Affari dell’Amministrazione della Giustizia del Quirinale, Ernesto Lupo: “Pur nella migliore comprensione, non rientra tra le attribuzioni costituzionali del Capo dello Stato l’intervento su questioni appartenenti alla competenza dell’autorità giudiziaria”. L’esposto finì sul tavolo del Csm, e lì è rimasto. A tenere viva l’attenzione sul caso, invece, è l’Osservatorio “Ossigeno per l’Informazione”, promosso dalla Federazione Nazionale della Stampa e dall’Ordine dei giornalisti per monitorare casi di censura e minaccia a danni dei giornalisti. “Attendiamo con vivo interesse la decisione del gip” ha dichiarato il direttore Alberto Spampinato. “L’iter di questo processo – aggiunge – dimostra in modo plateale che le norme vigenti in Italia in materia di diffamazione a mezzo stampa consentono punizioni e censure che vanno ben oltre la previsione della pena detentiva e che non hanno nulla a che vedere con la difesa della reputazione personale. Ci dice poi che queste norme consentono di fare sparire un giornale dalle edicole e di ridurre sul lastrico chi è ritenuto colpevole di aver sbagliato. Il nostro interesse al caso della Voce delle voci è accresciuto dall’emergere dell’ipotesi di condotta scorretta del giudice che ha pronunciato siffatta sentenza. Penso perciò che il giudice per le indagini preliminari di Campobasso abbia fatto bene a riservarsi la decisione che deve dimostrare che la magistratura è capace di indagare sulla correttezza dei suoi stessi membri e di giudicare i loro comportamenti con la stessa severità con cui giudica quelli degli altri cittadini. Egregio giudice, faccia con calma, prenda il tempo che le serve per fare la cosa giusta”. Infine il messaggio a Parlamento e Governo: “Se la magistratura deve impedire le conseguenze ultronee delle sue sentenze, Parlamento e Governo devono correggere senza ulteriori indugi le norme sulla diffamazione che tuttora prevedono il carcere per i giornalisti per evitare che esse limitino il diritto di informare e di essere informati. Se  un giornalista e il suo giornale devono mettere in palio  tutto ciò possiedono, e anche la possibilità di proseguire la loro attività, ogni volta che pubblicano una notizia controversa, in questo paese non c’è più spazio per l’informazione giornalistica”.

Ma la Massoneria non e’ solo magistratura: è pure politica.

Se a livello nazionale la polemica tra iscritti al Pd e massoneria crea imbarazzo, a livello locale molto meno, perlomeno laddove è tradizione consolidata. A Perugia, per esempio, dove più di qualcuno ha iniziato a fare “outing”. Mario Valentini, ex sindaco Psi negli anni Novanta e fondatore del Pd perugino, oggi ricorda: “L’esperienza della massoneria, della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino”. Il legame tra massoneria e Pd non un mistero in città, ma ora dopo il recente scandalo, il segretario locale invita alla calma: “Quella della massoneria è una questione sensibile – spiega Giacomo Leonelli -. Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente, altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti”. Sono soprattutto gli ex socialisti, ora confluiti nel Pd, ad avere dimestichezza con grembiuli e cappucci. Ma non tutti sono disposti ad ammettere di essere massoni. Cesare Fioriti dice: “Non sono massone, però difendo la massoneria. E poi i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee”. Angelo Pistelli, altro esponente Pd ex socialista, dopo la polemica non si sente più a suo agio nel partito: “In effetti del Pd ormai non condivido più tanto. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, a noi resta ben poco. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe”.

A tal proposito uscì un articolo: I grembiulini del Pd di Perugia di Marco Sarti su “Il Riformista”. Il Pd e la massoneria. Due realtà inconciliabili? Mentre in Italia infuria la polemica, a Perugia il tema non appassiona più di tanto. La sintesi tra squadre, compassi e militanza politica di sinistra, qui esiste da decenni. E nessuno si stupisce più. Perché se il capoluogo umbro è un feudo elettorale del Partito democratico, è anche vero che solo nelle vie del centro si contano almeno 19 logge. E così, nella nuova casa massonica perugina, in un antico palazzo a Corso Cavour, c'è persino chi si indigna di fronte all'ipotesi che qualche fratello possa venire epurato dal Pd. «Ma quale polemica… - si sfoga un responsabile del Collegio Venerabile - Nessuno ha mai fatto caso che ogni volta che c’è una crisi si tira fuori questo argomento? I nostri luoghi di ritrovo sono pubblici. Già nel lontano 1985 abbiamo sistemato una targa fuori dalla sede di Palazzo Giustiniani. Allo stesso modo abbiamo messo bene in chiaro i nostri riferimenti sull’elenco telefonico. Qualcuno si scandalizza se non viene resa pubblica anche l'identità dei nostri fratelli? Eppure mi sembra che persino gli elenchi degli iscritti a partiti e associazioni siano riservati». «I massoni del Pd? - racconta un anonimo militante - Vengono tutti dal Partito socialista». In effetti, a Perugia, il movimento storicamente più vicino al Grande Oriente è proprio quello un tempo guidato da Bettino Craxi. La gente ancora ricorda una storica seduta del Consiglio comunale, nei primi anni 90, quando il sindaco Mario Valentini (eletto nelle liste del Psi, poi fondatore del Pd perugino) rivendicò con orgoglio la sua appartenenza a un'influente loggia cittadina. «L'esperienza della massoneria - racconta oggi Valentini - della quale mi onoro di appartenere, è ricca di storia civile e progressista della città. E non mi riferisco solo al periodo post-fascista, parlo anche della Perugia laica dopo il governo papalino. Considero la massoneria un patrimonio da conservare e testimoniare. Una vicenda fatta da uomini esempio di vita e rettitudine nel governo della cosa pubblica. Quella in atto oggi nel partito è una polemica vecchia, datata. Posso assicurare che, durante il mio mandato di sindaco, non ho mai ricevuto pressioni che tendessero a condizionare la mia libertà di primo cittadino». Che tra i quadri del Pd perugino, ancora oggi qualcuno si cimenti con cappucci e grembiule non è un mistero. Solo che, dopo il recente scandalo, nessuno è disposto a parlare. Giacomo Leonelli, segretario del Partito democratico della città, predica calma: «Quella della massoneria è una questione sensibile. Sono temi dove ognuno esprime le proprie idee secondo convinzioni personali. Per carità, sono convinto che chi si iscrive al Pd lo fa perché crede nel nostro progetto politico, non per altri fini». A scanso di equivoci, il segretario si appella allo statuto. «Chi aderisce al Pd deve farlo in maniera trasparente. Altrimenti crea disagio al partito e agli altri militanti». Eppure sembra che fare politica tra Piazza Morlacchi e Corso Vannucci non possa prescindere da certi riferimenti. «Quando si governa a Perugia - conclude Leonelli - è normale entrare in contatto con determinate realtà cittadine». Contattati al telefono, i componenti della piccola pattuglia socialista nel Pd non si stupiscono di certi accostamenti. Ma negano, con cortesia, qualsiasi coinvolgimento personale. Cesare Fioriti fa parte del direttivo del Pd di Perugia. Ex capogruppo del partito socialista in consiglio comunale, qualche anno fa è riuscito a fare intitolare una via alla memoria di Vittor Ugo Bistoni, storico esponente del Psi cittadino, presidente del Collegio umbro dei Maestri Venerabili e fondatore della Loggia “Guglielmo Miliocchi”. «Certo che è strano - ripete anche Fioriti - questa vicenda della massoneria viene fuori a orologeria. Secondo me serve a spostare il baricentro dell’opinione pubblica altrove, rispetto a temi come la crisi. Ricordo un altro scandalo simile: accadde nei primi anni 90, ai tempi di Tangentopoli». Fioriti non è legato ad alcuna loggia: «No, non sono massone - precisa subito -. Però difendo la massoneria. La penso esattamente come Voltaire (altro “illuminato”, ndr) “Anche se disapprovo quello che dite, difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. I consiglieri comunali devono avere piena libertà di espressione, quindi anche di associazione. E poi scusi, i principi della massoneria non sono forse validi? Penso alla fratellanza, alla riflessione, allo sviluppo delle idee». Squadra e compasso non creano alcun imbarazzo. «Il fine della massoneria è l’evoluzione del pensiero - continua Fioriti -. Mi spieghi lei come fa il Pd a condannare un’organizzazione del genere». Angelo Pistelli è un altro esponente del Pd umbro. Anche lui di provenienza socialista, fino a poco tempo fa era nell'esecutivo regionale. Dopo le ultime polemiche sulla massoneria non si trova più molto a suo agio nel partito. «In effetti del Pd ormai non condivido tanto - ammette Pistelli -. Ma io mi sento di sinistra e non ci sono altri partiti in cui potrei militare. Bisognerebbe dare spazio a tutte le voci. Invece comandano le solite culture dominanti, e a noi resta ben poco». Sembra quasi che Pistelli sia pronto a fare coming out, quando corregge il tiro. «Specifico che non sono un massone. Diciamo che difendo ogni espressione personale. Credo che anche all’interno del partito ognuno debba essere libero di aderire a quello che gli pare. Non vogliono i massoni? Allora io dico che non voglio l’adesione di tutti quelli che provengono dal Pci. Hanno calcolato che in Italia ci sarebbero 4mila iscritti legati alla massoneria. A occhio e croce non mi sembrano mica tanti. E poi sono sincero: se scoprissi che non ci sono massoni nel gruppo dirigente del Pd mi dispiacerebbe».

PARLIAMO DI MASSONERIA

La Massoneria. Erede di misteriose società segrete avvolte nella leggenda, come il Priorato e i Rosacroce, è considerata un’organizzazione di sicura esistenza anche oggi. Non è ben chiaro, però, se questa società sia da vedersi come un’erede di quelle del passato, o piuttosto come un altro volto della medesima organizzazione, perseguente sempre gli stessi scopi, ma con rituali differenti. L’origine della Massoneria sembra da collocarsi in età moderna, quando, nel 1717, la Grande Loggia dei Massoni di Londra rese pubblica la sua esistenza. Ma ci sono diverse prove che la società esistesse già precedentemente: nel 1646 l’antiquario Elias Ashmole fu iniziato alla Massoneria, mentre una poesia di Henry Adamson del 1638 vi fa riferimento. Ma ci sono anche teorie che ne fanno risalire la fondazione all’epoca antica e che costituiscono la “Leggenda della libera Muratoria”. Essa si basa su documenti pubblicati nel 1800, che collegano la Massoneria alla costruzione del Tempio di Salomone, considerato il primo Gran Maestro. L’origine della società si fa anche ricondurre ai Templari, essendo stati ritrovati simboli massonici su pietre tombali in loro castelli. Quindi, ancora una volta, l’Ordine del Tempio, che dovrebbe essere stato il supremo difensore della fede, viene messo in relazione con un gruppo dalla religiosità discutibile. I massoni, infatti, credono in una suprema divinità, che però non si specifica chiaramente se sia un dio cristiano oppure no, visto che vengono accolte persone di tutte le religioni. Nel 1738, papa Clemente XII emanò una bolla in cui proibiva ai cattolici di aderire alla Massoneria, situazione che cambiò solo nel 1976.

La Massoneria prevede un rigido rituale, a cui deve attenersi chi vuole accedere ai diversi gradi, il cui simbolismo è riassunto in alcune Tavole illustrate, nelle quali sono sempre presenti i simboli fondamentali, riconducibili alla geometria e all’architettura: il Libro Sacro, la squadra, il compasso. L’aspirante al Primo Grado è detto Apprendista e deve essere bendato, indossare un abito di lino, con un cappuccio e un cordone intorno al collo (possiamo scorgere un’analogia con il cordone usato nella cerimonia d’iniziazione dei Templari). L’apprendista deve anche giurare di non rivelare mai i segreti che gli verranno svelati, altrimenti incorrerà in una terribile pena: aver la mia gola tagliata, la mia lingua strappata alla radice, e il mio corpo sepolto nelle ruvide sabbie del mare al limite della bassa marea. Sembra che questa minaccia non sia mai stata messa in atto, ma serve comunque a definire il sapere della Massoneria come esoterico.

La Tavola del Primo Grado comprende una rappresentazione del Sole e della Luna, a sottolineare l’importanza del concetto di dualismo che governa l’universo. Di rilievo sono le due colonne, corinzia e dorica, che rappresentano il passaggio dell’Apprendista verso un altro stato, e  che pare siano quelle del Tempio di Salomone, chiamate Jachim (lo spirito attivo e creativo, ed anche la conoscenza) e Boaz (lo spirito passivo e riflessivo, ed anche l’ignoranza), i due giganti che sorreggono le colonne d’Ercole.

Nella Tavole del Secondo Grado, a cui accede chi è diventato Compagno, le colonne sono cave e possono contenere documenti segreti (ci viene in mente l’abate Saunière che a Rennes-le-Château forse trovò delle pergamene in una colonna cava). Vi è, inoltre, la rappresentazione della scala di Giacobbe che sale verso il cielo (anche nella chiesa di Rennes troviamo un richiamo a Giacobbe tramite le parole sul timpano d’entrata Terribilis est locus iste).

Le Tavole del Terzo Grado, con cui si diventa Maestro, mostrano la simbologia che accompagna uno strano rituale: viene mimato l’assassinio da parte di tre cospiratori dell’architetto del Tempio, Hiram Abif, e l’iniziato riceve tre colpi, simbolici, sul capo. I simboli che si ritrovano sulle Tavole si addicono ad un fatto di sangue: una bara e il “Teschio” ossia un teschio su due femori incrociati.

Ci sono tantissimi luoghi nel mondo dove è possibile trovare nell’architettura simboli massonici. Ad esempio la cappella di Rosslyn in Scozia, già sito prediletto dai cercatori del Santo Graal: due colonne sembrano essere quelle del Primo Grado, un’immagine di una testa ferita ricorda l’uccisione di Hiram, una scultura sembra rappresentare un Templare che amministra riti massonici. Sembra che i massoni abbiano partecipato alla progettazione di intere città, come Washington D.C., progettata seguendo viali diagonali, che formano triangoli e che sono allineati secondo eventi astronomici. Il viale diagonale principale, infatti, è la Pennsylvania Avenue, che pare allineata secondo tale evento: la sera del 10 agosto il sole tramonta esattamente alla fine del viale, mentre mezz'ora più tardi nello stesso punto tramonta una costellazione che include quella della Vergine. Intorno a questa costellazione c'è un triangolo rettangolo formato dalle stelle Regolo, Arturo e Spica, che ricalca quello formato da Pennsylvania Avenue, il Mall (vasto viale diretto ovest verso il fiume) e una linea che passa lungo il Monumento a Washington. Innegabile è l'influenza della Massoneria nella storia degli Stati Uniti, essendo massoni gran parte dei firmatari della Dichiarazione d'Indipendenza ed essendo lo stesso Washington membro della Loggia Alexandria. Il monumento a Washington è costruito sul modello di un obelisco egiziano, simbolo molto usato dalla Massoneria; una statua dedicata al presidente Garfield mostra uno zodiaco; il Gran sigillo degli Stati Uniti (quello che si vede sul dollaro) raffigura una piramide sormontata dall'Occhio-che-Tutto-Vede. Anche molte associazioni universitarie utilizzano un simbolismo massonico: il più lampante esempio è la confraternita Teschio e Ossa di Yale, della quale fecero parte molti politici e personaggi in vista, tra i quali George H. W. Bush e George W. Bush. Esiste una città vicino a noi che sembra nascondere tra le sue vie ed i suoi monumenti chiari riferimenti massonici, Torino.

Il capoluogo torinese è notoriamente considerato un “città magica”, dove proliferano le sette e i sedicenti maghi. Torino sarebbe, infatti, un omphalos primordiale, un centro d’irradiazione di energia tellurica e spirituale, sorgendo su un nodo geomantico, cioè in un punto d’intersezione tra correnti enrgetiche dette leys (le stesse dove potrebbero essere sorti i luoghi di culto delle civiltà antiche, specialmente quelli dedicati alla Dea Madre). Torino farebbe, dunque, parte di un doppio triangolo magico, i cui vertici sarebbero altre città magiche del mondo: Lione, Praga, Londra e San Francisco. A Torino sono segnalati da chi si diletta di magia ed occultismo 33 punti magici, negativi e positivi. Il punto di maggiore positività si situa in piazza Castello, dove si trova la meridiana astrologica sulla prima colonna di destra del Duomo e la cancellata della Piazzetta Reale su cui sono rappresentati i Dioscuri, simboli dell’opposizione tra luce e tenebre, Sole e Luna, secondo un dualismo caro ai massoni. Il punto di maggiore negatività sarebbe Piazza Statuto, rivolta ad Ovest, dove si eseguivano le condanne capitali. Nella storia di Torino è anche rilevante il legame con l’Egitto, i cui simboli si ritrovano in alcuni rituali massonici: la città sembra, infatti, aver dato asilo al principe eretico Eridano, che avrebbe scelto questo sito per fondare una città nel XV secolo a. C., perché il Po gli ricordava il suo Nilo. Anche il nome stesso della città potrebbe essere di origine egizia, ricollegandosi al culto del Toro sacro di Menfi. La chiesa della Gran Madre di Dio (indicata come uno dei luoghi del Santo Graal) si dice sia stata costruita sulle rovine di un antico tempio di Iside. Vi è, inoltre, in Piazza Solferino, un’opera d’arte palesemente ispirata dal simbolismo massonico, la Fontana Angelica. Essa era stata progettata per essere collocata davanti al Duomo, mentre nella posizione attuale ha perduto parte del suo significato simbolico, non essendo rivolta ed est. Le statue rappresentano due figure maschili, l’Autunno e l’Inverno, che si possono identificare con Jaquim e Boaz. Essi versano l’acqua da due otri, uno a forma d’Ariete, l’altro d’Acquario. L’acqua rappresenta la conoscenza, mentre l’Ariete è il Vello d’Oro cercato dagli Argonauti, ma anche la trasformazione della materia verso la perfezione (la Massoneria è considerata depositaria di segreti alchemici); l’Acquario, invece, rappresenta l’Era dell’Acquario a cui deve tendere l’umanità. Le  due figure maschili, però, possono anche rappresentare la divinità egizia Osiride, e allora quelle femminili, la Primavera e l’Estate sarebbero la sua compagna Iside. Se poi ci si pone di fronte alla fontana si vedrà che tra l’Autunno e l’Inverno si apre un varco: quello che l’iniziato deve attraversare per giungere alla vera conoscenza. Ecco che una città dalle antiche tradizioni di magia è stata eletta da una società segreta come luogo privilegiato per esprimere i propri riti e forse svelare i propri segreti all’attento osservatore.

La Massoneria in Italia. Essa visse stentatamente fra le persecuzioni fino alla occupazione napoleonica. Si ha notizia dì qualche Loggia in Firenze, Napoli, Torino, Cremona e Milano. Il 5 marzo 1805 si costituì in Milano il primo Supremo Consiglio d'Italia, ad opera dei fratelli massoni Francesi di 33° Grado, appartenenti alla Armata Napoleonica, e furono eletti a Sovrano Gran Commendatore il Viceré d'Italia Principe Eugenio Beauharnais e Gran Cancelliere il Principe Gioacchino Murat. Nel 20 giugno dello stesso anno si formò il Grande Oriente d'Italia, pure in Milano col quale si fusero le Logge Francesi del Grande Oriente e della Divisione Militare del Regno d'Italia. Nel 1806 furono pubblicati gli Statuti della Franca Massoneria in Italia ed i Rituali dei primi tre Gradi; nel 1809 la Costituzione Generale del Grande Oriente in Italia; nel 1812 una nuova edizione degli Statuti, da cui derivano gli Statuti generali del Rito Scozzese Antico ed Accettato, stampati in Napoli; nel 1820 ed ancor oggi in uso.

Dal 1806 al 1808 si ebbero nell'Italia settentrionale più di 30 Logge, composte dai migliori elementi della società del tempo, tra i quali il filosofo RomagnosiVincenzo Monti, ed il musicista Paganini. Nei documenti ufficiali Napoleone era chiamato " Potentissimo Fratello Protettore dell'Ordine".Nel 1808 si costituì il Grande Oriente di Napoli con Gioacchino Murat Gran Maestro; l'anno successivo fu fondato il Grande e Supremo Consiglio per le due Sicilie dei Potentissimi Grandi Ispettori Generali, con sede in Napoli e Murat Sovrano Gran Commendatore. Il Colletta riferisce che nel 1813 la Massoneria meridionale contava 94 Logge. Caduto Napoleone, il Supremo Consiglio di Milano si sciolse, mentre continuò il fervido lavoro segreto delle Logge nell’Italia meridionale. Dopo il 1848 sembra che vi fosse in Torino uno Supremo Consiglio, che però non fu molto attivo fino al 1862; nel 16 dicembre di quell'anno si costituì in Torino un Concistoro del 32° Grado, che funzionò fino al 1866, anno in cui si ebbe un Supremo Consiglio per l'Italia, che continua il suo lavoro ancora nel 1883. Nel 1861 la Massoneria funzionava ancora in Napoli, ove la Loggia "Sebezia" assumeva il titolo di Gran Loggia Madre per affermare la sua diretta discendenza dal Supremo Consiglio di Napoli; a Palermo si creavano altre due Massoneria, una delle quali si fondeva con il Supremo Consiglio di Torino nel 1867, è l'altra nel 1862 eleggeva alla carica di Sovrano Gran Commendatore Giuseppe Garibaldi.Divenuta Firenze capitale del Regno, nel 1864 molti membri della Supremo Consiglio di Torino vi si trasferirono; ivi veniva fondato nel 1869 un nuovo Supremo Consiglio, che nel 1872 si trasferiva a Roma. In tale data veniva nominato Sovrano Grande Commendatore Giorgio Tamayo. Nel 1863 la situazione della Massoneria italiana era la seguente: un Supremo Consiglio a Torino con a capo il Generale Milbitz, un Supremo Consiglio a Firenze con a capo Francesco De Luca, un Grande Oriente a Napoli, un Supremo Consiglio a Palermo. Una ispezione del Potentissimo Fratello Albert G. Goodall del Supremo Consiglio di Boston dichiarava illegittimi i Supremi Consigli di Palermo e di Firenze, e regolare il solo Supremo Consiglio di Torino, cui spettò di partecipare al Congresso di Losanna del 1875. Circa nel 1869 il Grande Oriente di Napoli si fondeva con il Supremo Consiglio di Torino, nel 1875 auspice Giuseppe Garibaldi si fondevano i Supremi Consigli di Roma e di Torino, creandosi un nuovo Supremo Consiglio per l'Italia con sede a Roma, al quale aderiva nel 1876 il Supremo Consiglio di Palermo. Ma varie vicende, specie per il fatto di dover trasferire la sede a Roma, rompevano l'accordo; però nel 1879, per iniziativa di alcuni Supremi Consigli esteri tutti i fratelli italiani di 33 Grado, convocati a Roma, creavano il Supremo Consiglio per l'Italia ed il nuovo Sovrano Gran Commendatore nella persona di Giorgio Tamayo. Però la Massoneria piemontese si tenne ancora in disparte, cessando di essere regolare. La fusione completa avveniva poi nel 1887 per opera di Adriano Lemmi, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia in Roma: morti nel 1895 il Riboli di Torino è nel 1897 il Tamayo di Roma, veniva nominato Sovrano Gran Commendatore della Massoneria italiana il Lemmi, che tenne la carica fino alla sua morte, avvenuta nel 1906. Dopo il 1860, parallelamente al Rito Scozzese, e sul tipo della Massoneria francese, si era formata in Italia una Grande Loggia Simbolica, che non riconosceva Gradi superiori al 3°. Ne furono Grandi Maestri Costantino NigraGiuseppe GaribaldiFrancesco De Luca, e il Marchese CordovaAdriano Lemmi si adoperò perché il Rito Scozzese ed il Rito Simbolico si riunissero, delegando i due poteri ad un Grande Oriente d'Italia per la sovranità sulle Logge; il patto potè dirsi perfetto nel 1882 quando Adriano Lemmi, già Sovrano Gran Commendatore, fu eletto anche Gran Maestro del Grande Oriente. Morto Adriano Lemmi nel 1906, gli succedevano come Gran Maestro Ettore Ferrari e come Sovrano Gran Commendatore Achille Ballori, il quale aveva come Luogotenente Saverio Fera. Nel 1908 la Massoneria si divise in due a causa di un conflitto sorto, essendo un gruppo di Deputati al Parlamento stato minacciato di espulsione per non essersi schierato con sufficiente energia circa un progetto di Legge sulla laicità dell'insegnamento. In sostanza, si contestava la inopportunità dell'intervento ed il diritto del Gran Maestro E. Ferrari di imporsi sulla coscienza dei massoni Deputati in questioni politiche e religiose che non toccavano direttamente l'Ordine. Perciò il Supremo Consiglio, quale tutore della regolarità delle Rito Scozzese, minacciò di demolizione il Grande Oriente. Il Sovrano Gran Commendatore A. Ballori in un primo momento si schierò contro E. Ferrari, ed in secondo tempo si alleò a questi avendo contro di sé tutto il Supremo Consiglio, lasciò la carica al Luogotenente Saverio Fera. Questi creò allora secondo gli Statuti Scozzesi una Gran Loggia Nazionale d'Italia, di cui venne nominato Gran Maestro. Si ebbero così due Massonerie, che dalle rispettive sedi furono dette Piazza della Gesù (Fera) e di Palazzo Giustiniani (Ballori). Una ispezione allora a nome dei vari Supremi Consigli Esteri ed a mezzo del Potentissimo Fratello Belga De Paepe riconobbe regolare la prima, tale decisione venne confermata dalla Conferenza di Washington del 1912; così nel mentre la Massoneria regolare di Piazza del Gesù rimaneva federata con le 56 Potenze massoniche di Rito Scozzese, quella di Palazzo Giustiniani rimaneva collegata con alcuni Grandi Orienti irregolari, fra i quali il Grande Oriente di Francia e la Gran Loggia Simbolica di New York. Morto Saverio Fera, furono Gran Maestri della Massoneria Scozzese Italiana i Sovrani Gran Commendatori Leonardo RicciardiWilliam Burgess e Raoull Vittorio Palermi. La posizione delle due Massoneria venne definitivamente regolata dalla Conferenza di Losanna del 1922 il delegato di Palazzo Giustiniani non venne ricevuto, perché ritenuto irregolare, e Raoul Vittorio Palermi, delegato di Piazza delle Gesù, fu nominato Presidente della prima Sezione, ottenendo il riconoscimento da parte di tutti i Supremi Consigli rappresentati alla Conferenza, della sua regolarità. Tra il 1919 ed il 1922 le due Massoneria presero posizione contro i movimenti estremisti, che avevano fatto piombare il Paese nell'anarchia. Giunto al potere Benito Mussolini, con un programma costruttivo di disciplina nazionale, tanto il Palermi, che Domizio Torrigiani Gran Maestro di Palazzo Giustiniani, gli resero pubblico omaggio, e malgrado il divieto fatto ai fascisti di essere massoni, tutti gli uomini più eminenti delle fascismo erano iscritti a Logge dell’una o dell'altra parte. A causa del delitto Matteotti e del discorso del 3 gennaio 1925, la Massoneria assunse verso il regime un atteggiamento di aperta sfiducia: mentre però il Torrigiani si chiuse in una rigida opposizione, il Palermi cercò di salvare il salvabile; ma nulla potè conseguirne, infatti fu promulgata la legge 20 novembre 1925 contro le Società Segrete. Ma la Massoneria non era morta: gruppi di massoni si tenevano in contatto nelle varie città. Alla fine del conflitto bellico le Logge servirono a far divampare la Sacra fiamma massonica che, sopita ma non spenta, brilla di luce antichissima: essa potrà e dovrà di nuovo riverberarsi nella vita italiana, riportare il contributo dello splendore dello Scozzesismo alla ricostruzione della Patria ed al suo ritorno nel Consesso delle Nazioni.

Torino capitale, covo di massoni. La città incarna le ragioni del laicismo contro quelle della chiesa. Dopo la fine del sogno rivoluzionario quarantottino, a decine di migliaia gli esuli della libertà vanno a Torino, nuova e impensabile capitale italiana. Impensabile è la parola giusta: da sempre la classe dirigente torinese ha avuto il francese come eloquio privilegiato, esclusivo per le buone occasioni. Non è un caso che Cavour abbia fatto esercitazioni di italiano prima di affrontare i dibattiti in Parlamento. Torino diventa la capitale morale d’Italia facendo proprie le ragioni del mondo civile contro quelle della barbarie medioevale, incarnate dalla Chiesa cattolica. Non solo: Torino diventa Gerusalemme. Il Paragone non sembra ardito a Roberto Sacchetti: "Torino saliva allora al colmo del suo splendore. Era stata forte e diventava grande - bella, balda di una gioia viva e seria come una sposa a cui preparano le nozze. La Mecca d’Italia diventava la Gerusalemme". A Torino, nuova capitale morale e religiosa d’Italia, si trasferiscono, e non può che essere così, tutti i liberal-massoni (Free-Mason, Franc-Maçon, Libero-Muratore, liberalismo e Massoneria sono nell’Ottocento praticamente sinonimi) del resto d’Italia. I regnanti sardi offrono ai "fratelli" italiani un’accoglienza tanto calorosa da riservare loro (a tutto discapito dei locali) alcuni dei posti più prestigiosi nelle università, nei giornali, nella diplomazia, nello stesso Parlamento. Ecco come il siciliano Giuseppe La Farina, una delle più eminenti personalità massoniche emigrate a Torino, racconta l’accoglienza riservata agli esuli in una lettera alla "carissima amica" Ernesta Fumagalli Torti, spedita il 2 giugno 1848. "Arrivati appena a Torino - scrive - stavamo spogliandoci, quand’ecco il popolo preceduto da bandiere venire sotto le nostre finestre, e farci una dimostrazione veramente magnifica. Mi affacciai alla finestra, ringraziai; fui salutato con mille prove ed espressioni d’affetto. La mattina seguente, dopo essere stati da’ ministri, ritorniamo a casa; e dopo un momento, chi viene a visitarci? Tutta la Camera de’ Deputati col presidente. Onore insigne, che i parlamentari non sogliono concedere né anco ai propri re". L’accoglienza "regale" offerta alla generosa emigrazione italiana, permette ai Savoia di incassare un importante obiettivo politico: li rende preziosi e credibili alleati degli stati che contano. Offre garanzie ai liberali - protestanti e massoni di tutto il mondo - che sono intenzionati a fare sul serio. Che hanno davvero deciso di rompere con la tradizione cattolica del proprio stato e della nazione cui quello stato appartiene. I Savoia per amore di regno e quindi per furto - come scrive D’Azeglio nei suoi ricordi - diventano fautori dell’ideologia massonica e della religione protestante che apertamente combattono la cultura e la religione nazionali. Grazie a questa scelta strategica che rende il Piemonte docile feudo della cultura inglese, americana, tedesca, di parte del Belgio e dell’imperatore Napoleone III, i Savoia godono dell’appoggio incondizionato dell’una o l’altra di queste potenze e realizzano l’unità d’Italia sfruttando fino in fondo e con grande spregiudicatezza l’unico elemento in proprio favore: la radicale disomogeneità culturale e religiosa con il resto della penisola.

L’anima massonica del regno sardo, e in particolare del Parlamento subalpino, viene mai apertamente alla luce? No, perché l’associazione è pluri-scomunicata e perché il primo articolo dello Statuto vincola i parlamentari all’ossequio della fede cattolica definita religione di stato. L’11 novembre 1848, però, un brillante intervento del deputato Cavallera rende palpabile la "fraternità" quasi come l’aria che si respira. Si sta discutendo di sollevare le finanze dello stato, esauste per la campagna militare, ricorrendo all’esproprio e alla vendita dei beni delle corporazioni religiose. Contrario alla proposta Cavallera fa un discorso brevissimo, allusivo, singolare e sintomatico insieme, che dopo un primo momento di sconcerto suscita la generale ilarità. Ecco le poche battute del curioso intervento. Gli ordini religiosi - osserva il deputato - sono nati in Italia dove esistono da "più di dodici secoli". Bisogna dedurne che "necessariamente corrispondono ad un bisogno reale della società (rumori) [chiosa degli Atti del Parlamento subalpino]; e per conseguenza se si volessero abolire, altre se ne dovrebbero sostituire; infatti i moderni che vollero abolire i frati, vi sostituirono un’altra specie di frati: e cosa sono i circoli politici, se non vere fraterie? (Sorpresa e scoppio generale di risa prolungate). Perciò posto che non si sa stare senza frati, ai moderni preferisco gli antichi (Segue ilarità e mormorio di voci diverse)".

PARLIAMO DI MASSONERIA DEVIATA, MAFIA, SERVIZI SEGRETI E SETTE SATANICHE.

Carlo Palermo (Avellino 1947) è stato magistrato, avvocato, politico italiano, già sostituto procuratore a Trento dal 1975 al 1984 e poi a Trapani fino al 1989. Entrato in Magistratura, diventò noto al grande pubblico quando, a Trento, aprì un'indagine su un ampio traffico di armi e droga che - per il tramite del finanziere Ferdinando Mach di Palmstein - coinvolse il segretario del PSI, Bettino Craxi. Il sospetto fu che i traffici illeciti avvenissero con l'appoggio di alcuni esponenti politici, in cambio di finanziamenti illeciti. Oltre a Bettino Craxi, venne sfiorato dal coinvolgimento nell'inchiesta pure il banchiere socialista (poi parlamentare di Rifondazione Comunista e PDCI) Nerio Nesi. L'inchiesta si concluse con un nulla di fatto e, dopo una fortissima reazione degli indagati e di Craxi in particolare, culminata in una denuncia al CSM il magistrato fu trasferito nel 1985 a Trapani, dove le sue indagini si erano incrociate con il collega Giangiacomo Ciaccio Montalto ucciso nel 1983, dove intendeva continuare a indagare sui traffici di armi e droga. Nella città siciliana, dopo solo 50 giorni dal suo arrivo, la mafia reagì e tentò di ucciderlo con un'autobomba a Pizzolungo, una frazione del trapanese. Il magistrato restò ferito, poiché al momento dell'esplosione l'auto del magistrato stava superando una vettura su cui si trovavano Barbara Rizzo e i suoi due piccoli gemelli Salvatore e Giuseppe Asta, che morirono dilaniati, investiti in pieno dall'esplosione. Ma l'attentato, visto il breve tempo, non fu solo una storia di mafia. Pochi mesi dopo l'attentato Carlo Palermo si trasferì per qualche tempo a Roma al ministero, poi lasciò la magistratura e intraprese l'avvocatura, oltre a impegnarsi in politica. Per La Rete è stato dall'aprile 1992 deputato alla Camera nel collegio Trento-Bolzano, fino a quando, nel novembre 1993 fu dichiarato incompatibile.

L’inchiesta ‘armi e droga’ condotta dal giudice Carlo Palermo che fornisce spunto all’articolo di Luigi Cipriani riportato di seguito, finì come noto travolta dalle assoluzioni generalizzate per tutti gli inquisiti, descritte in calce all’articolo con altre brevi notizie e indicazioni bibliografiche per chi non avesse seguito la vicenda sulla stampa.

Luigi Cipriani, Armi e droga nell'inchiesta del giudice Palermo, in Democrazia proletaria maggio 1985. Riportata sul sito della Fondazione Cipriani.

Il traffico di eroina pura e morfina base scoperto dal giudice Carlo Palermo agli inizi del 1980, proveniente dai luoghi di produzione in Turchia, arrivava in Italia passando dall'Austria o dalla Jugoslavia. La droga veniva rilavorata in Italia e distribuita in tutto l'Occidente dalla grande mafia siculo-statunitense. Molto spesso la droga veniva scambiata con armamenti, in connessione con servizi segreti, industrie belliche, finanzieri, partiti e governi. I capi della mafia turca Abuzer Ugurlu e Bekir Celenk (entrambi padrini dell'attentatore del papa, Ali Agca) dirigevano i loro traffici dalla capitale bulgara Sofia. Entrambi, per poter agire in tranquillità, fungevano da informatori per i servizi segreti dell'est e dell'ovest, erano cioè agenti doppi. Ciò spiega anche le molte perplessità manifestate dalla Cia quando, in Italia, il giudice Martella si mise a seguire la pista bulgara in merito all'attentato al papa. Al trasporto della 'merce' via terra provvedevano Karafa Mehmet Alì (con una dozzina di autotrasportatori jugoslavi, raggiungeva le piazze di Trento, Verona e Milano) e un dirigente della narcotici turca, su auto della polizia. Al trasporto via mare, che raggiungeva gli Usa, provvedeva l'armatore Mehemet Cantas con la società panamense Sutas. Del trasporto di eroina negli Usa via mare si occupava anche l'altro capomafia turco Cil Huseyn. L'armatore Mehemet Cantas, per gestire meglio i propri traffici, si era trasferito a Los Angeles, dove era in contatto con la mafia siciliana. Interrogato dal giudice Palermo, dichiarò di avere venduto navi sia a Bekir Celenk che al grande trafficante Henry Harsan. In Germania agiva il trafficante d'armi turco Tegmen Herten, agente della Dea (agenzia antidroga Usa) residente a Monaco di Baviera: trattava ogni tipo di armamenti in stretto rapporto coi servizi tedeschi e la Nato. In Germania veniva anche riciclato il denaro sporco, Francesco Coll e Rodolfo Corti trasportavano la valuta da Bolzano verso la Dresdmer Bank di Monaco di Baviera, il cui direttore Kriske è stato arrestato. A Zurigo trafficava in armi, in collegamento con agenti dei servizi italiani, il finanziere Hans Kunz, che fu tra gli organizzatori dell'ultimo viaggio di Roberto Calvi. Nell'area mediorientale, sotto la copertura della società svizzera Petrocom, trafficava il fratello del presidente siriano, Hassad Rifaat, assieme ad alcuni agenti dei servizi siriani. Trafficante di armi e di droga sull'asse Berlino-Varsavia era il turco-siriano Derki Badi, anch'egli legato al trafficante milanese Arsan.

L'Italia centro del traffico mondiale di armi e di droga.

Ma il vero centro del traffico di armi e di droga è risultato essere il nostro Paese. Le richieste di ogni tipo di armamenti, dalle pistole alle tecnologie nucleari, pervenivano da ogni parte del mondo, assieme a grandissime quantità di eroina e di cocaina. Le contrattazioni internazionali fra i trafficanti avvenivano in Bulgaria all'hotel Giapponese di Sofia e all'hotel Marmara di Monaco di Baviera. Quel che sorprende, infatti, è il numero delle società commerciali italiane che operano con la Bulgaria, ben 776 contro le 800 che operano con l'intera Urss. La catena di trafficanti italiani scoperta dal giudice Palermo inizia appunto dalla frontiera est, da Bolzano. Nel giardino della villa di Herbert Hoberhofer, terrorista, 'eroe' sudtirolese, in realtà informatore del servizio segreto della nostra Guardia di finanza, sul finire del 1979, vennero ritrovati 130 chili di eroina. Centro del traffico a Bolzano era l'hotel Grifone. L'Hoberhofer venne arrestato insieme al giardiniere Meraner. Già da allora l'inchiesta di Palermo incontrò le prime, violente reazioni. La stampa locale e le associazioni sudtirolesi fecero pressioni fin quando l'Hoberhofer venne rimesso in libertà provvisoria dal tribunale di Trento. Successivamente riarrestato dal giudice Palermo, Hoberhofer è stato condannato a diciotto anni. Nella provincia di Verona, responsabile del traffico era Giorgio Malon, anch'egli condannato a diciotto anni dal tribunale di Trento, presidente Antonino Crea. Il vero capozona del traffico di armi e di droga era però Karl Kofler di Trento. Il Kofler era collegato a Milano con i grandi trafficanti di armi e con la grande mafia che, tramite Angelo Marai e Leonardo Crimi, portava alla famiglia di Gerlando Alberti. Tramite Leonardo Crimi, legato alla mafia trapanese, Kofler si incontrava all'hotel des Palmes di Palermo con Gerlando Alberti. Va ricordato che all'hotel des Palmes venne portato Sindona dalle famiglie Gambino, Inzerillo e Spatola, all'epoca del famoso rapimento del finanziere della mafia, con lo scopo di fargli rivelare la lista dei cinquecento. A quei tempi, in particolare con Totò Inzerillo, si incontrava anche Francesco Pazienza, sempre al famoso hotel des Palmes. Kofler era quindi un testimone importante, disposto a parlare molto e, puntualmente, venne eliminato. Siamo al secondo episodio di attacco all'inchiesta Palermo: il 7 marzo 1981, nel carcere di Trento, benché sottoposto a sorveglianza stretta, Karl Kolfer fu assassinato e mai venne scoperto l'assassino. Dal carcere di Trento riuscì a fuggire un altro testimone del traffico, l'industriale turco Nehiz Hasan, in realtà boss mafioso.

Tutte le vie portano a Milano.

Karl Kofler fece al giudice Palermo il nome di una società milanese, la Stibam che, caso strano, aveva sede in una palazzina di proprietà del Banco ambrosiano di Calvi e nella quale abitava anche il vicepresidente del Banco, Rosone. Perquisendo la sede della Stibam, Palermo trovò montagne di ordini, offerte, richieste di armamenti provenienti da tutto il mondo. Molte delle operazioni si avvalevano della 'consulenza' finanziaria dell'Ambrosiano. Socio maggioritario della Stibam era un siriano residente da molti anni in Italia e, forse non casualmente, a Varese, Henry Arsan. Altri soci erano Mario Cappiello, Giuseppe Alberti ed Edmondo Pagnoni. Il siriano-milanese Arsan si rivelò essere uno dei maggiori trafficanti d'armi del mondo in combutta, come vedremo, con agenti dei servizi segreti italiani. A titolo di esempio, basti notare che in una ventina di trattative vennero smerciati 116 carri armati e 20 elicotteri per la Somalia, 238 carri armati per Taiwan, altri 10 elicotteri da combattimento antisom, missili Tow, aerei C-130, missili Arpoon e relativi lanciatori, tre fregate della classe Battista de Andrade, 100 carri Leopard, 50 elicotteri Elios, 30 carri Leopard Mk-2, 60 cannoni 155/175, 10.000 proiettili C16, 60 elicotteri Bell Ah-16 residuati dal Vietnam e destinati al Kuwait, 100 motori per carri R-16, 33 chili di plutonio e 1.000 chili di uranio. Arsan era anche un grande trafficante di droga e disponeva di due navi, la Anika e la Golden sun, acquistate dalla società panamense Sutas dell'armatore e trafficante turco Mehemet Cantas. Nel solo 1981, Arsan fece arrivare a Milano 4.100 chili di eroina purissima, sufficiente per oltre 100.000 dosi che, distribuita sul mercato, fruttò circa 400 miliardi. Eppure, nel 1981, la Criminalpol conosceva benissimo Henry Arsan: era un agente della Dea, li aveva informati fin dal 1977 il responsabile dell'agenzia antidroga Tom Angioletti, sia pure con cinque anni di ritardo, da quando, nel 1972, era diventato loro informatore. A Milano, la Stibam di Arsan è collegata ad alcune società di copertura di mafiosi turchi, come la Ital Orient di Mohamed Nabir e la Wapa, gestita da due turchi, Salah Al Din e Pannikian Onnik, che distribuiva eroina in Lombardia e in Calabria. Ma il collegamento più interessante, come vedremo, è quello fra il turco Salah Aldin Wacekas ed Angelo Marai, uomo di Gerlando Alberti, che ci condurrà alla grande mafia siciliana. Altra società che operava nel traffico d'armi a Milano era la Comin di via Canova i cui proprietari, Antonio De Mitri e il fratello, facevano la spola con la Bulgaria, smerciando carri armati e missili di fabbricazione occidentale. In Bulgaria, a trattare partite d'armi ben più consistenti, si recava anche, per conto di Arsan, un noto armiere della Valtrompia (Brescia), Renato Gamba. Con Renato Gamba, entra in scena una vecchia società, quotata alla borsa di Firenze e Milano, la Broggi Izar, specializzata nella lavorazione di metalli preziosi. Con l'ingresso di nuovi proprietari, la Broggi Izar realizzò un consistente settore bellico, acquistando piccole industrie, tra le quali quella di Renato Gamba. Dall'interrogatorio del presidente della Broggi Izar, Cesco della Zorza, emerse che i capitali erano stati investiti dalla finanziaria Cepim, legata a Vittorio Emanuele di Savoia, iscritto alla P2 e noto trafficante di armi. Responsabile del settore armi della Broggi Izar era un americano, Reginald Allas, introdotto sia al Pentagono che al Cremlino. Entrambi i dirigenti della Izar furono fatti arrestare dal giudice Palermo: in sostanza, la Broggi Izar fungeva da paravento per il traffico illegale di armi, coperto da autorizzazioni ottenute per il commercio di armamento leggero. La società Broggi Izar appare anche nella attività di investimento di uno dei quattro 'cavalieri' di Catania, il Graci, assieme all'altro 'cavaliere', il Rendo, accusati di investire i denari della mafia.

Entrano in campo i servizi segreti.

Collegati al milanese Arsan, vi erano altri trafficanti internazionali di armi, legati ai servizi segreti: il giudice Palermo li fece arrestare e cominciò a ricevere telefonate minacciose. Essi erano:

-GLAUCO PARTEL: ex ufficiale di Marina, grande esperto in missilistica, direttore di un centro di ricerca privata di Roma. Il Partel era agente del Nsa (National security agency) statunitense; contemporaneamente, egli lavorava per il ministero della Difesa a Roma, come direttore del Centro studi trasporti missilistici. Lo stesso Partel, nella sua duplice funzione di trafficante d'armi planetario ed agente dei servizi, era in grado di fornire notizie interessanti sulla funzione degli eserciti, in particolare nei Pvs. Ad esempio, durante la guerra delle Falkland, per conto dei servizi segreti britannici e tramite la P2, contattò il maresciallo di vascello argentino Alfredo Corti, iscritto alla P2, per offrirgli dei missili Exocet che non furono mai trovati, facendo perdere tempo agli argentini.

-MASSIMO PUGLIESE: monarchico, massone P2, agente del Sifar e del Sid, andato in pensione, ma rimasto collegato al generale Santovito capo del Sismi, a sua volta massone P2. Uscito dal Sid, andò a fare il consulente per alcune ditte nazionali produttrici di armi. Pugliese gestiva il traffico internazionale di armi per mano di due società, la Horus e la Promec, in quanto monarchico era in rapporti stretti con Vittorio Emanuele di Savoia. Tramite l'attore Rossano Brazzi, massone a sua volta, Pugliese ebbe la possibilità di mandare messaggi al presidente Reagan, ad esempio per favorire le concessioni di crediti alla Somalia, necessari per l'acquisto di armi. Il Pugliese, assieme al bresciano Rolando Pelizza, fondò la società lussemburghese Transpresa per la vendita del 'raggio della morte'. Tramite i servizi italiani, il 'raggio della morte' venne proposto al governo italiano: il Pugliese si incontrò con Andreotti, Piccoli, Loris Fortuna. A quanto pare, i politici si convinsero di avere messo le mani sulla superarma, visto che interessarono il governo Usa, il quale organizzò un esperimento, del cui esito si sono perse le tracce. Il giudice Palermo sottopose a lunghi interrogatori i politici citati dal Pugliese, attirandosi altre maledizioni. Tra le carte di Massimo Pugliese, venne ritrovato un dettagliato dossier sulle attività del giudice Palermo. Fin dall'inizio, l'inchiesta era seguita con molta attenzione da parte dei servizi segreti. 

-ROSSANO BRAZZI: ex attore, amico personale di Reagan, massone, in contatto col mafioso Robert Vesco, voleva fondare su un'isola deserta la 'nuova Aragona', occasione di investimento del denaro frutto del traffico d'armi. Il Brazzi è anche indicato come personaggio legato alla Oto Melara.

-CARLO BERTONCINI: proprietario della Seric di Pomezia, specializzata in strumentazione elettronica per l'esercito, agente del Sismi dal 1970, quando venne scoperto che spediva materiale elettronico ai paesi dell'est.

-ENZO GIOVANNELLI: (ex partigiano nella brigata Osoppo Friuli)  fornitore della base Usa della Maddalena in Sardegna. Il Giovannelli apre la serie degli spedizionieri (operava a Olbia) legati al traffico di armi con la copertura del Sismi di Santovito. Un dossier della Guardia di finanza indicò il Giovannelli, con suo cognato Sebastiano Sanna, ex contrammiraglio, ed altri, implicati in un traffico d'armi favorito dalla Nato (comprendente 43 caccia F-101, 10 aerei scuola Tf-104 G, quattro fregate ed alcuni simulatori di volo) in combutta con Flavio Carboni e Francesco Pazienza.

-MAURIZIO BRUNI: massone P2, operava come spedizioniere a Livorno. Di lui si serviva il trafficante Arsan per spedire armi e droga in tutto il mondo. E' stato inquisito anche dal giudice fiorentino Pierluigi Vigna.

-ALESSANDRO DEL BENE: cassiere della P2 in Toscana, grande elettore del Psi, legato al ministro della Difesa Lagorio e spedizioniere anch'egli a Livorno. Tra l'altro, il Del Bene è stato coinvolto in un traffico di congegni di puntamento segreti della Nato che, prodotti dalle officine Galileo finivano, tramite Gelli, alla Romania.

-ANGELO DE FEO: agente Sid dell'ufficio Ris, competente per la concessione del benestare di fattibilità per la vendita di armi italiane. Interrogato dal giudice Palermo, ha affermato che tutto il traffico di armi è controllato dai servizi segreti. Ad esempio, ha affermato De Feo, i ricognitori Usa scoprirono 4 carri Leopard nel deserto libico: erano stati venduti dall'Italia, con autorizzazione del contrammiraglio Martini del Sismi. Il trasporto fu controllato dal colonnello D'Agostini del Sismi, iscritto alla P2. De Feo ha denunciato anche la vendita proibita di ingenti quantità di armi (anche navi) al Sudafrica, di 300 aerei Siai Marchetti e Aermacchi alla Libia e centinaia di missili venduti alla Mauritania, trasportati sul posto da un aereo della Cia decollato da Ciampino militare. Sulla base di tutte queste deposizioni, il giudice Palermo chiese l'incriminazione del capo del Sismi generale Santovito, iscritto alla P2, a sua volta accusato dal giudice Sica insieme al colonnello Giovannone, agente del Sismi in Libano, iscritto alla P2 e cavaliere di Malta, per avere dichiarato il falso sulla scomparsa dei giornalisti Toni e Di Palo. I due giornalisti, recatisi in Libano per seguire le tracce di un traffico d'armi e droga, scomparvero nel nulla.

Come abbiamo visto, la società Stibam di Milano e il suo proprietario Arsan erano al centro di un vastissimo traffico di armi e droga. Per questo motivo l'Arsan, molto opportunamente, morì nel carcere di san Vittore a Milano nel novembre 1983: per arresto cardiaco, questa fu la diagnosi.

C'era anche Gheddafi.

Il 29 gennaio 1985, su mandato del giudice Palermo, è stato arrestato Gabriel Tannouri, finanziere libico intimo di Gheddafi e di Nixon. Tannouri venne chiamato in causa per un contratto di fornitura di materiale fissile ed attrezzature per confezionare piccole bombe atomiche, messi in vendita da due sudamericani, Diego Arias e Helio Guerrero. Sembra una favola, ma il giudice Palermo sforna pacchi di documenti autentici: il contratto venne firmato a Ginevra da Tannouri e Mared Pharaon, fratello del saudita trafficante internazionale Gait Pharaon. Il Pharaon avrebbe dovuto fornire parte dei finanziamenti per un contratto che si prospettava da un miliardo e duecentomila dollari nel 1980. In garanzia del finanziamento, 1l 23 dicembre 1980, a Lugano, di fronte al notaio Alida Andreoli, il Tannouri depositò ben 203.785 azioni da 4.000 lire e 203.478 azioni da 3.000 lire delle Assicurazioni generali. Una quota elevatissima che solo i maggiori azionisti come Mediobanca, Euralux, la Banca d'Italia, il servizio Italia della Bnl e la Comit erano in grado di esibire. Le azioni nel 1978 erano intestate alla società Claus Fin di Milano, sciolta nel 1984 e all'epoca del contratto vennero depositate dalla filiale svizzera della banca Lambert di Bruxelles. Dagli atti presso il notaio Andreoli di Lugano risultò che a depositare le azioni presso la banca Lambert furono gli italiani Achille Caproni e Flavio Briatore. Ad un certo punto il Pharaon, che ha cominciato a versare accrediti per mezzo della banca Morgan di Ginevra, prelevandoli dal Credito svizzero di Ginevra e Parigi, chiede a Tannouri maggiori garanzie. Entrano in campo i trafficanti italiani, Capogrossi, lo spedizioniere Giovannelli e l'agente della Nsa Glauco Partel. Con Partel entra in campo anche la Cia tramite l'agente australiano Eugene Bartolomeus, coinvolto nel fallimento della banca della Cia, la Nugan hand bank, trafficante d'armi legato alla mafia Usa ed australiana. Di fronte alla possibilità che le bombe finissero ai libici o ai siriani, il trasportatore e agente del Sismi Giovannelli ebbe dei problemi di coscienza ed avvertì il console d'Israele a Milano. La trattativa finì nel nulla, probabilmente si trattò di un colossale 'pacco' giocato dalla Cia alla Libia. Fatto sta che Tannouri risultò disporre proprio di un conto da 1.200.000 dollari presso la società Rexine Sa certificata dalla Deutsche bank. Molti telex rivelarono altresì contatti con altri clienti presso la Trade developement bank del Lussemburgo, spesso citata nel traffico d'armi internazionale. Molto probabilmente, giocato il 'pacco' alla Libia, la Cia dirottò il materiale fissile verso clienti più affidabili.

Da Milano alla Sicilia.

Come abbiamo visto, il duo dei trafficanti milanesi Arsan e Partel era collegato alla mafia turca tramite Salah Aldin Wacekas e a quella siciliana tramite Angelo Marai, entrambi operanti a Milano. A sua volta, Marai era collegato a Leonardo Crimi e alla grande mafia siciliana tramite Gerlando Alberti. Quest'ultimo lavorava l'eroina nei laboratori siciliani e la spediva negli Usa e ai marsigliesi incaricati di rifornire i mercati del Nordeuropa. Assieme all'Alberti, il giudice Palermo rinviò a giudizio i mafiosi Matteo Bricola, Rosario d'Agostino e Nicolò Puccio. Gerlando Alberti porta alle grandi famiglie mafiose siculo-statunitensi dei Gambino, degli Inzerillo e degli Spatola, i padrini di Sindona. La filiale trapanese delle grandi famiglie palermitane è rappresentata dai clan di Minore, Evola, Bonanno, Magaddino, originari di Trapani. Trapani è stata definita la 'Svizzera della mafia' perché, pur avendo un'economia molto debole, in essa affluisce il 40% dei depositi bancari di tutta la Sicilia. A Trapani sono presenti sei banche di interesse regionale, 28 banche provinciali ed un centinaio di casse rurali. Inutile aggiungere che gli amministratori delle banche sono tutti uomini della Dc. I Bonanno, originari di Castellammare del Golfo (Trapani) da molti anni si sono trasferiti negli Usa, entrando a fare parte delle grandi famiglie mafiose. Il giudice Ciaccio Montalto, prima di essere ucciso dalla mafia, aveva scoperto un colossale traffico di droga e di armi che, partendo da Trapani, raggiungeva il Nordafrica e gli Usa. Fiduciari del traffico per conto dei Bonanno erano i fratelli Di Chiara, originari di Castellammare del Golfo: Lorenzo operava negli Usa e Antonio in Sicilia, a Mazara del Vallo. I fratelli Di Chiara erano collegati al clan dei Minore di Trapani: ancora una volta, il cerchio delle inchieste dei giudici Palermo e Montalto si chiude intorno ai medesimi personaggi. Gli stessi nomi si riscontrano in attività di riciclaggio del denaro sporco: Leonardo Crimi, trafficante di armi e droga in società con il clan dei Minore e con i cavalieri del lavoro catanesi Rendo e Costanzo, eseguirono lavori nel Belice terremotato e nel trapanese. Cominciarono ad emergere anche nomi di insospettabili. Il giudice Palermo, indagando su un grosso traffico d'armi in partenza per l'Africa, si imbattè nella società Coprofin, controllata dal Psi e gestita dal finanziere Ferdinando Mach di Palmenstein, la quale stava trattando la vendita illegale di aerei da combattimento al Mozambico. Nello stesso tempo, dal porto di Livorno era in partenza una nave ufficialmente carica di liofilizzati destinati al Mozambico. Ad organizzare la spedizione era la medesima società di Ferdinando Mach, mentre i liofilizzati erano di proprietà di una ditta del cav. Mario Rendo di Catania. Fatto strano, ma è successo che appena il giudice Palermo ha cominciato a indagare sulle attività del finanziere del Psi Ferdinando Mach, il trasporto degli innocui liofilizzati per il Mozambico è stato annullato. Il nome di Mario Rendo è comparso anche nella truffa dei petroli come uno dei padrini del comandante della Guardia di finanza, il generale Raffaele Giudice (P2) e nel traffico di armi e petrolio con la Libia, emerso dal fascicolo segreto del Sid, il famoso Mi.Fo.Biali.

C'erano anche Pazienza e Carboni.

Francesco Pazienza iniziò il suo viaggio nei servizi segreti occidentali a partire dallo Sdece francese, passò alla Nato e al Dipartimento di Stato Usa quando il suo capo, Alexander Haig, divenne segretario di Stato di Reagan, per arrivare al Sismi del generale Santovito (P2). Fin dal 1978, il Pazienza trafficava in armi con la copertura dei servizi segreti, avvalendosi di una società lussemburghese, la Se. Debra, assieme a Nico Schaffer, ex amministraore della Fasco di Sindona e al grande trafficante arabo Kashoggi. Un rapporto del Sisde segnalò un incontro all'hotel de Paris di Montecarlo tra Francesco Pazienza e il trafficante d'armi Trapolus, il mafioso Francesco Gallo, l'ex magistrato genovese Giorgio Righetti e Licio Gelli. In qualità di amministratore dei beni della famiglia dell'ex scià di Persia, Pazienza era introdotto nelle grandi banche Usa che riciclano il denaro della mafia. Pazienza era amico di Totò Inzerillo, ucciso nel 1981, ed era in contatto con le grandi famiglie della mafia Usa: i Gambino, gli Inzerillo, gli Spatola, i Bonanno ecc. Quando costoro, nel 1979, organizzarono il finto rapimento di Sindona, il Pazienza fece numerosissimi viaggi in aereo verso Palermo e Catania, utilizzando i mezzi messi a disposizione dalla Cai del Sismi e quelli dell'Ata del mafioso milanese Carmelo Gaeta. Il super-agente si incontrava con Totò Inzerillo, probabilmente per conoscere a che punto erano le trattative per la famosa lista dei cinquecento. Sui medesimi aerei viaggiava un altro personaggio molto noto a Pazienza, don Masino Buscetta. Pazienza era legato al malavitoso romano Domenico Balducci, ucciso il 16 ottobre 1981, terminale della mafia palermitano-calabrese nella capitale, legato al cassiere della mafia Pippò Calò, arrestato recentemente. Pippo Calò investiva il denaro della mafia per mezzo del costruttore romano Danilo Sbarra in Sardegna, nelle numerose società immobiliari facenti capo alla Sofint di Flavio Carboni, legato quest'ultimo alla Dc (Roich, De Mita) e all'Opus dei, socio dell'editore dell'Espresso, organizzatore con Pazienza dell'ultimo viaggio di Roberto Calvi. Carboni era collegato al trasportatore e trafficante d'armi di Olbia, Enzo Giovannelli, che a sua volta riconduce ai grandi trafficanti Glauco Partel ed Henry Arsan di Milano.

I quattro dell'apocalisse in Sudamerica.

I quattro dell'apocalisse - Gelli, Ortolani, Marcinkus, Calvi - si affacciarono per far affari nel continente sudamericano quando questo era in preda ad una crisi disastrosa, con tassi di inflazione del 200%. Ma gli affari che essi trattavano non conoscono crisi, attraverso la P2 erano in contatto con i dittatori militari e civili del continente, notoriamente anche grandi trafficanti di armi e droga. Obiettivo dei quattro non era solo quello di fare affari, ma di sostenere regimi autoritari ferocemente antimarxisti sui quali puntano sia il presidente degli Usa che il Vaticano, impegnato in una 'nobile' battaglia contro la teologia della liberazione. Il 1 gennaio 1980, a Buenos Aires in Argentina, Roberto Calvi inaugurò la nuova sede del Banco ambrosiano de America del Sud. Nel medesimo palazzo verranno installati gli uffici del generale Massera (P2) e di Videla. Gelli e Ortolani, attraverso i loro rapporti coi gerarchi fascisti fuggiti in Argentina, erano da molti anni in rapporti di amicizia con Peron e con il capo degli squadroni della morte, Lopez Rega; lo stesso Gelli era incaricato d'affari argentino in Italia. Il generale Massera era un grande trafficante d'armi ed era in contatto con l'ammiraglio Torrisi (P2) in Italia. Grazie alla mediazione di Massera, buona parte dei 6.000 miliardi di armamenti spesi dal generale Videla, dal 1976 in avanti, sono affluiti alle industrie italiane. Ortolani aveva preceduto Calvi in Sudamerica con il proprio Banco financiero di Montevideo in Uruguay, divenuto insufficiente alla bisogna: si rendeva necessaria la rapida espansione dell'Ambrosiano, con le garanzie dello Ior del Vaticano. La prima banca ad installarsi fu la Cisalpina Overseas bank delle Bahamas, trasformata in Banco ambrosiano Overseas, seguita dalla Ultrafin di New York, Il Banco ambrosiano andino a Lima in Perù, l'Ambrosiano representacao y servicios in Brasile, l'Ambrosiano group banco commercial di Managua in Nicaragua, l'Ambrosiano group promotion a Panama. In Cile, l'Ambrosiano partecipava al più grande gruppo finanziario sostenitore di Pinochet, il Banco hypotecario, detto 'Piranas' dagli esuli cileni. Il Banco ambrosiano ha finanziato, nel 1976, la vendita di 6 fregate da parte del Cnr della Fincantieri alla Marina del Venezuela, di corvette all'Equador, di 4 fregate Lupo al Perù nonché di numerosi elicotteri Agusta, mentre i piduisti installati all'Ufficio italiano cambi e alla Sace concedevano autorizzazioni e crediti. In Guatemala, l'Ambrosiano finanziò il governo di destra del generale Vernon, ex agente Cia, legato al Dipartimento esteri Usa di Alexander Haig, attraverso la società Brisa, fondata per lo sfruttamento delle risorse minerarie del Paese. Nel 1978 il dittatore del Nicaragua, Somoza, era in forte crisi sotto la pressione della rivoluzione sandinista. A partire da quella data il Banco ambrosiano, per mezzo della propria filiale di Managua, trasferì centinaia di milioni di dollari nel Paese. Da un'altra banca del Sudamerica dell'Ambrosiano, il Banco andino di Lima, sono passate molte delle operazioni di traffico d'armi e di petrolio con Cile, Nicaragua, Argentina, Brasile, Nigeria ed i traffici con la Tradeinvest dell'Eni, fino al finanziamento di 21 milioni di dollari concesso al Psi. Esaminando i conti dell'Andino, alla fine del 1981, gli ispettori della Banca d'Italia scoprirono un 'buco' da 1.000 miliardi, inizio della fine di Calvi. Nel medesimo periodo, anche il gruppo Rizzoli ebbe una grande espansione editoriale in Sudamerica, mentre il Corriere della Sera in Italia pubblicava le interviste di Roberto Gervaso (P2) a Videla e Somoza e censurava gli articoli sui desparecidos del corrispondente dall'Argentina. Giova solo ricordare che il duo Massera-Videla viene processato in Argentina, accusato di aver organizzato centri di tortura in tutto il Paese e di aver assassinato trentamila oppositori, bambini compresi.

Il caso Psi-Argentina.

Durante la perquisizione degli uffici di uno dei trafficanti d'armi, tale Michele Jasparro, arrestato il 16 giugno 1983, titolare di una fabbrica di giubbotti antiproiettile legato all'Agusta, il giudice Palermo venne in possesso di una lettera proveniente dall'Argentina. A scriverla era Gaio Gradenigo, amministratore della Comte srl di Buenos Aires. Il Gradenigo informava Jasparro che "Bettino Craxi è furibondo per il fallimento delle trattative per la costruzione della metropolitana di Buenos Aires" e parlava dell'interesse del Psi per la costruzione della fabbrica di elicotteri che l'Agusta avrebbe dovuto realizzare in Argentina, dopo la sconfitta nella guerra delle Falkland. Sull'interesse del Psi nelle due operazioni esistono riscontri obiettivi: la metropolitana milanese (il cui presidente Natali, padrino del giovane Craxi nel Psi, è attualmente in carcere per tangenti) realizzò lo studio di progetti per il metrò di Buenos Aires. Per la realizzazione del metrò erano in gara la Fiat, l'Ansaldo e la Breda, ma il generale Gualtieri preferì destinare i fondi al potenziamento degli armamenti e alle autostrade, facendo arrabbiare Craxi. Per quanto riguarda la fabbrica di elicotteri Agusta, che fa capo all'Efim, presidente Fiaccavento di area Psdi, nel 1983 subì l'offensiva del ministro delle Pp.Ss. De Michelis. Il Psi nell'Agusta aveva già un'importante pedina, l'amministratore delegato Raffaele Teti, ma De Michelis propose di portare l'Agusta sotto il controllo dell'Iri, liquidando la quota rimasta al vecchio proprietario, il conte Agusta, scaricando contemporaneamente i debiti della società sull'Iri. Per l'acquisizione della quota del conte Agusta (20%), il Psi aveva già un'acquirente di fiducia, tale Pietro Fascione, al prezzo di 80 miliardi. In poche parole il Psi, per via pubblica e privata, puntò al controllo totale dell'Agusta, proprio nel periodo in cui si prospettava la costruzione della società di elicotteri in Argentina. Ma vi è di più. Durante la guerra delle Falkland una delegazione di maggiorenti argentini, guidata dal segretario del partito socialista argentino, Pasquale Ammirati, si incontrò con Craxi per ottenere la revoca dell'embargo posto dal presidente del Consiglio Spadolini e dal ministro degli Esteri Colombo. Cosa che puntualmente avvenne, con il sostegno di Psi e Pci. Della delegazione che incontrò Craxi facevano parte anche i fratelli Macrì, i maggiori industriali argentini, rappresentanti degli interessi della Fiat. I Macrì sono due fratelli, Antonio e Franco, sono accusati di aver messo sul tappeto la questione della fabbrica di elicotteri e di traffico illegale di armi. I Macrì controllano con la loro holding oltre 50 imprese, hanno acquisito il controllo della filiale Fiat argentina in forte perdita. Durante il periodo delle dittature militari hanno costruito strade ed autostrade, hanno l'appalto per la pulizia di Buenos Aires e rappresentano la Techint (Fiat). I Macrì erano strettamente legati ai militari P2 dell'Argentina, Massera e Mason, e sono imparentati con uno dei dirigenti del peronismo, Carlos Grosso. Un documento dei servizi segreti inglesi accusò i fratelli Macrì di aver cercato in Italia l'appoggio per l'acquisto di missili Exocet, formalmente destinati al Perù, durante il periodo dell'embargo posto dalla Francia. La delegazione argentina, prima di incontrare Craxi, fece tappa a Zurigo, dove operava il trafficante Hans Kunz, in contatto con Roberto Calvi durante il suo ultimo viaggio nel giugno 1982. Nello stesso frangente le banche argentine, tra le quali l'Ambrosiano, trasferirono grossi capitali nelle loro filiali svizzere. Il governo argentino era disposto a pagare per un missile più di 2 milioni di dollari, contro i 700.000 dollari normalmente richiesti sul mercato ufficiale. Il periodo della trattativa sugli Exocet coincise con il viaggio di Calvi il quale, prima di approdare a Zurigo, venne portato da Pazienza a Carboni in Austria, a Klagenfurt, dove operava il trafficante d'armi Sergio Vatta, inquisito dal giudice Palermo. Il Vatta era in contatto con il trafficante e agente del Nsa Glauco Partel, il quale da un lato attirò gli argentini in una trattativa fasulla (per gli Exocet) e contemporaneamente informò i servizi segreti inglesi. Molto probabilmente, una delle cause della morte di Roberto Calvi sta nel ruolo svolto dall'Ambrosiano e dalla P2 in appoggio all'Argentina durante la guerra delle Falkland. Dobbiamo ricordare che i servizi segreti britannici sono strettamente legati alla massoneria inglese della quale Calvi, molto probabilmente, faceva parte, perché esistono fotografie che lo ritraggono a fianco della regina Elisabetta, notoriamente gran patronesse della massoneria. Del resto, il ritrovamento nelle tasche della giacca e sui genitali del cadavere di Calvi di alcuni mattoni (oltre al nome del ponte Frati neri) nel simbolismo massonico starebbe a indicare tradimento. Tornando al caso Argentina-Psi, sulla base degli elementi emersi, il pubblico ministero di Trento, Enrico Cavaliere, avrebbe voluto emettere subito mandati di comparizione e convocare Bettino Craxi come testimone. Il giudice istruttore Palermo lo convinse a pazientare, chiedendo di poter approfondire le indagini e interrogando l'ex addetto stampa di Craxi, il piduista Vanni Nisticò, ed un personaggio introdotto nell'industria bellica, Giancarlo Elia Valori. Elia Valori, amico personale di Peron, contendeva a Gelli il controllo della P2 in Argentina e per questo ne fu espulso. In Italia Elia Valori è legato agli ambienti della Dc nelle Pp.Ss., è stato vicepresidente della Italstrade, attualmente forlaniano legato al cardinale Palazzini dell'Opus dei e agli ambienti golpisti della Fiat (Chiusano e Scassellati). Dopo essere stato ad indagare in Argentina, il giudice Palermo tornò in Italia con un nome: Ferdinando Mach di Palmenstein, amministratore di alcune società facenti capo al Psi, già comparso nel caso Eni-Petromin. Le società sono: la Sofinim, al 99% del Psi, fondata nel 1976 da Nerio Nesi, presidente della Bnl; Vincenzo Balsamo e Rino Formica, tutti del Psi; la Coprofin, con sedi a Bucarest e Maputo in Mozambico; la Promit, con sede a Roma. Il Mach è anche presidente di una società di Firenze, la Promec, specializzata nella acquisizione di appalti e forniture pubbliche. Ferdinando Mach, nelle sue molteplici attività e traffici, era in stretto rapporto con Francesco Pazienza (esistono numerose registrazioni telefoniche) e fu per suo tramite che Pazienza si incontrò più volte con Bettino Craxi, con Michael Leeden, spione e provocatore della Cia, organizzatore con lo stesso Pazienza, assieme ai servizi libici, del Billygate che assestò un duro colpo al presidente Carter, favorendo l'elezione di Reagan nel 1981.

Il caso Psi-Somalia.

I rapporti del Psi con la Somalia di Siad Barre sono molto stretti; lo stesso cognato di Craxi, Pillitteri, è console onorario di Somalia a Milano. Famoso, nei rapporti Psi-Somalia, è stato il caso del piano regolatore di Mogadiscio. Nel 1975, l'ingegner Luciano Ravaglia, con il patrocinio della regione Lombardia, iniziò a interessarsi del piano regolatore di Mogadiscio. Nel 1978, il Ravaglia si incontrò con Siad Barre ed ottenne l'avvallo alla prosecuzione dello studio. Il 5 agosto 1981, il progetto Ravaglia venne inserito negli accordi firmati a Mogadiscio dal ministro degli Esteri, Colombo, entrando così nella fase operativa. Improvvisamente, l'11 novembre 1981, il sottosegretario agli Esteri Roberto Palleschi del Psi avocò a sé con effetto immediato il carteggio del piano, che venne sospeso. Nel marzo 1982, il progettista Ravaglia ricevette una comunicazione dal sottosegretario Palleschi, nella quale si affermava che "d'accordo col ministro somalo Habib, il piano regolatore di Mogadiscio è stato affidato all'architetto Portoghesi" del Psi. Ma le attività di mediazione nel territorio africano da parte delle società facenti capo al Psi sono numerosissime: oltre al piano regolatore, esse hanno trattato la costruzione di dighe, impianti siderurgici, allevamenti di bestiame, impianti per surgelati ecc. Tutto ciò sempre in rapporto con le industrie pubbliche, le banche dell'Iri e col ministro degli Esteri. Ferdinando Mach si interessò anche della vendita di aerei da guerra e da trasporto G-222 al Mozambico, riuscendo strumentalmente a fare sì che il presidente Pertini si incontrasse con la delegazione degli acquirenti. Il Mach è accusato di avere venduto aerei G-222 alla Nigeria, un affare da 170 miliardi per il quale ottenne una tangente del 20%. Allo scopo di agevolare i propri traffici, lo stesso Mach scrisse al Psi per ottenere che all'Ufficio italiano cambi venisse nominato un uomo fidato, carica che venne ricoperta da uomini della P2. L'occasione dell'affare più ghiotto venne offerta, come sempre, dalla Somalia che aveva ottenuto un finanziamento Usa per l'acquisto di 116 carri H18-A5 e 20 elicotteri Cobra HgS con 1.000 missili Tow per un totale di 600 miliardi nel 1982. Non potendo esporsi direttamente, gli Usa attivarono il canale della Cia e del Sismi, vale a dire Santovito, Pugliese e Partel. Il 17 ottobre 1982 avrebbe dovuto essere firmato il contratto a Mogadiscio, contemporaneamente nella città era presente una delegazione del Psi, guidata da Pillitteri e comprendente Ferdinando Mach. Occasionalmente, nello stesso giorno, era in visita in Somalia il ministro della Difesa, il Psi Lagorio. Sfortunatamente, tutto andò in fumo perché il giudice Palermo, con mandato di cattura, aveva provveduto ad arrestare i trafficanti Partel e Pugliese. A questo punto, il giudice decise di rompere gli indugi, accusando Ferdinando Mach di associazione per delinquere al fine di traffico di armi e, contemporaneamente, il segretario del Psi di violazione dell'art.7 della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Nel mandato di perquisizione a carico della società Sofinim, Palermo commise però l'errore di citare i nomi di Craxi e Pillitteri senza avere ottenuto l'autorizzazione a procedere dal Parlamento e dalla Commissione inquirente. Avvertito tempestivamente, Bettino Craxi scrisse su carta intestata il famoso telex al Procuratore capo Tamburrino, il quale bloccò la perquisizione (che non verrà mai più effettuata) e diede inizio al provvedimento disciplinare nei confronti di Carlo Palermo.

Intimidazioni, suicidi, fughe, provocazioni, errori, avocazioni e repressione.

Sin dall'inizio della sua inchiesta, il giudice Palermo ricevette intimidazioni e minacce, sicché gli dovettero raddoppiare la scorta. Altri fatti intervennero per disinnescare la portata dell'inchiesta internazionale su armi e droga. Karl Kofler, uno dei testimoni chiave, benché in carcere isolato, venne trovato 'suicidato': gli avevano infilato uno spillone nel cuore e tagliato la gola. Altri imputati, testi, riuscirono misteriosamente ad evadere dal carcere mentre il principale imputato, l'agente della Dea Henry Arsan, morì per arresto cardiaco nel carcere di san Vittore. Vi è poi il caso degli avvocati Roberto Ruggiero e Bonifacio Giudiceandrea, figlio del Procuratore della repubblica di Bolzano, entrambi difensori del trafficante Giovannelli di Olbia. L'avvocato Ruggiero che, da intercettazioni telefoniche, risulta essere conoscente di Bettino Craxi, è stato accusato da Palermo di traffico d'armi e indicato come collaboratore del libico Tannouri, al pari del commercialista Arnaldo Capogrossi, legato a sua volta al trasportatore Giovannelli. Nel giugno del 1983, durante un interrogatorio da parte di Palermo del Giovannelli, l'avvocato di questi, Ruggiero, interruppe continuamente il giudice, il quale commise l'errore di perdere le staffe, accusando l'avvocato di condurre in modo disonesto la professione. L'avvocato Ruggiero fece verbalizzare il tutto e lo trasmise al Procuratore generale della Cassazione Tamburrino. Due mesi più tardi, i carabinieri fecero avere al giudice Palermo il testo dell'intercettazione di una telefonata tra gli avvocati Ruggiero e Giudiceandrea, dalla quale erano ravvisabili i reati di favoreggiamento e divulgazione di segreti d'ufficio. Il giudice Palermo fece arrestare i due avvocati, scatenando la reazione dei colleghi romani che scesero in sciopero.

Stranamente e solo dopo gli arresti, i carabinieri si accorsero di aver commesso un errore nella trascrizione della registrazione, nel senso che, laddove l'avvocato Giudiceandrea affermava "ho preso il fascicolo", si doveva intendere "ho appreso dal fascicolo". Un errore molto opportuno. Il giudice Palermo venne sommerso da un'ondata di critiche, screditandosi il valore di tutta l'inchiesta su armi e droga.

Il 1 maggio 1983, il giudice istruttore di Trento prosciolse Ruggiero e Giudiceandrea dai reati di favoreggiamento e corruzione e il 24 ottobre il pretore Vettorasio dichiarò non doversi procedere contro i due per rivelazione di segreti d'ufficio. Il 15 novembre l'avvocato Giudiceandrea inviò un esposto al Tribunale di Trento contro Palermo per "avere effettuato intercettazioni non autorizzate e per non aver informato il Pm e il Procuratore generale sui cambiamenti avvenuti nell'inchiesta". Il 13 gennaio 1984, sulla base della denuncia di Giudiceandrea, il giudice Palermo venne indiziato di interesse privato dal Procuratore della repubblica di Venezia. Di fronte a tanti attacchi, i magistrati di Trento scesero in campo rendendo pubblico un documento di solidarietà nei confronti di Palermo. Gli avvocati di Gerlando Alberti, sfruttando la situazione, chiesero la ricusazione del tribunale di Trento, che venne accordata. In questo modo, tutto il filone mafia dell'inchiesta Palermo venne stralciata e trasferita al tribunale di Brescia, dove tuttora giace dal 17 giugno 1984. Un altro imputato, la spia della Guardia di finanza Oberhofer, chiese ed ottenne la ricusazione del tribunale di Trento dal Procuratore generale Capriotti che già l'aveva negata nel 1981. Dopo il Procuratore generale Tamburrino, scese in campo anche il ministro Martinazzoli, il quale avviò un'inchiesta disciplinare nei confronti dei giudici trentini, investendo anche il Csm. Da quando, con la sua inchiesta, il giudice Palermo aveva chiamato in causa i massimi livelli politici del Psi, gli sono piovuti addosso attacchi di ogni genere e il suo lavoro venne smembrato in mille rivoli. Nel giugno 1984, Palermo chiese di lasciare l'inchiesta armi e droga. In suo appoggio intervenne il presidente del Tribunale di Trento, Rocco La Torre. Il presidente del Tribunale dichiarò: "Ci sono state velenose e virulente reazioni determinate dal processo a causa dei sudici, sotterranei, colossali interessi colpiti. Contro la persona di Palermo ci sono stati molesti, incessanti e frustranti attacchi". Lo stesso Palermo denunciò che, da quando aveva imboccato la pista politica, erano stati riesumati provvedimenti già dati per archiviati. Nel giugno 1984, di fronte al magistrato di Venezia che lo interrogava, Palermo affermò: "Non pare fuori luogo notare fin d'ora che le più pesanti accuse mosse nei miei confronti da parte di avvocati, imputati e politici sono seguite al sequestro di documenti operato il 16 giugno 1983, in cui compariva, per la prima volta, il nome dell'onorevole Craxi in relazione al commercio illecito di armi con l'Argentina e sono proseguite con maggiore spinta, dando luogo a procedimento penale e disciplinare nei miei confronti allorché, il 10 dicembre 1983, sequestrai la documentazione da me trasmessa alla Commissione inquirente". Nel luglio 1984, il giudice Palermo inviò una memoria difensiva al Procuratore della Repubblica di Venezia dottor Naso, affermando: "Successivamente all'intervento del Procuratore generale Tamburrino (su sollecitazione di Craxi) il dottor Naso ha emesso comunicazione giudiziaria nei confronti del sottoscritto, dopo che egli stesso aveva chiesto l'archiviazione delle denunce degli avvocati Ruggiero e Giudiceandrea perché ritenute infondate. Lo stesso dottor Naso mi riferì che anche la Procura generale di Milano aveva chiesto l'archiviazione dell'esposto presentato dall'avvocato Ruggiero perché infondato". Nonostante tutto ciò, nell'agosto del 1984, dopo che Palermo ebbe inviato alla Commissione P2 e all'Inquirente gli incartamenti sul coinvolgimento dei politici nell'inchiesta armi e droga, la Corte d'appello di Trento decise di accogliere la richiesta dell'avvocato Ruggiero, togliendo l'inchiesta al giudice Palermo.

La Commissione parlamentare inquirente ha scagionato Bettino Craxi e il cognato Pillitteri. Ancora una volta, la rete protettiva attorno a Bettino Craxi ha funzionato; rimangono aperte le inchieste nei confronti delle finanziarie del Psi e di Ferdinando Mach, l'accusa di traffico d'armi nei confronti dell'avvocato Ruggiero ed il procedimento penale nei confronti del giudice Palermo.

Da Trento a Trapani.

Isolato, sottoposto a provvedimento disciplinare, espropriato dell'inchiesta armi e droga, il giudice Palermo chiese 'spontaneamente' di essere trasferito da Trento alla Procura di Trapani. La città dalle mille banche non ha un palazzo di giustizia funzionante, quello vecchio è cadente, quello nuovo è in costruzione dal 1958 e la Dc domina la città. Carlo Palermo è andato a prendere il posto di Ciaccio Montalto, il Procuratore assassinato dalla mafia perché stava seguendo la pista del traffico di droga internazionale. Anche Ciaccio Montalto, sentendosi completamente isolato a Trapani e a Roma, chiese di lasciare la Sicilia per trasferirsi a Firenze, da dove avrebbe voluto proseguire le indagini, seguendo una pista che collegava la famiglia Minore con uno dei cavalieri del lavoro, Carmelo Costanzo. Prima di andarsene, nel dicembre 1982, da una serie di intercettazioni telefoniche trovò le prove che un Procuratore della repubblica, Enzo Costa (poi arrestato) era un uomo della mafia, legato ai Minore. Un mese dopo, il 25 gennaio 1983, alcuni killer venuti dagli Usa, assieme ai trapanesi, assassinarono il giudice Montalto. In passato, Ciaccio Montalto si era scontrato coi politici locali, mettendo sotto accusa gli ex parlamentari dc Diego Playa, consigliere provinciale, Giuseppe Magaddino e il repubblicano Francesco Grimaldi. I fratelli Minore, accusati di essere i mandanti dell'assassinio di Montalto, opportunamente avvertiti, sono riusciti a fuggire e sono tuttora latitanti, dopo che furono assolti grazie all'intervento del Procuratore Enzo Costa. L'indagine innescata dal giudice assassinato era però destinata ad avere un seguito. Le bobine delle intercettazioni telefoniche da lui ordinate (ben 26) furono fatte sparire dal commissario Collura. Le ritrovò, parecchio tempo dopo, il Procuratore capo di Caltanissetta, Patanè, che le consegnò a quello di Trapani, Lumia. Quest'ultimo, in procinto di essere trasferito per procedimento disciplinare dal Csm a causa dei suoi rapporti con il Procuratore Costa, probabilmente per rivalsa nei confronti dei politici, diede incarico al nuovo arrivato, Carlo Palermo, di occuparsi appunto delle intercettazioni telefoniche. Le conseguenze furono immediate: Carlo Palermo fece incarcerare Calogero Favata, un finanziere della mafia, Salvatore Bulgarella, presidente dei giovani industriali siciliani e legato al clan dei Minore. In galera finiscono anche un funzionario dell'Agip, Jano Cappelletto, ed un armatore di Messina, Antonio Micali, accusati di voler acquisire con tangenti l'esclusiva per i collegamenti con la piattaforma dell'ente petrolifero. Colpiti i personaggi minori, Carlo Palermo si trovò nuovamente sulla pista dei politici. Infatti, su Panorama del 15 aprile 1985, sono stati indicati i nomi di costoro, menzionati nelle intercettazioni che il giudice Patanè ha provveduto ad inviare alla Procura generale di Palermo.

Essi sono: Francesco Camino, dc; Aldo Baffi, dc; Domenico Cangelosi, dc; Calogero Mannino, dc; Guido Bodrato, dc; Aristide Gunnella, Pri; Gianni De Michelis, Psi; Vincenzo Costa, Psdi. Le registrazioni avevano dormito per lungo tempo, con l'arrivo di Palermo si sono messe in moto le inchieste, anche quelle della Guardia di finanza sui fondi neri e le false fatturazioni dei cavalieri Rendo, Costanzo, Graci, industriali da tempo in odore di mafia, che nessuno aveva mai osato inquisire. Il Procuratore capo Lumia, in procinto di andarsene, avocò a sé l'inchiesta riguardante i cavalieri del lavoro che Palermo chiedeva di arrestare. Alcuni giorni dopo, il 2 aprile 1985, è avvenuto l'attentato contro Carlo Palermo.

Il seguito lo conosciamo, sono partiti i mandati di cattura contro Rendo, Costanzo, Graci. Puntualmente, sono arrivati dal Palazzo gli inviti a Carlo Palermo perché desista, arrivano anche le reazioni indignate della Confindustria e dei Cdf delle industrie di proprietà degli arrestati, preoccupati per l'economia dell'isola e per il posto di lavoro. Mentre il Tribunale di Venezia conferma l'istruttoria di Palermo contro 33 mafiosi italiani e turchi, rincarando la dose delle accuse ed emettendo nuovi mandati di cattura, e viene scoperta un'importante raffineria di morfina base a Castellammare del Golfo (Trapani), gli avvocati dei pezzi da novanta, profittando del discredito buttato sul giudice, tentano di far saltare il processo. Dopo aver subito l'attentato, Palermo ha dovuto denunciare ancora una volta l'isolamento nel quale lo Stato lo lascia, riducendogli addirittura la scorta ed ha aggiunto che la mafia e i servizi segreti "hanno formato un potere parallelo pericolosissimo" per le stesse istituzioni. Fatto gravissimo, Bettino Craxi, spalleggiato dal ministro degli Interni Scalfaro, è nuovamente sceso in campo contro il neo sostituto Procuratore di Trapani, esprimendo preoccupazione per i mandati di cattura emessi da Palermo (contro i Rendo, Graci, Costanzo, Parasiliti) durante il suo discorso di fronte all'Assemblea regionale siciliana, il 30 aprile 1985. Il gioco del segretario del Psi e presidente del Consiglio si fa sempre più scoperto e pesante, segno di nervosismo e difficoltà.

Il seguito.

L’assoluzione degli inquisiti in sede giudiziaria avvenne in passaggi successivi. In primo grado, il Tribunale di Venezia, cui fu assegnata la cognizione della causa dalla corte di Cassazione, dopo 30 udienze e 10 ore di camera di consiglio, mandò assolti 22 imputati, condannandone altri 9 : Glauco Partel, a 7 anni e 8 mesi più la interdizione dai pubblici uffici per associazione a delinquere e violazioni della legge sulle armi del 1967; con le stesse accuse Carlo Bertoncini a 6 anni, Ivan Galileos a 5 anni e 4 mesi, Renato Gamba a 5 anni e 8 mesi; a pene più lievi sotto il profilo delle sole violazioni di legge, lo spedizioniere Vincenzo Giovannelli a 3 anni, a 2 anni e 8 mesi ciascuno Vincenzo Corteggiani, il colonnello Massimo Pugliese, il turco – tedesco Ertem Tegmen e il siriano Nabil Moahamed Al Maradni (sentenza del 1 febbraio 1988, presidente Giuseppe La Guardia, p.m. Nelson Salvarani). Contro la sentenza di primo grado si appellarono i 9 condannati e la Corte d’appello di Venezia assolse anche loro con la motivazione della insussistenza, per i primi 4, della associazione a delinquere e, per tutti, che ‘il fatto non costituisce reato’ in merito alle violazioni della legge sulle armi ritenute in primo grado. La Corte accolse le tesi avanzate dallo stesso rappresentante dell’accusa, Ennio Fortuna, secondo cui la intermediazione destinata allo smercio di armi non è prevista come reato dalla legge italiana se concerne gli stati esteri, senza transito in Italia, né abbisogna in questo caso di autorizzazioni; alle tesi del p.m. si rimisero i difensori, rinunciando alle arringhe in aula (sentenza del 12 aprile 1989, presidente Giuseppe Di Leo).  

Mentre era in corso il processo a Venezia e nei giorni della sentenza, la stampa pur riferendone dava maggior risalto ad altri fatti, quali gli attacchi di Martelli a Leoluca Orlando che si apprestava ad aprire le porte di ‘Palazzo delle Aquile’ al Pci, e l’esito del terzo processo contro ‘Cosa nostra’ a Palermo, che il 15 aprile 1989 mandò assolti i componenti della cosiddetta ‘cupola’ (fra cui i Greco, Provenzano, Riina) così che l’esito del processo ‘armi e droga’ non suscitò particolare clamore. Esito peraltro quasi scontato in un Paese come l’Italia che non criminalizza né la intermediazione né il commercio di armamenti ma li protegge in conformità con i propri fini politici, non certo pacifici, e l’inserimento nella Nato.

Appena intervenuta l’assoluzione, l’ex ufficiale dei carabinieri Massimo Pugliese che ha smentito di aver trafficato in armi, asserendo la non veridicità del rapporto del servizio che lo indicava come personaggio centrale nel traffico e fu alla base della sua incriminazione, iniziò una lunga polemica contro il giudice Palermo, dai toni accesissimi, sia in sede giornalistica che giudiziaria, denunciandolo unitamente ai giudici che collaborarono all’inchiesta, con l’accusa di essere un “sequestratore” per aver fatto carcerare innocenti e financo della morte di Arsan, avvenuta in carcere per cardiopatia, il che definisce “omicidio bianco”. Citò inoltre a giudizio gli allora ministri delle Finanze Colombo, della Difesa  Zanone e il presidente del Consiglio De Mita, nell’intento di ottenere un risarcimento di 9 miliardi, giungendo per non aver trovato ascolto in Italia, fino alla corte di Strasburgo. Più interessante è l’oggetto di una ulteriore denuncia, anch’essa archiviata dal Tribunale dei ministri, contro gli on. Spadolini e Capria per “180 miliardi trasferiti a Zurigo, con l’autorizzazione dell’on. Spadolini, come compenso di mediazione a M. Al Talal per le navi da guerra ‘vendute’ all’Iraq, che non le pagò e le lasciò sul gobbo di Pantalone per 2.500 miliardi di lire” (cfr. il suo volume Perché nessuno fermò quel giudice editrice Adriatica e La rivincita del colonnello, ne L’Espresso 5 marzo 1989).  Il giudice Palermo dal canto suo, continuò a difendere la sua inchiesta non nascondendo l’amarezza per l’esito finale, e a denunciare i traffici di armi e droga anche in sede politica (fu deputato della Rete) e giornalistica (cfr. fra gli altri i servizi pubblicati da  Avvenimenti il 2 ottobre 1991 Ecco il cuore dei crimini di Stato. Le banche dei servizi segreti che prende spunto dallo scandalo della Bbci, e il 19 febbraio 1992). Egli si è ritirato dalla magistratura per esercitare la professione. La sua inchiesta è pubblicata per ampi stralci in Armi e droga. L’atto di accusa del giudice Carlo Palermo, Editori riuniti 1988, con saggio introduttivo di Pino Arlacchi ed è descritta nelle varie fasi fino alla vigilia dell’esito assolutorio, in Fermate quel giudice, di Maurizio Struffi e Luigi Sardi, Reverdito editore, Trento 1986.

PALERMO: DALLA MASSONERIA ALLA MAFIA.

Da quanto si apprende da “La Repubblica” la struttura organizzativa della massoneria italiana subisce una radicale mutazione durante il Risorgimento. L'esoterismo e la speculazione filosofica sono messi in secondo piano sovrastati dai processi politici e sociali di costruzione dell'Unità d'Italia. Il nuovo corso massonico in Sicilia nasce con la scelta di Garibaldi di fondare nel 1860 il "Supremo Consiglio Grande Oriente d'Italia di rito scozzese antico e accettato Valle dell'Oreto sedente all'Oriente di Palermo" assumendone la guida (in una sola seduta è investito di tutti i gradi del Rito Scozzese, dal 4° al 33°). Il progetto è di creare un soggetto politico che, facendo perno su Palermo, supporti il processo che porterà all'unità d'Italia con Roma capitale. Il gran maestro Garibaldi, infatti, in un suo decreto del 1865 ribadisce che il Grande Oriente d'Italia ha «sede provvisoria a Palermo, finché Roma non sia capitale degli Italiani». I massoni siciliani, sotto l'attenta regia di Crispi, plaudono formalmente al progetto di Garibaldi, ma, di fatto, si rendono conto che non possono essere il motore dell'unificazione dei liberi muratori italiani e preferiscono ripiegare sulla dimensione regionale consolidando una struttura alla quale si affida la costruzione del consenso elettorale di Crispi e del partito democratico. È quanto emerge dalla lettura di alcuni fascicoli dell'archivio dell'Oriente palermitano ritrovati casualmente e contenenti una documentazione che va dal 1861 al 1900. Il braccio operativo di Francesco Crispi, maestro venerabile ad vitam 33, a Palermo è Giovan Battista Chianello barone di Boscogrande, maestro venerabile 33 della Loggia Centrale, non solo consigliere provinciale e comunale, ma anche responsabile della segreteria elettorale del presidente del Consiglio. La sua capacità organizzativa è messa alla prova soprattutto nelle elezioni anticipate del 1892: Crispi e il suo gruppo sono in affanno in quanto gli avversari si battono contando sull'appoggio dei presidenti del Consiglio Rudinì prima e Giolitti poi. Boscogrande agisce, in continuo contatto epistolare e telegrafico con Crispi, con grande accortezza raccordando l'impegno dei fratelli con quello dei profani. Sul fronte della massoneria il 28 maggio 1892 organizza un incontro con il maestro venerabile Francesco Crispi 33° presso «il punto geometrico accessibile solo ai liberi muratori regolari della Massoneria universale» (Tempio massonico), posto in via Biscottari nel palazzo Conte Federico, alla presenza dei fratelli delle Logge: Centrale (maestro venerabile Chianello di Boscogrande 33°), Alighieri (maestro Carmelo Trasselli 33°), Risveglio (Giovanni Lucifora 33°), Triquetra (Giuseppe Masnata 30°), Ercta (Francesco Paolo Tesauro 30°), Cosmos (Giorgio Maggiacono 18°). La lettura del resoconto degli interventi della serata fornisce un vivido ritratto delle posizioni politiche sia di Crispi sia dei massoni che operano su Palermo. Boscogrande, inoltre, organizza comitati, promuove banchetti elettorali come quello che si svolgerà all' hotel delle Palme con presenze significative come quelle di Girolamo Ardizzone direttore del Giornale di Sicilia, di Artese direttore del Corriere del Mattino, di Michele Serra direttore dell'Amico del Popolo o dell'avvocato Gioacchino Seminara. L' obiettivo è quello di raccogliere fondi per la campagna elettorale affidandone la tesoreria al fratello massone Napoleone La Farina. Il giorno delle elezioni segue lo spoglio e invia il seguente telegramma a Crispi: «Congratulazioni auguri sinceri a vostra eccellenza rieletto con voti 2138». In realtà, i risultati non sono esaltanti: Crispi è eletto, ma Muratori, altro candidato crispino, soccombe sotto i colpi dello spregiudicato Trabia. Crispi, nel frattempo, si era reso conto che il progetto di Garibaldi di utilizzare l'Oriente palermitano come strumento per il processo di unificazione della massoneria italiana era diventato impraticabile e appoggia il progetto di un Grande Oriente romano al quale aderiscano tutte le altre realtà regionali. Nel 1877 Tamajo, massone di sicura fede crispina (senatore prima e prefetto poi), quale rappresentante della Comunione massonica italiana sedente in Roma, e l'avvocato Pietro Messineo 33, in nome del Grande Oriente d'Italia sedente a Palermo, stipulano un concordato in base al quale l'Oriente di Palermo è dichiarato Sezione del Supremo Consiglio della massoneria italiana sedente in Roma capitale della nazione. Tra le adesioni si trovano numerosi protagonisti della politica palermitana quali il senatore Gaetano La Loggia, l'avvocato Pietro Messineo, Camillo Finocchiaro Aprile, il principe Pietro Vanni di San Vincenzo. Un altro filone che emerge dalle carte dell'Oriente palermitano è quello relativo alla sua attenzione nei confronti della vita universitaria. Il barone di Boscogrande diventa interlocutore privilegiato del mondo accademico siciliano per due motivi: il primo per interloquire con il Consiglio superiore della pubblica istruzione per la gestione dei concorsi; il secondo per governare i finanziamenti che il Comune e la Provincia di Palermo danno al Consorzio costituito per la realizzazione di laboratori scientifici. Le affiliazioni alla Loggia Centrale di professori universitari sono numerose fra le quale si trova traccia di quella del professor Damiano Macaluso, ordinario di fisica, che si affilia nel settembre del 1888 e ha come garante il confratello 30 professore Gaetano Giorgio Gemmellaro. I massoni Gemmellaro (1874-76 e 1880-83) e Macaluso (1890-93) saranno eletti Magnifici Rettori, mentre Boscogrande, come maestro venerabile della Loggia Centrale, diventa il referente per la gestione degli "affari" universitari. Il vissuto dell'Oriente di Palermo non è soltanto gestione del potere, ma anche scontro politico sul programma, sul processo di riunificazione, sulle alleanze. La spedizione dei Mille spazza via non solo i borbonici, ma anche il vissuto delle logge dei liberi muratori del Settecento siciliano intorno al quale si aggrega la cultura democratica siciliana e il complesso progetto riformatore che fa capo a viceré massoni come Caracciolo e Caramanico. Garibaldi è colui che apparentemente si carica della responsabilità di avviare il cambiamento, ma, in realtà, queste carte permettono di ipotizzare un'ipotesi di ricerca che veda in Crispi il vero motore del progetto di rifondazione massonica in Sicilia.

Ma cosa ha sviluppato tanto impegno della massoneria in Sicilia?!?

Dalla stampa si apprende che otto persone tra poliziotti, medici, imprenditori, boss e iscritti a logge massoniche sono stati arrestati dai carabinieri di Trapani e Agrigento in diverse città. L'accusa è di essersi accordati per ottenere di ritardare l'iter giudiziario di alcuni processi in cui erano imputati affiliati a cosche delle due città siciliane. I provvedimenti sono stati emessi dal gip del tribunale di Palermo. Gli arrestati, tra i quali figurano un'agente della polizia di Stato, un ginecologo di Palermo, imprenditori di Agrigento e Trapani, un impiegato del ministero della Giustizia in servizio ad una cancelleria della Cassazione e un faccendiere originario di Orvieto, sono tutti accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione in atti giudiziari, peculato, accesso abusivo in sistemi informatici giudiziari e rivelazione di segreti d'ufficio. L'operazione, per la quale sono state anche svolte decine di perquisizioni, è stata denominata "Hiram", vede impegnati anche i carabinieri, non solo di Agrigento e Trapani, ma anche quelli di Palermo, Roma e Terni. Dall'inchiesta emerge che boss mafiosi, grazie all'aiuto di persone appartenenti a logge massoniche, avrebbero ottenuto di ritardare l'iter giudiziario di alcuni processi in cui erano imputati affiliati a cosche di Trapani e Agrigento. L'indagine ha preso il via da accertamenti svolti sulle famiglie mafiose di Mazara del Vallo e Castelvetrano, in provincia di Trapani. Oltre alle perquisizioni controlli vengono svolti anche su conti correnti bancari intestati agli indagati. Avviso di garanzia a un sacerdote. I pm hanno inviato un avviso di garanzia anche a un sacerdote, gesuita, con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Il religioso vive a Roma. La sua abitazione è stata perquisita. Secondo l'accusa il prete, su indicazione di uno degli indagati, avrebbe predisposto lettere inviate a giudici, al fine di condizionare l'esito di procedimenti penali nei quali erano coinvolti esponenti vicini a Cosa nostra. Il peso e l'autorevolezza del sacerdote che apponeva la sua firma alle lettere inviate ai magistrati, per l'accusa avrebbero influito sull'esito dei ricorsi giurisdizionali proposti a diverse autorità giudiziarie. Perquisiti gli uffici della Cassazione. Nell'ambito della stessa operazione sono state effettuate anche perquisizioni in alcuni uffici della Cassazione. Secondo quanto si apprende da indiscrezioni, fra le persone arrestate vi sarebbe anche un impiegato del ministero della Giustizia in servizio proprio in una cancelleria della Cassazione.

E non è tutto.

Un'analisi organica dei rapporti fra massoneria deviata e cosche mafiose è contenuta nella relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante.

"Il terreno fondamentale sul quale si costituiscono e si rafforzano i rapporti di Cosa nostra con esponenti dei pubblici poteri e delle professioni private è rappresentato dalle logge massoniche. Il vincolo della solidarietà massonica serve a stabilire rapporti organici e continuativi". Questo il punto di partenza dell'analisi proposta.

"L'ingresso nelle logge di esponenti di Cosa nostra, anche di alto livello, non è un fatto episodico ed occasionale, ma corrisponde ad una scelta strategica - spiega la Commissione antimafia - Il giuramento di fedeltà a Cosa nostra resta l'impegno centrale al quale gli uomini d'onore sono prioritariamente tenuti. Ma le affiliazioni massoniche offrono all'organizzazione mafiosa uno strumento formidabile per estendere il proprio potere, per ottenere favori e privilegi in ogni campo; sia per conclusione di grandi affari sia per "l'aggiustamento" dei processi, come hanno rivelato numerosi collaboratori di giustizia. Tanto più che gli uomini d'onore nascondono l'identità dei "fratelli" massonici ma questi ultimi possono anche non conoscere la qualità di mafioso del nuovo entrato" (punto 57 della citata Relazione). 

Rapporti fra Cosa nostra e massoneria sono comunque emersi anche nell'ambito dei lavori di altre due Commissioni parlamentari d'inchiesta: quella sul caso Sindona e quella sulla loggia massonica P2, che già avevano approfondito la vicenda del finto rapimento del finanziere e della sua permanenza in Sicilia dal 10 agosto al 10 ottobre 1979. Agli atti, le indagini della magistratura milanese e di quella palermitana, che avevano svelato i collegamenti di Sindona con esponenti mafiosi e con appartenenti alla massoneria. Il finanziere era stato aiutato da Giacomo Vitale, cognato di Stefano Bontade, capomafia della famiglia palermitana di Santa Maria di Gesù e da Joseph Miceli Crimi: entrambi aderenti ad una comunione di Piazza del Gesù, "Camea" (Centro attività massoniche esoteriche accettate).

Nel gennaio 1986 la magistratura palermitana dispone una perquisizione e un sequestro presso la sede palermitana del Centro sociologico italiano, in via Roma 391. Vengono sequestrati gli elenchi degli iscritti alle logge siciliane della Gran Loggia d'Italia di Piazza del Gesù. Fra gli iscritti figurano i nomi dei mafiosi Salvatore Greco e Giacomo Vitale. 

Nel mese di gennaio dello stesso anno, la magistratura trapanese dispone il sequestro di molti documenti presso la sede del locale Centro studi Scontrino. Il centro, presieduto da Giovanni Grimaudo, era anche la sede di sei logge massoniche: Iside, Iside 2, Osiride, Ciullo d'Alcamo, Cafiero, Hiram. L'esistenza di un'altra loggia segreta trova poi una prima conferma nell'agenda sequestrata a Grimaudo, dove era contenuto un elenco di nominativi annotati sotto la dicitura "loggia C". Tra questi, quello di Natale L'Ala, capomafia di Campobello di Mazara. Nella loggia Ciullo d'Alcamo risultano essere affiliati: Pietro Fundarò, che operava in stretti rapporti con il boss Natale Rimi; Giovanni Pioggia, della famiglia mafiosa di Alcamo; Mariano Asaro. Nel processo, vari testimoni hanno concordato nel sostenere l'appartenenza alla massoneria di Mariano Agate, capomafia di Mazara del Vallo. Alle sei logge trapanesi e alla loggia "C" erano affiliati imprenditori, banchieri, commercialisti, amministratori pubblici, pubblici dipendenti, uomini politici (la Commissione antimafia, nella citata relazione, ricorda come l'onorevole democristiano Canino, nell'estate del '98 arrestato per collusioni con Cosa nostra, abbia ammesso l'appartenenza a quella loggia, pur non figurando il suo nome negli elenchi sequestrati). 

Già nel processo di Trapani e poi successivamente in quello celebrato nel '95 a Palermo contro Giuseppe Mandalari (accusato di essere il commercialista del capo della mafia, Totò Riina) sono emersi contatti fra le consorterie mafiose e massoniche di Palermo e Trapani. Mandalari, "Gran maestro dell'Ordine e Gran sovrano del rito scozzese antico e accettato" avrebbe concesso il riconoscimento "ufficiale" alle logge trapanesi che facevano capo a Grimaudo. 

Le indagini sui rapporti mafia-massoneria continuano. Seppur fra tante difficoltà. L'unica condanna al riguardo, ottenuta dai pm palermitani Maurizio De Lucia e Nino Napoli, riguarda proprio Pino Mandalari, il commercialista di Riina attivo gran maestro. Solo nel febbraio del 2002, è stata sancita in una sentenza la pesante influenza dei "fratelli" delle logge sui giudici popolari di un processo di mafia: la Corte d'assise stava seguendo il caso dell'avvocato palermitano Gaetano Zarcone, accusato di avere introdotto in carcere la fiala di veleno che doveva uccidere il padrino della vecchia mafia Gerlando Alberti. Non è stata facile la ricostruzione del pm Salvatore De Luca e del gip Mirella Agliastro, che poi ha emesso sette condanne: non c'erano mai minacce esplicite, solo garbati consigli a un "atteggiamento umanitario". Questo il volto delle intimidazioni tante volte denunciate. 

Il caso più inquietante di cui si sono occupate le indagini è quello di una misteriosa fratellanza, la Loggia dei Trecento, anche detta Loggia dei Normanni. Il pentito Angelo Siino ha fugato ogni dubbio: il divieto per gli aderenti a Cosa nostra di fare parte della massoneria restò sempre sulla carta. "Le regole erano un po' elastiche - spiega - come la regola che non si devono avere relazioni extraconiugali". Erano soprattutto i boss della vecchia mafia, Stefano Bontade e Salvatore Inzerillo, ad avere intuito l'utilità di aderire alle logge.

Rosario Spatola seppe da Federico e Saro Caro che Bontade "stava cercando di modernizzare Cosa nostra. Vedeva più in là, vedeva la potenza della massoneria, e magari riteneva di potere usare Cosa nostra in subordine, come una sorta di manovalanza". Per questo aveva creato una sua loggia. Era appunto la Loggia dei Trecento. Anche Siino riferisce di "averne sentito parlare: si diceva che ne facevano parte parecchi personaggi quali i cugini Salvo, Totò Greco "il senatore" e uomini delle istituzioni. La loggia non era ufficiale e non aderiva a nessuna delle due confessioni, né a quella di Piazza del Gesù né a quella di Palazzo Giustiniani".

Correvano a Palermo i ruggenti anni Settanta. Il pentito Spatola conferma il ruolo di Bontade come gran maestro della Loggia dei Trecento. E spiega: "Ne facevano parte soggetti appartenenti alle categorie più disparate, e per questo era molto potente. E troppa potenza si era creata anche attorno a Stefano Bontade, per questo andava eliminato lui ma anche la loggia". Il 23 aprile 1981, Bontade fu ucciso dai corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ha svelato Spatola che fu proprio Provenzano, capo dell'organizzazione mafiosa, a prendere l'iniziativa di sciogliere la Loggia dei Trecento. Particolare davvero inedito e curioso. Quale autorità aveva mai don Bernardo per intervenire d'autorità su una fratellanza tanto riservata? Forse era massone anche lui? Forse, già allora, aveva ben presenti rapporti e complicità eccellenti che da lì a poco avrebbero fatto a gara per riposizionarsi e ingraziarsi i nuovi potenti?

LE RIVELAZIONI DEI COLLABORATORI DI GIUSTIZIA

Tommaso Buscetta
Nel 1984 parla per la prima volta del rapporto fra mafia e massoneria nel contesto del tentativo golpista di Junio Valerio Borghese del dicembre 1970.
Il collegamento tra Cosa nostra e gli ambienti che avevano progettato il colpo era stato stabilito attraverso il fratello massone di Carlo Morana, uomo d'onore. 
La contropartita offerta a Cosa nostra consisteva nella revisione di alcuni processi.

Leonardo Messina
Sostiene che il vertice di Cosa nostra sia affiliato alla massoneria: Totò Riina, Michele Greco, Francesco Madonia, Stefano Bontade, Mariano Agate, Angelo Siino (oggi collaboratore di giustizia pure lui). Ritiene che spetti alla Commissione provinciale di Cosa nostra decidere l'ingresso in massoneria di un certo numero di rappresentanti per ciascuna famiglia.

Gaspare Mutolo
Conferma che alcuni uomini d'onore possono essere stati autorizzati ad entrare in massoneria per "avere strade aperte ad un certo livello" e per ottenere informazioni preziose ma esclude che la massoneria possa essere informata delle vicende interne di Cosa nostra. Gli risulta che iscritti alla massoneria sono stati utilizzati per "aggiustare" processi attraverso contatti con giudici massoni. 

Le conclusioni della Commissione antimafia presieduta da Luciano Violante:
"Il complesso delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia appare essere concordante su tre punti:
- intorno agli anni 1977-1979 la massoneria chiese alla commissione di Cosa nostra di consentire l'affiliazione di rappresentanti delle varie famiglie mafiose; non tutti i membri della commissione accolsero positivamente l'offerta; malgrado ciò alcuni di loro ed altri uomini d'onore di spicco decisero per motivi di convenienza di optare per la doppia appartenenza, ferma restando la indiscussa fedeltà ed esclusiva dipendenza da Cosa nostra;
- nell'ambito di alcuni episodi che hanno segnato la strategia della tensione nel nostro paese, vale a dire i tentativi eversivi del 1970 e del 1974, esponenti della massoneria chiesero la collaborazione della mafia;
- all'interno di Cosa nostra era diffuso il convincimento che l'adesione alla massoneria potesse risultare utile per stabilire contatti con persone appartenenti ai più svariati ambienti che potevano favorire gli uomini d'onore".

Cosa ne è scaturito da tutto ciò?

Alla Regione Sicilia finora si andava dal peculato alla concussione, dal voto di scambio all’intestazione fittizia di beni. Stavolta scattano la frode e l’esercizio abusivo dell’attività finanziaria con gli ultimi due deputati della Regione Sicilia finiti nella maglie di un’inchiesta giudiziaria. Due deputati del Pdl, Roberto Corona in cella e Fabio Mancuso ai domiciliari. Da aggiungere ai 26 già inquisiti fino a ottobre, quando il deputato Mario Bonomo di «Alleati per la Sicilia» risultò indagato per concussione nell’ambito dell’inchiesta in cui era stato già arrestato a marzo il suo ex compagno del Pd Gaspare Vitrano, fermato mentre intascava una mazzetta di dieci mila euro da un imprenditore del fotovoltaico.

Si sta per sfiorare così il record del 30 per cento di inquisiti nel parlamento più antico del mondo dove il presidente Francesco Cascio cerca di spingere il dibattito e il disegno di legge sulla riduzione degli “onorevoli” siciliani da 90 a 70. Ma intanto lo spettacolo è sempre più indecoroso nella regione che ha visto condannare per mafia il governatore Totò Cuffaro e che da un anno e mezzo è in fibrillazione per il suo successore, Raffaele Lombardo, indagato per favori alla mafia dalla procura di Catania che ne ha poi chiesto l’archiviazione.

Si arriva al paradosso che i finanzieri della Polizia Valutaria in collaborazione con lo Scico notifichino un ordine di custodia ai domiciliari a un loro ex collega, appunto Fabio Mancuso, un tempo maresciallo della Guardia di Finanza impegnato nella caccia alle cooperative fasulle e ai dirigenti corrotti. Ormai considerato un problema e non certo una risorsa per le Fiamme Gialle, tre legislature all’Assemblea debbono aver lasciato il segno. Come è accaduto per l’onorevole Vitrano, anch’egli parlamentare da guinness dei primati visto che non s’era mai visto un deputato in “esilio” a Roma, con “obbligo di dimora fuori dalla Sicilia”. Lui fa parte del drappello dei quattro finiti dentro negli ultimi tre anni. Un panorama desolante se si considera che c’è pure chi, come il deputato di Forza del Sud Franco Mineo, è addirittura ritenuto prestanome dei boss del quartiere palermitano dell’Acquasanta.

Ma ci sono altre cose che non si sanno.

Sono le 12.48. E' il 18 aprile 2011, un lunedì. Sul Pianoro di Colle San Marco, luogo di scampagnate e di giochi sopra Ascoli Piceno, un uomo si aggira disperato. Tiene in braccio una bambina e cerca sua moglie. L’uomo è il caporalmaggiore dell’esercito Salvatore Parolisi, la donna scomparsa è Carmela Rea, che tutti chiamano familiarmente Melania.

"Lo strano caso di Melania Rea" (edito da da Fivestore - R.T.I S.p.A e collana di una serie di Quarto Grado) è il primo libro su un mistero fatto di bugie, tradimenti, segreti. Un delitto che divide l'Italia.

Tutto parte da una misteriosa sparizione e dal successivo ritrovamento del cadavere. Da lì, da quel bosco, inizia uno dei casi più intricati, contraddittori delle nostre cronache giudiziarie, un giallo in cui tradimenti, segreti, bugie e sesso sfociano purtroppo in un finale orribile. La penna è quella attenta di un abile scrittore e cronista di nera, Antonio Delitala, giornalista professionista, saggista, che è mancato all’improvviso poco prima di veder pubblicata la sua opera. “Scrivere di un delitto non è motivo di morbosità. E' il desiderio di capire le cose, di scoprire l’umanità sofferente che li ha generati”. Particolari inediti, trascrizioni degli interrogatori, confessioni di Salvatore Parolisi (unico indiziato dell’omicidio di sua moglie) allo stesso Delitala, arricchiscono il racconto di questo giallo che è ancora un mistero assoluto della cronaca nera italiana. Lo Strano Caso Di Melania Rea non è dunque solo un triste eufemismo col quale appellare uno dei casi di cronaca nera più tremendi ed inspiegabili dell’ultimo anno. E’ una tragedia che porta a sondare i numerosi dubbi che l’opinione pubblica si pone sulle coincidenze e le contraddizioni del caso. Ma soprattutto è un libro in cui l'autore cerca di mostrare l’interiorità di Salvatore Parolisi, un Parolisi diverso e leggermente psicanalizzato da colui il quale era diventato suo speciale confidente, Antonio Delitalia appunto, un giornalista che si era appassionato al caso dell’omicidio Rea ed aveva da sempre portato avanti l’innocenza del Parolisi. Si mostra nel testo tutta la visione più sofferente di un Parolisi che ha vissuto barcamenandosi tra due storie incompatibili, quella con la moglie e quella con l’amante. E, tra sogni premonitori ed incubi nei quali rivede il volto della moglie, Parolisi non sembra chiarire i punti ancora oscuri di questa vicenda. Ed è proprio questo non saper spiegare o non voler spiegare a rendere poco credibile la sua innocenza.

"Scarsa sensibilità per il dolore di una famiglia che ancora non si capacita della perdita di Melania", spiega l'avvocato Mauro Gionni per esprimere il proprio disappunto circa l'iniziativa dei giornalisti Ilaria Mura e Antonio Delitala. Questi ultimi hanno infatti realizzato il progetto di pubblicazione del volume "Lo strano caso di Melania Rea", in cui si narra delle vicende relative all'omicidio della giovane donna di Somma Vesuviana scomparsa il 18 Aprile e ritrovata accoltellata dopo due giorni nel Bosco delle Casermette in zona Ripe di Civitella. Il rappresentante legale di parte dei Rea ha chiarito che il libro è "una pubblicazione inopportuna, considerando che le indagini sono ancora in corso, e che - sostiene l'avvocato - contiene solo riferimenti ad atti parziali, frasi mai dette, o comunque riportate non fedelmente di agenti, avvocati, e altri.

L'uomo, secondo quanto riferito dai colleghi del caporalmaggiore, mentre amici e parenti cercavano la povera Melania, trascorreva le sue ore in caserma. Gli stessi colleghi hanno suggerito a Parolisi: "Forse tua moglie aveva una relazione con un altro uomo, forse è scappata con un altro". I militari, peraltro, alle forze dell'ordine nel corso di un interrogatorio hanno riferito che Parolisi tra il 18 e il 20 era molto preoccupato in parte per la scomparsa della moglie, ma soprattutto per la possibilità che le recenti vicissitudini potessero portare allo scoperto le relazioni extraconiugali che intratteneva con altre donne.

Nel corso delle indagini è stato sentito l'ex sostituto procuratore aggiunto di Roma, Paolo Ferraro; il suddetto aveva portato avanti delle indagini sulle eventuali presenze massonico-sataniche entro l'ambito militare. Per dar credito alle testimonianze raccolte, l'uomo sarebbe stato sottoposto a due perizie psichiatriche che l'hanno identificato come individuo sano di mente. Tali accertamenti si sono resi necessari in quanto il Consiglio superiore della magistratura lo aveva sospeso per quattro mesi per presunta infermità mentale.

Secondo quanto dichiarato dall'uomo, le sue problematiche si sarebbero sviluppate in concomitanza con l'inizio di quel tipo di indagini all'interno del contesto militare nella caserma romana della Cecchignola. Ferraro, in presenza dei pm Davide Rosati e Greta Aloisi, ha dichiarato di aver visto una donna molto simile alla vittima in prossimità della Procura di Roma un po' di tempo prima della inspiegabile scomparsa. Non è ancora stata resa nota l'attendibilità delle dichiarazioni, ma tale avvenimento potrebbe trovar riscontro nella dichiarazione rilasciata da una amica di Melania, Imma Rosa, la quale aveva sostenuto che la donna dopo aver scoperto la relazione extraconiugale del marito con una collega di lavoro, aveva in un primo momento pensato al suicidio e successivamente pensato di procedere per via offensiva denunciando pubblicamente la storia dei due amanti. 

Obiettivamente la denuncia avrebbe danneggiato a livello lavorativo tanto il marito della vittima, Salvatore Parolisi, quanto la sua amante, Ludovica Perrone. Quest'ultima avrebbe infatti riferito agli inquirenti di aver ricevuto minacce dalla vittima nel corso di una conversazione telefonica.

Unico indagato del delitto è il marito della vittima, il caporalmaggiore Parolisi, con l'accusa di omicidio. Intanto vi è un evento strano a danno degli investigatori. É un lavoro da esperti professionisti, ribadiscono gli investigatori: sono state prese di mira due colonne della magistratura e delle forze dell'ordine teramane. Il maresciallo ha condotto le indagini per tutti gli eventi criminosi avvenuti a Teramo. Il giudice ha esaminato il caso Enichem, l'omicidio Fadani e Rea. Nella notte tra venerdì 18  e sabato 19 novembre 2011 chi ha cosparso di benzina le auto lo ha fatto in modo per così dire professionale, professionisti che hanno operato sapendo esattamente cosa e come fare,  ben conoscendo i possessori delle due macchine parcheggiate in via Colombo e via Brescia a Martinsicuro. Marina Tommolini, è stata giudice monocratico a Giulianova e Teramo prima di diventare giudice per le indagini preliminari. È stata anche pretore a Manfredonia, si è occupata di indagini importanti legate alla Enichem, e dell'omicidio Fadani, ed è anche il gip che si dovrà occupare del caso di Salvatore Parolisi. Il maresciallo Spartaco De Cicco è un uomo di spicco del reparto operativo provinciale dei carabinieri. Ha condotto le indagini su tutti gli omicidi degli ultimi tempi, dal caso Fadani a quello di Adele Mazza. Oltre che a vaste operazioni antidroga effettuate in provincia. Gli orari del doppio attentato si possono desumere dalle telefonate di allarme giunte ai vigili del fuoco: la prima alle 5.14, quando in via Brescia brucia l’Audi A4 del maresciallo De Cicco poi alle 5.35,  l'allarme per l'incendio in via Colombo che interessa l’Audi A6 bianca del magistrato. I piromani hanno scavalcato il recinto di cemento cospargendo di benzina la vettura, immediatamente prendono fuoco carrozzeria e pneumatici. In seguito all'allarme giungono il prima possibile i vigili del fuoco da Teramo, Nereto e Roseto degli Abruzzi spegnendo il rogo, ma oramai le auto sono carbonizzate. Le indagini si concentrano nei fascicoli delle indagini tenute dal  giudice e dal sottufficiale, si cerca anche un solo indizio che unisca i due attentati.  L'unica cosa certa per adesso è il chiaro messaggio intimidatorio che è stato lanciato come una sfida alle istituzioni dalla malavita.

Un magistrato di Teramo e un ufficiale dell'arma di Teramo, che si occupano del caso Melania Rea, sono stati entrambi vittime di due attentati incendiari ai danni delle loro vetture, realizzati alle cinque di mattina del 20 Novembre. Pochi giorni prima era stata acquisita per tre ore dalla Procura di Teramo la testimonianza dettagliata del magistrato dott. Paolo Ferraro, in merito: alla denunciata "presenza di sette esoterico sataniche a partire dall'esercito; alle possibili connessioni e coperture; al coinvolgimento di magistrati, avvocati, e psichiatri arruolati; alle indicazioni relative alla inquadrabilità del fenomeno in un contesto più ampio, che lascia intravedere rapporti e intrecci tra massonerie, satanismo, poteri deviati, aldilà delle correlazioni con il "caso" Melania Rea. E sono stati depositati dati e banca dati che illustrano altresì ascendenze internazionali con utilizzo di tecniche e strumenti elaborati in ambiti militari e dei servizi ". Intimidazioni a giornalisti, silenzio della stampa ufficiale e una miriade di piccoli fatti fanno da corollario, oltre alle intimidazioni e persecuzioni subite dal detto ultimo magistrato. Allontanato dal C.S.M. per una presunta e mai dimostrata "Infermità", il dott. Ferraro è il Pubblico Ministero che indagava su una organizzazione militare che coinvolgerebbe gli alti vertici del potere in massoneria occulta, pedofilia, sette sataniche. La reazione dei cosiddetti poteri forti nei confronti del P.M. non è tardata ad arrivare. Ma anche gli interrogativi.

Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06272 
Pubblicato il 17 novembre 2011 Seduta n. 637

LANNUTTI – Ai Ministri della giustizia e della difesa. - Premesso che:

il pubblico ministero di Roma, Paolo Ferraro, ha condotto in prima persona un’indagine su una presunta setta satanica, a cui avrebbero aderito anche alcuni esponenti dell’esercito, un gruppo segreto che si riunirebbe in eventi dove confluirebbero riti esoterici e banchetti a base di sesso e droga. Ad avvalorare questa pista ci sarebbero anche dei file audio che contribuirebbero a dissolvere qualsiasi dubbio sulla tesi del magistrato;

l’indagine di Ferraro potrebbe, a detta dello stesso, intrecciarsi anche con il delitto di Ripe di Civitella dove il 20 aprile 2011 fu ritrovata morta Melania Rea, moglie di un caporalmaggiore del 235° Reggimento Piceno;

successivamente il Consiglio superiore della magistratura (CSM), nella seduta del 16 giugno 2011, come si legge su “giustizia quotidiana.it”, ha deliberato di collocare in aspettativa per infermità, per quattro mesi, il pubblico ministero di Roma Paolo Ferraro. Il provvedimento è stato adottato con una procedura d’urgenza, motivata dalla asserita gravità ed attualità dell’inidoneità del magistrato ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio»;

dopo la decisione del CSM di sospenderlo per quattro mesi dal servizio per gravi motivi di salute, il magistrato decide di rendere pubblica la sua vicenda cominciata quando nel 2008 andò a vivere nella città militare della Cecchignola, a Roma;

pertanto ad oggi Paolo Ferraro rimane sospeso per quattro mesi per motivi di salute, nonostante lui si dichiari perfettamente abile e a suo sostegno ci siano diverse perizie mediche che lo certificano;

i difensori del pubblico ministero denunciano l’anomalia dell’azione del CSM e hanno presentato ricorso al Tar del Lazio per denunciarne l’illegittimità. In particolare gli avvocati Mauro Cecchetti e Giorgio Carta hanno espresso forti critiche verso il modus operandi del CSM nei confronti del loro assistito;

si legge sul sito sopra citato: “Il procedimento cautelare seguito dal Csm risulta non solo costellato di violazioni delle garanzie difensive, ma addirittura atipico, perché non previsto da alcuna norma. Non risulta fondato su alcuna perizia medica, se non una risalente al 2008 che, peraltro, attestava l’idoneità allo svolgimento di attività professionali anche complesse”. Un particolare alimenta ulteriori sospetti nei due legali: “Il Csm – hanno riferito gli avvocati – ha stranamente ritenuto ininfluenti le numerose perizie mediche di parte, private e pubblica del 2011, attestanti la specifica idoneità ed anzi qualità intellettuale del magistrato, ed ha ignorato una denuncia analitica e argomentata depositata in atti, che evidenzia fatti gravissimi a suo danno patiti dal 2009 in poi”. Il pubblico ministero Paolo Ferraro non ha mai avuto provvedimenti disciplinari di alcun tipo, mentre ha sempre avuto giudizi di ottimo rendimento, occupandosi di inchieste anche importanti;

considerato che la signora Milica Cupic, cittadina italiana, lamenta una serie di comportamenti quanto meno opinabili di organi della giustizia militare e civile in ordine a fatti da lei denunciati;

in più occasioni ed in data 4 ottobre 2003, la signora Cupic ha denunciato gravi fatti a sua detta ascrivibili a personaggi identificati e identificabili. In particolare riferiti al suo ex marito, generale a due stelle e dunque alta carica dell’Esercito italiano, che ella ebbe a denunciare già nel 1996 in relazione alla morte violenta della propria figlia e di un sottoufficiale dell’Esercito avvenuta il 3 febbraio 1986;

secondo quanto riferito dalla stessa signora Cupic ella avrebbe altresì avuto modo di segnalare come un alto grado della Guardia di finanza avrebbe favorito la promozione al suo ex marito. Tale personaggio sarebbe poi diventato Comandante Generale della Guardia medesima;

la Procura della Repubblica di Roma, dopo aver ricevuto l’esposto firmato dalla signora Cupic, lo avrebbe trasmesso al Procuratore Aggiunto, dottor Ettore Torri, come esposto anonimo, mentre, ad avviso dell’interrogante, ne risultava esattamente identificato il soggetto che lo aveva inviato;

tali denunce sono state archiviate, ma è evidente che in tal caso la signora Cupic avrebbe dovuto essere indagata per calunnia, cosa che non è mai avvenuta;

sembra per la verità che la denuncia della signora Cupic in merito alla morte del Sottoufficiale e della propria figlia siano state archiviate, giustificandole con il fatto che la signora sarebbe affetta da «sindrome delirante lucida» e che di ciò la procura militare, per quanto riferito dall’interessata, sarebbe stata informata nel 1996, in modo improprio dal Tenente Colonnello dottor Corrado Ballarini di Bologna. La Cupic ha avuto più incontri, di sua spontanea volontà con il Capitano psichiatra criminologo Marco Cannavici nel 1995 presso il Policlinico Militare Celio di Roma, il quale fece in effetti un rapporto al direttore del Celio pro tempore sullo stato psicologico della signora, nel quale tuttavia mai pronunciò la diagnosi che avrebbe portato all’archiviazione;

in data 15 gennaio 2005, la signora Cupic presentò alla procura militare di Roma una formale denuncia contro il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Giulio Fraticelli, per «omissioni in atti d’ufficio», in relazione alle denunce presentate nei confronti dell’ex marito ed alla documentazione a suo dire inviata al generale Pompegnani. Il generale Fraticelli avrebbe comunicato alla signora Cupic di aver relazionato al procuratore Intellisano, il quale, peraltro, in un incontro avvenuto con la Cupic il 7 dicembre 2004, negò di aver mai ricevuto alcuna cosa;

della denuncia di cui sopra esiste traccia nella lettera che la Procura militare della Repubblica presso il tribunale militare di Roma ha inviato allo studio legale Lombardi in data 16 maggio 2005, (Numero 8/C/04INT «mod. 45» di protocollo) a firma del Procuratore Intellisano;

nel dicembre 2004 la Cupic ebbe a presentare una denuncia alla Procura Militare contro il Tenente Colonnello Ballarini inviandola al A.G. Maresciallo Cervelli;

considerato infine che la sospensione del dottor Ferraro, improvvisamente ritenuto inadatto ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, appare all’interrogante di dubbia legittimità, si chiede di sapere:

di quali informazioni disponga il Governo sui fatti esposti in premessa;

quali iniziative di competenza intenda adottare.

Intervista a Paolo Ferraro, magistrato sospeso misteriosamente dal CSM.  Su Agenzia Stampa Italia

IL MAGISTRATO PAOLO FERRARO E LE SETTE DI STATO.

Salve e benvenuto. In queste settimane, il caso mosso intorno al nome del Magistrato Paolo Ferraro ha lasciato esterrefatta la pubblica opinione. Come rivelato ai microfoni di SkyTg24, Lei sostiene di aver riscontrato in prima persona, durante il Suo periodo di residenza presso la cittadella militare della Cecchignola, comportamenti ed attività “non normali”, scoprendo un mondo “sotterraneo, sconosciuto, poco chiaro, ambiguo, fumoso”. Attenendoci chiaramente ai limiti imposti dal segreto istruttorio, può dirci più nel dettaglio cosa ha scoperto attraverso le sue indagini?

Sporsi a suo tempo nel Novembre 2008, una Denuncia immediata, avendo proceduto ad un primo ascolto di registrazioni audio relative a sei mattine e due pomeriggi, registrazioni che effettuai avendo acquisito una serie di elementi  che lasciavano sospettare una “situazione ambientale” inquietante. Ebbi dichiarazioni conformi che la disegnavano a grandi linee, e feci ascoltare l’audio sia ad un ufficiale di P.G. particolarmente qualificato, che ad una psicologa incaricata tramite avvocato che ritenevo di fiducia, psicologa cui avevo conferito il compito di un sostegno esterno e affiancamento, ovviamente alle persone da me ritenute vittime dirette o indirette. La qualità dell’audio non era ottimale, anzi era mediocre, sicché indicai subito la necessità di procedere ad elaborazione del volume ed ad un attento ascolto tramite programmi adeguati. Sia l’Ufficiale di P.G., a titolo di amicizia e stima personale, che la psicologa, vagliarono la evidente anormalità della situazione ed anzi quest’ultima in un ascolto durato più di due ore e mezza fornì valutazioni, preoccupate, mentre l’Ufficiale di P.G. parlò di un fenomeno collettivo complesso e allarmante. Dall’ascolto attento emergevano attività già indicate nella conferenza, ma più in particolare la possibilità di individuare uso di sostanze, tecniche o procedure verbali a prima vista inquadrabili come volte al condizionamento dei soggetti che li ricevevano, ma soprattutto un contesto veramente anomalo con ingresso di numerose persone di varie età, senza suonare prima, ed utilizzando chiavi in loro possesso ed una posizione di soppesabile assoggettamento della persona che abitava nell’appartamento. Il tutto secondo una analisi fonica poi progressivamente approfondita da me e da un perito fonico, cui diedi il solo incarico di trascrivere quanto emergeva dalla sola prima registrazione. Comunque alcune frasi apparivano curiosamente pronunciate dagli astanti con tono metrico cadenzato o musicaleggiante, in un paio di casi per fonemi riconducibili a linguaggio “medievalistico”, e colpivano altresì alcune frasi tipiche sintetiche espresse come comandi brevi, cui di norma le risposte erano un assenso implicito ovvero dei “si” che colpivano per atonia ed inespressività. Tra i  comandi ricorrente una espressione “nessuno vi è adesso” ovvero “ se andiamo via non c’è nessuno”, ovvero “ dobbiamo apparire, dobbiamo riapparire”, ma l’elenco sarebbe lungo. Il contesto sembrava ad un ascoltatore inesperto come io ero farneticante, torbido, non riconducibile ad esperienze ordinarie. Anche le modalità di interazione verbale dei soggetti erano talmente inusuali, talvolta cupe, e vocalmente atipiche  da lasciare interdetti. Tutto ciò non fu sentito dalla P.G. incaricata. Ma vi erano complessivamente nelle registrazioni più di dieci tra adulti, maschi e donne, e almeno quattro non adulti. Almeno otto i nomi pronunciati. Nelle registrazioni “per decreto” emergevano “frasi, parole e rumori riconducibili alla normale attività quotidiana di una persona all’interno della propria abitazione”. E la persona autrice dei racconti, ma assoggettata, negò poi tutto. Nessuno gli contestò quello che si sentiva. Ma io avevo altri accertamenti fatti, alcune registrazioni di telefonate o colloquio tra presenti, sms ed e-mail utilmente valutabili, feci accertamenti ricordando particolari a suo tempo raccontati, e, dopo l’archiviazione del procedimento, rimasto sbalordito, elaborai le basi audio potenziandone il volume ed estrapolando  circa 45 frasi e contesti divisibili sulla base di una precisa griglia logica di classificazione. Non posso dire altro, oltre che a suo tempo solo alcuni amici miei ascoltarono e mi confermarono l’ascolto mediante adeguato strumento audio. Feci una parziale discovery con gli “interessati” e come mi era successo nel Gennaio del 2009 accadde un qualcosa, uno strano incendio sul terrazzo della mia casa in villetta che mi spinse ad andarmi a lamentare della circostanza con l’ufficio mio, che mai mi aveva ascoltato direttamente, né aveva valutato in alcun modo la massa del materiale di prova o indiziario da me raccolto. Il giorno dopo, trasecolando, subii una proposta di TSO eseguita a tempo di blitz in forma coattiva, in assenza di ogni presupposto di legge formale e sostanziale. Quanto segue è anche oggetto di procedimento penale, solo poi scopersi di rapporti intrecciati a mia totale insaputa e alle mie spalle e del ruolo di uno psichiatra che aveva preparato per lo strumento alcuni miei  parenti in rapporti comprensibilmente complessi con me. Oggi so che modalità, tempistica, organizzazione e metodi hanno clamorose conferme anche in clamorosi precedenti, basta documentarsi. Ad oggi molte persone hanno valutato, condiviso valutazioni e pubblicato articoli coraggiosi, fedeli e suggestivi per la suggestività della storia, su internet, nel silenzio assordante di una certa stampa cartacea ufficiale.

Se fosse confermato un simile quadro dei fatti, questo sconvolgente scenario esoterico potrebbe allargarsi anche ad altri ambienti militari ed è pertinente ipotizzare dei collegamenti internazionali con simili organizzazioni “deviate” nel resto del mondo?

Ero concretamente a conoscenza di viaggi a nord, e verso Napoli. Del pari di una possibile forma, apparenza politico–militante del gruppo, della presenza ragionevole di ufficiali, alcuni dei quali individuabili foneticamente o perché da me osservati, della presenza tra essi di un uomo dalla voce autorevole arrogante la cui attribuzione a persona è possibile tramite un quadro indiziario concreto e riscontrabile. Fatti concreti, elementi verificabili, non altro. Incredibilmente quando, uscito da un silenzio costretto, raccontai di fatti, contesto, conseguenze patite, trovai un atteggiamento di assoluta volontà di non ascoltare. Fatti precisi indicati sarebbero diventati “frasi criptiche”, “allusioni incomprensibili”, o giudizi “sommari” di assoluta “inverosimiglianza”. Chi li ha pure riportati davanti al CSM, che ha fondato su tali giudizi un provvedimento grave di sospensione cautelare, a fronte di statistiche ineccepibili e numerose certificazioni di sostanziale perfetta salute, non ha tenuto conto di chi fossi, della mia storia, delle mie note capacità, della circostanza peraltro a loro non nota, che era stato depositato un memoriale analitico, chiaro e riferito a fatti oggettivi in una Denuncia a Perugia. La situazione derivatane è assurda, ma presagisco molto di più. È tutto quello che mi è accaduto dal 2009 in poi, pressioni, intimidazioni indirette, inviti ripetuti a tacere, e gli eventi dal Marzo ad oggi che hanno squarciato ulteriori veli. In particolare è vero che io ho notato una donna talmente tanto simile a Carmela Rea in un orario non d’ufficio nei corridoi della procura di Roma, da farmi affermare ancora oggi che era lei o potrebbe essere una sosia e comunque nessuno mi ha mai detto chi fosse, perché fosse accompagnata ad un colloquio riservato alle 19 di sera. Alcuni articoli su internet lanciavano ipotesi parallele alle mie rilevazioni, in Roma, ma soprattutto su internet venne fatto il nome di un alto Ufficiale dell’Esercito e qui debbo fermarmi.

Il provvedimento che ha più lasciato interdetti è stato indubbiamente la sospensione per un periodo di quattro mesi, stabilita dal CSM lo scorso 16 giugno 2011, ufficialmente “per gravi motivi di salute”. Come spiegate questa decisione e quali saranno le principali armi giuridiche cui ricorrerete per opporvi alla decisione?

La decisione, purtroppo si spiega da sola per abnormità, atipicità, essendo carenti entrambi i requisiti  rigorosamente chiesti per un provvedimento di dispensa dal servizio . Ma intendo precisare che in casi del genere disinformazione, assenza di conoscenza di dati reali e presunta attendibilità di indicazione fornite da vertici di uffici, o da presunti autorevoli soggetti con responsabilità “politiche” tra i  magistrati può avere influito. Il provvedimento allinea documenti, che risultano oggettivamente e criticamente essere destituiti di fondamento, allegando indizi concreti, prove documentali e informazioni ignote al CSM. Quello che colpisce è che sembra che nulla sia accaduto, tutto viene inanellato lasciando fermi, errori valutativi, disinformazioni su fatti precisi. Ma agli atti della commissione è stato depositato un memoriale approfondito, in copia, neanche letto, sembrerebbe.  Ma continuo ad avere fiducia che fatti e dati verranno realmente approfonditi. Se mancherà l’approfondimento necessario, ne potremo trarre varie altre conclusioni. In questa vicenda è a me apparsa evidente una particolare “collocazione” di due magistrati e ho dovuto fornirmene una approfondita spiegazione, che si riverbera sul rilievo e sulla importanza generale dei fatti. Un probabile epicentro. Ma è proprio la magistratura a dovere indagare e valutare. E se non si indaga a fondo non si valuta e se non si valuta non si indaga. Ma se si colpisce chi ha valutato a fondo per conto suo, e ormai indirettamente tutti quelli che condividono valutazioni ed altro, i ragionevoli inquadramenti e le ipotesi accertabili si fanno prospettive concrete. Inquietanti, e perciò io chiedo al CSM di dissipare veli e dubbi e di vagliare fino in fondo, a tutela  della immagine e credibilità dell’organo di autogoverno della magistratura.

Paolo Ferraro risulta essere, da più fonti, un magistrato integerrimo e molto stimato nel suo ambiente di lavoro. Dopo la sentenza del CSM, quali sono state le reazioni dei suoi amici e colleghi? Ha percepito degli improvvisi cambiamenti in alcuni dei suoi rapporti inter-personali?

Vi è stato sgomento, sbigottimento, incredulità , nei miei confronti, e preoccupazioni  per me, per sé e generali:  come starà, ammesso che stia male come dice il vertice dell’ufficio, ma  se la vicenda è vera in tutto od in parte riscontrabile,  se gli hanno fatto quello che ha poi denunciato, cosa può succedere anche a noi, se lo appoggiamo o se ci trovassimo per sbaglio in una situazione analoga?!.  Ma lo stupore nasce da un prevalente meccanismo di autodifesa psicologica: non voglio, non posso credere, ho paura di  credere e ragionare su questi fatti. Avete parlato mai con un malato terminale , che discetta di influenza non curata bene o di piccola bronchite, la speranza e la paura si tramutano in negazione psichica dei fatti, della  realtà. Ma chi ha mai parlato di credere. Ho detto, sappiate, verificate  ascoltate, valutate. La paura, per me, per la storia, per l’immagine dell’ufficio, per sé è per ora,  prevalsa, ma nell’ambito ristretto e solo in parte. Non sono invece mancati abbracci, in bocca al lupo, affermazioni di profonda stima, da magistrati, avvocati e proprio da carabinieri che non lavorano a stretto contatto con me. La frase detta circa quattro mesi fa, senza preavviso, “noi stiamo con lei” e accompagnata da una duplice forte stretta di mano. Io un po’ sbigottito, come ha fatto a spargersi la voce, visto il cupo silenzio che circondava la vicenda..?! Il tono ?! Di chi sa di che storia si tratti, e molti sanno, ritengo, della valenza generale della vicenda: un giovane brigadiere di una stazione  CC, sapeva tutto ed alla mia occasionale mera battuta sulle UAV ( unità di addestramento ) ha fatto dei cenni inequivoci. So per certo che molti sanno, e molti anche senza avere un ruolo qualunque. E allora se di una vicenda strana,  coinvolgente in apparenza solo due palazzine  sanno in tanti, in varie parti, come può essere un fatto solo locale? Non lo è, ragionevolmente, e molto dipenderà  dalle indagini  di Ascoli Piceno (e a Teramo un celebre processo ormai conclusosi in Cassazione sull’esercito bianco , a Roma un procedimento di fatti e luogo omologhi, del 2000, e altri avvocati stanno raccogliendo le tracce generali nella recente storia giudiziaria in merito a circostanze  che sembrano rinforzare la lettura unitaria del fenomeno).

Questa vicenda è appena agli inizi e la battaglia che si appresta ad affrontare potrebbe non essere delle più semplici. Nella rete, molti cittadini ed una parte dell’informazione non-mainstream si sono stretti intorno a lei, mostrando grande attenzione e stima per la sua storia. Quali sono le aspettative e le speranze di Paolo Ferraro, sia come magistrato sia come uomo?

Verificare e capire, allargando conoscenze e raccogliendo sensibilità e disponibilità. In fondo si tratta solo di una struttura a base di setta, di gruppi di militari, di impossibilità di  accertare, di un magistrato della capitale sottoposto a TSO, e su tutto il resto “trasversali dubbi”… un polpettone saporito non addentabile agevolmente, ma siamo a dieta, il cuoco è un “visionario”, meglio non fare indigestioni. I curiosi che credono alla democrazia ed ai suoi valori però non la pensano così.

STORIA DELLA MASSONERIA

Le massonerie sono ordini iniziatici e istituzioni gerarchiche rivolte alla conoscenza. I membri delle massonerie sono definiti massoni e condividono valori morali, filosofici e spirituali comuni. Nei secoli scorsi le massonerie sono sorte sotto forma di associazioni di mutuo soccorso e come società segrete. In seguito assumono una funzione più speculativa, trasformandosi in confraternite di tipo iniziatico e mistico, caratterizzate dal segreto rituale. Gli affiliati di una massoneria ne condividono gli ideali morali e le regole e sono organizzati in una rigida struttura gerarchica dominata dalla figura del Gran Maestro. Al Gran Maestro viene attribuito il più alto grado di conoscenza, a cui l'affiliato possa aspirare. Le massonerie nel mondo sono migliaia e non è possibile quantificarle, né qualificarle per i loro scopi, avendo ciascuna di esse un proprio regolamento e proprie precipue finalità. In molti casi le massonerie sono regolari e legalmente riconosciute dagli ordinamenti giuridici in cui operano (in Italia, per es., la Gran Loggia Regolare d'Italia). In altri casi vi sono massonerie spurie, che non hanno nulla a che vedere con le associazioni regolari, che mantengono il loro carattere segreto o fenomeni di associazionismo locale che celano il mero raggiungimento di interessi privati, favoritismo e aiuto reciproco tra affiliati.

Origine delle massonerie.

Dal punto di vista storico la massoneria esiste fin dall'antichità. In origine le società segrete hanno il fine di creare un Ordine, spesso parallelo, con obiettivi spirituali, religiosi, culturali, economici o politici. Nel corso della storia dell'uomo si sono avvicendate centinaia di migliaia di massonerie, tutte caratterizzate dal numero chiuso degli affiliati, da un rito di accettazione e dalla presenza di obiettivi comuni da perseguire. Durante il Medioevo le massonerie hanno avuto anche il compito di conservare la conoscenza delle tecniche e del sapere. Le più note sono le corporazioni di muratori composte dalle maestranze bizantine. Da questo potrebbe derivare il simbolismo muratorio ancora oggi usato in molte corporazioni. Nel corso del periodo pre-industriale le confraternite di mestiere (corporazioni) perdono la loro ragion d'essere. Lo stesso accade con l'avvento dell'Illuminismo alle massonerie dedicate alla conoscenza e alla ricerca scientifica, le quali non devono più condurre in segretezza i propri studi e non devono più temere le accuse di eresia. E' difficile tuttavia dare una definizione generale della massoneria o riassumere un percorso storico del fenomeno in poche righe. Ad esempio, gli Ordini massonici con finalità spirituali o religiose non sono influenzati dall'illuminismo o dalla rivoluzione industriale, avendo scopi diversi dalle altre corporazioni appena citate.

Le massonerie moderne.

In genere gli storici distinguono le organizzazioni corporative più antiche da quelle più moderne nate alla fine del XVII secolo, in quanto non esiste un nesso di continuità tra le corporazioni di artigiani medievali e quelle speculative nate successivamente. Dal primo '800 all'epoca contemporanea le organizzazioni massoniche conservano perlopiù obiettivi politici, culturali, spirituali ed economico-finanziari.

La Piramide Massonica.

La piramide è un simbolo antichissimo dalle origini tuttora oscure; il triangolo con l'occhio (poi inglobato nel cristianesimo come simbolo divino) può essere fatto risalire alla prima massoneria. L'utilizzo combinato di questi simboli si realizza sostituendo al vertice della piramide il Delta Luminoso ed ha origine nel 1776, quando il primo di maggio Adam Weishaput (che al tempo insegnava diritto canonico all'università di Ingolstadt) fonda una società segreta nota come Ordine degli Illuminati di Baviera. Weishaput definì l'occhio al vertice della piramide "The Insinuating Bretheren" ma nell'ambiente era più conosciuto come "Occhio Gnostico di Lucifero", od "Occhio Onnisciente". Il significato complessivo della Piramide del Potere è l'ambizione stessa dell'ordine: un governo mondiale guidato da una ristretta elite di sapienti, ovvero loro stessi. Tra gli altri scopi dell'ordine vi era la trasformazione del cristianesimo in una religione "scientifica", in cui la ragione prendesse il posto del divino.

Notare come la Piramide abbia tredici livelli e alla base scritto MDCCLXXVI: questo simbolo è stato studiato accuratamente in modo che chiunque conosca i significati delle metafore utilizzate sia in grado di interpretarlo. MDCCLXXVI non è che 1776 scritto in numeri romani, l'anno in cui nacquero gli Illuminati e in cui venne dichiarata l’indipendenza degli Stati Uniti d’America; le tredici file di mattoni rappresentano le 13 fasi di 13 anni l'una che gli Illuminati avrebbero seguito per conquistare il potere: si parte dalla fondazione e si va fino al 1945. Tuttavia, risalendo la piramide anno per anno, nel 1945 non si raggiunge il vertice, ma lo spazio che separa il corpo della piramide (simbolicamente la "Prima Era") dall'occhio.

Questo intercapedine va interpretato in modo leggermente diverso: rappresenta infatti una fase di 26 anni (13+13) definita "Seconda Era" che inizia nel 1945 e termina nel 1971. Si raggiunge così il Delta Luminoso, ovvero la "Terza Era". In progressione geometrica, questa è formata da tre fasi di 13 anni l'una (39 anni in tutto) che vanno dal 1971 al 2010. A questo punto, secondo i progetti degli Illuminati, nessuno sarebbe più in grado di contestare l'ormai completo "Nuovo Ordine Mondiale".

Questa è solo una delle molte diverse interpretazioni di questo simbolo: il delta luminoso rappresenta anche un elemento “divino” nettamente separato dalla materia (la piramide), ad esso subordinata. Ingrandendo il Delta Luminoso si potrà notare come l’occhio sia in realtà ben poco “umano” in quanto attorniato da squame. Gli illuminati si consideravano infatti strettamente legati ad una antica specie rettile a cui attribuirebbero l’origine della specie umana.

La Piramide del Potere è oggi visibile a tutti sul fronte della banconota da un dollaro a sinistra del Gran Sigillo. Qui sono presenti due scritte: in basso "Novus Ordo Seclorum" ed in alto "Annuis coeptis". La prima è l'obbiettivo stesso degli Illuminati (il Nuovo Ordine Mondiale), la seconda è il loro motto: "la provvidenza ha favorito il nostro impegno" (tradotto anche come "Dio ha acconsentito"). La scritta in basso conterrebbe un grossolano errore ortografico: la scrittura corretta infatti sarebbe “Secolorum” e non “Seclorum”. In realtà questo non è un errore, quanto piuttosto uno stratagemma usato dagli Illuminati per far sì che la scritta sia composta da 13 caratteri.

La Piramide del Potere venne mostrata al mondo per la prima volta il 4 luglio del 1776 sulla bozza della banconota da un dollaro. Questa bozza verrà poi corretta varie volte invertendo tra l’altro la posizione dell’Aquila calva (il Gran Sigillo) e quella della Piramide (che al tempo si trovava a destra), prima della versione definitiva del 20 giugno 1782. Il Congresso approverà l’utilizzo del Gran Sigillo per rappresentare gli Stati Uniti il 15 settembre del 1792. Successivamente, il dollaro verrà modificato numerose altre volte, nel 1933 Franklin Delano Roosvelt (Presidente degli Stati Uniti dallo stesso 1933 al 1945, nonché massone del 32° grado) fece coniare la prima banconota americana da un dollaro con la Piramide ed il Gran sigillo sul lato posteriore (da allora ad oggi si è mantenuta questa impostazione). La Piramide del Potere era visibile anche sullo stemma del DARPA (Defence Advanced Reseach Projects Agency) prima che, nel 2004, questo venisse modificato.

SIGNORAGGIO: AL VERTICE DELLA PIRAMIDE

Che cos’è il signoraggio?

Si tratta di un diritto dei "signori", adottato fin dal passato. Oggigiorno è una delle maggiori cause di indebitamento pubblico e di ulteriore arricchimento dei potenti e dei ricchi. Se ne parla poco, ma esiste, da secoli. Il procedimento è molto semplice: la Banca Centrale Europea produce, ad esempio, una banconota con soli 5 centesimi di spesa, ma l’affitta alle varie nazioni a 100 €. Ciò significa che la società privata che stampa ed emette la banconota guadagna in pratica 95 €. Il signoraggio corrisponde quindi alla differenza tra il valore nominale della moneta (che troviamo scritto su di essa) e i costi di produzione della stessa.

Settimio Severo, imperatore romano vissuto nel III secolo d.C., adottò anch'egli questo metodo, dimezzando il materiale utilizzato per le sue monete, ma mantenendo identico il valore nominale scritto su di esse. La differenza, materiale inutilizzato, rimaneva nelle casse dello stato.

In Europa è la BCE (Banca Centrale Europea) che detiene il diritto esclusivo di battere moneta, arricchendosi alle nostre spalle. E, attenzione, si tratta di una banca privata! Lo stato paga l’affitto della moneta con Titoli di Stato, indebitandosi e, alla fine, chi ci rimette siamo sempre noi, poveri cittadini. Infatti, siamo noi a pagare questo debito, con le tasse. Se invece fosse lo stato a battere moneta, non vi sarebbero tasse. Ma si parla di abbattere un sistema ormai radicato da secoli.

In passato le cose erano diverse, perché un grammo d'oro valeva come un grammo d'oro. Una moneta d'oro aveva un valore intrinseco, pari al suo valore nominale. Solo in seguito i signori iniziarono a coniare monete utilizzando minor materiale prezioso, dando vita al signoraggio. Fin dall’antichità la plebe ha sempre dovuto sottostare alle scelte dei ricchi signori, uniti tra loro in logge di potere e società segrete. La maggior parte dei politici presenti nei vari paesi del mondo, sia che siano di destra sia che siano di sinistra, così come i grandi imprenditori e i fondatori di importanti multinazionali apparterrebbero in molti casi a logge massoniche, e dal vertice della piramide sociale controllerebbero il destino degli uomini.

Guardacaso, la prima banca centrale a livello mondiale fu proprio creata da un massone, William Peterson, che la fondò assieme ad alcuni Fratelli approfittando della situazione di debito pubblico nella quale si trovava il suo paese: si trattava della Banca d’Inghilterra, ed era l’anno 1694. Già Karl Marx ne Il Capitale denunciava senza mezzi termini le banche centrali, definendole “società di speculatori privati”. La Banca d’Inghilterra venne presa come modello di riferimento da tutti gli altri paesi del mondo.

Perfino il Vaticano godrebbe del diritto di signoraggio, per via delle molte medaglie ed emblemi messi in circolazione.

Nella storia dell’umanità ci furono persone che provarono ad abbattere questo sistema. Una di queste è John F. Kennedy.

Nel giugno del 1964 sfidò la Fed (Federal Reserve Note), società privata che deteneva, e detiene ancora oggi, il monopolio sul conio monetario. A novembre dello stesso anno, il presidente venne eliminato, e proprio a Dallas, una delle sedi delle dodici banche statunitensi. E prima di lui anche altri presidenti avevano tentato di imporre una banconota statale; tra questi ricordiamo Lincoln, McKinley e Roosevelt, tutti e tre uccisi.

L'ex questore di Genova Arrigo Molinari citò in giudizio Bankitalia per “la truffa del signoraggio”. Aveva l'udienza il 5 ottobre 2005, ma venne ucciso a coltellate il 27 settembre! Della serie: chi tocca il signoraggio muore.

In Italia, il signoraggio fino a pochi anni fa era diritto della Banca Centrale d’Italia e, in seguito, della Banca Centrale Europea, entrambe private. Ma c’è di più. Tra le banche socie di quest’ultima troviamo anche quella d’Inghilterra, di Danimarca e di Svezia, associate rispettivamente al 15,98 %, 1,72 %, 2,66 %, pur non avendo accettato di aderire all’Euro. Parte del signoraggio europeo finisce quindi nelle tasche di queste società private estere. In pratica, noi italiani stiamo aiutando questi tre paesi a pagare le loro tasse! Questi potenti, a parte il signoraggio, utilizzerebbero anche altri metodi utili al loro arricchimento, sempre alle spalle della povera plebe. I ricchi banchieri e i loro sostenitori sarebbero infatti collegati anche a fondazioni, multinazionali e sette di potere, come Scientology, l’Opus dei, e l’Amway corporation.

POLITICA E MASSONERIA.

Ma guarda un po’ cosa vai a scoprire da fonti notoriamente di sinistra, come può essere un’intervista di “Repubblica” a firma di A. Statera. "Quando nel mondo la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera", recita ironico il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi, avvocato ravennate dal profilo un po' risorgimentale, ex segretario locale del defunto Partito repubblicano di Ugo La Malfa, quando gli si chiede di commentare l'improvvisa fiammata antimassonica di parte del Partito Democratico. E l'Opus Dei? E Comunione e Liberazione? E tutti i mariuoli, clericali o non, ormai in circolazione per ogni dove? E tutti i seri problemi del paese che il Pd tende spesso a rimuovere imboccando improbabili vie di fuga? Il Gran Maestro se lo chiede, ma la delibera assunta dalla Commissione di Garanzia presieduta da Luigi Berlinguer, proveniente da una vecchia famiglia massonica il cui capostipite Mario, padre di Enrico e Giovanni, era Gran Maestro della Loggia di Sassari, in fondo non gli dispiace: "Al di là della temporanea sospensione dei fratelli pd iscritti - dice - c'è un percorso serio per capire la questione e non infliggere una censura dogmatica; è un percorso laborioso, ma simile a quello già tracciato saggiamente dal lodo di Valerio Zanone e Giovanni Bachelet". Ma non gli va giù che i problemi interni di un partito in cui si è rivelata difficile la convivenza tra l'anima cattolica ex democristiana con quella laica ex repubblicana, ex socialista ed ex comunista, tirino inopinatamente in ballo "una delle più importanti agenzie produttrici di etica che abbia creato dal suo seno la storia dell'occidente, come il professor Paolo Prodi ha efficacemente definito la massoneria".

Un fatto è certo, i massoni del Partito democratico, che dovranno ora rivelarsi, sono a bizzeffe, come garantisce l'ex sindaco comunista di Pistoia Renzo Baldelli. Col Gran Maestro recalcitrante, che giura di non aver mai chiesto di mostrare la tessera di partito ai suoi fratelli ("Se no verrei messo fuori dal consesso della massoneria mondiale") tentiamo un computo, che ci porta a un totale di oltre 4 mila su quasi 21 mila iscritti in 744 logge, il 50 per cento dei quali concentrati in Toscana, Calabria, Piemonte, Sicilia, Lazio e Lombardia, con la maggiore densità assoluta a Firenze e Livorno. Di questi almeno 4 mila diessini, molte centinaia ricoprono cariche politiche, amministrative o dirigenziali, come in passato il Gran Maestro aggiunto Massimo Bianchi, che è stato vicesindaco socialista di Livorno. Adesso dovranno rivelarsi ed è facile prevedere che non sarà un'operazione indolore.

Ma Gustavo Raffi pensa che potrebbe venirne persino un bene, cioè "la fine di questa leggenda della segretezza, frutto avvelenato delle gesta del materassaio di Arezzo, che non ha ragione di persistere. Ma come si fa - si accalora - a confondere il Grande Oriente, scuola di etica e di classe dirigente, con i mariuoli che infestano il paese anche in false massonerie? Il fascismo, perseguitandola, costrinse la massoneria al segreto, ma oggi siamo un'istituzione trasparente tornata nella storia. Lo dimostrano le decine di nostri convegni culturali con partecipanti del calibro di Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Umberto Galimberti, Giuseppe Mussari, Ignazio Marino, Paolo Prodi, Gian Mario Cazzaniga e tanti, filosofi, storici, accademici di reputazione e scienza preclare. Il Pd si accorge adesso che la sinistra è figlia anche della massoneria? Fanno fede i nomi dei fuorusciti a Parigi durante il fascismo, le Brigate partigiane in Spagna e la Costituente, dove su 75 membri 8 erano massoni, da Cipriano Facchinetti ad Arturo Labriola, Meuccio Ruini... ".

Gran Maestro - lo interrompiamo - per favore, non torniamo a Garibaldi e Bakunin e ai generi massoni di Marx, il fatto è che in un passato più recente le vicende della massoneria ufficiale non sempre sono apparse commendevoli. Tra l'altro, nel governo e nella attuale maggioranza di destra si dice ci sia la più alta concentrazione di massoni (e di Opus Dei) mai vista, come ha rilevato l'ex presidente Francesco Cossiga, che se ne intende. A parte Berlusconi, Cicchitto, che erano nella P2, e al consulente di Gianni Letta, quel Luigi Bisignani che ne era il reclutatore, ce ne sarebbero molti altri, a cominciare da Denis Verdini, che però ha smentito. Per non dire dei Lavori Pubblici, culla della Cricca degli appalti, considerato il ministero col maggior numero di dirigenti massoni. Il Gran Maestro non sfugge: "Io le posso dire in tutta coscienza che, tolti quelli che giocavano a nascondino col materassaio di Arezzo e che con noi non hanno nulla a che fare, abbiamo fatto un'attenta analisi dei nomi emersi come appartenenti alla Cricca e delle intercettazioni telefoniche pubblicate sui giornali. Abbiamo trovato solo un nome nelle nostre liste e l'abbiamo sospeso immediatamente. Se ne emergeranno altri, stia certo subiranno la stessa sorte". Inutile insistere per ottenere il nome, il Gran Maestro garantisce di non ricordarlo, ma promette di ricercarlo, perché dice di sognare una massoneria supertrasparente come quella americana, cui i fratelli sono fieri di appartenere, dove le logge sono indicate al centro delle città con grandi cartelli stradali, "come già abbiamo fatto a Ravenna mettendo la targa sulla nostra sede, perché se ti nascondi finisci alla gogna". Ma nulla autorizza la componente cattolica del Pd a confondere la massoneria storica con pseudomassonerie affaristiche, "se no è come se io dicessi non che un partito è degenerato, ma che tutti i partiti sono degenerati, mentre, pur se disastrati, continuano ad essere il cardine della democrazia. Mai dirò che i partiti inquinano la massoneria, ribaltando l'affermazione di quel parlamentare del Pd, il quale ha osato dire che la massoneria inquina il suo partito". Se la teoria del senatore di Magliano Sabina Lucio D'Ubaldo prendesse piede nel Pd, il Gran Maestro vi scorgerebbe un arretramento clericale e culturale quasi a due secoli fa, all'enciclica "Mirari Vos" di Gregorio XVI che condannò la separazione tra Stato e Chiesa e qualunque libertà di coscienza.

Chissà se la delibera dei garanti pd guidati da un Berlinguer frenerà ora le iscrizioni al partito, notoriamente non in splendida salute, o al Grande Oriente d'Italia, che conta 1600 "bussanti" all'anno, più di un terzo dei quali respinti in attesa di "passaggi all'Oriente Eterno" di anziani fratelli.

Bettino Craxi, l’ultimo uomo di Stato. La storia è talvolta così distante dalla realtà, i fatti vengono stravolti e la verità negata: così l’onore di un uomo viene sfibrato per cancellarne la memoria e la sua stessa vita. Mentre tutti gli scagliavano contro sentenze e ingiurie, mentre il magistrato Antonio Di Pietro spasimava per il grande momento e qualcuno gridava “Tonino facci sognare”, sicuramente nessuno di loro sapeva che lui aveva tentato di salvare l’Italia, e così non restava che un’unica soluzione: andare via il prima possibile, una fuga immediata.

I fatti erano ben diversi, alle spalle vi era un piano, chiamato “Apocalisse”, studiato nei minimi dettagli e gestito direttamente da Londra (Secondo David Icke Londra sarebbe il centro del controllo globale, ndr). Nacquero in quegli anni in Italia molte scuole di lingua inglese, come copertura dei servizi segreti; molti agenti del Sisde e del Sismi furono intimoriti, altri si suicidarono: la campagna mediatica dei giornali, e non solo delle televisioni, avanzò impietosa. L’obiettivo di fondo consisteva nel rovesciare i governi e porre al potere dei criminali, dei “contadini”, di destra e di sinistra, islamici e non, per poi privare uno Stato della sovranità monetaria, privatizzare ogni cosa e rastrellare le ricchezze esistenti, creando così un sistema economico completamente diverso, quello del “rent”, dell’affitto, basato dunque non più sul concetto di possesso, bensì su quello di uso. Un ambizioso progetto da realizzare mediante la svalutazione della moneta, la riduzione della spesa pubblica, la deregolamentazione del mercato con politiche liberiste, la fissazione di alti tassi di interessi, con la lotta alla corruzione, la privatizzazione del patrimonio statale e della Banca Centrale, ed infine la rifondazione della Nato come organismo militare per sabotare le iniziative dell’Onu.

In realtà il signoraggio non è il solo problema, ma è un anello di un meccanismo molto più complesso che si serve di una forma di potere centralizzata e piramidale, andando a creare quelle che molti studiosi definiscono società “rettiliane” o demagogie pure. Un sistema questo che si è rivelato efficace, dobbiamo riconoscerlo, in contesti medievali in cui non esisteva la comunicazione di massa, le attuali tecnologie e forme di crimine psicologico: la nostra società rimane tuttora ancorata a schemi di potere antichi e arcaici.

Craxi, come qualcuno prima di lui, aveva intuito che il sistema era concatenato perché ragionava come un uomo di Stato, ed è stato tradito dal serpente che è dentro in noi. Voleva salvare l’Italia, parlava di svolta, di cambiamento e di rinnovamento, parole che certamente hanno fatto tremare gli eminenti Banchieri di Londra. Craxi cercava di combattere uno degli anelli del sistema tramite la “lira pesante”, che consisteva nel coniare la “5 lire in argento” con l’effigie di Garibaldi, cosa che sicuramente non è stata ben gradita alle lobbies bancarie che scatenano guerre sanguinarie solo per imporre il costo di una commissione bancaria in un paese.

Mentre cercava di salvare l'Italia, si accorse cos’è veramente il “potere”. Ho sacrificato la mia vita e venti anni di studi e di ricerche per capire ciò che i politici sostanzialmente dicono in frasi del tutto accidentali. Egli intendeva rifondare il tessuto sociale, il modo di fare economia, e il concetto stesso di partecipazione politica perché aveva intuito che il mercato si stava trasformando: l’economia cresceva tra usura e collusione , e da tempo ormai era in atto un etnocidio, ossia lo sterminio dell’identità etnica, delle tradizioni, e della cultura mediante strategici piani di “globalizzazione” e l’appropriazione dell’intelligenza dei popoli.

Tutto quello che si è realizzato con il Trattato di Maastricht è stato accuratamente programmato nel 1978 da un piano strategico e complesso, che già allora fece le sue prime vittime. Maastricht si è appropriato del potere democratico per antonomasia in quanto va incidere sulla redistribuzione della ricchezza reale, trasferendo in maniera illegittima e incostituzionale la sovranità monetaria ad un ente non rappresentativo della volontà sovrana dei cittadini. L’unione monetaria ha creato una macchina che distrugge, depreda e porta guerra tra i popoli; la banca, dal canto suo, si finge un’istituzione, che entra come un parassita nell’azienda per alimentare un sistema di denaro virtualizzato. I Grandi Banchieri si sono resi responsabili dell’olocausto, senza che nessun tribunale internazionale li abbia mai condannati, e continuano a sterminare popoli in maniera sempre più subdola in forma di etnocidio.

L’eurosocialismo è caduto. Tutte le colonie del regime comunista sono state attaccate perché i sistemi economici ibridi tra comunismo e capitalismo andavano eliminati ad ogni costo in modo da evitare anche lo scontro diretto con la civiltà araba: ed ecco perché Craxi era considerato un filo arabo.

Nel 1992 non era più possibile salvare l’Italia e Craxi aveva un compito tanto complicato quanto impossibile da portare a termine. Mentre Maastricht vedeva nascere l’Europa dei Banchieri Ladroni, la magistratura arrestava Mario Chiesa, e procedeva con gli avvisi di garanzia che avrebbero portato avanti la crociata contro “la corruzione”. Nel luglio del ’92 le parole di Craxi alla camera dei deputati denunciano una criminalizzazione della classe politica, un vero e proprio processo storico e politico ai Partiti, e "un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico,... non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica”.

Il Buon Tonino probabilmente solo quando fece il grande gesto teatrale di togliersi la toga dinanzi alle telecamere e di rassegnare le dimissioni dalla magistratura, diede prova di aver capito che era stato usato e manipolato come una pedina in una guerra strategica senza scrupoli. Ma il nostro ex commissario doveva capire che il sangue sporco si deve mischiare con quello nuovo. Mani pulite è stato dunque qualcosa di più, aveva l’obiettivo di controllare le masse, eliminare la classe politica e sostituirla con soggetti dalla mente semplice e poco intelligente, assolutamente inadeguati a contrastare i veri poteri, mentre le privatizzazioni e il saccheggio dell’Italia proseguiva.

Il caso dunque volle che i folli avevano arrestato i sani, e la storia insegna che chi si mette contro questi poteri va eliminato : Jesus fu crocifisso perché chiedeva a Cesare perché sulla moneta veniva coniata necessariamente la sua immagine, l’oro in fin dei conti è sempre oro. “Dai a Cesare ciò che è di Cesare”, ma molti non sanno cosa vuol dire realmente e se lo sapessero credo che diventerebbero tutti improvvisamente kamikaze.

Nello stesso anno, Giovanni Falcone in una macabra esplosione accreditata alla mafia trova la morte; così come l’ingegnere Raul Gardini che muore per mano di un anomalo suicidio: episodi che in realtà nascondono ben altro. Lo stesso scenario che si è venuto a creare ultimamente in Libano con Hariri, che stava organizzando la borsa del Petrolio in euro. In quel periodo tutti gli ambasciatori e le Associazioni sconosciute millantavano democrazie sconosciute, e si meravigliavano scandalizzati della corruzione in Italia, ma non ricordano ciò che la Federal Reserve fece nel 1923, da cui il motivo che spinse gli americani a combattere una guerra mondiale.

A colpire Craxi è stata la finanza internazionale, i Banchieri, un mondo sconosciuto alle masse, gerarchie ristrette e estremamente chiuse, persone che non vedrete mai camminare tra la folla. Lo temevano così tanto che al pensiero che Craxi potesse trovarsi in suolo italiano e rilasciare scomode dichiarazioni li preoccupava seriamente, tanto è vero che era costantemente controllato ad Hammamet.

Le sue parole devono essere di insegnamento a questi politici contadini, diventati i camerieri di Banca Intesa e Unicredit e non più protagonisti della regolamentazione del sistema economico. Si sono autodefiniti pastori del gregge, ma bisogna ricordare che l’unico uomo di Stato che non è stato accettato dall’Inghilterra era Craxi, contrastato dagli stessi giornali che ora santificano Carla del Ponte e additano Slobodan Milosevic per aver condotto una pulizia etnica.

Oggi è l’era dei pappagalli, della civiltà schiavizzata dai banchieri, agganciati a loro volta ai servizi segreti, che hanno creato “comitati di controllo e gestione delle crisi”, utilizzando strutture come la Gladio, e Società di sicurezza per compiere qualsiasi tipo di attentato e di omicidio.

La velocità della magistratura nel vendere l’ Italia è stata strabiliante. Accusare Bettino Craxi è stato come chiudere la porta in faccia allo Stato stesso, per il quale si sono combattute guerre, alzate barricate, in nome di una bandiera si moriva con onore dinanzi al plotone di esecuzione, gridando “Viva l’Italia”. Tutto questo non è servito a riunire gli uomini, ma a distruggere la fratellanza, perché alla guida di una nazione erano stati posti piccoli uomini e non Statisti, banali intellettuali che non sapevano cos’è davvero il potere. Spero che oggi la nostra classe politica abbia capito che siamo posseduti dal sistema bancario, e che hanno venduto l’Italia a dei baroni Ladroni.

IL MISTERO SULLA MASSONERIA.

Massoneria, politica e criminalità. L’importanza dell’inchiesta di De Magistris, e la dimenticata inchiesta Cordova. Un resoconto del Prof. Paolo Franceschetti.

L’inchiesta portata avanti da De Magistris probabilmente tocca quello che a nostro parere è il problema più grosso del nostro Stato, da decenni: i rapporti tra criminalità organizzata, politica e finanza. Pochi si ricordano dell’inchiesta che nel 1992 Cordova fece sulla massoneria calabrese. E pochi hanno notato le similitudini con l’attuale inchiesta di De Magistris. Vale la pena di ricordarle. Prima però segnaliamo che oggi tutte queste inchieste – ma molto altro ancora - sono raccontate in un libro, Fratelli d’Italia, di Ferruccio Pinotti. Il libro è grande, 800 pagine circa. E’ ben documentato, e contiene anche interviste ad alcuni Gran maestri di diversi Riti. Ma da esso è possibile ricavare alcuni punti fermi che possono essere oggetto di approfondimento.

Analizzare il sistema massonico, e capire tutte le implicazioni che comporta questa istituzione, le interferenza con la società, con la giustizia, ecc., è una cosa impossibile da fare nelle poche righe di un articolo. Sarebbe un po’ come voler spiegare il funzionamento del mondo in poche righe. Il nostro scopo quindi è solo fornire alcuni spunti di riflessione per permettere poi un ulteriore approfondimento a chi lo vorrà fare, rimandando ad altri libri o testi. Evidenziando, in particolare, quei punti che vengono di solito trascurati quando si parla di massoneria, che sono importanti per capire realmente il sistema nel suo insieme.

In massoneria sono iscritte in Italia circa 50.000 persone, tra iscritti ufficiali e non ufficiali. Questo numero immenso di persone è costituito prevalentemente da militari, imprenditori, professionisti, docenti universitari, politici. In altre parole buona parte dell’inteligencia italiana e delle persone che ricoprono incarichi di potere. Tra questi ricordiamo come legati direttamente o indirettamente alla massoneria, Cossiga, Andreotti, Prodi, Berlusconi, De Benedetti, molti componenti legati alla famiglia Agnelli, Vittorio Valletta (dirigente Fiat per molti anni, l’uomo che ha portato la nostra fabbrica al successo degli anni d’oro), i governatori della Banca d’Italia Fazio, Ciampi, Carli, l’ex presidente di Mediobanca Cuccia, l’ex presidente del senato Marcello Pera, ma anche molti cardinali, vescovi, il Preside della facoltà di beni culturali di Bologna Panaino, ecc…

In particolare il mondo bancario, finanziario e imprenditoriale ha legami fortissimi con la massoneria. Oltre ai già citati Agnelli, De Benedetti, e molti presidenti della Banca d’Italia, troviamo Volpi, Joel, Toeplitz, Stringher, Caltagirone, De Bustis (che apparterrebbe agli illuminati, secondo il libro di Pinotti), secondo alcune voci Consorte, Fiorani e tanti altri.
D’altronde, per capire i buoni rapporti tra massoneria e cariche ufficiali dello stato, basti pensare che Prodi alla riunione di apertura del GOI (Grande oriente d’Italia) ha mandato un messaggio di augurio e benvenuto, di cui vale la pena riportare il testo: “La repubblica e il Governo vi salutano, la Repubblica si riconosce nei valori della massoneria”. Il saluto è stato portato dal sottosegretario alle politiche giovanili De Paoli.

Mentre l’ex Presidente della Corte Costituzionale e della RAI Baldassarre ha presenziato di recente ad una riunione del GOI, intervenendo sul tema della tripartizione dei poteri dello stato. In altre parole: i legami tra alte cariche dello stato e massoneria sono fortissimi ed indiscussi. Sono poco pubblicizzati e poco dichiarati, questo si. Ma sono ufficiali. Nulla di strano in ciò. Basti ricordare che il primo parlamento dell’Italia unita era composta in gran parte da massoni come Crispi, Depretis, Zanardelli.

Ogni tanto poi spuntano collegamenti con la massoneria deviata, addirittura da personaggi insospettabili. Pannella infatti tentò di candidare nelle sue liste nientemeno che Licio Gelli, il capo della famigerata P2 al fine, si presume, di fargli avere l’immunità parlamentare. Ma la sua spiegazione ufficiale fu che lo candidava perché in cambio Gelli prometteva di rivelargli i suoi segreti. Una spiegazione delirante, che Pannella dette addirittura in commissione parlamentare. Ma che dimostra come il potere politico vada a braccetto in tranquillità con personaggi che hanno cospirato contro lo stato, e commissionato delitti di ogni tipo, stragi comprese, fino a portarli dentro al parlamento.

La massoneria è un fenomeno mondiale, organizzato cioè su scala mondiale. Il vertice del Grande Oriente, in tutto il mondo, si trova nella corona inglese. Sono appartenuti alla massoneria quasi tutti i Presidenti degli Stati Uniti, e personaggi come Gheddafi e Arafat, presidenti Francesi, Re Del Belgio, di Olanda, e via discorrendo. Ovverosia i vertici del mondo. E’ una creazione della massoneria – come, perché, e in che misura, sarebbe un problema tutto da studiare e approfondire – l’ONU, ma anche la Croce Rossa , il WWF (il cui presidente è Filippo Di Edimburgo). Fu una creazione massonica il cosiddetto gruppo Bilderberg, e lo fu anche la cosiddetta commissione Trilaterale.

Per capire il problema che potenzialmente può crearsi, in virtù di questa fratellanza tra esponenti di spicco di ogni parte del mondo, si cita spesso l’episodio del Britannia, del 1992; in quell’anno, sul Piroscafo Britannia, della Corona inglese, si riunirono alcuni vertici della finanza e della politica mondiale, tra cui Draghi e Prodi e si decise che sarebbero state privatizzate alcune aziende italiane. Passarono in mani straniere dopo questa riunione la Buitoni, la Invernizzi, Locatelli, Ferrarelle, ecc... Inoltre in quell’occasione, stando a quello che riportano alcuni storici e giornalisti, pare – ma il condizionale è d’obbligo – che si decidesse l’affossamento della lira che infatti avvenne negli anni seguenti, ove la nostra moneta conobbe una svalutazione senza precedenti (fine della svalutazione era quella di far acquistare le nostre aziende ad acquirenti stranieri, per un prezzo irrisorio).

Si spiega probabilmente così – in virtù del legame massonico mondiale - la presenza della Banca d’Inghilterra (i cui vertici sono nominati dalla Corona Inglese) nella BCE con il 17 per cento delle quote (nonostante non sia un paese dell’area Euro); e si spiega così perché molte banche italiane effettuano investimenti ingenti in azioni di Chase Manhattan Bank, Barclayrd, Morgan Stanley, ecc., tutte legate direttamente o indirettamente alla Corona Inglese per mezzo di un complicato gioco di scatole cinesi, creando dei conflitti di interessi spaventosi.

La massoneria ha diverse sfaccettature. Esistono migliaia e migliaia di logge, e decine di istituzioni massoniche o paramassoniche (organizzate cioè come la massoneria, senza potersi chiamare ufficialmente con questo nome). Abbiamo il Grande Oriente, la più diffusa a livello mondiale. Poi abbiamo i Rosacroce, I cavalieri di Malta, i Templari, l’Opus Dei e chissà quante altre magari sconosciute. Tutte queste istituzioni sono caratterizzate dal segreto per quanto riguarda il loro funzionamento interno, e dal fatto di trasformarsi, spesso, in veri e propri comitati di affari, anche illeciti. Queste istituzioni sono diverse tra di loro, e talvolta sono in conflitto. Ma molto spesso collaborano e cooperano. Basti ricordare che Gelli apparteneva contemporaneamente alla P2, che tecnicamente era una loggia del Grande Oriente, ma era iscritto anche ai Cavalieri Di Malta e ai Templari, per sua stessa ammissione.

In teoria la massoneria è un istituzione in cui si entra per fare un percorso iniziatico di conoscenza e approfondimento dei temi principali dell’esistenza. Questo è senz’altro vero per alcuni o molti dei suoi iscritti e per numerose logge. In teoria poi la lista degli iscritti dovrebbe essere pubblica, essendo vietate dal nostro ordinamento le associazioni segrete. Ma in realtà esiste il fenomeno delle logge massoniche coperte, o segrete, dove si iscrivono uomini politici che non vogliono rivelare la loro appartenenza alla massoneria; e a queste logge si affiliano anche boss mafiosi come Inzerillo, Bontate, Riina, Bagarella, Lo Piccolo, Mandalari (il commercialista di Riina) che certamente non entrano in questa istituzione per una sete di conoscenza e approfondimento della ricerca interiore.

La ragione dell’esistenza delle logge coperte la spiega il Gran Maestro Di Bernardo, a pag. 396 del libro: “Le logge coperte sono sempre esistite. La loro funzione era quella di salvaguardare persone di particolare importanza istituzionale, politica e finanziaria, proteggendole da pressioni indebite da parte di altri fratelli”. Le logge massoniche coperte insomma sono il collante tra criminalità organizzata, politica, finanza e imprenditoria (non a caso i più grandi scandali finanziari italiani hanno visto come protagonisti dei massoni). E le logge massoniche coperte sono il motivo, o comunque uno dei motivi, dell’espansione della criminalità organizzata mafiosa nelle regioni del centro e del nord.

Un esempio chiarirà meglio la questione. Se un capo camorra deve costruire un grosso immobile al nord, qualora sia affiliato alla massoneria, chiederà aiuto ai “fratelli” del nord. Che, per il solo motivo di avere davanti un fratello, lo aiuteranno in questa impresa. Se deve riciclare denaro sporco, sono ancora una volta le collusioni con un banchiere massone che consentiranno questo riciclaggio. E il legame massonico è la spiegazione dell’espansione della mafia negli stati dell’Unione Europea. Considerando che la massoneria è una fratellanza “mondiale” non sarà difficile per un mafioso trovare appoggi in Russia, in America, o alle Cayman. Così come non è difficile, per massoni appartenenti alle varie mafie, entrare in collegamento tra loro e stringere patti di alleanza; di qui nascono i patti di alleanza tra mafia, ‘ndrangheta e camorra. Ecco il motivo per cui quando un magistrato inizia ad indagare sulle cosiddette logge massoniche coperte viene regolarmente silurato, fisicamente e/o lavorativamente.

Ora, qui sta il nodo centrale del problema massoneria, tra gli iscritti alla massoneria esiste un giuramento di fedeltà che li porta ad aiutarsi l’un l’altro. Questo è il nodo cruciale del problema massonico: è possibile che un pubblico ufficiale o un funzionario statale siano servitori dello stato ma, contemporaneamente, prestino fedeltà ad un’istituzione non statale? Il tema, ovviamente, è tutto da approfondire, perché ovviamente i più alti esponenti della massoneria negano che il loro giuramento di fedeltà prevalga sulle leggi dello stato. Ma, francamente, quando in una loggia coperta operano mafiosi, esponenti dei servizi segreti, imprenditori, e politici, c’è perlomeno da dubitare di queste affermazioni di lealtà allo stato. Occorre inoltre tenere presente una cosa che pochi sanno; all’interno la massoneria ha i propri tribunali, organizzati in tre gradi proprio come avviene nell’ordinamento giudiziario italiano.

La massoneria si configura quindi come un vero stato nello stato. Potremmo dire uno stato al di sopra dello stato. O perlomeno, per usare le parole della 32 Commissione parlamentare antimafia, “le logge coperte … sono in grado di determinare gravi interferenze nell’esercizio di funzioni pubbliche”. Ecco il motivo dell’allarme che suscita la possibilità che un presidente del Consiglio (Romano Prodi) possa appartenere ad una loggia coperta di San Marino o comunque avere interessi ad essa legati. Ecco la potenziale bomba che potrebbe scoppiare se l’inchiesta di De Magistris, nei suoi contenuti, fosse portata alla luce. Ed ecco perché il clamore mediatico si preferisce dirottarlo sul problema del suo “presenzialismo” in TV, per stornare l’opinione pubblica da un problema immenso, che coinvolge il problema dei rapporti tra politica e criminalità organizzata.

C’è un dato importante poi che non bisogna trascurare: i servizi segreti sono quasi sempre stati diretti da appartenenti alla massoneria, con tutte le conseguenze del caso. E’ documentalmente accertato che furono diretti per quasi 30 anni da appartenenti alla massoneria, oggi non si sa poiché mancano elenchi di iscritti recenti. Ma non a caso è coinvolto nell’inchiesta di De Magistris l'odierno capo della sezione calabrese del Sismi, oltre a vari politici. Per qualche decennio i servizi segreti non rispondevano, insomma, al Governo, ma a Gelli. Ed è probabilmente per questo – per la presenza dei servizi segreti deviati - che in tutti i fatti giudiziari più gravi di questi ultimi anni, quando erano presenti i servizi segreti, i testimoni sono morti in modo misterioso e sempre con le stesse tecniche (suicidi in ginocchio; incidenti stradali; infarti improvvisi). Diciamo “probabilmente” perché il dubbio è sempre un obbligo, quando si tenta di ricostruire un sistema di potere senza avere prove documentali certe (cosa peraltro estremamente facile quando chi deve indagare è legato a quel gruppo di potere e per non tradire il giuramento fatto non indaga). Tuttavia è un fatto che nei principali episodi stragisti dell’Italia di questi ultimi decenni (solo per far qualche esempio: Italicus, Ustica, Moby Prince, Piazza Fontana; Strage di Bologna; strage di Via D’Amelio e strage di Capaci) i servizi segreti deviati erano sempre coinvolti in vario modo; e i testimoni sono sempre morti nello stesso identico modo: con una tecnica che oltre ad essere sempre uguale, è indizio dell’intervento di persone che adottano tecniche sofisticate (ecco il significato dell’espressione “menti raffinatissime” usata da Falcone riguardo al suo attentato all’Addaura). Ciò indica che probabilmente c’è un filo conduttore tra tutte queste stragi. E questo filo conduttore probabilmente lo si troverebbe nello logge massoniche deviate.

In conclusione: le logge massoniche coperte sono il collante che lega tra di loro criminalità, finanza e politica. Il giuramento massonico, e i vari legami che in queste sedi si creano, sono la spiegazione dell’espansione della criminalità organizzata in tutti i campi della vita sociale e politica. Ai vertici della finanza, della politica, dell’imprenditoria, ci sono molto spesso persone legate, direttamente o indirettamente alla massoneria. E i servizi segreti deviati sono stati, da sempre, il braccio armato della massoneria deviata.
Ma su queste logge è impossibile indagare, perché, appunto, chi tocca questi fili muore, o viene delegittimato. Per questo motivo è importante seguire da vicino, per tutti noi che ci occupiamo di queste vicende, le vicende di De Magistris, Woodcock e Forleo. Perché, consapevolmente o inconsapevolmente, hanno toccato i vertici del potere. Hanno toccato cioè quel filo sottile che lega politica e criminalità, ove risiede la spiegazione della maggior parte dei disastri che affliggono il nostro paese da decenni.

GLI INTRECCI AFFARISTICI TRA POLITICA, IMPRENDITORIA, MASSONERIA E POTERI OCCULTI RAPPRESENTANO ORMAI UN SISTEMA COLLAUDATO...EMERGE DA ESSO LA SPARTIZIONE DEL DENARO PUBBLICO, IL FINANZIAMENTO AI PARTITI, IL RUOLO DI LOBBY E POTERI OCCULTI DEVIATI. (Dagli atti del P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris).

Nel mese di luglio 2007, le maggiori agenzie di stampa hanno diffuso la notizia che il P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris, nell'ambito di un'indagine sull'assegnazione dei fondi comunitari, a carico di soggetti appartenenti a logge massoniche, aveva inviato un avviso di garanzia al Presidente del Consiglio, Romano Prodi, sospettato di appartenere alla loggia di San Marino, chiamando in causa alcune figure vicine ai massimi vertici istituzionali. Da allora, stiamo assistendo ad una violenta campagna di delegittimazione della parte sana della magistratura, ad opera di vasti settori della politica, delle istituzioni e del C.S.M. che mirano, senza mezzi termini, a paralizzare ogni indagine in corso sul rapporto tra affari, mafia, politica e massoneria.

Secondo l'ex Gran Maestro venerabile Giuliano Di Bernardo, in un'intervista rilasciata a Ferruccio Pinotti, collaboratore della CNN e dell'International Herald Tribune, pubblicata nel recente volume, "Fratelli d'Italia", edito dalla Biblioteca Universale Rizzoli, uscito nelle librerie lo scorso novembre, vi è un'analogia tra l'attuale situazione politica italiana e quella ai tempi della prima indagine sulle logge massoniche dell'ex Procuratore Capo del Tribunale di Palmi, Agostino Cordova, nel 1992. Nell'analisi dell'ex maestro reggente che, anni orsono, lasciò il "Grande Oriente d'Italia", denunciandone le deviazioni, per fondare la comunione dei cd. "Illuminati", la situazione della massoneria in Calabria "è esattamente quella di allora, dai tempi di Cordova, per quanto riguarda la collusione mafia - massoneria". Solo in Italia, continua Di Bernardo, dalla sua posizione di esperto conoscitore del problema: "la massoneria continua a nascondersi...". "La realtà massonica è rimasta immutata". "La differenza, oggi, potrà farla solo la magistratura, in termini di qualità delle indagini. Quello che è accaduto con l'inchiesta di Catanzaro è la riprova del fatto che i problemi sui quali avevo cercato di intervenire, senza riuscirvi, sono rimasti gli stessi di allora"... "Simili anche le condizioni ambientali."

Non è casuale, secondo Giuliano Di Bernardo, il periodo in cui questa nuova inchiesta esplode. "Se noi andiamo con la memoria all'inchiesta Cordova, vediamo che inizia nel 1992, proprio quando la crisi politica era totale e si preparavano situazioni fino ad allora imprevedibili. Secondo alcuni analisi il trasferimento dell'inchiesta Cordova al "porto delle nebbie" romano concise con la "pax mafiosa", seguita all'assassinio di Falcone e Borsellino del 1992". "Il 5 febbraio di quell'anno, il Sisde inviava una nota al ministro dell'Interno: "non è da sottovalutare la possibilità che frange eversive stipulino con la criminalità organizzata accordi di collaborazione a fini operativi per la destabilizzazione del Paese". Mentre al giudice istruttore di Bologna, Leonardo Grassi, arrivava il 4 marzo una segnalazione di "fatti intesi a destabilizzare l'ordine pubblico, al fine di instaurare "un nuovo ordine massonico deviato"(...)".

Secondo Di Bernardo oggi ci ritroviamo alle prese con le stesse identiche situazioni politiche, lo stato di crisi è esattamente quello che caratterizzava l'epoca in cui Silvio Berlusconi scese in politica per "sopperire" ad una situazione che appariva drammatica, come quella che stiamo vivendo adesso. La politica era in crisi, la gente non aveva più fiducia della classe dirigente, "ecco che allora applaudì l'uomo forte, lo portò sugli scudi e lo fece eleggere". In tale ottica è indubbio sia in atto uno scontro tra un "nuovo ordine massonico" e uno "vecchio" (sui quali vige un assoluto divieto d'indagare, senza soluzione di continuità), nonché tra una "nuova mafia emergente" e una "vecchia" (i cui capi dei capi dopo oltre 40 anni sono stati consegnati alla giustizia per sedare la pubblica indignazione e ridisegnare gli equilibri del potere mafioso). Uno scontro del tutto sommerso e dagli oscuri contorni, dove chiunque prevalga, non c'è logicamente spazio per la legalità e la verità, a cui un Paese civile dovrebbe ambire, ovvero per quella "differenza" in termini di qualità di indagini poc'anzi citata.

Come noto, l'inchiesta di Cordova sulle logge massoniche, dopo il trasferimento del magistrato alla procura di Napoli (promuovere per rimuovere), venne infatti affossata dalla procura di Roma nel giugno 1994 e affidata ai P.M., Lina Cusano e Nello Rossi. Il procedimento restò pressoché fermo per quasi sei anni, eppoi nel dicembre 2000 il giudice per l'indagine preliminare Augusta Iannini dispose la formale archiviazione dell'inchiesta, nonostante fossero stati raccolti ben 800 faldoni e innumerevoli fonti di prova sulle attività illecite delle più importanti logge italiane con ben 61 indagati, coinvolgenti influenti personaggi del mondo imprenditoriale, finanziario, politico e istituzionale, nonché della stessa magistratura, collusi con la ‘ndrangheta con cui avevano costituito delle vere e proprie società di affari, attraverso le quali si spartivano e, tuttora, continuano a spartirsi impunemente, i proventi leciti e illeciti derivanti dagli accordi perversi del sodalizio criminale ("Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica" di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con prefazione di Stefano Rodotà, 1994, Rizzoli).

A distanza di oltre 16 anni dalla strage di Capaci la "pax mafiosa" rischiava nuovamente di incrinarsi sotto i colpi delle nuove investigazioni delle procure di Catanzaro, Potenza e del G.I.P. di Milano, Clementina Forleo, ma con l'illegittima avocazione delle indagini del P.M. De Magistris, da parte del Procuratore Generale e le strumentali procedure di trasferimento avviate dal C.S.M., anche nei confronti del G.I.P. di Milano, Forleo, la storia si ripete, dando un segnale forte alla magistratura non asservita alle logiche delle logge e dei partiti di regime, che oltre un certo livello non si può indagare.

Chi lo fece, come Falcone e Borsellino, pagò con la vita. Nel nuovo ordine sociale "massomafioso" il prezzo è il pubblico discredito, la delegittimazione, la procedura di trasferimento, le minacce velate, gli incidenti mortali... E' ciò che puntualmente accade quando si toccano i poteri forti e l'intreccio tra affari, mafia, politica, massoneria.

All'interrogativo se Stato, mafia, massoneria siano divenuti una "cosa sola" è pertanto legittimo rispondere che sono divenuti parte di un unico sistema, attraverso il quale si riproduce il controllo capillare del territorio e delle logiche di governo delle istituzioni democratiche, soffocando in radice la legalità e ogni anelito di giustizia. Tale concezione paradigmatica costituisce una nuova prospettiva teorica per analizzare il fenomeno mafioso e il degrado delle istituzioni, fornendo una chiave per realizzare un mutamento epocale dei rapporti tra governati e governanti. E' indubbio che a taluni potrà risultare ostico digerire che Stato, mafia e massoneria si siano coesi, tanto da fare parte di un unico sistema di malaffare criminale. In specie, per chi vive troppo lontano - o troppo vicino - all'agone politico e giudiziario, subendone il retaggio e rimanendo, in entrambi i casi, vittima di un distorto senso dello Stato e di una cultura dogmatica delle istituzioni che, nell'accezione più diffusa e non condivisibile, "vanno difese ad oltranza e a qualsiasi costo per non pregiudicare i cardini dello Stato di diritto e le basi sociali della pacifica convivenza". In verità, così facendo, si ottiene l'effetto opposto di distruggere nei cittadini il senso di appartenenza e di identificazione nello Stato. Si distrugge la credibilità delle istituzioni e della magistratura, alimentando la storica diffidenza dei cittadini verso il potere. D'altronde, l'esistenza di una "cupola mafiosa" che controlla anche la vita giudiziaria, da sud a nord del Paese, in grado di neutralizzare il lavoro dei magistrati onesti, non è frutto di illazioni o di mere ipotesi sociologiche, bensì il risultato di appronfondite indagini a cui sono approdati, ancora prima del P.M. di Catanzaro, Luigi De Magistris, il Procuratore Antimafia di Reggio Calabria, Salvo Boemi e il suo sostituto Roberto Pennini e l'ex Procuratore di Palmi, Agostino Cordova.

I primi, denunciarono, ripetutamente, in alcune interviste a Panorama e L'Espresso, tra il 1995 e il 1998, di essere stati abbandonati e boicottati dal C.S.M. e dallo Stato, in quanto ritenuti "rei" di "non essersi accontentati di colpire il braccio militare della ‘ndrangheta" e di "avere denunciato i magistrati massoni che a Reggio Calabria avevano deciso di mettere una pietra sui processi anticosche". In proposito, il Dr. Boemi racconta a Panorama: "come dopo lo scandalo della P2, nella massoneria fossero incominciati ad entrare i parenti stretti dei magistrati (i quali volevano evitare in tal modo un coinvolgimento diretto) e come le logge avessero sempre contrattato a Roma chi dovessero essere i capi degli uffici giudiziari", aggiungendo, infine, di essere scampato a un attentato alla sua vita, solo grazie alle rivelazioni di un pentito (Panorama 21.9.95 e L'Espresso 16.7.98).

L'intensa e proficua attività investigativa del Dr. Agostino Cordova, soffocata con il suo strumentale allontanamento dalla Procura di Palmi è invece ben documentata in "Oltre la cupola. Massoneria, mafia, politica" di Francesco Forgione e Paolo Mondani, con la prefazione di Stefano Rodotà e una postfazione di Agostino Cordova, edito da Rizzoli (1994). Il lavoro degli Autori non si limita a ricostruire l'opera del magistrato, ma ci introduce nella più larga dimensione dell'agire complessivo delle istituzioni e del modo in cui esse si intrecciano con la società. Il libro è il racconto delle vicende d'una regione, la Calabria, e del modo in cui venne perduta dallo Stato. Di come lì lo Stato, affermano gli Autori, "abbia cambiato natura, si sia ritirato, lasciando emergere un modo d'organizzazione dell'insieme dei poteri pubblici che perdeva progressivamente i caratteri della legalità e ad essa sostituiva una normalità modellata, invece, sull'accettazione di comportamenti illegali divenuti la norma fondante della società". L'opera ben descrive la sparizione dei confini tra Stato e Antistato, tra diritto e crimine e mette in luce come lo Stato perda i caratteri che dovrebbero caratterizzarlo e, quasi per una forma mimetica ormai obbligata, affermano gli Autori, assuma quelli dei suoi antagonisti, di quelli che dovrebbe avversare". Si perde insomma la possibilità di individuare l'Antistato perché è lo Stato ad essersi dissolto.

Nella postfazione, lo stesso Cordova si sofferma a sottolineare come le indagini sulla massoneria deviata, avviate dalla Procura di Palmi, siano state costellate da una serie di anomali contrattempi, mai avvenuti in altri procedimenti: dal divieto di utilizzare uffici provvisori a Roma (si tenga presente che i locali erano già stati reperiti sia dalla Polizia che dai Carabinieri) dove si trovava la sterminata mole di atti sequestrati, fatto che cagionò oltre tre mesi di ritardo durante la fase iniziale delle investigazioni, precludendo l'immediato sviluppo del materiale acquisito; alla soppressione della Procura Circondariale di Palmi, determinando l'utilizzo di soli tre dei sei magistrati applicati dal Csm, e tante altre difficoltà operative. Eppure i risultati conseguiti, pur tra tante difficoltà, ci ricorda il Dr. Cordova, avevano consentito di riferire alla Commissione parlamentare antimafia che "la massoneria deviata è il tessuto connettivo della gestione del potere, e ciò sia per la natura che per il numero delle attività illecite e degli interessi accertati, sia per la qualità e il numero dei personaggi coinvolti, tutti occupanti appunto posti di potere, e costituenti un enorme partito trasversale ramificato non solo in tutto il territorio nazionale, ma collegato con corrispondenti o analoghe organizzazioni in tutto il mondo".

In conclusione, chiosa, il dr. Cordova, "come ho ripetutamente affermato in ogni occasione, ritengo che la società italiana sia nelle mani di inesplorati gruppi occulti di potere e di altre consociazioni e congregazioni e che solo di tanto in tanto, e unicamente in occasione di vicende eclatanti, se ne renda conto. Per dimenticarsene immediatamente dopo, spesso perché l'attenzione è subito distolta o sviata da altre vicende: come abitualmente avviene nel nostro Paese, in cui la memoria è corta e non si va oltre l'episodio contingente".

E' indubbio, quindi, siamo di fronte a verità storiche ed oggettive che ci offrono il nucleo di quello che può definirsi un vero e proprio paradigma, da cui ripartire per analizzare i mali della società e individuare i rimedi più acconci; paradigma che non potrà tardare a venire recepito dalla comunità scientifica, prigioniera della decadente cultura politica masso-mafiosa, la cui sudditanza alle logiche dei poteri dominanti, appare, abbondantemente, suffragata dalla generale situazione di irreversibile degrado sociale ed economico, in cui versa il Paese, da oltre 40 anni, dove la società civile è, suo malgrado, costretta a convivere, fianco a fianco, della mafia e della corruzione politico-istituzionale. Il Paese ha, quindi, urgente bisogno di una magistratura indipendente e senza padrini politici, libera di indagare in ogni direzione, onde garantire le sue alte funzioni istituzionali di controllo della legalità, conferitegli dalla Costituzione, e il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Il mahatma Gandhi affermava che "il livello di civiltà di un paese si misura dalla considerazione in cui viene tenuta la giustizia". Il problema è, quindi, quello di seguire le orme di Falcone e Borsellino e di non lasciare soli quei magistrati come la Forleo e De Magistris che si adoperano per fare il loro dovere fino in fondo, senza guardare in faccia nessuno, assicurando al Paese una giustizia efficiente e uguale per tutti.

LOGGIA PROPAGANDA 2

La data di fondazione della loggia massonica Propaganda Due si perde nel tempo, come spesso accade per simili consorterie. E' noto, comunque, che era un antico sodalizio che accoglieva gli elementi più importanti e prestigiosi, fin da quando, nel secolo scorso, la massoneria, aveva avuto un ruolo centrale nelle vicende italiane. Dopo la seconda guerra mondiale era stata riorganizzata anche la loggia P2, con l'aiuto della massoneria USA, trasferendovi i massoni più in vista o che dovevano restare "coperti". Nel Dicembre 1965 il Gran Maestro aggiunto Roberto Ascarelli presenta l'apprendista Licio Gelli al Gran Maestro Gamberini, il quale lo eleva immediatamente di grado nella gerarchia massonica e lo inserisce nella loggia P2. Nel 1969 Ascarelli e Gamberini affidano a Gelli un non meglio precisato incarico speciale nella loggia. Nel 1971 Gelli diviene segretario organizzativo e ha il totale controllo della loggia. Nel frattempo molti personaggi eccellenti, soprattutto militari e finanzieri si sono iscritti, tra questi il generale Allavena che porterà in dote le copie dei fascicoli delle schedature del SIFAR. Nel '69 capi massonici diranno che grazie a Gelli 400 alti ufficiali dell'esercito sono stati iniziati alla massoneria al fine di predisporre un "governo di colonnelli", sempre preferibile ad un governo comunista. Nel 1972 il nuovo segretario organizzativo cambia nome alla loggia in "Raggruppamento Gelli-P2" accentuandone le caratteristiche di segretezza evitando qualsiasi tipo di controllo. Nel 1973 la loggia segreta "Giustizia e Libertà" si fonde con la P2. Alla Gran Loggia di Napoli del Dicembre 1974, qualcosa di simile a un conclave massonico alcuni tentarono di sciogliere la P2 e di abrogarne i regolamenti particolari, ma senza successo, Gelli aveva acquisito troppo potere nel frattempo. Lino Salvini, maestro del Grande Oriente d'Italia, quindi, nonostante non vedesse di buon occhio tanto potere concentrato in quella loggia, il 12 Maggio 1975 decretò ufficialmente la ricostituzione della loggia P2 elevando Gelli al grado di maestro venerabile. La loggia P2 valicherà presto i confini nazionali e conterà affiliati in diversi paesi dove non si limiterà a fare proselitismo, ma parteciperà, nei modi che la caratterizzano alla vita politica, economica e finanziaria di tali paesi. In Argentina, per esempio favorirà il golpe militare, per poi perorare la causa del ritorno di Peron, così come risulterà implicata nello scoppio del conflitto delle isole Malvinas. La loggia P2 risulterà attiva in Uruguay, Brasile, Venezuela, negli Stati Uniti, in diversi paesi europei e non ultima in Romania, dove Gelli avrà importanti rapporti con il regime "socialista" di Ceausescu, nonostante l'anticomunismo viscerale di tutti gli aderenti alla P2. Evidentemente a Ceausescu non era rimasto niente di comunista e Gelli lo sapeva. Analizzare gli intrighi, la partecipazione a tentativi di colpo di stato o a colpi di stato riusciti, a stragi, attentati, omicidi, depistamenti, operazioni finanziarie sporche e' praticamente impossibile. Basti pensare che dopo il ritrovamento di una parte dei documenti relativi alle attività della loggia ad Arezzo il 17 Marzo 1981 e di altri a Montevideo in Uruguay e' stata costituita una commissione parlamentare di inchiesta presieduta da Tina Anselmi, i cui atti sono raccolti in 76 volumi di dimensioni consistenti e che la documentazione raccolta occupa diverse scaffalature anch'esse di dimensioni consistenti. Semplicemente ci limiteremo a dare un parziale elenco delle vicende in cui la P2 e' implicata. Anche l'elenco degli iscritti che forniamo e' parziale, purtroppo però è l'unico conosciuto, si calcola comunque che gli iscritti alla loggia fossero 2500/3000 e non 963 come risulta dalle liste sequestrate ad Arezzo.

GLADIO.

Quella del gladiatore G.71 è una storia scomoda, per anni tenuta sotto silenzio. Una storia tipicamente italiana, fatta di spie, imprevedibili retroscena, rivelazioni importanti e supportate da documenti. Una vicenda talmente scomoda che anche quando, per frammenti, è arrivata sulle pagine di alcuni giornali nazionali, non ha causato alcun sommovimento politico: il solito muro di gomma l'ha fatta tornare nell'ombra. E’ la storia di Antonino Arconte, 47 anni di Cabras, che fin dal 1997 ha affidato al web il racconto della sua vita all'interno dell'organizzazione Gladio. Agente di una struttura militare segreta facente capo al Sid, Arconte è stato protagonista di operazioni che si sono svolte in mezzo mondo: dal Vietnam alla Russia, dalla Cecoslovacchia al Libano, dagli Stati Uniti all'Africa. Dalla sua testimonianza è emersa una struttura profondamente diversa da quella svelata in Parlamento da Giulio Andreotti il 2 agosto del 1990: non una rete ideata per fronteggiare una possibile invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia (la “Stay Behind”), ma una struttura informativa e operativa che agiva esclusivamente all'estero. La storia ha cominciato a emergere dall'ombra lentamente e a fatica. L'allora ministro della Difesa Sergio Mattarella, rispondendo a un'interrogazione del senatore di Rifondazione Giovanni Russo Spena sulla struttura supersegreta alla quale apparteneva Arconte, si è limitato a rispondere burocraticamente: «Dagli atti del Servizio non sono emerse evidenze in ordine a...». Risposta assolutamente insoddisfacente. Ma il racconto di Arconte non si ferma qui e qualche mese più avanti infittisce di nuovi particolari alcuni dei misteri italiani. Il "caso Moro" in particolare. G.71 ha infatti svelato che, nel marzo del 1978, venne inviato in missione in Libano per consegnare un documento al gladiatore G.219. Si trattava del colonnello Mario Ferraro, passato poi al Sismi, morto misteriosamente nel luglio del 1995, «suicidato», come si dice in gergo militare, visto che è stato ritrovato impiccato alla maniglia della porta del bagno benché fosse alto 1 metro e 90. Nel documento "a distruzione immediata" (Arconte non ha mai distrutto il documento e lo ha esibito alla magistratura inquirente, dalla quale attendiamo ancora un giudizio certo sull'autenticità) viene ordinato di «cercare contatti con gruppi del terrorismo mediorientale, al fine di ottenere collaborazione e informazioni utili alla liberazione dell'onorevole Aldo Moro». L'aspetto inquietante di questa missione è che il documento è datato 2 marzo 1978. Cioé 14 giorni prima del rapimento del presidente della Dc. Qualcuno, quindi, sapeva che Moro sarebbe stato rapito.

GLADIO & CENTURIE. Facciamo qualche passo indietro. Gladio è il nome dato in Italia ad una struttura segreta, collegata con la Nato e istituita nel dopoguerra con la denominazione "Stay Behind" (stare indietro), che aveva il compito di attivare una resistenza armata in caso di invasione sovietica. L'esistenza di questa struttura segreta venne scoperta nel 1990 e successivamente confermata pubblicamente, nel febbraio del 1991, dall'allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Secondo quanto riferito in quell'anno dall'ex primo ministro italiano, la Gladio "Stay Behind" sarebbe stata composta da 622 membri civili i quali avevano il compito di svolgere operazioni dentro il territorio nazionale riguardanti attività informative a carattere difensivo e sotto le direttive della Nato. Quella che racconta Antonino Arconte nel suo memoriale, invece, è tutta un'altra storia. Accanto alla cosiddetta Gladio "civile", infatti, sarebbe stata istituita nel nostro Paese una struttura armata dei servizi segreti militari, tenuta per 50 anni nascosta, che avrebbe operato al di là dei confini italiani attraverso un'attività regolata da direttive nazionali e non dalla Nato. Nel memoriale, Arconte spiega che Gladio era in realtà divisa in tre centurie. «La Prima Centuria era chiamata Aquile, erano cioé aviatori, alcuni paracadutisti della Folgore - scrive Arconte - la Seconda Centuria era chiamata Lupi, io appartenevo a questa, composta da quelli provenienti dalla Marina e dall'Esercito. Poi c'era la Terza Centuria detta Colombe. Non era composta da militari ma da civili, anche donne, che dovevano fare da supporto per le informazioni». Per conto dello Stato italiano, il "gladiatore" G-71 avrebbe partecipato a diverse operazioni estere: dalle repubbliche dell'Est comunista al Nord Africa, dal Sahara spagnolo al Vietnam. Arconte rivela, tra l'altro, del ruolo svolto dai nostri agenti segreti armati in Maghreb per la destituzione del presidente Burghiba. G-71 racconta anche di aver ricevuto un riconoscimento formale da parte di Bettino Craxi il quale lo avrebbe invitato, come si evincerebbe da documenti, a tacere per il bene del Paese. L'attività di questa Gladio si svolgeva presso il ministero della Difesa, direzione generale Stay Behind-personale militare della Marina e la mobilitazione dei gladiatori avveniva tramite Consubin (comando subaquei incursori di La Spezia). Un'attività segreta così come quella degli Ossi (operatori speciali servizio informazioni, alle dipendenze di Gladio) che operavano armati e i cui compiti sono stati ritenuti “eversivi dell'ordine costituzionale” da due pronunciamenti della magistratura.

DA ARCONTE A MORO. Arconte è forse depositario di alcuni dei segreti che formano il filo nero che ha cucito e legato il potere dello Stato allo Stato occulto, attraverso il terrorismo nazionale e internazionale, attraverso insabbiamenti e “suicidi” misteriosi. Il libro di Arconte, pubblicato qualche anno fa negli Stati Uniti (ottenendo peraltro un discreto successo e diventando oggetto di studio), ha aperto nuovi, inquietanti scenari sulla Gladio segreta. Vi compare anche l’immagine del documento top secret sul caso Moro. In quel documento si legge che il 2 marzo 1978 - e cioè 14 giorni prima del rapimento di Moro e dell'uccisione della sua scorta - la X Divisione "S.B." (Stay Behind) della direzione del personale del Ministero della Marina, a firma del capitano di vascello, capo della divisione stessa, inviava l'agente G71 appartenente alla Gladio "Stay Behind" (partito da La Spezia il 6 marzo sulla motonave Jumbo M) a Beirut, per consegnare documenti all'agente G 129, ivi dislocato, dipendente dal capocentro, colonnello Stefano Giovannone, affinchè prendesse contatti con i movimenti di liberazione nel vicino Oriente, perchè questi intervenissero sulle Brigate Rosse, ai fini della liberazione di Moro. Il nome del "gladiatore" G-71, Antonino Arconte, non figura nella lista dei 622 resa nota in Parlamento, lista risultata, comunque, "del tutto inattendibile". «Non è vero - ha scritto più volte Falco Accame, ex presidente della commissione difesa - che il "gladiatore" Arconte sia un "signor Nessuno": lo può testimoniare un altro agente di Gladio che operava come civile, il cui nome di battaglia è "Franz». Nel 1997 "Franz" si fece ricevere a Tunisi da Craxi e portò la lettera di Arconte e di un altro gladiatore, Tano Giacomina (ucciso in circostanze misteriose a Capoverde) che chiedeva al leader socialista di rendere pubblica la storia della "Gladio delle Centurie". Secondo "Franz", Craxi aveva chiesto di essere ascoltato dalla Commissione Stragi (cosa che era stata concessa al generale Maletti) e intendeva riferire in quella sede sulla Gladio, ma l'incontro con la commissione non fu mai possibile. L'ipotesi di una Gladio “segreta” che operasse all'estero con modalità di guerra non-ortodossa non è affatto peregrina, anzi, è in linea con modelli operativi ispirati a quelli della Cia. I contatti con la Cia sono documentati fin dall'inizio della nascita di Gladio, negli anni '50, e si svilupparono con il memorandum di Roma del 20 dicembre '72, di cui parla nel suo libro il generale Serravalle, capo dell’organizzazione dal '71 al '74”. Di Gladio come "scuola di eversione" aveva parlato, nel dicembre 1991, Antonio Maria Mira in un articolo sull'Avvenire, in relazione all'Operazione Delfino e a «uno strano documento di Gladio che - scriveva Mira - sta preoccupando i magistrati padovani e romani, il Comitato di controllo sui Servizi e la Commissione Stragi. E' datato aprile '66 e riguarda un'esercitazione denominata "Delfino" che si svolse nella zona di Trieste dal 15 al 24 aprile 1966, e che doveva procedere ad un programma di "attività provocatorie" coordinate dai servizi segreti ed in accordo con la Cia, che prevedevano la partecipazione delle unità di Gladio». Sull'argomento interveniva Antonio Garzotto nel '92, scrivendo: «La "Delfino" altro non sarebbe che un "vademecum per la guerriglia", messo a punto dalla Cia e concepito dal generale Westmoreland, il comandante Usa in Vietnam. Si trattava di un vero e proprio manuale di strategia della tensione: agenti della Gladio avrebbero dovuto infiltrarsi sia nelle file e nelle manifestazioni del Pci, ma pure nelle frange della sinistra estrema per provocare "azioni violente, moti di piazza, uccisioni". Fare, insomma, "insorgenza", in modo tale da sollecitare una forte reazione, la "controinsorgenza", e legittimare un intervento di "stabilizzazione del potere" da parte dell'Autorità di Governo».

GRADOLI STRASSE. Recentemente è sempre Falco Accame, in qualita' di presidente dell'Associazione nazionale assistenza vittime arruolate nelle forze armate e famiglie dei caduti, a sollecitare la commissione parlamentare d'inchiesta sul dossier Mitrokhin, per approfondire gli elementi riguardanti la vicenda Moro, che non si esauriscono con le dichiarazioni di Arconte. Nel silenzio generale, infatti, alle affermazioni di Arconte (ricordiamo, sempre supportate dal documento “a distruzione immediata” ancora da valutare), si sono aggiunte negli ultimi mesi anche le dichiarazioni di un altro dei gladiatori che operava all'Est in maniera segreta, Pierfrancesco Cangedda, il quale ha più volte dichiarato di aver ricevuto, mentre operava nella Repubblica democratica tedesca durante i 55 giorni del sequestro Moro, una informazione che proveniva dalla Stasi, contenente un'indicazione specifica sulla base dei brigatisti in via Gradoli. Una base che era situata in “Gradoli Strasse”. Questa informazione, come risulta anche da alcune inchieste ancora in corso alla Procura di Roma, venne raccolta dal “terminale” della struttura, l'ufficiale dei servizi segreti Tonino La Bruna, l'uomo che avrebbe reclutato personalmente lo stesso Arconte. Le due “metà” della storia sembrano combaciare perfettamente. Vista la portata di queste dichiarazioni, e le importanti conseguenze che potrebbero avere qualora ottenessero ulteriori riscontri, è giusto cominciare a fare chiarezza da subito senza tenere lontano i riflettori dei media nazionali dalla vicenda. Siamo a un bivio nella ricostruzione della storia italiana degli anni '70 e '80, a partire dalla genesi del terrorismo rosso fino al caso Moro. O i due gladiatori sono dei cialtroni mitomani, e vanno perseguiti dalla magistratura; oppure si dovrà tener conto di quello che dicono e finalmente si arriverà ad aprire un varco nel “muro di gomma”.

P3 E CRICCHE ANNESSE.

Giorgio Napolitano, il 22 luglio 2010, durante la cerimonia del Ventaglio, alla vigilia dell'approvazione finale alla Camera della manovra finanziaria, ha lanciato molti avvertimenti al Paese e, in particolare, alla classe politica. Uno prima di tutti gli altri: «Ci indigna e ci allarma l'emergere di fenomeni di corruzione e di trame inquinanti, anche ad opera di squallide consorterie».«Per ora sicuramente vedo tanto squallore. Poi vedremo cos'altro emergerà. L'importante è che si riesca a far fare alla magistratura il proprio lavoro fino in fondo per accertare fatti e responsabilità».

"Ha fatto bene il presidente della Repubblica a lanciare l’allarme sulle squallide consorterie dei modelli piduisti, ma che l’Italia abbia gli anticorpi è tutto da dimostrare". Lo afferma il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro in un’intervista rilasciata a Sky Tg24 il 23 luglio 2010.

Si parla della vicenda della cosiddetta P3, che vede coinvolti faccendieri, uomini di governo e magistrati. Magistrati che occupano posti di rilievo, importanti, il presidente della Cassazione Vincenzo Carbone, il presidente della Corte d’Appello di Milano Marra; e altri. Il ministro della Giustizia ha detto: “No alle streghe”. Poi ha aggiunto che il "sistema-giustizia" ha in se stesso "tutti gli anticorpi".

Non è questione né di streghe né di stregoni, dice Valter Vecellio, noto giornalista Rai e radicale di lungo corso. Il problema è che tra i collaboratori stretti del ministro della Giustizia troviamo personaggi i cui comportamenti sono perlomeno imbarazzanti. Per riassumere i termini della questione, così come la stampa ha dato ampio risalto. C’è questo Pasquale Lombardi che nel suo giro è conosciuto per l’incapacità di sedere a tavola senza sporcarsi di sugo, “quanno magna se sporca sempre”, si legge in un’intercettazione. Un tipo che sembra di casa in Cassazione, al ministero dell’Economia e a quello della Giustizia, al Consiglio Superiore della Magistratura, al consiglio regionale della Lombardia e alla presidenza della Regione Sardegna e in svariate procure. I suoi interlocutori li chiama amichevolmente “Fofò”, “Nicolino”, “Pinuccio”, “Giacomino”, fino ad arrivare a definire il vice-presidente del CSM Nicola Mancino “un cesso” (e cosa abbia fatto il vice-presidente Mancino per meritarsi questo poco encomiabile, ma inequivocabile titolo, Mancino per primo e noi con lui, dovremmo chiedercelo).

Questo Lombardi fa campagna all’interno del CSM per il suo amico “Fofò” Alfonso Marra che diventa capo della corte d’Appello di Milano, e per altri. E’ intimo del sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo e del capo del Servizio di controllo interno del ministero della Giustizia Angelo Gargani; e quando, a proposito della esclusione della lista Formigoni dalle elezioni regionali, i magistrati di Milano non si comportano come la cricca desidera, chiede consiglio ad Arcibaldo Miller, altro magistrato, e capo degli ispettori del ministero della Giustizia, e invoca un’ispezione ministeriale. E questo Miller, invece di mandare Lombardi a quel paese, amichevolmente e in modo spericolato gli dà consigli su come fare per ottenere questa ispezione. Lo stesso Miller che viene invitato da Lombardi a riunioni, a pranzi a casa del coordinatore del PdL Verdini o in ristoranti per definire le strategie da adottare.

Ora va bene che viviamo in un paese dove un ex ministro come Claudio Scajola può dire che qualcuno gli paga la casa a sua insaputa, e ristruttura la stessa casa e il conto lo paga il SISDE; e un altro sottosegretario, Guido Bertolaso, può dire impunemente in televisione che lui non sa nulla delle operazioni poco limpide che si sono fatte all’ombra del vertice del G8, anche se quelle cose poco limpide erano state puntualmente denunciate in una dettagliata interrogazione di Elisabetta Zamparutti e degli altri parlamentari radicali un anno prima che la vicenda esplodesse. Però è davvero incredibile, letteralmente inaudito che il ministro della Giustizia parli di scongiurare una “caccia alle streghe”, invece di annunciare: ho convocato il sottosegretario Caliendo, il capo del servizio di controllo Gargani, il capo degli ispettori del ministero della Giustizia Miller, e li ho pregati di farsi da parte fino a quando l’inchiesta sarà conclusa, e nel frattempo ho avviato un’inchiesta interna per accertare come sono andate le cose. Questo un ministro della Giustizia avrebbe dovuto fare. Questo il ministro della Giustizia Alfano non ha fatto. Altro che caccia alle streghe!

Se questi sono gli anticorpi in un sistema marcio, figuriamoci che fine possono fare gli esposti e le  denunce di semplici cittadini inviati al Ministero della Giustizia, che rilevano abusi ed omissioni di sistema causati da apparati giudiziari.

La prima commissione del Consiglio Superiore della Magistratura ha deciso di avviare il trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale nei confronti del presidente della Corte d'appello di Milano, Alfonso Marra, a seguito del suo coinvolgimento nelle intercettazioni relative all'inchiesta sull'eolico. La decisione è passata con quattro voti a favore; in commissione ha votato contro soltanto il laico di centrodestra, Anedda. Non ha partecipato al voto Giuseppe Berruti, che nelle intercettazioni viene considerato il maggior ostacolo alla nomina di Marra.

In un'informativa datata 18 giugno 2010, parlando dell'attività svolta dal gruppo occulto, i carabinieri descrivono la "vicenda che ha visto protagonista il neo presidente della Corte d'appello di Milano. Non appena Marra - riferiscono i militari - ha ottenuto, dopo un'intensa attività di pressione esercitata dal gruppo (e in particolare da Pasquale Lombardi) sui membri del Csm, l'ambita carica, i componenti dell'associazione gli chiedono esplicitamente, peraltro dietro mandato del presidente Formigoni, di porre in essere un intervento nell'ambito della nota vicenda dell'esclusione della lista Per la Lombardia". Marra ha commentato:  "Sono contento che il Csm abbia aperto la procedura così si chiarirà la mia posizione".

Intanto restano in carcere l'affarista sardo Flavio Carboni e il magistrato tributario Pasquale Lombardi. I giudici del tribunale del riesame di Roma hanno respinto, infatti, le istanze di remissione in libertà o concessione degli arresti domiciliari per i due indagati. I pubblici ministeri avevano dato parere negativo alle richieste dei legali.

In seguito a ciò, il 16 luglio 2010  è stato pubblicato l’editoriale del direttore di “Libero”, Maurizio Belpietro dal titolo:  “La cricca dei giudici”. "Se uno di noi fosse sospettato di aver violato la legge e di essere al servizio di pericolosi criminali, il minimo che gli potrebbe capitare sarebbe di essere indagato, il massimo di finire in galera. Cosa che non accadrebbe se si trattasse di un magistrato. Nel qual caso infatti si verrebbe trattati con mille attenzioni, anzi, con mille attenuanti, perché la casta delle toghe è seria, non come quella dei politici, che fa finta di essere  potente e poi finisce alla berlina ogni giorno sulle prime pagine dei giornali. Dunque, cari lettori, non fatevi ingannare dal caso Marra, il presidente della Corte d’appello di Milano finito nelle intercettazioni telefoniche della P3. Il suo trasferimento per incompatibilità è infatti la manovra per mettere tutto a tacere o, peggio, per imbrogliare le carte. Mi spiego. Se Marra fosse per davvero un magistrato in combutta con la cricca di Flavio Carboni e si fosse macchiato della grave colpa di aver brigato per favorire la P3 - cosa a cui io non credo -  non dovrebbe essere trasferito ad altra sede, come si appresta a fare il Csm. Semmai, dovrebbe essere radiato, perché non ha le qualità morali per fare il magistrato. Il trasferimento al contrario stabilisce che Marra non faccia più il giudice a Milano, ma possa continuare a farlo altrove, come se nulla fosse accaduto. Del resto, il Consiglio superiore della magistratura è specialista nell’assolvere i suoi protetti.....".

Ma l'amico... l'amico Lombardi è in grado di agire?". Al telefono Roberto Formigoni è supplichevole. Teme che la sua lista venga esclusa dalle elezioni e invoca l'intervento dell'"amico Lombardi": "Ti prego!". Ignora chi sia l'uomo di cui sta invocando il sostegno: un geometra che fatica a parlare in italiano e fa replicare alla supplica del governatore con un "dicitangill pure a chill amic tui su a Milan (diteglielo anche a quell'amico tuo su a Milano)". Eppure l'irpino Pasquale Lombardi, celebre nel suo giro per l'incapacità di sedere a tavola senza imbrattarsi di sugo ("Il nostro comune amico che quanno magna se sporca sempre..."), con il suo eloquio da Pappagone riusciva ad entrare in tutti i palazzi del potere. Il suo motto era semplice: "Arriviamo, arriveremo dove dobbiamo arrivare". In Cassazione, nel ministero dell'Economia e in quello della Giustizia, nel Consiglio superiore della magistratura, nel Pirellone, nella presidenza della Sardegna, in ogni procura d'Italia, il geometra Lombardi trovava sempre le porte aperte. Snocciolava una serie di diminuitivi affettuosi - Fofò, Nicolino, Pinuccio, Giacomino - con cui si rivolgeva a sottosegretari, coordinatori di partito, governatori e procuratori della Repubblica. Fino a incontrare "Chillu cess' e Nicola", al secolo Nicola Mancino, vicepresidente del Csm e suo compaesano. E non era l'unico a godere di simili frequentazioni, intime e pericolose.

Democrazia limitata.
In pochi mesi gli italiani hanno scoperto l'altro volto del potere: le cricche, termine antico che indica "un gruppo informale e ristretto di persone che condividono degli interessi". Aggiunge il dizionario: "Generalmente in una cricca è difficile entrarvi". Invece di questi club esclusivi se ne sono emersi parecchi. Un'orda che si è infilata dovunque: hanno influito e interferito su ogni decisione importante degli ultimi dieci anni, dal Giubileo al G8, dalle nomine al vertice della magistratura alla designazione dei presidenti di Regione, dai processi nella Suprema corte al lodo Alfano. Centurie del malaffare, avversarie e alleate a seconda della posta in gioco e dei loro punti di forza, pronte a scambiarsi favori e tirarsi addosso dossier al veleno.

Deviazioni per tutti i gusti.
Ogni cricca ha la sua specialità. C'è quella degli appalti, con Diego Anemone - geometra sconosciuto al pari di Lombardi - che riunisce a tavola e negli affari il capo della Protezione civile Bertolaso, il gran commis di tutte le opere pubbliche Balducci, il ministro Scajola e l'ex Lunardi, il coordinatore pdl Verdini, il cardinale Angelo Sepe, un alto magistrato e una sterminata lista di beneficiati eccellenti. C'è quella del riciclaggio scoperchiata dal pm Giancarlo Capaldo, tra traffici sulla telefonia e sospetti di narcotraffico, del pregiudicato romanissimo Gennaro Mokbel e del suo senatore Nicola Di Girolamo, che muovono tanto denaro da non riuscire a contarlo ed esclamare "c'avete rotto il cazzo co tutti sti milioni". C'è poi la rete su scala minore dei fratelli De Luca, imprenditori campani delle ferrovie, con parenti al Csm, agganci in Vaticano e intrallazzi al ministero delle Infrastrutture. E il sogno infranto di Giampi Tarantini, che era entrato nelle notti di Villa Certosa e Palazzo Grazioli, passando dai contratti della sanità pugliese alle holding internazionali come Finmeccanica. Senza dimenticare sullo sfondo la nebulosa di Why Not, la ragnatela di contatti messa a nudo dall'indagine di Luigi De Magistris: una mappa delle relazioni altolocate, senza risvolti penali ma comunque significative per capire cosa resta della democrazia.

Le regole dei clan.
Scordatevi delle tessere o dei cappucci: elenchi massonici come nella vecchia P2 sono ricordi del passato. E quanto c'entri la massoneria nel diffondere questo contagio ancora non è chiaro, anche se l'aura dei liberi muratori circonda molti protagonisti tra Toscana e Sardegna. Pur senza gran maestri e gerarchie, come in un gioco di ruolo ogni cricca per funzionare richiede alcune figure specializzate. C'è il tesoriere, in genere un imprenditore, che sostiene le spese del gruppo. Il clan degli irpini poteva attingere ai capitali di Arcangelo Martino, ex assessore socialista napoletano diventato un ras delle forniture ospedaliere: sede legale a Lodi, base operativa nel Casertano e oltre cento Asl nel carniere. Con Formigoni ha un filo diretto e non solo con lui: sono in molti a scommettere che il prossimo filone riguarderà la sanità e sarà dirompente. La gang degli appalti invece usava i fondi di Anemone, costretto a sudare quattro camicie per ragranellare il cash prima di cene con Bertolaso e generoso nel finanziare le dimore di Scajola, di un generale del Sisde e di altre perdine ministeriali. Ma Anemone spesso pagava in natura, ossia faceva lavori a gratis o a prezzo di costo a tutta la Roma che conta. In più c'era la santa alleanza con il cardinale Angelo Sepe che aveva offerto il catalogo di Propaganda Fide, con case da sogno a prezzi modici. Tutte le consorterie cercavano un padre spirituale con mire materiali. Sepe era intimo di Balducci, Bertolaso e company ma avrebbe tenuto relazioni intense anche con Arcangelo Martino e viene chiamato a benedire un convegno dei magistrati sedotti dal geometra Lombardi. Molto attivo e trasversale monsignor Francesco Camaldo, cerimoniere del papa e delle raccomandazioni. Invece i fratelli De Luca si rivolgono al cardinale Fiorenzo Angelini, ben introdotto tra i parlamentari cattolici e nell'ufficio di Bertolaso "che ha aiutato moltissimo...".

Quella nomina fu una ferita mai rimarginata. E con le intercettazioni sulle manovre sotterranee per ottenerla è tornata a sanguinare. Al punto da dover correre ai ripari in tutta fretta, per quanto si può. La decisione di far presiedere la corte d’appello di Milano ad Alfonso Marra divise a metà il Consiglio superiore. Era il 3 febbraio scorso. Marra ottenne 14 voti contro i 12 dell’altro candidato, Renato Rordorf. Fu una spaccatura trasversale, anche all’interno delle correnti. Dentro Unicost e Magistratura indipendente, i due gruppi «moderati», Berruti e Patrono si schierarono a favore di Rordorf, considerato «di sinistra». E tra i «laici» eletti dall’Ulivo, Celestina Tinelli preferì Marra. Come i tre membri dell’ufficio di presidenza (Mancino, il presidente della Cassazione Carbone e il procuratore generale Esposito); per motivi di opportunità, fecero trapelare, legati a un precedente voto unanime in favore dello stesso giudice, e perché Rordorf aveva lavorato al Csm.

Spiegazioni che all’epoca non convinsero. Perché nei corridoi del palazzo dei Marescialli, sede del Csm, si sussurrò fin da subito che dietro i voti determinanti della Tinelli, di Mancino e di Carbone c’era qualcosa di strano. Niente di dimostrabile, ma molto di avvertito. Nell’abituale resoconto per gli aderenti alla sua corrente, la consigliera di Magistratura democratica Elisabetta Cesqui—già pubblico ministero nel processo alla Loggia P2 —sulla nomina di Marra si lasciò andare a considerazioni amare: «L’aria viziata delle pressioni si è sentita fortissima... Il Consiglio può fare tutti gli sforzi di rinnovamento che vuole, ma quando si parla di decisioni veramente importanti, l’esigenza di presidio di certi territori e di certi uffici prevale sistematicamente sulle logiche di merito effettivo».

Ora le registrazioni di alcuni colloqui messi a fondamento dell’arresto dei tre ispiratori della presunta «associazione segreta» che si sarebbe adoperata, fra l’altro, per la nomina di Marra, ha dato nuovi argomenti a chi sosteneva quella tesi. Al di là della loro rilevanza penale. I dialoghi fra Pasquale Lombardi, il «ministro della Giustizia» del gruppo, con lo stesso Marra e con il sottosegretario Giacomo Caliendo (ex magistrato di Unicost) sembrano dare concretezza ai sospetti. Come se avessero strappato un velo.

«Mi pare che ho concluso, per te, col capo», diceva Lombardi a Marra dopo un incontro con Carbone. «Ma bisogna avvicinare ’sto cazzo di Berruti... », ribatteva Marra. E Lombardi a Caliendo: «Per quanto riguarda Berruti te la devi vedere tu». Poi ancora a Marra: «Ho parlato con Giacomino e... stiamo operando». Alla Tinelli chiedeva: «È opportuno che ne parli un poco con il presidente Carbone?». E lei: «Sì, assolutamente». In altri dialoghi Lombardi faceva intendere che il voto di Carbone si poteva conquistare prolungando la sua permanenza al vertice della Cassazione, con un emendamento sull’età pensionabile; riferiva di incontri con Mancino, e consigliava Marra di rivolgersi all’ex ministro Diliberto per convincere la «laica» Letizia Vacca.

Tutte chiacchiere e millanterie, replicano gli interessati; Carbone avrebbe persino avvisato il ministro della Giustizia che non avrebbe accettato proroghe della sua presidenza. Ma è difficile districarsi tra intercettazioni e giustificazioni. Restano la puzza di bruciato che si avvertì al tempo della nomina e le conversazioni che oggi rivelano le pressioni. Almeno tentate, visto il tempo trascorso al telefono da Lombardi per il suo amico Marra. «Pasqualì, poi facciamo ’na bella festa, a Milano o a Roma», diceva il giudice. E l’altro: «Eh, ce la facimm’ ’na bella festa!». La rapidissima decisione del Csm — giunto a fine mandato, scadrà fra due settimane — di avviare la pratica per la rimozione di Marra sembra il tentativo di cancellare una pagina opaca della propria storia. Quasi certamente toccherà al prossimo Consiglio decidere il destino di quel giudice, ma chi l’ha nominato ha voluto mettere le basi per dissipare l’ombra di una scelta condizionata da un gruppo di potere occulto e illegale, almeno secondo l’accusa. Lo stesso Csm ha chiesto alla Procura di Roma «ogni utile informazione» su altri magistrati i cui nomi emergono dall’inchiesta. A cominciare da Arcibaldo Miller, il capo degli ispettori del ministero della Giustizia, che—hanno scritto i carabinieri nel loro rapporto— «forniva il proprio contributo alle attività di interferenza». Al pari del sottosegretario Caliendo e dell’ex avvocato generale della Cassazione Antonio Martone, che però hanno abbandonato la toga.

Anche la decisione della Procura generale di aprire l’istruttoria per un procedimento disciplinare a Marra suona come uno squillo di riscossa rispetto alla «questione morale» nella magistratura; e così l’allarme del segretario dell’Associazione magistrati Giuseppe Cascini, che confessa di aver provato «vergogna, indignazione e rabbia» a leggere i dialoghi dei suoi colleghi intercettati. L’Anm ha chiesto ai probiviri di valutare sanzioni, fino all’eventuale espulsione. Come se ci fosse l’urgenza di fare pulizia nella corporazione, a costo di dividere i magistrati e le loro correnti, pure al proprio interno. Per dare un esempio alla politica, l’altro potere toccato dall’indagine giudiziaria, col quale le toghe (non tutte, a leggere i resoconti dell'intercettazioni) sembrano in perenne conflitto.

"Prendono parte alle riunioni nelle quali vengono impostate le operazioni e paiono fornire il proprio contributo alle attività di interferenza". Venti nomi che scottano. Quelli delle toghe coinvolte nell'inchiesta sull'eolico e sulla nuova loggia "P3". Il rapporto dei Carabinieri non lascia adito a equivoci. Era fitta la rete di giudici e procuratori attraverso la quale la banda Carboni portava avanti i suoi piani di "interferenza" sulle istituzioni. Tutto ruotava intorno al ruolo di Arcibaldo Miller (capo degli ispettori del ministero della Giustizia), Giacomo Caliendo (sottosegretario alla Giustizia) e Antonio Martone (ex avvocato generale in Cassazione). Loro gli incaricati di costruire la ragnatela da stendere sui magistrati.  Qualcuno aveva un ruolo di primissimo piano nell'attività dell'associazione segreta, altri davano informazioni preziose. Altri ancora erano semplicemente oggetto di tentativi di avvicinamento da parte della combriccola che - per perseguire i propri obiettivi illeciti - si avvaleva della copertura offerta dal centro studi "Diritti e libertà".

Sono sempre Miller, Caliendo e Martone i commensali del famoso pranzo a casa Verdini del 23 settembre scorso in cui sarebbe stato pianificato il condizionamento della Consulta per far approvare il Lodo Alfano. Martone era stato invitato senza giri da parole da Lombardi all'incontro a piazza dell'Aracoeli: "Noi ci dobbiamo vedere all'una meno un quarto". "Ma io sono impegnato con il procuratore....Mandalo affanc. che chisto non porta voti e vieni da noi...", insiste Lombardi mostrando una certa confidenza.

Caliendo poi è presente in tutte le manovre. Dopo il pranzo a casa Verdini, Lombardi raccomanda al sottosegretario di fare la conta dei giudici costituzionali a favore e contro il Lodo: "Ci dobbiamo vedere ogni giorno, ogni settimana, capire dove sta o' buono e dove o' malamente: vuagliò, ti hai la strada spianata per fare il ministro". Le carte raccontano che Caliendo, su pressione di Lombardi, ha sollecitato al vicepresidente del Csm Mancino la nomina di Alfonso Marra a presidente della Corte d'Appello di Milano. Nomina che si è rivelata poco decisiva: Caliendo infatti è poi intervenuto, senza fortuna, con lo stesso Marra per far accogliere il ricorso di Formigoni contro l'esclusione della sua lista nelle elezioni regionali lombarde. Successivamente, davanti alle pressioni dello stesso Lombardi per far inviare gli ispettori alla Procura di Milano, il sottosegretario ammetterà: "L'ho chiesto trenta volte al ministro!". Della stessa vicenda è protagonista anche Miller, chiamato confidenzialmente Arci dai membri della banda, che in una telefonata del 5 marzo 2010 suggerisce ad Arcangelo Martino cosa fare per ottenere l'ispezione: "Ci vorrebbe un esposto...".

Un magistrato vicino a Lombardi, Angelo Gargani, compare frequentemente nell'inchiesta: con il tributarista, dopo il pranzo a casa Verdini, parla della vicenda del Lodo e gli fornisce il numero di un ex presidente della Consulta da contattare, Cesare Mirabelli (che respingerà la "corte" del disinvolto faccendiere napoletano). Lombardi attiva di continuo la sua rete di contatti con i magistrati. Lo fa all'occorrenza e soprattutto in occasione dell'elezione di Marra che - secondo i carabinieri - è avvenuta proprio grazie all'interferenza della banda. Il tributarista ne parla il 21 ottobre 2009 con Celestina Tinelli, componente del Csm. Alla quale chiede informazioni anche sulle chances di altri due "amici" in corsa per incarichi di rilievo: Gianfranco Izzo per la Procura di Nocera e Paolo Albano per Isernia. Lombardi parla in quel periodo con diversi magistrati. Fra i voti da conquistare (e poi conquistati) per l'elezione di Marra, c'è quello di Vincenzo Carbone, primo presidente di Cassazione: il 22 ottobre Lombardi invita Caliendo a "lavorarselo per bene", e gli comunica di avere già prospettato un aumento dell'età pensionabile da 75 a 78 anni. Una modifica della legge che proprio in quei giorni il governo proporrà con un emendamento. Lo stesso Carbone, un mese prima, aveva chiesto a Lombardi: "Che faccio dopo la pensione?".

Un altro giudice, Francesco Castellano, il 31 gennaio 2010 conferma all'attivissimo Lombardi di avere segnalato alla Tinelli il nome di Marra. Ma intanto Lombardi aveva già parlato del caso Marra a Beppe ("verosimilmente il giudice Giuseppe Grechi", scrivono i carabinieri). Anzi, è quest'ultimo il 16 novembre 2009 a chiedere a Lombardi qual è l'intenzione del "comune amico" Carbone in vista del voto: "Tienilo sotto che lo tengo sotto anch'io", dice il tributarista.

Il 19 gennaio 2010 Lombardi parla con Gaetano Santamaria della candidatura di tale "Nicola" per la Procura di Milano. A Cosimo Ferri, altro componente del Csm, arriva a chiedere il rinvio di quella nomina. Ferri, in realtà, si ritrae imbarazzato. A Lombardi sta a cuore, in quel periodo, anche la candidatura di Nicola Cosentino alla guida della Regione Campania. Vede due volte il procuratore di Napoli Giambattista Lepore per chiedergli informazione sulla situazione giudiziaria di Cosentino, indagato per rapporti con la camorra. Dopo l'incontro del 20 ottobre 2009, Lombardi riferirà, violando tutte le procedure, ad Arcangelo Martino che le prospettive per il sottosegretario (appena dimessosi) non sono buone: "Negativo al 90 per cento". Agli atti anche una telefonata fra Lombardi e il magistrato Giovanni Fargnoli: parlano del ricorso in Cassazione contro la richiesta di arresto a carico di Cosentino: Fargnoli assicura a Lombardi che gli farà sapere perché il ricorso è stato rigettato. Una conferma, l'ennesima, della rete che lega i componenti della combriccola, i politici e i magistrati: il 14 ottobre 2009 Ugo Cappellacci, presidente della Sardegna, chiama Martino per avere il numero di telefono di Cosimo Ferri: vuole evitare il trasferimento di Leonardo Bonsignore, presidente del tribunale di Cagliari, ad altra sede: "Perderemmo un amico carissimo e una persona valida". Martino si attiva subito e parla con la segretaria di Ferri. Secondo i carabinieri proprio per questo motivo Martino "poteva ritenersi creditore nei confronti di Cappellacci". 

Le P...Poteri occulti, ma non troppo!!.

La loggia di Licio Gelli.
Propaganda Due, nota come P2, è stata una loggia massonica segreta con fini eversivi. Dal 1970 venne guidata da Licio Gelli (sotto), nel 1982 fu sciolta per legge. Quasi mille gli iscritti alla loggia segreta. Il 17 marzo 1981 il colonnello Vincenzo Bianchi si presenta a Villa Wanda, a Castiglion Fibocchi, vicino ad Arezzo, residenza dell'allora quasi sconosciuto Licio Gelli. Ha in tasca un mandato di perquisizione dei giudici milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo, che indagano sull'assassinio Ambrosoli e sul finto sequestro di Sindona, mandante del delitto. Dopo qualche ora di lavoro, l'ufficiale riceve una telefonata del comandante generale della Finanza, Orazio Giannini. Si sente dire: «So che hai trovato gli elenchi e so che ci sono anch'io. Personalmente non me ne frega niente, ma fai attenzione perché lì dentro ci sono tutti i massimi vertici». Poche parole, dalle quali Bianchi è colpito per la doppia intimidazione che riassumono. Cioè per quel «non me ne frega niente», che esprime un assoluto senso d'impunità. E per quel «tutti i massimi vertici», che capisce va riferito ai vertici «dello Stato e non del corpo» di cui lui stesso indossa la divisa. Ed è proprio vero: c'è una parte importante dell'Italia che conta, in quella lista di affiliati alla loggia massonica Propaganda Due, che il colonnello sequestra assieme a molti altri documenti e trasporta sotto scorta armata a Milano. Ci sono 12 generali dei carabinieri, 5 della guardia di Finanza, 22 dell'Esercito, 4 dell'Areonautica militare, 8 ammiragli, direttori e funzionari dei vari servizi segreti, 44 parlamentari, 2 ministri in carica, un segretario di partito, banchieri, imprenditori, manager, faccendieri, giornalisti, magistrati. Insomma: nella P2 ci sono 962 nomi di persone che formano «il nocciolo del potere fuori dalla scena del potere, o almeno fuori dalle sue sedi conosciute». Una sorta di «interpartito» formatosi su quello che appare subito come un oscuro groviglio d'interessi dietro il quale affiorano business e tangenti, legami con mafia e stragismo, il golpe Borghese, omicidi eccellenti (Moro, Calvi, Ambrosoli, Pecorella) e soprattutto un progetto politico anti-sistema. Quando, dopo due mesi di traccheggiamenti, gli elenchi sono resi pubblici, lo scandalo è enorme. Il governo ne è travolto e il 9 dicembre 1981, anche per la spinta di un'opinione pubblica sotto shock e che chiede la verità, s'insedia una commissione parlamentare d'inchiesta, che la presidente della Camera, Nilde Jotti, affida alla guida di Tina Anselmi. Da allora l'ex partigiana di Castelfranco Veneto, deputata della Dc e prima donna a ricoprire l'incarico di ministro, comincia a tenere un memorandum a uso personale oggi raccolto in volume: «La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi», a cura di Anna Vinci (Chiarelettere, pag. 576, euro 16). Tra i primi appunti, uno è rivelatore del clima che investe la politica («i socialisti sono terrorizzati dall'inchiesta») e l'altro del metodo che la Anselmi intende seguire: «Fare presto, delimitare la materia, stare nei tempi della legge». Un proposito giusto. Lo sfogo del colonnello Bianchi le ha fatto percepire l'enormità dell'indagine e i livelli che è destinata a toccare. Diventa decisivo, per lei, sottrarsi all'accusa di «dar la caccia ai fantasmi» e di certificare quindi l'attendibilità delle liste (su questo si gioca la critica principale), come pure evitare che l'investigazione si chiuda con il giudizio minimalista accreditato da alcuni, secondo i quali la P2 sarebbe solo un «comitato d'affari». È un'impresa dura e difficile, per la Anselmi. Carica di inquietudini. Lo dimostrano i 773 foglietti in cui annota ciò che più la colpisce durante le 147 sedute della commissione. Riflette, ad esempio, il 14 aprile 1983: «Strano atteggiamento del Pci... non mi pare che voglia andare a fondo. La stessa richiesta loro di non approfondire il filone servizi segreti fa pensare che temano delle verità che emergono dal periodo della solidarietà. Ipotesi: ruolo di Andreotti, che li ha traditi? O coinvolgimento di qualche loro uomo? Più probabile la prima ipotesi. Mi pare che Br e P2 si siano mosse in parallelo e abbiano fatto coincidere i loro obiettivi sul rapimento e sulla morte di Moro». Altro appunto, del 26 gennaio '84, con l'audizione di Marco Pannella: «Com'è possibile che Piccoli, Berlinguer e Andreotti non sapessero della P2 prima del 1981?». Ragionando poi sul fatto che gli elenchi non sono forse completi e che Gelli potrebbe essere solo «un segretario», si chiede se la pista non vada esplorata fino a Montecarlo, sede di una evocata super loggia. E ancora, il 16 dicembre '81 mette a verbale che il parlamentare Giuseppe D'Alema (padre di Massimo) «consiglia di parlare» con un poco conosciuto giudice di Palermo che cominciava a conquistarsi le prime pagine sui giornali: Giovanni Falcone. S'incrocia di tutto in quelle carte. La fantapolitica diventa realtà. Ci sono momenti nei quali la commissione è una «buca delle lettere»: arrivano messaggi cifrati, notizie pilotate o false, ricatti. Parecchi riguardano la partita aperta intorno al Corriere della Sera, che era stato infiltrato (nella proprietà e in parte anche nella redazione) da uomini del «venerabile» e alla cui direzione c'è ora Alberto Cavallari, indicato da Pertini per restituire l'onore al giornale. In questo caso sono insieme all'opera finanzieri e politici, ossessionati dalla smania di controllare via Solferino. Si agitano anche pezzi del Vaticano, il cardinale Marcinkus, senza che la cattolica Anselmi se ne turbi e lo dimostra ciò che dice al segretario, Giovanni Di Ciommo: «Non ho fatto la staffetta partigiana per farmi intimidire da un monsignore». Ma a intimidirla ci provano comunque. La pedinano per strada. Qualche collega, passando davanti al suo scranno a Montecitorio, le sibila: «Chi te lo fa fare? Qua dobbiamo metterci i fiori». Fanno trovare tre chili di tritolo vicino a casa sua. Lei tira dritto. Quando, il 9 gennaio '86, presenta alla Camera la monumentale conclusione del suo lavoro, 120 volumi, definisce la P2 «il più dotato arsenale di pericolosi e validi strumenti di eversione politica e morale» (il piano di Rinascita Democratica di Gelli). Nel diario aveva profeticamente scritto: «Le P2 non nascono a caso, ma occupano spazi lasciati vuoti, per insensibilità, e li occupano per creare la P3, la P4...». Sono passati trent'anni e la testimonianza di Tina Anselmi, dimenticata e da tempo malata, è da riprendere. Magari riflettendo su un dato: nella lista compariva anche il nome di Silvio Berlusconi. All'epoca era soltanto un giovane imprenditore rampante e i parlamentari non ritennero di sentirlo perché era parso un «personaggio secondario».

La cricca di Carboni
È stato ribattezzato P3 il presunto gruppo di potere occulto che ruotava intorno a Flavio Carboni, Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi: avrebbe tentato di condizionare la Corte Costituzionale e altre istituzioni. Dalla scoperta della P2 di Licio Gelli sono passati ormai trent'anni. E una legge, l'Anselmi, che ha bandito ogni organizzazione segreta. Eppure da le indagini di due Procure (di Roma e di Napoli) si sono concentrate sull'esistenza di nuovi circoli occulti, ribattezzati
P3 e P4, finalizzati ad ottenere indebiti vantaggi (appalti, nomine, finanziamenti) tramite lo scambio di favori.

La Loggia P3
Il caso nasce nel 2010, nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Roma sugli appalti per l’eolico che porta in carcere l’imprenditore Flavio Carboni, il geometra Pasquale Lombardi e il costruttore Angelo Martino. Nel registro degli indagati, per associazione a delinquere e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, finiscono anche il senatore del Pdl Marcello dell’Utri, il sottosegretario all’economia Nicola Cosentino, il coordinatore del Pdl Denis Verdini e l’ex assessore all’avvocatura della Regione Campania, Ernesto Sica. La presunta loggia, guidata da Carboni, oltre a consorziarsi per bypassare la concorrenza nella vittoria di appalti pubblici avrebbe anche progettato di influenzare i giudici della Corte Costituzionale incaricati di pronunciarsi sul Lodo Alfano. Carboni, Lombardi e Martino avrebbero tentato persino di avvicinare i magistrati della procura di Firenze che stavano indagando sui Grandi Eventi e sugli appalti legati al G8. Secondo gli inquirenti, il gruppo "per acquisire e rafforzare utili conoscenze nell'ambiente della politica e della magistratura" utilizzava l'associazione culturale "Centro studi giuridici per l'integrazione europea Diritti e Libertà"di Lombardi.

E la Loggia P4
E’ il nome dato ad una presunta associazione segreta su indagine della Procura di Napoli. Il suo scopo sarebbe quello di “interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo”. L’inchiesta è condotta da due pm di Napoli, secondo i quali i membri dell’associazione si scambiavano favori nell’assegnazione di appalti, di nomine e di finanziamenti. Tra gli indagati ci sono un poliziotto partenopeo ed Enrico La Monica, maresciallo nella sezione anticrimine dei carabinieri di Napoli. I pm ritengono che La Monica abbia rivelato “in più occasioni notizie coperte da segreto, anche attinte da altri appartenenti alle forze dell’ordine”. Gli ultimi a finire nel registro degli indagati sono Luigi Bisigani, giornalista e consulente aziendale, da molti considerato il personaggio chiave della vicenda, arrestato per l'ipotesi di favoreggiamento in relazione alla rivelazione di notizie coperte da segreto, e il parlamentare Pdl Alfonso Papa. Secondo gli inquirenti la P4 sarebbe un sistema informativo parallelo, creato per ottenere notizie riservate su appalti e nomine., con ogni mezzo: dal dossieraggio clandestino al ricatto, anche attraverso organi costituzionali. Quello degli appalti pilotati è la parte più delicata sulla quale i sostituti procuratori napoletani stanno lavorando. La "cricca" avrebbe agito sostanzialmente in due modi. Da un lato, acquisendo, negli ambienti giudiziari, informazioni secretate relative a procedimenti penali in corso. Dall’altro, raccogliendo dati sensibili sulle alte cariche dello Stato. Informazioni e notizie che poi sarebbero state utilizzate in modo "illecito" con lo scopo di ottenere "indebiti vantaggi". Anche il direttore de
L’Avanti, Valter La Vitola era satto interrogato come teste riguardo alla faccenda legata alla casa di Montecarlo del presidente della Camera Fini. Ad insospettire gli inquirenti sarebbero stati alcuni scoop messi a segno dalla testata.

Il dossier di Bisignani
È stato chiamato P4 il «sistema parallelo» messo in piedi da Bisignani e Papa: un sistema finalizzato alla gestione di notizie riservate, appalti e nomine, anche attraverso interferenze su organi costituzionali.
P4, la rete di Bisignani e Papa: finanza, giudici e 007. Sui giornali nuove indiscrezioni sull’inchiesta sulla presunta associazione segreta che ha portato all’arresto dell’uomo d’affari e che coinvolge anche il deputato del Pdl. Tra i loro contatti ci sarebbero anche Pollari e Toro.

L'inchiesta sulla cosiddetta P4

Nuove indiscrezioni sui giornali
sull’inchiesta sulla presunta P4 che ha portato ai domiciliari Luigi Bisignani e alla richiesta di custodia cautelare in carcere per Alfonso Papa, deputato eletto nel Pdl. Un’inchiesta su una presunta associazione segreta, i cui membri avevano rapporti ad alti livelli nel mondo della politica, pubblica amministrazione e dell'impresa, che raccoglieva informazioni riservate e le usava per esercitare pressioni, ricatti e ottenere vantaggi personali. Una nuova bufera che ha coinvolto anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta che, secondo indiscrezioni, sarebbe stato il referente principale di Bisignani.

In primo piano sui quotidiani di venerdì 17 giugno 2011 i rapporti di Luigi Bisignani con la Guardia di Finanza e i giudici. Alfonso Papa sarebbe stato il suo contatto per costruire la rete. “Non c’è dubbio che i canali informativi di Alfonso Papa erano prevalentemente nella Guardia di Finanza. Al riguardo, lui aveva rapporti con ufficiali del Corpo”. Queste le parole che Bisignani avrebbe detto,
secondo quanto riporta Repubblica. Il legame tra Papa e la Guardia di Finanza risale al 2001 quando giovanissimo magistrato - pm, lascia Napoli per assumere l’incarico di vice-capo di Gabinetto del ministro di Giustizia Roberto Castelli. Da lì in avanti dieci anni di lavoro per agganciare lo stato maggiore della Guardia di Finanza. Secondo il quotidiano diretto da Ezio Mauro “il parlamentare del Pdl diceva di conoscere e vedere i generali Adinolfi, Barbi e Mainolfi”. Tra gli amici di Papa, secondo quanto riportano sia Repubblica sia il Corriere della Sera citando dichiarazioni di Bisignani, ci sarebbe anche l’ex direttore del Sismi Niccolò Pollari. Non solo. L’ex parlamentare Alfredo Vito avrebbe messo a verbale: “La candidatura di Papa fu conseguenza di un intervento diretto di Pollari, lui era legato ai servizi segreti”. Il Corriere della Sera pubblica una pagina dei tabulati relativi alle intercettazioni in cui Papa farebbe riferimento a un appuntamento con “quel generale”. Per quanto riguarda invece i contatti con i pm, Papa avrebbe avuto stretti legami con le Procure di Roma, Napoli, Trani, Bari e Milano. In particolare, in un articolo di Repubblica a firma di Francesco Viviano, si citano i nomi del procuratore aggiunto di Roma Achille Toro e del figlio Camillo. L’ex presidente della Corte d’appello di Salerno Umberto Marconi, anche lui coinvolto nell’inchiesta sulla P3, avrebbe detto al collega Woodcock secondo quanto riportano sia Repubblica sia il Corriere della Sera: “Sono certo che Papa abbia spiegato e spieghi le proprie energie intrecciando rapporti con i carabinieri, con i servizi segreti.. concentrato sempre ad agire sull’ombra. Papa ha praticamente a disposizione delle truppe che utilizza per perseguire i suoi scopi personali”. La Stampa parla anche di ricatti che Papa avrebbe fatto ad alcuni imprenditori. Come Vittorio Casale, che "per un paio di anni ha pagato a Papa la garconnière di via Giulia a 800 euro al mese. In cambio Papa gli aveva promesso soluzione ai suoi problemi giudiziari. E' stato arrestato". Sul quotidiano anche un ritratto di Alfonso Papa dal titolo "Il trafficante di segreti che mancava alla destra". Sui giornali vicini al centrodestra continuano invece a sostenere che tutta l’inchiesta sia solo un modo per mettere in difficoltà il governo. “Svolazzano attorno a Berlusconi. E’ il momento dei corvi. Basta leggere Repubblica per capire: nell’inchiesta sulla presunta loggia P4 tirano in ballo Letta per colpire il premier” titola il Giornale. Libero invece riprende una storia pubblicata ieri da l’Espresso e gli dedica la prima pagina: “Il bunga bunga dell’Idv. Una giovane disoccupata accusa il senatore Pedica e il deputato Zazzera: “Mi hanno estorto sesso promettendomi un lavoro. Che non ho mai visto”.
Da Toro ad Arcibaldo Miller, "Così Papa controllava le procure". Molti i nomi di magistrati finiti nell'ordinanza del Gip di Napoli sull'inchiesta su Bisignani che dice ai giudici: "Quando parlo di giri e giretti del deputato del Pdl mi riferisco all'ambito napoletano. Lì lui attingeva informazioni".di FRANCESCO VIVIANO su La Repubblica del 17 giugno 2011.

Roma, Napoli, Trani, Bari, Milano. Una rete che gli permetteva di entrare nelle procure di mezza Italia. Tra fascicoli e segreti d'ufficio. Alfonso Papa, già magistrato poi deputato Pdl, aveva amicizie importanti e, a quanto pare, loquaci. Tanto loquaci da procuragli, a suon di informazioni riservate, uno scranno in Parlamento. Un giro che partiva da Bisignani, toccava molti esponenti della maggioranza e arrivava dritto al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Tanti i nomi di magistrati finiti nell'ordinanza del gip del tribunale di Napoli. Amici di una vita, colleghi di vecchia data, militanti della sua stessa corrente, Unicost, ma anche molte toghe che non sapevano di passare informazioni al collega assetato di potere. Che era interessato alle inchieste più importanti: la P3 di Roma, la P4 di Napoli e quella sul G8. Ma, più in generale, a qualsiasi fascicolo coinvolgesse qualche politico. Spuntano così il nome del procuratore capo di Bari, Antonio Laudati, con cui Papa diceva di essere in buoni rapporti e dell'ex procuratore aggiunto di Roma, Achille Toro, già coinvolto nell'inchiesta sui Grandi Eventi. L'amicizia tra i due era di dominio pubblico. Maria Elena Valanzano, assistente parlamentare di Papa, il 18 febbraio scorso, mette a verbale: "Per quanto riguarda l'ambito giudiziario romano, Papa spesso mi parlava dei suoi contatti e delle sue aderenze con il procuratore Achille Toro e con il figlio, Camillo". Un legame molto stretto, tanto da cercare di dare una mano all'amico caduto in disgrazia. Il 9 marzo 2011 Bisignani chiarisce: "Era molto amico dell'allora procuratore aggiunto di Roma Achille Toro e del figlio Camillo. Al riguardo più volte mi chiese di poter trovare qualche incarico per Toro". Alcune delle toghe citate sono state sentite dal pm John Henry Woodcock. Come nel caso di Arcibaldo Miller che fu "maestro" proprio di Woodcock. Il capo degli ispettori di via Arenula, citato in alcune conversazioni si è difeso: "Voglio ribadire di non aver mai chiesto a Papa di interessarsi delle vicende processuali nella quali è comparso il mio nome". Dall'inchiesta emerge anche che l'onorevole avrebbe tentato di "contattare" il vice presidente del Csm, Michele Vietti. A raccontarlo è la sua ex assistente, Maria Roberta Darsena, una a cui Papa teneva parecchio, tanto da regalarle una Jaguar. È il 12 aprile, la donna spiega: "Dissi a Papa che ero stata a una cena con Vietti, al riguardo mi fece un sacco di domande e mi chiese con insistenza morbosa quale fosse il ristorante, che io non ricordavo, e tutti i dettagli della serata". La procura decide quindi di convocare Vietti, ritenuto una "possibile vittima dell'acquisizione di fatti privati a scopo di pressione". Le sue dichiarazioni non vengono nemmeno riportate. I contatti migliori erano, però, quelli partenopei. "Diceva che a Napoli, in ambito giudiziario, la "comandava lui"", ha spiegato Luigi Matacena ai magistrati. Rapporti consolidati, a detta dello stesso Bisignani. "Quando parlo di Papa, dei suoi "giri" o "giretti" e delle sue "fonti" dalle quali attingeva notizie riservate di matrice giudiziaria, faccio riferimento all'ambito napoletano, nel senso che mi ha sempre detto di avere amicizie e legami tra le forze di polizia e in procura a Napoli". Contatti continui, le informazioni sui procedimenti a carico dei politici sono merce di scambio. L'ex Presidente della Corte di Appello di Salerno, Umberto Marconi, coinvolto anche nell'inchiesta P3 per il falso dossieraggio nei confronti di Caldoro, ha detto al collega Woodcock: "Sono certo che Papa abbia spiegato e spieghi le proprie energie intrecciando rapporti con i carabinieri, con i servizi segreti... concentrato sempre ad agire nell'ombra. Papa ha praticamente a disposizione delle "truppe" che utilizza per perseguire i suoi scopi personali". La trama puntava dritto a palazzo Grazioli. Lo stesso Giacomo Caliendo, sottosegretario alla Giustizia, il 9 dicembre racconta: "Dopo le ultime elezioni il presidente Berlusconi, in una occasione, mi chiese notizie su Papa dal momento che aveva ricevuto qualche segnalazione diretta a fargli ottenere un incarico".