Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

 

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

(diritti esclusivi: citare la fonte)

 

ARTICOLI PER TEMA

 

 Di Antonio Giangrande

 

 

INDICE

 

La Serie A...SL.

A proposito delle corse podistiche amatoriali.

Abilitati per correre

Lettera al direttore. Le manifestazioni podistiche amatoriali nel Salento.

La Repubblica delle banane

La polemica su Carlo Tavecchio

Marco Pantani

 

 

La Serie A...SL.

I protocolli sportivi e sanitari prevedono che siano confinati i giocatori infetti e quelli con cui si è avuto contatto. Il Presunto divieto a spostarsi non riguardava il Napoli, in quanto squadra, ma era limitato ai soli giocatori sotto osservazione. Così come è successo per le altre squadre. Il Napoli doveva presentarsi in campo, eventualmente, anche con la primavera. Fatto salvo l'accordo con la Juve con l'unica deroga permessa (vedi Genoa) ed il rinvio della partita a data da destinarsi. Assenso della Juve che è stato negato. La sconfitta sicura a Torino del Napoli rimaneggiato ha determinato decisioni che hanno permesso il caos.

 

A proposito delle corse podistiche amatoriali.

Nella corsa la Fidal ed i suoi tesserati discriminano i runners liberi da quelli iscritti. Per i liberi non vi è premiazione, ma l’iscrizione alla gara è parimenti a quella degli iscritti. I tesserati considerano i liberi come non corridori. A loro dico: nella corsa c’è chi arriva primo e c’è chi arriva ultimo. Solo il primo può parlare…A 52 anni, da libero, non arrivo primo, ma non arrivo nemmeno ultimo. Sono nel mezzo, più vicino ai primi, con un buon tempo, con tanti iscritti dietro…a Lido Torretta, come alla Strataranto, ecc.

Mi chiedo: Perché la Fidal continua ad impedire ai suoi atleti a parteciparvi e molti di loro, nonostante siano dilettanti o non siano campioni conclamati, continuano ad assecondarla, rinunciando ad una sgambata tra amici?
Perché molti podisti hanno l’insano vizio di non partecipare alle corse organizzate nei loro stessi paesi, rendendo vano il sacrificio degli organizzatori, loro compaesani, di promuovere in loco uno sport completo e sociale?
Perché i podisti non obbligano i loro amministratori locali a definire una pista pedo-ciclabile per praticare lo sport in modo sicuro?

 

Abilitati per correre

L’ITALIA DEGLI ABILITATI. ESAME DI ABILITAZIONE ANCHE PER CORRERE.

Non solo gli avvocati, o gli altri professionisti, possono svolgere la professione unicamente se abilitati, ma anche i podisti non possono correre se non abilitati FIDAL.

«Mens sana in corpore sano, dice un vecchio adagio. Che il corpo troppo sano dia alla testa? Se non sei tesserato (abilitato) FIDAL non puoi correre nelle manifestazioni da loro organizzate. Se, invece, sei un tesserato FIDAL non puoi correre nei raduni organizzati da altri.»

Questo denuncia il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” ed autore del libro “Sportopoli.”

Nell’atletica leggera, la corsa su strada comprende gare su strade comuni, generalmente in asfalto o di campagna, e su distanze che vanno dai 5 ai 100 km.

Queste corse possono essere competitive e non competitive.

Corse competitive. Le specialità più celebri tra le corse su strada sono la maratona, che si corre su una distanza di 42.195 m, e la mezza maratona, che si corre su una distanza di 21.097 m.

Sempre più diffuse sono le gare di ultramaratona, specialità che identifica gare di corsa che hanno una distanza superiore a 42,195 km (distanza ufficiale della maratona). L’ultramaratona su strada più conosciuta è la 100 km, ratificata dalla IAAF. In tutto il mondo vengono anche organizzate svariate competizioni, su distanze comprese dai 5 ai 30 km. La IAAF riconosce ufficialmente le gare su distanze di 10, 15, 20, 25 e 30 km, ratificando per ognuna di queste specialità i propri record mondiali e continentali. Data la varietà di competizioni, le gare più brevi rappresentano anche un utile e realistico allenamento per atleti normalmente impegnati su distanze maggiori, che le includono a volte nei loro programmi di allenamento. In ambito italiano, la FIDAL organizza attività su strada a livello nazionale, regionale e provinciale. Esistono anche manifestazioni agonistiche organizzate dagli enti di promozioni sportiva come UISP, CSI, LIBERTAS, AICS, ecc.

Corse non competitive. In ogni parte d’Italia si organizzano corse non competitive denominate anche marce o camminate per il fatto che sono a passo libero, cioè vi partecipano sia podisti che camminatori. Queste manifestazioni non sono riconosciute dalla FIDAL (la federazione sovrintende solo l’attività agonistica) e vengono organizzate sotto il patrocinio degli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI o da organizzazioni non riconosciute come ad esempio la FIASP. Molti gruppi o comitati amatoriali organizzano corse per puro divertimento per fare sport e passare un momento di relax in compagnia ed all’aria aperta. Queste gare vedono spesso la presenza anche di atleti tesserati che le affrontano per allenamento. Esse rappresentano comunque un modo per avvicinarsi al mondo dell’atletica.

Come si è spiegato la differenza tra le corse sta nel riconoscimento degli eventuali record, nell’individuazione di eventuali futuri campioni e nell’antagonismo delle squadre iscritte. Nelle corse competitive ci sono i direttori di gara. Per entrambe le corse si paga un ticket di partecipazione.

La differenza tra Agonisti o non agonisti sta principalmente nel fatto che, per essere considerati agonisti e per partecipare all’attività competitiva (organizzata sia dalla FIDAL che da altri enti), è necessario avere l’idoneità alla pratica agonistica. L’idoneità viene rilasciata dopo un’approfondita visita medica, dalla sanità nazionale o da centri autorizzati. Nella maggior parte delle manifestazioni, comunque, oltre alla gara competitiva, viene proposta una prova non competitiva sulla stessa distanza e/o su distanza ridotta, per incentivare la partecipazione e permettere anche alle persone prive di un’adeguata preparazione atletica di vivere un momento di sport e socializzazione.

Quando questo succede, nelle manifestazioni simultanee, spesso ai non agonisti non viene riconosciuto un premio per la vittoria di categoria. Non è raro che qualcuno di questi, però, sia più forte degli agonisti. Chi partecipa alle corse lo sa.

Qualcuno dirà: Cosa si denuncia con questo articolo? Dove è l’inghippo?

Con questo articolo si da voce a tutti coloro, comitati od associazioni, che organizzano unicamente le corse non competitive e che sono destinatarie degli strali della FIDAL. Spesso e volentieri la FIDAL cerca di impedire, con diffide legali inviate agli organizzatori di corse non competitive ed alle autorità locali, lo svolgimento delle manifestazioni da questi organizzati.

Non ci si ferma qui. Nelle pagine facebook di gruppi di podisti agonisti e non agonisti vi sono intimidazioni da parte degli iscritti alla FIDAL nei confronti dei loro colleghi, avvisandoli che nel partecipare a corse non competitive comporta per loro l’adozione di sanzioni.

A riprova di ciò basta cercare “minacce FIDAL” o “polemica FIDAL” su un motore di ricerca web e si troverà tutto quello che finora non si è cercato. E cioè provare che il monopolio delle corse è in mano alla FIDAL, perché sono impedite le gare non competitive, non foss’altro, anche, inibendo la partecipazione a queste manifestazioni ai suoi tesserati. Tesserati che a loro volta, ignavi, si fanno intimorire.

La corsa podistica non è cosa loro, della FIDAL e simili.

Un abominio, non fosse altro che ognuno di noi, anche i tesserati di un organismo sportivo, siamo soggetti agli articoli 16 e 17 della Costituzione italiana e quindi liberi di muoverci in compagnia….anche di corsa.

 

Lettera al direttore. Le manifestazioni podistiche amatoriali nel Salento.

Sig. Direttore,questa volta non voglio parlare di disfunzioni della pubblica amministrazione o di storie di ingiustizie ed illegalità, ma voglio segnalarle quanto di buono si è fatto quest’estate in Salento per incentivare lo sport accessibile a tutti. La corsa su strada o campestre inferiore ai 10 km, limite consentito per le gare amatoriali.

Le voglio parlare delle manifestazioni podistiche amatoriali che si sono tenute nei nostri comuni salentini, di cui nessuno parla e che meritano di essere pubblicizzate, affinchè possano avere successo e continuare ad esistere ed a moltiplicarsi. Perché in ogni comune vi sono gli amatori della corsa. Sport di singoli e di sofferenza. Per questo tengo particolarmente tanto al suo riscontro.

Degli sport professionistici o dilettantistici incardinati nel sistema di federazioni sottoposte al Coni parlano le testate giornalistiche specializzate.

Io voglio usare la sua ospitalità ed il suo giornale per ringraziare la capacità ed il coraggio degli organizzatori delle gare amatoriali domenicali. Almeno di quelle a cui io ho partecipato come cinquantenne. Gare molto diffuse, più di quello che ci si aspetti.

Un grazie va agli organizzatori delle gare amatoriali accessibili a tutti, che spesso, devono resistere alle minacce ed alle diffide della Fidal e degli enti affini, che vogliono il monopolio esclusivo delle gare accessibili solo ai loro tesserati. Per questo gli organizzatori sono obbligati a pianificare doppie gare: per i liberi e per i tesserati.

Dai giovanissimi agli anziani il numero dei partecipanti amatoriali a volte è scarno, a volte è elevato, ma è sempre una festa che si conclude con una premiazione per i primi e con una tavolata comune per tutti i partecipanti. Nascono amicizie, sicuramente non antagonismi, perché importante è partecipare e comunque vince chi merita. Il pubblico poi, lungo le vie, è entusiasta e incita i corridori.

Non si pensi che gli amatori podisti siano mediocri e più lenti rispetto ai tesserati. Non è così. Per esempio nella gara di Lecce tenuta nella serata e nella splendida cornice del centro storico con i turisti ad incitare, il vincitore della gara amatoriale dei 5,5 km, l’avv. Mirko Giangrande di Avetrana, ha sostenuto il tempo di meno di 19 minuti. 3 minuti circa a km. Sicuramente non superiore al vincitore della gara dei tesserati a squadre. Eppure non è stato premiato, perché non tesserato.

La mancata premiazione, però, è avvenuta solo a Lecce. Dove si è sentita anche la mancanza delle tv locali a testimoniare il bell’evento. Per il resto l’avv. Mirko Giangrande è stato sempre premiato sia che sia arrivato tra i primi tre come libero, sia che sia arrivato al podio entro le prime tre posizioni in assoluto. Così come Giovanni Leo di Sava, che con lui si alternava nelle prime posizioni di classifica.

Si ringraziano gli organizzatori dell’evento sportivo, il Sindaco che li ha autorizzati e sostenuti, i carabinieri ed i vigili urbani, l’immancabile protezione civile e le ambulanze delle associazioni locali:

del Comune di Monteparano (Ta) per la gara “Pappadai” di 6 km del 1 maggio 2014;

del Comune di Torricella (Ta) per la gara “StraTorricella” di 9 km del 2 giugno 2014 e “Corri tra i trulli” a Torre Ovo di 5,3 km del 5 luglio 2014;

del Comune di Avetrana (Ta) per la gara “StraAvetrana” di 10 km del 15 giugno 2014;

del Comune di Sava (Ta) per la gara “StraSava” di 10 km del 22 giugno 2014 e “CorriSava” serale di 4, 66 km del 20 luglio 2014;

del Comune di Galatone (Le) per la gara “StraGalatone” di 5 km del 29 giugno 2014;

del Comune di Lizzano (Ta) per la gara “CorriLizzano” di 5,8 km del 5 agosto 2014;

del Comune di Carosino (Ta) per la gara “Festa dello sport” di 8,14 km del 7 agosto 2014;

del Comune di Torre Santa Susanna (Br) per la gara “Oltre lo sport” di 6,5 km del 30 agosto 2014;

del Comune di Lecce per la Gara “CorriLecce” serale di 5,5 km del 7 settembre 2014.

E un ringraziamento per tutti coloro che in futuro le organizzeranno, vi parteciperanno e ne parleranno.

Perché lo sport, specialmente quello pulito, fa bene.

 

La Repubblica delle banane

IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.

Nel libro scritto da Antonio Giangrande “SPORTOPOLI”, un capitolo è dedicato alla vicenda Tavecchio ed alla tessera del tifoso.

Su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti dello sport in Italia ha pubblicato un volume “Sportopoli. L’Italia delle frodi sportive”.

IL CALCIO: LA REPUBBLICA DELLE BANANE E LA TESSERA DEL TIFOSO.

L’unico frutto del rancor è la banana… Tavecchio è il Mostro di Mezz’Estate per una frase scema su calcio & banane, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Non so chi sia questo Tavecchio, cos’abbia fatto nella vita e se meriti di guidare la federazione calcio oppure no. Per ragioni onomastiche e anagrafiche è forse incompatibile con l’era puerile di Renzi, ma non è di vecchiaia che si parla. Lui è il Mostro di Mezz’Estate per una frase scema su calcio & banane. Neanche una frase razzista, perché non era quello lo spirito, solo cretina. Che in un paese maturo dovrebbe concludersi con un giudizio: hai detto una scemenza, punto. Nossignore. Per una specie demente o infantile di gioco dell’oca, appena uno pronuncia la parola scorretta, anche a mezza bocca, salta su il circo dell’inquisizione, una versione buffonesca del Sant’Uffizio, lo porta alla gogna, lo massacra e lo caccia. È un sistema che si ripete come un rito antropofago; se uno, per dire, ha vissuto una vita degna e incensurata, ha fatto tante cose buone, ma una volta allo stadio ha fatto buu, diventa per sempre, lapidato o sulla lapide, «quello che ha fatto buu» e additato al pubblico disprezzo eterno. Ci sono sui giornali dei serial killer che si occupano di far fuori chi dice la parolina scorretta. «Hai toppato,sei entrato nella casella sbagliata, e ci vai ind a’morte, ’a furtuna ’nzerra ’a porte». Non si valutano mai meriti e demeriti, si sorvola su curriculum disastrosi, danni ed errori, si può avere alle spalle una vita fallimentare, da porco o da terrorista, ma la banana, ma la banana…No, quella è peccato mortale, ti giochi tutto. Bestemmia Dio e la Madonna, ma non nominare la Banana invano.

Carlo Tavecchio e la Repubblica delle Banane, scrive Mariateresa Nuzzi. Carlo Tavecchio, già Vicepresidente e ora candidato alla Presidenza della FIGC viene criticato per aver rilasciato la seguente dichiarazione razzista: «L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Pobà è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così. In Inghilterra deve dimostrare il suo curriculum e il suo pedigree… ». A questo proposito SKY TG24 lancia un sondaggio in cui chiede ai telespettatori di pronunciarsi e di dire come la pensano sulla candidatura di Tavecchio alla Presidenza: è giusto dopo questa affermazione, che Tavecchio diventi Presidente? Tavecchio è adeguato? Facciamo una piccola incursione nella vita e nella carriera di Carlo Tavecchio e cerchiamo di capire chi è l’uomo che definisce i giocatori africani, dei mangia-banane. Ci aiuta in questa operazione la sempre utile enciclopedia on-line Wikipedia, dalla quale riporto questi estratti: “Esponente della Democrazia Cristiana, diplomato in Ragioneria ed ex dirigente bancario presso la Banca di Credito Cooperativo dell’Alta Brianza, all’età di 33 anni diventa sindaco di Ponte Lambro (suo comune di nascita, in provincia di Como) conservando la carica per quattro mandati consecutivi, dal 1976 al 1995. Nel 1974 è tra i fondatori della Polisportiva di Ponte Lambro e, in ambito calcistico, per sedici anni diventa presidente dell’ASD Pontelambrese, società dilettantistica che durante la sua gestione arriva a disputare anche il campionato di Prima Categoria. La sua carriera dirigenziale all’interno di Federcalcio inizia con l’incarico di consigliere del Comitato Regionale Lombardia della Lega Nazionale Dilettanti (LND) mantenuto dal 1987 al 1992, diventando poi nei successivi quattro anni vice presidente della LND e venendo eletto nel 1996 al vertice del medesimo Comitato Regionale Lombardia.
Il 29 maggio 1999, a seguito delle dimissioni del suo predecessore Elio Giulivi a causa dell’affaire Rieti – Pomezia, è votato presidente della Lega Nazionale Dilettanti. Dal maggio 2007 diventa vice presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio assumendone la funzione di vice presidente vicario nel 2009. Durante la sua pluridecennale carriera, Tavecchio è stato anche consulente del Ministero dell’Economia per le problematiche di natura fiscale e tributaria riguardo alla sfera dell’attività sportiva dilettantistica e componente della Commissione Ministeriale, presso il Ministero della Salute, per le problematiche dell’impiantistica nazionale. Inoltre nel biennio 2002/2004 riceve la nomina di esperto in materia di problematiche riferite al calcio dilettantistico e giovanile e ai campi in erba artificiale e, dal 2007, viene designato dall’Uefa membro effettivo della Commissione per il calcio dilettantistico e giovanile. Scrive anche un libro per spiegare il calcio ai più piccoli, dedicandolo alla nipote Giorgia, dal titolo «Ti racconto… Il Calcio». È tifoso dell’Inter, squadra di cui è stato anche membro del consiglio di amministrazione sotto la gestione di Massimo Moratti. Carlo Tavecchio è stato processato e condannato cinque volte. È stato condannato a 4 mesi di reclusione nel 1970 per falsità in titolo di credito continuato in concorso, a 2 mesi e 28 giorni di reclusione nel 1994 per evasione fiscale e dell’Iva, a 3 mesi di reclusione nel 1996 per omissione di versamento di ritenute previdenziali e assicurative, a 3 mesi di reclusione nel 1998 per omissione o falsità in denunce obbligatorie, a 3 mesi di reclusione nel 1998 per abuso d’ufficio per violazione delle norme anti-inquinamento, più multe complessive per oltre 7.000 euro.” Ora, anche tralasciando le condanne, che a me qualche dubbio sulla sua adeguatezza me lo farebbero venire, non posso fare a meno di chiedermi come si possa ricoprire una carica così alta, una posizione che dovrebbe essere super partes per eccellenza, che dovrebbe dare continuo esempio in senso antirazzista, di fairplay, di onestà e di trasparenza, quando poi si decide di esporsi pubblicamente con una frase dai potenti connotati razzisti. Significa forse che quest’uomo non ha la minima idea del ruolo che vorrebbe ricoprire? Oppure vuol dire che non si rende conto della gravità delle sue parole? O forse crede che chi lo ascolta non faccia caso a quello che dice? Quando si è accorto che invece lo si ascoltava eccome, tanto che anche la stampa estera gli ha dedicato qualche riga, allora è corso a scusarsi agli stessi microfoni della sopracitata dichiarazione. Sostiene che non abbiamo colto il succo del suo discorso, quello dei mangiabanane non è il punto, lui si riferiva alla professionalità, che c’entrano ora queste banane? «Le banane? Non mi ricordo neppure se ho usato quel termine, e comunque mi riferivo al curriculum e alla professionalità richiesti dal calcio inglese per i giocatori che vengono dall’Africa o da altri paesi». Problemi di memoria? Sarà perché sei Ta-vecchio? Io vorrei tanto fargli questa domanda: che tipo dovrebbe essere il Presidente della FIGC secondo lei? In attesa di una sua risposta voglio provare ad immaginare un Presidente che parla ai microfoni assolutamente senza filtro. Uno che da tifoso, il giorno della sconfitta dell’Inter contro la Roma – faccio un esempio – dichiari robe del tipo: “Questi romani coatti e mangia trippa hanno avuto solo fortuna!”. Ma poi non riesco a smettere di domandarmi: come può un uomo con il suo curriculum vitae pronunciare una frase del genere? Forse basterebbe solo rivoltare la domanda: come può uno che pronuncia una frase simile, aver fatto tanta strada? Insomma, siamo sempre più la Repubblica delle Banane e la nostra classe dirigente vanta persone come Carlo Tavecchio.

Tavecchio è il degno numero uno del calcio italiano, scrive Massimiliano Gallo su Il Rottamatore. C’è una premessa fondamentale da fare: la politica è sangue e merda. E su questo assunto, siamo tutti più o meno d’accordo. E il calcio, lo sport, la gestione dello sport è politica. Non altro. Non averlo compreso, continuare a recitare il ruolo della bella addormentata del bosco non fa onore alla nostra intelligenza. Lo sport è business. Punto. Non c’è nemmeno più bisogno di specificarlo. Sì, ogni tanto, ogni quattro anni a voler essere precisi, il mondo finge di commuoversi per storie ai confini delle realtà, come quelle dei tiratori al piattello, dei lottatori che conquistano medaglie d’oro alle Olimpiadi e si guadagnano il loro meritatissimo quarto d’ora di celebrità. Ma sono fette sempre più marginali di una torta che è giustamente farcita di denaro. De-na-ro. Il resto è menzogna decoubertiniana che qualcuno di buona volontà ancora prova, in maniera encomiabile, a insegnare ai bambini. Fatta questa doverosa premessa, e aggiunto che il nostro business calcistico è ormai un business di serie B (nemmeno da alta classifica in serie B), possiamo dire che la cagnara sollevata per l’inqualificabile uscita di Carlo Tavecchio è la solita chiassosa sceneggiata ipocrita all’italiana. Di che cosa ci stupiamo? Che uno dei più longevi dirigenti del nostro calcio definisca mangiabanane extracomunitari sconosciuti che vengono a giocare da noi? Davvero? E dove eravamo quando uno dei più autorevoli signori del calcio italiano, un certo Adriano Galliani, signorilmente invitò Boateng a non uscire più dal campo per protesta contro i buu razzisti del pubblico avversario? Nessuno disse nulla, allora. Si infiocchettò la pillola. Galliani aveva parlato col solo scopo di non dare ulteriore risonanza a quattro razzistelli. Finì che al termine della stagione, Boateng ha lasciato il Milan ed è andato a giocare in Germania. In Spagna, invece, quelli del Villarreal hanno impiegato non più di due giorni per individuare il lanciatore di banane a Dani Alves e bandirlo per sempre dallo stadio. È una questione di senso civico. È il termometro della civiltà di un Paese e dei suoi abitanti. Per carità, le malattie possono essere curate, anche con terapie shock. Ma allora vanno intraprese. Subito. Il calcio italiano o la nostra politica si è fermato un attimo a ragionare dopo che i calciatori della Nocerina si accasciarono in campo fingendo malori perché i lori tifosi li avevano minacciati di non giocare? Non ricordiamo. Così come non ricordiamo un dibattito, un convegno, una presa di posizione del governo per i cori razzisti che da anni infestano i nostri stadi. E sorvoliamo sul nulla che il governo Renzi ha prodotto dopo gli incidenti di Roma e la morte di Ciro Esposito. Ci limitiamo a tre esempi, ma potremmo proseguire per pagine e pagine. Il calcio è business. Di serie B. L’elezione del presidente della Federcalcio – così come di tutte le poltrone sportive – è una battaglia politica. Ci sono in gioco quei quattro spiccioli che ancora versano le tv. E quegli incarichi di sottogoverno, quelle piccole “amicizie” che un presidente amico può garantire. Parliamo di poca roba, eh. Nulla che cambi il mondo. Ma il calcio italiano non ha la pretesa di farlo. Abbiamo perso dal Costa Rica ai Mondiali e ancora pensiamo di essere il centro del mondo. Non ci calcola più nessuno. Il giocatore più forte della serie A è un signore che in Inghilterra manco giocava più: Carlos Tevez. Qui vengono professionisti a fine carriera oppure in cerca di un improbabile rilancio. Allo stadio non ci va quasi più nessuno perché gli impianti fanno schifo ed è anche pericoloso. Sia chiaro, sarebbe così anche con Demetrio Albertini presidente. Pensate davvero che con lui possa cambiare qualcosa? Ovviamente è più presentabile, per carità. Non ha mai definito mangiabanane nessuno. Ma nemmeno con lui il nostro calcio diventerà uno sport come lo è in Inghilterra o in Germania. È solo una guerra di potere che Roma e Juventus (sostenitori di Albertini, cui ora si è aggiunta la Fiorentina) hanno perduto. Magari alla fine i sostenitori di Tavecchio si arrenderanno alle pressioni esterne – il mondo è tornano a indignarsi, come ai tempi di Berlusconi. Ma non avverrà prima di trovare nuovi equilibri. Perché tra qualche giorno il mondo dello sport penserà ad altro, e vuoi che un Lotito, un Galliani o un De Laurentiis rinuncino a piccole prebende in cambio di una posa nello spot “Respect” contro il razzismo? Suvvia, sembriamo tanti Pancho Pardi. La purezza ora la vogliamo dal calcio. Meglio Tavecchio, la sua faccia ci ricorderà chi siamo. Senza illusioni destinate a rimanere tali.

Banane & pallone. Un boiardo immortale alla Figc. Potere e amicizie, know-how e grane giudiziarie. Ecco il regno del supermanager Carlo Tavecchio, scrive Marco Fattorini su “L’Inkiesta”. «È vero, ho 71 anni. Che cosa devo fare? Devo ammazzarmi?». Quella che fino a pochi giorni fa rappresentava la critica principale rivolta al futuro presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio è stata rispedita al mittente dal diretto interessato. Eloquio informale e piglio decisionista. «Questo è un Paese addormentato, io ho voglia di fare e di tenere sveglia la gente, il calcio è da salvare». Poi però la bufera si è spostata dalla questione anagrafica a quella razziale, dopo che all’assemblea della Lega Dilettanti Tavecchio ha dichiarato: «L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che “Opti Pobà” è venuto che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così». A molti non è andato bene. Nel giro di qualche ora monta l’indignazione di tifosi, opinione pubblica e addetti ai lavori. Nasce un caso politico. Gaffe o razzismo? Un fronte trasversale chiede a Tavecchio di ritirarsi dalla corsa (già vinta) alla poltrona della Federcalcio. Se per i famigerati «cori territoriali» si chiudono le curve degli stadi, viene da domandarsi quale provvedimento ricorra per la frase pronunciata da un rappresentate istituzionale. Scendono in campo parlamentari e giornalisti, osservatori accorti e critici dell’ultim’ora. Gli attacchi del Pd e la difesa di Forza Italia. Dalla «forte irritazione» del sottosegretario allo Sport Graziano Delrio alla chiosa del premier Matteo Renzi: «Espressione inqualificabile, un clamoroso autogol». Mentre il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti auspica che «se Tavecchio non rinuncia spero non sia eletto», il grande accusato rilancia: «Accetto tutte le critiche, ma non l’accusa di razzista perchè la mia vita testimonia l’esatto contrario. Se sarò eletto presidente, la federazione condurrà una politica fattiva contro ogni discriminazione». La tempesta lo piega ma non lo spezza. E i suoi grandi elettori del mondo pallonaro, con poche eccezioni, lo seguono in un silenzio assordante. Ma l’esternazione sulle banane, pur traballante in un contesto falcidiato da ordine pubblico e cultura sportiva, non può essere la sola causa dell’«inadeguatezza» che più di qualcuno addebita a Tavecchio. Non bastano nemmeno le dichiarazioni “genuine” sulla rosa dei papabili ct azzurri: «Conte? Mai visto. Quello delle Marche, come si chiama? Ah, Mancini. Non conosco nemmeno lui. Quell’altro del Friuli? Sì, Guidolin. Non ho ancora deciso, comunque mi occuperò di questo bordello». Fuori dal palazzo c’è chi non gli perdona il fattore anagrafico e la lunga esperienza prodiga di conoscenze in Figc. «L’uomo sbagliato al posto sbagliato». Agli occhi dei detrattori Tavecchio diventa emblema della continuità e del potere costituito. Per dirla con Aldo Grasso «è il trionfo dello status quo e il candidato ideale per non cambiare nulla». E l’uscita infelice sul misterioso Opti Pobà viene digerita come una sorta di dichiarazione programmatica. Classe 1943, «educazione brianzola» e cultura del lavoro sin dal primo impiego all’età di 19 anni. Ex dirigente bancario con in tasca un diploma di ragioneria, Tavecchio nasce a Ponte Lambro, comune di cui è stato sindaco in quota Democrazia Cristiana dal 1976 al 1995. Scuola diccì come quella del predecessore Giancarlo Abete, deputato forlaniano per tre legislature. Ma la scalata sportiva del manager brianzolo comincia con la presidenza della Pontelambrese e nel 1987 prosegue con l’ingresso al consiglio regionale lombardo della Lega Nazionale Dilettanti. Nel 1996 approda a capo del comitato regionale, mentre la poltrona di presidente nazionale gli arriverà nel 1999, inizio di un regno longevo. Dal 2007 Tavecchio è pure vicepresidente della Figc e due anni dopo diventa il vicario di Abete. Nel curriculum si notano una consulenza per il Tesoro e altri incarichi in commissioni ministeriali. Ultimo, non per importanza, un libro dedicato alla nipotina Giorgia: “Ti racconto…Il Calcio”. Solidi contatti, amicizie importanti e grinta da vendere in un Palazzo dalle mille correnti. Gli endorsement del «poltronissimo» Franco Carraro e di Antonio Matarrese. La stima dell’ex Coni e oggi uomo Cio Mario Pescante. Le sponde del vicepresidente Figc Mario Macalli e del kingmaker della Lega Calcio Claudio Lotito. In via Allegri Tavecchio è considerato «uomo dell’apparato» nonché profondo conoscitore del mondo del pallone. Il know-how che gli riconoscono deriva dai quindici anni al comando della Lega Nazionale Dilettanti, con lui realtà consolidata e cassaforte strategica di consenso. «Il cuore del calcio», si legge sul sito ufficiale Lnd e non è un modo di dire. La Lega Dilettanti è il Paese reale del pallone italico: ha in pancia 1,3 milioni di calciatori dall’attività ufficiale a quella amatoriale e ricreativa, 15mila società e 70mila squadre impegnate in 700mila partite stagionali per un giro d’affari di 1,5 miliardi di euro tra tesseramenti e iscrizioni ai campionati. Bastano questi numeri per capire che la Lnd rappresenta «la quasi totalità del calcio italiano». Nel percorso coi dilettanti emerge la questione dei campi sintetici delle società, che devono essere omologati. Nella Lnd c’è un unico laboratorio autorizzato a testarli, pratica richiesta periodicamente. L’azienda “fortunata” è la Labosport di Roberto Armeni, figlio del capo della Commissione impianti in erba sintetica della Lega Dilettanti. Conflitto d’interessi? Interpellato da Report, Tavecchio rispondeva: «Non voglio che mi venga in mente di andare alla Rai e vedere quanti amici, conoscenti, parenti e amanti ci sono. Poi andare in Federazione, scendere le scale e arrivare fino al Coni e vedere quanti ce ne sono. Io ce n’ho uno, dicasi uno». Ma i critici puntano la lente d’ingradimento anche su un altro aspetto. A margine della sua candidatura alla Figc è tornata a circolare un’interrogazione parlamentare dell’ex deputato Pdl Amedeo Laboccetta che, partendo dallo statuto della Figc secondo cui «sono ineleggibili coloro che hanno riportato condanne penali passate in giudicato per reati non colposi a pene detentive superiori a un anno», andava all’attacco del presidente della Lega Dilettanti. «Carlo Tavecchio – si legge nell’interrogazione – annovera condanne penali per anni uno, mesi tre e giorni ventotto di reclusione, oltre a multe e ammende per euro 7.000». I provvedimenti, spiegava Laboccetta, si riferiscono a «falsità in titolo di credito continuato in concorso», «violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto», «omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali», «omissione o falsità in denunce obbligatorie», «abuso d’ufficio» e «violazione delle norme per la tutela delle acque dall’inquinamento». Il curriculum giudiziario ha fatto mormorare più di qualcuno prima che il diretto interessato, rispondendo agli articoli de La Repubblica e Il Fatto Quotidiano, chiarisse la questione. «Le condanne – spiega Tavecchio – si riferiscono a fatti accaduti dai 50 ai 25 anni fa, e si riferiscono a situazioni nelle quali sono stato coinvolto esclusivamente in funzione della posizione che ricoprivo, e non come autore delle omissioni contestate, compiute invece da terzi». Le condanne non sono menzionate nel casellario giudiziale, Tavecchio ha goduto della riabilitazione e il certificato penale «è immacolato». Fa sapere anche che prima di candidarsi alla Lnd chiese alla Corte Federale se fosse idoneo a ricoprire la carica in questione. Risposta affermativa e caso chiuso. Oggi la nuova avventura si chiama Federcalcio. Dopo il tracollo azzurro in Brasile e le pressioni dell’opinione pubblica per azzerare tutto, lui è già a bordo campo con l’esperienza di chi del pallone conosce il giorno e la notte. Con buona pace di rottamatori e quarantenni, la candidatura di Tavecchio procede rapida e ben oliata. Dall’inizio può contare sui voti della Lega Pro dell’amico Macalli, oltre che sul serbatoio della sua Lega Dilettanti. Solo con queste due componenti Tavecchio veleggia al 51% garantendosi l’elezione virtuale. La percentuale stana gli scettici e scoraggia chi tra i grandi elettori era rimasto alla finestra per esplorare candidature alternative. Albertini è minoritario in partenza, le componenti tecniche (Assoallenatori e sindacato dei calciatori) e gli ammiccamenti di un gruppetto di club di serie A non bastano. Volenti o nolenti, quasi tutti convergono su Tavecchio perchè è meglio l’accordo col futuro capo che lo scontro ideologico. Arriva l’ok della serie B di Abodi, mentre la A torna all’ovile grazie alla regia di Lotito. Diciotto squadre su venti (Juve e Roma) decidono di appoggiare il presidente Lnd e di queste almeno sei lo fanno dopo aver abbandonato Albertini. Che qualche giorno prima era stato filosoficamente accantonato da Lotito in un’intervista al Foglio. «Kant – spiegava il presidente della Lazio a Salvatore Merlo – dice che ce stanno il noumeno e il fenomeno. Il fenomeno è ciò che appare, il noumeno invece è la realtà. Ecco Albertini è kantianamente un fenomeno. Il calcio adesso ha bisogno di gente che sappia fare, che abbia esperienza manageriale». Dalle parole ai programmi. Quello di Tavecchio è ambizioso, conta undici punti sovrastati dallo slogan “Il gioco del calcio al centro dei nostri pensieri”. Dice che non scenderà a compromessi. Parla di revisione della governance federale, lotta contro la violenza, riqualificazione del prodotto calcio, rilancio del Settore Tecnico e sviluppo dei Centri di Formazione Federale, ripensamento del Settore Giovanile e Scolastico, miglioramento della comunicazione, maggiore interlocuzione con Governo e Coni, autoconsistenza finanziaria e riforma dei campionati. Tavecchio propone pure l’abolizione del diritto di veto portando dal 75% al 65% la soglia per cambiare lo statuto. Circostanza che trova lo sbarramento delle componenti tecniche (calciatori e allenatori) che non a caso tifano Albertini e vogliono continuare a pesare in consiglio federale. Pazienza, Tavecchio tira dritto. Liquida il quarantenne Albertini con un paio di battute in conferenza stampa, risponde per le rime a Barbara Berlusconi e Andrea Agnelli che tifavano rottamazione. Evita il politichese, ma non si lascia scalfire dal putiferio politico del post-banane. Boiardo di lotta e di governo, la corsa alla Federcalcio non è un pranzo di gala.

Il “caso Tavecchio”, ennesima riconferma della follia in cui siamo scivolati. In un Paese che va a rotoli e dove la moralità più elementare è stata uccisa e sepolta da tempo, si scatena l’indignazione conformista per una frase che, al più, può essere considerata come una battuta infelice. Siamo al di là dell’ipocrisia, siamo alla demenza. E poi, cerchiamo di capire chi sono i veri razzisti, scrive Paolo Deotto su “Riscossa Cristiana”. Premetto che non conosco il signor Carlo Tavecchio e che non seguo il gioco del calcio da decenni. Ma sento verso di lui un’istintiva solidarietà, perché lo vedo vittima di questa strana demenza che ha ormai investito come un uragano la nostra povera Italia. Ordunque, pare che il sig. Tavecchio, aspirante alla presidenza della Federcalcio, lamentandosi per la facilità con cui le nostre squadre assumono giocatori stranieri che alla prova dei fatti sono schiappe, abbia detto questa terribile frase: “Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Lo dicevo prima, non seguo il calcio e quindi non so se questa valutazione di Tavecchio sia corretta. Ma non so neanche quale crimine abbia commesso, solo perché ha voluto “caricare” il suo discorso con l’esempio estremo di un selvaggio chiamato a giocare nella Serie A. Ha detto una battuta infelice? Può darsi, ma mi ricorda molto un “caso” di anni fa, di un generale che era stato oggetto di critiche feroci perché, per deprecare il comportamento di alcuni soldati che avevano danneggiato la loro caserma, aveva usato un linguaggio, appunto, “da caserma”, ossia un linguaggio non delicato e politicamente corretto, ma che andava subito, senza alcuna delicatezza, al nocciolo del problema. Il caso del generale è di alcuni anni fa; il tempo è passato e l’ipocrisia è aumentata, fino a divorare anche il cervello degli ipocriti, che hanno perso del tutto il senso della misura. Siamo alla demenza. Per una frase, ripeto, al più infelice, si è scatenato il coro perbenista, che comprende ovviamente ormai più o meno tutti. Ne parlano esponenti politici, giornalisti, addirittura ieri su Zenit, agenzia cattolica di informazione, leggo che una “Fondazione Giovanni Paolo II per lo sport” straparla di un dirigente calcistico “pronto a calpestare la dignità umana degli atleti”. Un’angosciata Giovanna Melandri invoca: “Fermatelo!” (ma dove stava andando?); il PD trova compattezza nel chiedere che Tavecchio si ritiri dalla corsa alla presidenza della Federazione; Cecile Kyenge non perde l’occasione per far sapere che esiste ancora e dichiara che Tavecchio “ha il tipico atteggiamento paternalistico nei confronti di chi si pensa inferiore e da civilizzare”. Il meccanismo è sempre quello. Quando la Voce del Padrone indica la vittima contro cui accanirsi, inizia la gara a chi è più severo, implacabile. Nessuno vuole restare fuori dal coro che da la garanzia di essere politicamente corretti e di poter quindi in futuro partecipare, a seconda dei livelli ricoperti, al banchetto o almeno alla merendina di regime. Poi il colpevole, dopo un processo in cui giustamente gli sarà negato il diritto alla difesa, perché è uno sporco razzista, verrà portato al patibolo, appeso alla corda tra gli applausi democratici e poi si potrà iniziare anche a sputare sul suo cadavere. I giustizieri torneranno a casa appagati. Certo, quest’ultima descrizione è di fantasia, ma è la strada su cui ci si avvia se non si recupera un minimo di capacità di discernimento. In quest’orgia di moralismo, è impossibile non pensare che la cosiddetta “società civile” (per inciso, non ho mai ben capito cosa voglia dire, visto che di “civile” è rimasto ben poco) ogni giorno ammazza senza alcun turbamento circa 300 bambini (si chiama aborto, anzi IVG, che sta per interruzione volontaria di gravidanza. Così è più delicato); progetta allegramente le fecondazioni in provetta, riducendo l’uomo a un animale e preventivando senza alcun scrupolo la distruzione di altre vite umane (la fecondazione extra corporea nasce per la selezione delle razze negli animali da allevamento); tiene in gran conto, e tra poco legittimerà, l’eutanasia, ottimo sistema per liberarsi dal peso di vecchi e malati; promuove le perversioni sessuali, insegnandole fin dalla scuola materna, mentre non fa nulla per aiutare la famiglia, l’unica famiglia esistente; lascia nella miseria e nella disperazione tante famiglie in cui non si riesce più a tirare la metà del mese, perché c’è chi ha perso il lavoro, c’è chi non lo trova, c’è chi, disperato, si toglie la vita. E così via. Una società allo sbando morale completo, fiera e tronfia del suo relativismo, si rotola nella disperazione e nel disastro, e poi si crea le nicchie di moralità contro uno dei nuovi mostri: il razzismo! Insieme all’evasione fiscale e ovviamente alla cosiddetta omofobia, il razzismo è uno dei mostri da combattere. Scusate, dimenticavo la mafia, lì c’è addirittura la scomunica. Gli altri? Beh, vedremo; per ora occupiamoci di questi, siamo sicuri che avremo il consenso dei salotti buoni. È razzista un uomo perché pronuncia una frase come quella detta da Tavecchio? Ma per favore, cerchiamo di essere, se non seri (non pretendiamo troppo), almeno non ridicoli. E se proprio vogliamo parlare di razzismo, sentimento quanto mai deprecabile, allora facciamo il punto. Anzitutto vorrei togliermi una curiosità personale: per quanto sforzi abbia fatto e faccia tuttora non sono mai riuscito a capire perché se dico “negro” (traduzione del latino “niger”) sono razzista, mentre se dico “nero” sono bravo e buono. Mistero. Ma questi sono dettagli. Piuttosto vorrei chiedere: chi è il vero razzista: un Tavecchio che dice una frase infelice, o chi favorisce un’immigrazione indiscriminata di negri o bianchi che siano, per mostrarsi bravo e buono e così non fa altro che dare false speranze a masse di disperati, che approdano in un paese che non è più in grado di dare lavoro e pane nemmeno ai suoi cittadini? Non sono razzisti questi ipocriti che si fanno belli con operazioni come “Mare Nostrum” (con tutto il rispetto per i militari, che devono eseguire degli ordini), vero festival dell’incoscienza più totale, che spinge ogni giorno centinaia (o migliaia) di disperati a mettersi in mare e a trovare spesso la morte? Non sono razzisti questi predicatori dell’accoglienza – purché la facciano al solito “gli altri” – che usano queste moltitudini di immigrati, negri o bianchi o gialli che siano, per auto premiare la loro incommensurabile bontà? Bontà costruita sulla sofferenza e sulla pelle degli altri. Signori, smettiamola di dire idiozie a ruota libera. O siete ipocriti o siete ormai del tutto fuori di testa. Il vostro buonismo demente – buonismo a senso unico, perché quando volete essere spietati sapete esserlo perfettamente – è vero razzismo. I poveri, i diseredati, i negri che fuggono disperati dalle loro terre, e che voi imponete di accogliere a occhi chiusi, sono la vostra merce per abbellire la vostra immagine. Promettete ciò che sapete di non poter mantenere, incentivate col vostro cinismo i cinici mercanti di carne umana e poi vi permettete di dare lezioni di morale a un uomo che ha detto una frase infelice? Avete creato tutte le condizioni perché gli italiani, che razzisti non sono mai stati, lo diventino ora, di fronte allo spettacolo di città invase da immigrati che si trovano a vivere alla disperata e alla fine, fatalmente, per delinquere. Meraviglioso risultato della misericordiosa accoglienza fatta alla cieca, senza mai chiedersi dove e come sistemare tanti sbandati, profughi, rifugiati e anche tanti personaggi che magari sono fuggiti dai loro paesi semplicemente perché delinquenti. Ma a voi che ve ne frega? Voi li avete accolti, quindi siete buoni e bravi e democratici. Signor Carlo Tavecchio, non la conosco, non so cosa lei faccia, se lei sia o meno adatto a ricoprire la posizione di presidente della Federcalcio. So che lei ha detto una frase, una frase forse infelice o goliardica. Punto e basta. So che la stanno mettendo in croce per questa sciocchezza. Anche lei è una vittima di quest’orgia di ipocrisia ormai sfociata nella demenza. Non se la prenda, questa è l’Italia attuale, retta dai soloni di una ex-sinistra smarrita e di una ex-destra che cerca di sopravvivere scimmiottando le scemenze della ex-sinistra. È vittima di questa Italia dove i politici ormai hanno fuso il cervello e la Chiesa cattolica è preoccupata di non dare seccature a nessuno e pronta ad accodarsi al coro del politicamente corretto. Signor Tavecchio, lei ha tutta la nostra simpatia e solidarietà.

In difesa di Tavecchio. Quante critiche ipocrite sull’affaire banane, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. L’Italia perbenista e ipocrita ha trovato il suo nuovo mostro: Carlo Tavecchio, classe 1943, candidato alla presidenza della Federcalcio. Questa la frase che ha fatto innalzare i lamenti e scendere le lacrime alle prefiche del politicamente corretto: “Le questioni di accoglienza sono un conto, quelle del gioco un altro. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che Opti Poba è venuto qua, che prima mangiava le banane, adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Apriti cielo: Tavecchio deve rinunciare alla corsa per la presidenza (richiesta più o meno unanime del Partito Democratico), fermatelo! (Giovanna Melandri), non ha credibilità (Davide Faraone, Pd), ha il tipico atteggiamento paternalistico nei confronti di chi si pensa inferiore e da civilizzare (Cecile Kyenge). Solo per riportare alcuni dei commenti più stizziti. Ma in rete, per fortuna, si trovano anche divertentissimi e godibilissimi fotomontaggi che ironizzano sull’infelice battuta. Perché, sia chiaro, la battuta è piuttosto infelice per una lunga serie di motivi (non fa più ridere nessuno da almeno una ventina d’anni, non era l’occasione adatta, Tavecchio non può essere così non accorto da non pensare che le sue parole possano essere usate – strumentalmente – contro di lui). Ma non è una frase che trasforma un uomo in un razzista, non è una battuta – seppur di cattivo gusto – a far cadere su una persona la mannaia di un’etichetta così odiosa. E – diciamo la verità – la sua è una frase che almeno una volta nella vita ci è capitato di sentire, e non abbiamo denunciato o preso a pugni in faccia chi l’ha proferita. Basta con questa ipocrisia e questa dittatura del politicamente corretto. Io non so chi sia Tavecchio, non l’ho mai incontrato e non sono a conoscenza del suo curriculum vitae, magari ci sono decine di motivi per ritenerlo indegno di un ruolo così importante nel mondo dello sport, ma non questa boutade. Quelli che adesso inarcano il sopracciglio inorriditi davanti a cotanta barbarie, sono quelli che spesso trasecolano davanti alle parole, ma non muovono un dito davanti ai fatti. Questo improvvisato, ma ben nutrito, movimento No Tav(ecchio) è il solito salottino che ama indignarsi, che se dici “negro” sei un razzista da bacchettare, stigmatizzare ed emarginare, ma che poi non batte ciglio per aiutare chi è realmente in difficoltà. Sono quelli del venite tutti in Italia, del fiore dell’accoglienza e del multiculturalismo da infilare nell’occhiello della giacca in cachemire, della pelosa beneficenza da esibire e ostentare e dei viaggi in Africa a favor di telecamera (ve la ricordate quella pubblicità in cui Bono, il filantropo, atterrava, sovrastato da valigioni di Louis Vuitton, in mezzo a un prato? Ecco la scena me la immagino così). Poco importa che poi in Italia non ci siano le condizioni per poter offrire una vita decorosa a questa folla di disperati. A loro interessa solo, lustrandosi le unghie, aprire le porte di una casa che non è certamente la loro. Perché poi quando il “negro” dorme nel portico del loro palazzo, sono i primi a chiamare la polizia. Insomma, il razzismo è una questione di fatti. Non di parole. Le battaglie politiche contro le parole sono sterili e sciocche. Tavecchio è scivolato su una buccia di banana. Ma non facciamone un mostro.

Calcio, zingari e l’ipocrisia del vocabolario. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero democratico dotato di senso dell’umorismo, se dai del banana a un africano sei un grandissimo bastardo, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Il nostro eccellente Giuseppe De Bellis si è già esibito sul Giornale scrivendo cose giuste sul caso Carlo Tavecchio, un cognome che ha una componente offensiva: in una società nella quale l’unico settore che non cala, bensì cresce, è la chirurgia plastica, accompagnata da terapie antiossidanti e roba simile, evidentemente la vecchiaia è considerata un’infamia. Chiedo scusa se mi cito. Su Twitter – la palestra dell’insulto elevato a categoria del pensiero – vi sono numerosi gentiluomini che, quando non sono d’accordo con me, non si limitano a dirmelo: mi coprono di contumelie fra cui spiccano quelle riferite alla mia non verde età, tipo «vecchio stronzo», «vecchio rimbambito», «brutto vecchio, cedi il tuo posto privilegiato a un giovane», «vecchio bollito» (la variante è «brasato»). La parolaccia è entrata prepotentemente nei conversari correnti e quella che ferisce di più è «vecchio porco». Una volta si chiamavano «vecchi» i genitori, e nessun papà e nessuna mamma si adontavano. Ma oggi il sostantivo/aggettivo «vecchio» ha un significato talmente negativo da essere impronunciabile. Provate a dire a una signora che è vecchia: vi mangia vivi per dimostrare di avere ancora denti buoni e un’ottima digestione. Torniamo a Tavecchio. Lo sciagurato, aspirante presidente della Federazione italiana giuoco calcio, in un discorso programmatico in cui ha espresso concetti condivisibili, si è lasciato scappare una frase che i più moderati hanno giudicato infelice. Questa, all’incirca: «Nel nostro Paese i club pedatori trascurano i giovani e inseriscono nella rosa dei titolari ragazzi modesti che fino a ieri si nutrivano di banane». Vogliamo esagerare? Non si è trattato di proposizione elegante, ma simile a mille altre che quotidianamente si odono in ogni ambiente. Anche nei giornali. Per esempio: il soprannome più diffuso di Silvio Berlusconi è il Banana, che viene usato regolarmente su giornali e in spiritosissimi (si fa per dire) programmi televisivi satirici. Dal che si evince che c’è Banana e banana. Se dai del banana al Cavaliere sei un sincero democratico dotato di senso dell’umorismo, se, viceversa, dai del banana a un africano abbronzatissimo sei un grandissimo bastardo, sinonimo delicato di figlio di puttana. E ti espellono dal consorzio civile. Mi domando: come mai la banana ha una doppia reputazione a seconda di chi la mangia o, meglio, la interpreta? Trattasi peraltro di un frutto nobile, buono, nutriente e, fino a mezzo secolo fa, raro, il che lo rendeva prezioso. Quando ero bambino, soltanto Babbo Natale provvedeva a regalarmene una (di numero) per allietare la mia povera mensa. La trovavo la mattina sul tavolo della cucina accanto a due o tre pipe di zucchero rosso, un paio di arance e un’automobilina di latta. Se non ricordo male, c’era tra quel bendidio anche qualche carruba: forse non è un dettaglio importante per voi che leggete, ma, a mio avviso, rende l’idea del mondo in cui vivevamo, ammesso che ciò sia interessante. Ecco. Abbacinato dai doni piovuti dal cielo, rimanevo in contemplazione dei medesimi per alcuni minuti, poi afferravo la banana, la incartavo e la portavo a un vicino di casa che sapevo esserne golosissimo. Suonavo alla sua porta e non appena egli si affacciava gli porgevo il frutto. Lui mi abbracciava e ringraziava. Per me era una soddisfazione, anche se non ero iscritto all’Arcigay. Il costume è mutato. Se oggi facessi omaggio di una banana all’inquilino del mio piano, sarei preso a calci nel deretano (eufemismo di culo). Tavecchio ha 71 anni, quanti ne ho io. Sono certo che per lui, come per me, la semantica bananiera non ha alcuna valenza respingente. Sarebbe assurdo il contrario. Constato che ormai in Italia non si discute più sui contenuti, ma sull’involucro lessicale. Personalmente, ai tempi in cui gli extracomunitari furono malmenati e sfruttati a Rosarno (Calabria), pubblicai questo titolo sul Giornale : «Hanno ragione i negri». Non l’avessi mai fatto. Le penne di lusso, su numerosi quotidiani, mi redarguirono aspramente. Pier Luigi Battista del Corriere mi crocifisse. L’Ordine dei giornalisti mi processò dopo avermi tenuto sotto inchiesta quattro anni: fui assolto, e me ne stupii piacevolmente. Avevo dato la causa per persa, poiché nessuno aveva letto l’articolo che difendeva i poveracci: tutti si erano soffermati con indignazione solo sul termine «negri». Il nostro direttore Alessandro Sallusti è pure stato sottoposto a procedimento disciplinare (si attende la sentenza) perché ha chiamato zingari gli zingari. E come doveva chiamarli? Extraterrestri? Le fobie linguistiche contrassegnano la nostra epoca politicamente corretta, forse, sicuramente imbecille. I netturbini non sono più spazzini, anche perché non spazzano una mazza, ma operatori ecologici. Guai a non attenersi al nuovo bon ton. Magari non ti denunciano, ma ti sputtanano, ti danno del razzista. Veniamo ai sordi. Che non sono più tali anche se non sentono: meritano l’appellativo di audiolesi. Tra poco definiremo così gli impotenti: tirolesi. Ovviamente gli orbi non sono orbi ma ipovedenti. E i ciechi non sono ciechi ma non vedenti. Con angoscia mi chiedo: come posso etichettare uno stitico seguendo lo stesso metodo glottologico? Sono in imbarazzo. Il vituperato Tavecchio immagino sia sorpreso dal trattamento ricevuto per avere detto la verità con parole sue, brutte ma chiare. Condannato per una banana. Non è serio. Anche perché egli ha centrato il problema. Il nostro calcio è in declino in quanto esterofilo: apre le porte all’Africa e le chiude alla Campania e al Friuli, vivai di campioni o almeno di ottimi giocatori. Anche all’estero hanno arricciato il naso per le banane di Tavecchio. Ridicolo. Noi italiani, anche orobici, valdostani e veneti, veniamo dileggiati con i soliti luoghi comuni: spaghettari, mandolinari, pizzaioli. E ci tocca stare zitti o, al massimo, sorridere. Se però evochiamo la banana siamo rovinati. E i primi a rovinarci sono i nostri compatrioti spaghettari della malora.

Italiani ipocriti, come se il problema del calcio fosse solo una banana.

La follia dell’accesso allo stadio in Italia: storia di una domenica pomeriggio qualsiasi, scrive Leonardo Daga. E’ mattina presto, è la befana. Non cerco vicino un camino che non ho se ho regali nella calza, cerco solo le mie cose per proteggermi da un freddo che non ci sarà e partire alla volta di Parma. C’è una partita, Parma-Toro, che il Toro perderà meritatamente, ma non è questo il punto. Io parto da una località sulla costa Marchigiana, 390 Km di autostrada destinazione Parma, appuntamento con i miei amici di Roma nei pressi di Bologna per andare insieme allo stadio. A loro tocca percorrere circa 460 Km. Non ci spaventa. Non abbiamo i biglietti, la società che li emette ha chiuso l’emissione negli ultimi giorni per motivi non precisati, anche ai detentori della tessera del Tifoso. Abbiamo deciso di andare lo stesso, come l’anno scorso faremo i biglietti per la curva dei tifosi locali e poi ci faranno entrare lo stesso nel settore ospiti… tipica follia italiana. Arriviamo un’ora prima al casello, la polizia ferma le macchine e ci costringe ad entrare in un parcheggio nei pressi del casello di Parma. Dobbiamo prendere un autobus per arrivare allo stadio, per motivi di sicurezza e perché nei dintorni dello stadio non ci sono abbastanza parcheggi per le macchine. Non ci scomponiamo, siamo abituati in quanto tifosi a questo essere trattati da extracomunitari appena approdati a Lampedusa. Aspettiamo pazienti, non siamo tifosi turbolenti come gli steward dicono essere i tifosi dell’altra squadra di Torino. Ma passa il tempo, molto tempo. Mezz’ora ad aspettare, ci giungono voci di file ai botteghini, incomprensibili. Ci chiedono quanti di noi non hanno il biglietto, pensiamo che sia perché ce li vogliono mettere da parte in biglietteria, ma non è per questo. La polizia che fa i fatti propri, noi che ci lamentiamo ma cerchiamo di mantenere la calma. Si parte finalmente. Lo stadio è al centro della città, la città viene bloccata al passaggio dei tifosi, un servizio di almeno 6-7 poliziotti ci fa da scorta manco dovessimo recarci ad un penitenziario. Arrivo allo stadio. Ci rechiamo alla biglietteria sotto il settore ospiti. I biglietti sono in vendita solo per i possessori della tessera del tifoso. Bisogna andare alla biglietteria della tifoseria locale. E’ una follia. Corriamo, una lunga fila si prospetta davanti a noi, per la maggior parte tifosi del Parma, la fila avanza lenta perché i terminali funzionano male o gli operatori non sono sveglissimi. Inizia la partita, noi abbiamo ancora una ventina di persone davanti a noi. Ci giunge notizia del gol di Immobile, è il 20′ minuto. Siamo contenti per il risultato ma siamo ancora fuori, ancora 6-7 persone davanti a noi. Facciamo finalmente il biglietto, è il 30′ minuto, ci chiedono il documento ma non il codice fiscale, quindi praticamente il controllo riguardo ai diritti di accesso è nullo. Facciamo il biglietto per la curva del Parma perché non si può fare il biglietto per la curva ospiti, ma poi corriamo in quella ospiti e ci fanno entrare lo stesso. La partita non è stata un granché, il Toro viene recuperato e sorpassato come succede spesso negli ultimi anni a Parma, ma non è questo il punto. La partita allo stadio è solo uno spettacolo ma i tifosi vengono trattati come se fossero dei criminali. Qualcuno dovrebbe chiedersi se questa è la ragione per cui molta gente smette di andarci. Qualcuno dovrebbe chiedersi quanto i comuni che ospitano queste manifestazioni perdono economicamente perché la tifoseria ospite viene trattata come un bagaglio scomodo da fare entrare ed uscire velocemente dalla città piuttosto che ospitarla a dovere e promuovere l’immagine della città. Qualcuno dovrebbe chiedersi questo, non solo i politici locali, anche gli stessi responsabili (all’interno del club) dei rapporti con le tifoserie. Soldi e opportunità buttati al vento, in città italiane che avrebbero tanto da offrire e che invece mostrano solo sbarre e polizia.

Caro Direttore, (scrive Giuseppe di Paola a Xavier Jacobelli) conosciamo tutti le traversie che sta passando il nostro calcio, a livello sportivo e dirigenziale. Eppure tutti i disastri letti ed ascoltati in questi giorni non sono nulla rispetto a quanto mi è capitato la settimana scorsa. Vado a rinnovare l’abbonamento della mia squadra del cuore, armato di personale Tessera del Tifoso, modulistica, autorizzazioni e visti che manco andassi in guerra. Con l’occasione, e sfidando i rimbrotti della mia famiglia, penso sia arrivato il momento di regalare il primo abbonamento a mio figlio, che a 9 anni comincia ad appassionarsi al calcio. Mi piace l’idea di tramandare la passione, come mio nonno e poi mi padre hanno fatto con me. Altra modulistica, documento d’identità, segnalazione delle generalità dell’accompagnatore, ma … la signorina del box office mi chiede: “Dov’è la Tessera del Tifoso del bambino?”. “Come, scusi? Ma è un bambino di 9 anni, che Tessera del Tifoso dovrebbe avere? Le garantisco che non ha carichi penali”. “Mi spiace, ma l’abbonamento si carica nel chip della Tessera del Tifoso, ed in mancanza di questa non posso fare a suo figlio alcun abbonamento”. Ma come, i bei discorsi sull’avvicinare le famiglie allo stadio, riempire le curve di bambini appassionati che saranno la nuova linfa dello sport … Tutte balle. Obbligare un bambino ad avere la Tessera del Tifoso è spregevole. Chi ha generato questo mostro giuridico non ha mai messo un piede allo stadio, e se l’ha fatto è per andare dritto in Tribuna Elite, con tanto di scorta. Vergogna. Altro che banane. Un papà deluso e scoraggiato.

 

La polemica su Carlo Tavecchio

LA POLEMICA SU CARLO TAVECCHIO. ITALIANI DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA? ABBIAMO SEMPRE DEGNI RAPPRESENTANTI.

Da ultima e non per ultima è nata la diatriba, politica o meno, fondata o meno, sulla elezione di Carlo Tavecchio alla Federcalcio. Di sicuro ne esce malconcia la credibilità del calcio e delle su componenti, come se non bastasse quanto già avvenuto prima. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it. Per dovuta esperienza posso esprimere questi pareri. Per quanto riguarda le battaglie di civiltà posso dire che sono battaglie contro i mulini al vento. Non perché esse non siano fondate, in quanto, come specialista del campo, proprio perché ho scritto “Sportopoli, lo sport truccato”, posso garantire che i temi sollevati sono già stati pubblicati sui giornali con degli articoli, da me o da altri, come di seguito indicato, e nulla è scaturito.

Eppure i nemici giurati di Tavecchio hanno avuto una bella visibilità dai soliti giornali. Come nel caso di Massimiliano Nerozzi per La Stampa, giornale degli Agnelli, contrari a Tavecchio. “Figc, l’ex vicepresidente dei Dilettanti, Ragno: Tavecchio non è eleggibile. Magari sarà una questione di cavilli, che sono poi la versione giuridica della buccia di banana. «Guardi che Carlo Tavecchio non è eleggibile», dice con voce pacata Luigi Ragno, 74 anni, ex sottotenente dei carabinieri («ma solo nei venti mesi di leva»), ex direttore di banca, e per trent’anni in Federcalcio. «Basta leggere l’articolo 29 del nuovo statuto della Figc: la riabilitazione è espressamente richiamata in riferimento a provvedimenti disciplinari sportivi, e non quando si parla di condanne penali, dove invece non è indicata. Poi però non ho idea di come andrà, perché ne ho viste di tutti i colori». Specialmente tra il 1999 e il 2000, quando da vice presidente della Lega Nazionale Dilettanti Ragno si trovò proprio al fianco di Tavecchio, al suo primo mandato: il numero uno aveva fatto alcune operazioni bancarie «con gravi irregolarità», secondo Ragno, che aveva presentato immediate dimissioni. «Era il 24 ottobre 2000 – ricorda oggi l’ex vice presidente – e scrissi una lettera a diversi organi federali, anche per tutelare la mia persona: con i precedenti che all’epoca aveva Tavecchio, e che tutti conoscevano, non si potevano lasciare venti miliardi di lire in un conto di private banking, e con una sola persona con potere di firma, lui». Non successe nulla. «L’unico risultato fu che il collegio dei revisori minacciò di querelarmi per diffamazione: bene, risposi, almeno chiariremo tutto davanti a un tribunale. Ho sempre tenuto tutti i documenti. La denuncia non arrivò mai». ? Quindici anni più tardi, tutto può ruotare ancora attorno alle precedenti condanne di Tavecchio (totale, 1 anno e tre mesi) nonostante furono pene sospese e con non menzione sul certificato penale. Su questo tema si erano innescate interpellanze parlamentati, ma Tavecchio aveva alzato lo scudo: un parere sulla sua candidabilità richiesto alla Corte Federale nel 1999, e la riabilitazione ottenuta in base all’articolo 178 del codice penale. Tutto vero, ma discutibile, almeno secondo alcune fonti vicine alla giustizia sportiva della Federcalcio. «Ricordo che emettemmo un parere – dice il professor Andrea Manzella, illustre costituzionalista ed ex presidente della Corte – e molto ben motivato. Certo, era il 1999, e tenemmo conto della normativa sportiva e penale dell’epoca». Nel frattempo, lo statuto della Figc è cambiato quattro volte, l’ultima il 30 luglio scorso, con decreto del commissario ad acta, il professor Giulio Napolitano.? Il punto è l’articolo 29, dove l’inciso «salva riabilitazione», è indicato solo nella frase dei provvedimenti sportivi, non nel periodo seguente, quando si parla di «condanne penali passate in giudicato per reati non colposi» con pene detentive superiori a un anno. Interpretazione letterale: se l’estensore avesse voluto prevedere la riabilitazione anche per le condanne penali, l’avrebbe specificamente indicato. «Forse è la sorpresa di Malagò», sorrideva ieri un giurista. Dopo di che c’è pure la lettura favorevole a Tavecchio, ovvero in linea con i principi giuridici generali: in fondo la riabilitazione, tra le altre cose, serve proprio per evitare gli effetti deteriori che una condanna produce sotto il profilo sociale e lavorativo. Se ne può discutere, insomma: come potrebbe poi decidere di fare il Coni, come organo di sorveglianza, tenuto a ratificare i risultati dell’assemblea”.

Il passato scomodo di Tavecchio, scrivono da par loro Tommaso Rodano e Carlo Tecce per Il Fatto Quotidiano. “Spuntano una denuncia per calunnia contro il super candidato alla Federcalcio e un dossier depositato in procura che lo riguarda. E si scoprono strane storie, dalle spese pazze fino al doppio salvataggio del Messina. Ogni giorno che passa, e ne mancano cinque all’annunciata investitura in Federcalcio, il ragionier Carlo Tavecchio arruola dissidenti, smarrisce elettori: resiste però, faticosamente resiste. Nonostante le perplessità di Giovanni Malagò (Coni), dei calciatori più famosi e di qualche squadra di serie maggiore o inferiore. Il padrone dei Dilettanti, che dal ‘99 gestisce un’azienda da 700.000 partite a stagione e da 1,5 miliardi di euro di fatturato, com’è da dirigente? Dopo aver conosciuto le sue non spiccate capacità oratorie, tra donne sportive handicappate e africani mangia-banane, conviene rovistare nel suo passato. E arriva puntuale una denuncia per calunnia contro Tavecchio, depositata in Procura a Varese due giorni fa, a firma Danilo Filippini, ex proprietario dell’Ac Pro Patria et Libertate, a oggi ancora detentore di un marchio storico per la città di Busto Arsizio. Per difendersi da una querela per diffamazione – su un sito aveva definito il candidato favorito alla Figc un “pregiudicato doc” – Filippini ha deciso di attaccare: ha presentato documenti che riguardano il Tavecchio imprenditore e il Tavecchio sportivo, e se ne assume la responsabilità. Oltre a elencare le cinque condanne che il brianzolo, già sindaco di Ponte Lambro, ha ricevuto negli anni (e per i quali ha ottenuto una riabilitazione) e i protesti per cambiali da un miliardo di lire dopo il fallimento di una sua azienda (la Intras srl), Filippini allega una lettera, datata 24 ottobre 2000, Tavecchio era capo dei Dilettanti dal maggio ‘99. Luigi Ragno, un ex tenente colonnello dei Carabinieri, già commissario arbitrale, vice di Tavecchio, informa i vertici di Lega e Federazione di una gestione finanziaria molto personalistica del presidente. E si dimette. “Mi pregio comunicare che nel corso del Consiglio di Presidenza – si legge – è stato rilevato che la Lega intrattiene un rapporto di conto corrente presso la Cariplo di Roma, aperto successivamente al Primo Luglio 1999 (…). L’apertura del conto corrente appare correlata alla comunicazione del Presidente di ‘avere esteso alla Cariplo, oltre alla Banca di Roma già esistente, la gestione dei fondi della Lega. Entrambi gli Istituti hanno garantito, oltre alla migliore offerta sulla gestione dei conti, forme di sponsorizzazione i cui contenuti sono in corso di contrattazione”. Quelle erano le premesse, poi partono le contestazioni a Tavecchio: “Non risulta che alcun organo collegiale della Lega sia mai stato chiamato a esprimere valutazioni in ordine a offerte formulate dagli Istituti di credito di cui sopra”. “Risulta che non sono state prese in considerazione dal presidente più di venti offerte di condizione presentate in busta chiusa da primarie banche che operano su Roma, le quali erano state contattate dal commissario”. “Non risulta che né la Banca di Roma né la Cariplo abbiano concluso con la Lega accordi di sponsorizzazione”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale del bilancio della Lega non appare, nella voce "banche", la presenza del conto corrente acceso presso Cariplo”. “Nella sezione Attività della situazione patrimoniale, alla voce "Liquidità/Lega Nazionale Dilettanti" risulta l’importo di Lire 18.774.126.556, che non rappresenta, come potrebbe sembrare a prima vista, il totale delle risorse finanziarie dei Comitati e delle Divisioni giacenti presso la Lega, bensì è costituito da un saldo algebrico tra posizioni creditorie e posizioni debitorie nei confronti della Lega”. Segue una dettagliata tabella dei finanziamenti ai vari Comitati regionali, e viene così recensita: “Il presidente della Lega ha comunicato che ai suddetti "finanziamenti di fatto" è applicato il tasso di interesse del 2,40%, la cui misura peraltro non è stata stabilità da alcun organo collegiale”. Il vice di Tavecchio fa sapere di aver scoperto anche un servizio di “private banking”, sempre con Cariplo, gestito in esclusiva dal ragionier brianzolo: “Nessun Organo collegiale della Lega ha mai autorizzato l’apertura di tale rapporto (…) e mai ha autorizzato il presidente a disporre con firma singola (…) Trattasi di un comportamento inspiegabile e ingiustificabile, anche in considerazione della consistenza degli importi non inferiore ai venti miliardi di lire”. Ragno spedisce una raccomandata alla Cariplo, e si congeda dai Dilettanti di Tavecchio: “Di fronte all’accertata mancanza di chiarezza, di trasparenza e di correttezza e di gravi irregolarità da parte del massimo esponente della Lega, non mi sento di avallare tale comportamento gestionale e comunico le immediate dimissioni”. Per comprendere la natura del consenso costruito minuziosamente da Tavecchio nella gestione della Lega Dilettanti, un caso esemplare è quello del Messina calcio. La società siciliana approda in Lnd nella stagione sportiva 2008-2009. La famiglia Franza è stufa del suo giocattolo, vorrebbe vendere la squadra, ma non trova acquirenti. Il Messina è inghiottito dai debiti. Dovrebbe militare in serie B, ma il presidente Pietro Franza non l’iscrive al campionato cadetto: deve ricominciare dai dilettanti. Il problema è che il Messina è tecnicamente fallito (la bancarotta arriverà dopo pochi mesi) e non avrebbe le carte in regola nemmeno per ripartire da lì. E invece Tavecchio, con una forzatura, firma l’iscrizione dei giallorossi alla Lega che dirige. L’uomo chiave si chiama Mattia Grassani, principe del foro sportivo e, guarda caso, consulente personale di Tavecchio e della stessa Lnd: è lui a curare i documenti (compreso un fantasioso piano industriale per una società ben oltre l’orlo del crac) su cui si basa l’iscrizione dei siciliani. In pratica, si decide tutto in casa. Nel 2011 il Messina, ancora in Lega dilettanti, è di nuovo nei guai. Dopo una serie di vicissitudini, la nuova società (Associazione Calcio Rinascita Messina) è finita nelle mani dell’imprenditore calabrese Bruno Martorano. La gestione economica non è più virtuosa di quella dei suoi predecessori. Martorano firma in prima persona la domanda d’iscrizione della squadra alla Lega. Non potrebbe farlo: sulle sue spalle pesa un’inibizione sportiva di sei mesi. Non solo. La documentazione contiene, tra le altre, la firma del calciatore Christian Mangiarotti: si scoprirà presto che è stata falsificata. Il consulente del Messina (e della Lega, e di Tavecchio) è sempre Grassani: i giallorossi anche questa volta vengono miracolosamente iscritti alla categoria. Poi, una volta accertata l’irregolarità nella firma di Mangiarotti, la sanzione per il Messina sarà molto generosa: appena 1 punto in classifica (e poche migliaia d’euro, oltre ad altri 18 mesi di inibizione per Martorano). Tavecchio, come noto, è l’uomo che istituisce la commissione “per gli impianti sportivi in erba sintetica” affidandola all’ingegnere Antonio Armeni, e che subito dopo assegna la “certificazione e omologazione” degli stessi campi da calcio alla società (Labosport srl) partecipata dal figlio, Roberto Armeni. Non solo: la Lega Nazionale Dilettanti di Tavecchio ha un’agenzia a cui si affida per l’organizzazione di convegni, cerimonie ed assemblee. Si chiama Tourist sports service. Uno dei due soci, al 50 per cento, si chiama Alberto Mambelli. Chi è costui? Il vice presidente della stessa Lega dilettanti e lo storico braccio destro di Tavecchio. Un’amicizia di lunga data. Nel 1998 Tavecchio è alla guida del comitato lombardo della Lnd. C’è il matrimonio della figlia di Carlo, Renata. Mambelli è tra gli invitati. Piccolo particolare: sulla partecipazione c’è il timbro ufficiale della Figc, Comitato Regionale Lombardia. Quando si dice una grande famiglia.”

«Denuncio Tavecchio. Carriera fatta di soprusi» dice Danilo Filippini a “La Provincia Pavese”. A quattro giorni dalle elezioni Figc, Carlo Tavecchio continua a tenere duro, incurante delle critiche e delle prese di posizione – sempre più numerose e autorevoli – di coloro che ritengono l’ex sindaco di Ponte Lambro del tutto inadeguato a guidare il calcio italiano. Tavecchio è stato anche denunciato per calunnia da Danilo Filippini, ex presidente della Pro Patria che ha gestito la società biancoblù dall’ottobre 1988 all’ottobre 1992.

Filippini, perché ha deciso di querelare Tavecchio?

«Scrivendo sul sito di Agenzia Calcio, definii Tavecchio un pregiudicato doc e un farabutto, naturalmente argomentando nei dettagli la mia posizione e allegando all’articolo il suo certificato penale storico. Offeso per quell’articolo, Tavecchio mi ha denunciato per diffamazione. Così, tre giorni fa, ho presentato alla Procura di Varese una controquerela nei suoi confronti, allegando una ricca documentazione a sostegno della mia tesi».

In cosa consiste la documentazione?

«Ci sono innanzitutto le cinque condanne subite da Tavecchio. Poi i protesti di cambiali per una somma di un miliardo di vecchie lire dopo il fallimento della sua azienda, la Intras srl. Ho allegato inoltre l’esposto di Luigi Ragno, già vice di Tavecchio in Lega Dilettanti, su presunte irregolari operazioni bancarie con Cariplo. Più tutta una serie di altre irregolarità amministrative».

Quando sono nati i suoi dissidi con Tavecchio?

«Ho avuto la sfortuna di conoscerlo ai tempi in cui ero presidente della Pro Patria. Quando l’ho visto per la prima volta, era presidente del Comitato regionale lombardo. In quegli anni ci siamo scontrati continuamente. Con Tavecchio in particolare e con la Federazione in generale».

Per quale motivo?

«I miei legittimi diritti sono sempre stati negati, in maniera illecita, nonostante numerosi miei esposti e querele, con tanto di citazioni di testimoni e prove documentali ineccepibili. Da vent’anni subisco dalla Federcalcio ogni tipo di abusi».

Per esempio?

«Guardi cos’è successo con la denominazione “Pro Patria et Libertate”, da me acquisita a titolo oneroso profumatamente pagato, e che poi la Federazione ha girato ad altre società che hanno usato indebitamente quel nome. Per non parlare della mia incredibile radiazione dal mondo del calcio, che mi ha impedito di candidarmi alla presidenza della Figc, come volevo fare nel 2001. Una vera discriminazione, che viola diritti sanciti dalla Costituzione. Sa qual è l’unica cosa positiva di questa vicenda?»

Dica.

«Sono uscito da un mondo di banditi come quello del calcio. E ora mi occupo di iniziative a favore dei disabili: impiego molto meglio il mio tempo».

Tavecchio risulta comunque riabilitato dopo le cinque condanne subite.

«Mi piacerebbe sapere in base a quali requisiti l’abbia ottenuta, la riabilitazione. E comunque, una volta riabilitato, avrebbe dovuto tenere un comportamento inappuntabile sul piano etico. Non mi pare questo il caso».

Insomma, a suo parere un’eventuale elezione di Tavecchio sarebbe una iattura per il calcio italiano…

«Mi auguro davvero che non venga eletto. Questo è il momento di cambiare, di dare una svolta: non può essere Tavecchio l’uomo adatto. Avendolo conosciuto di persona, non mi sorprende neanche che abbia commesso le gaffes di cui tutti parlano. Lui fa bella figura solo quando legge le lettere che gli scrivono i principi del foro. Comunque, ho mandato la mia denuncia per conoscenza anche al Coni e al presidente Malagò. Non ho paura di espormi: quando faccio una cosa, la faccio alla luce del sole».

Da parte sua Gianfrancesco Turano su “L’Espresso” ha messo un carico pesante, naturalmente buttandola in politica: Claudio Tavecchio, chi è il potente del calcio. L’impresentabile che piace tanto a destra. “Il brianzolo, celebre per le sue sparate su neri mangiatori di banane e donne handicappate, è diventato il padrone della Figc. Grazie a un piano che unisce affari e politica e ad amicizie influenti. Come quella con Galliani e Lotito. Il ragioniere, il geometra, il pedagogo. Claudio Tavecchio, Adriano Galliani e Claudio Lotito hanno i titoli di studio in regola. Sono loro la nuova Triade che tenterà di rilanciare il calcio italiano eliminato al primo turno ai Mondiali, bersagliato dalla violenza e dalle scommesse clandestine, squilibrato nella struttura e nei conti, surclassato nei risultati in campo. Alle elezioni della Federcalcio fissate in prima convocazione il giorno 11 di agosto 2014, il candidato Tavecchio ha ottime possibilità di essere eletto al primo colpo con la maggioranza qualificata di due terzi. Dal terzo ballottaggio basterà la metà più uno dei voti. L’unico avversario che ha qualche chance di farlo fuori è lo stesso Tavecchio, protagonista di uno show pre-elettorale indimenticabile a base di un mitologico “Optì Pobà”, calciatore della Lazio mangiabanane, dequalificato e senza “pitigrì” (pedigree). Le scuse successive sono state peggiori della gaffe: esibizioni di fotografie in compagnia di uomini neri, dichiarazioni sulla falsariga “molti dei miei migliori amici sono africani” e il provvidenziale intervento a sostegno del medico della nazionale del Togo. Kossi Komla-Ebri, residente in Ponte Lambro (Como), ha garantito per il candidato: «Quando Tavecchio era sindaco, abbiamo fatto un gemellaggio con Afagnan in Togo». Appena finito di scusarsi con i mangiatori di banane, è arrivata un’altra frase culto. «Prima si pensava che la donna fosse handicappata rispetto al maschio per resistenza ed altri fattori, adesso invece abbiamo riscontrato che sono molto simili». Gaffe del candidato alla presidenza della Figc, Carlo Tavecchio, che durante l’assemblea dei dilettanti, parlando dei giocatori stranieri, ha commentato: “Le questioni di accoglienza sono una cosa, quelle del gioco un’altra. L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che ‘Opti Poba’ è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così”. Tavecchio si è poi scusato: “Mi riferivo al curriculum”. Sulle sue cinque condanne penali a qualche mese, piccolezze per un dirigente politico italiano, nota che la più recente è del 1998 e la prima è del 1970. Nessuna traccia è rimasta sul certificato penale. Il saldo di queste dichiarazioni è che l’Unione europea, la Fifa di Sepp Blatter, l’Uefa di Michel Platini e il Coni di Giovanni Malagò farebbero volentieri a meno di Tavecchio. Lui, al momento, non se ne dà per inteso e si copre con un alibi storico: lo sport è indipendente dalla politica. Figuriamoci il calcio. Tirèmm innanz verso le elezioni dell’11 agosto. Cinematograficamente Tavecchio è l’anello mancante fra il Lambertoni del “Vedovo” e il cumènda brianzolo Cavazza della “Contestazione generale” (“alegher alegher…”). L’aspirante re del calcio è la quintessenza del ragiunàtt lombardo che entra in banca a 19 anni e per altri 19 è eletto primo cittadino di Ponte Lambro con le liste dello scudo crociato (1976-1995). Nulla di rivoluzionario. Nulla di rottamatorio, soprattutto. Ci è voluta la gaffe su Optì Pobà perché Graziano Delrio, plenipotenziario renziano per lo sport, iniziasse a dubitare dell’uomo che, fino ad allora, gli era parso il successore ideale del dimissionario Giancarlo Abete. In effetti, anche a non considerare l’uscita razzista, l’elezione di Tavecchio consentirà alla destra un takeover totale sullo sport più amato in Italia e nel mondo. Non è un caso se gli unici difensori del ragioniere comasco siano stati Daniela Santanchè e Maurizio Gasparri. Né c’è bisogno di insistere sulle simpatie politiche di Lotito o di Galliani, che da una posizione defilata rimane il vero dominus del calcio italiano, capace di mettere nell’angolo mister trenta scudetti Andrea Agnelli e, in modo assai più agevole, il suo azionista Barbara Berlusconi, che avrebbe voluto in Figc un quarantenne invece del settantunenne presidente della Lega Dilettanti. Altri fan di peso erano in prima fila alla manifestazione romana sfociata nel numero su Optì Pobà. Tre su tutti: il membro del Cio Franco Carraro, l’ex numero uno di Figc e Lega Antonio Matarrese e il presidente della Lega di serie A e capo della comunicazione di Unicredit Maurizio Beretta, ferocemente soprannominato “dimmi, Claudio”, nel senso di Lotito. L’alto-brianzolo Tavecchio non sarà fine di ingegno come il basso-brianzolo Galliani. Sarà anche una figura debole, e perciò stesso gradita, rispetto allo strapotere della Lega di serie A. Sul web spunta il video di un’intervista alla trasmissione Report su RaiTre in cui il candidato alla presidenza del calcio italiano si esprime in questi termini sulle donne: “Noi siamo protesi a dare una dignità anche sotto l’aspetto estetico alla donna nel calcio”. Il video, risalente a una puntata del 5 maggio 2014, si sente la intervistatrice interdetta che chiede spiegazioni a Tavecchio delle sue parole. “Finora si riteneva che la donna fosse un soggetto handicappato rispetto al maschio sotto l’aspetto della resistenza, del tempo, dell’espressione atletica. Invece abbiamo riscontrato che sono molto simili”. Ma non va preso sotto gamba. Nello sport italiano l’anzianità di servizio e la capacità di relazione contano molto. E qui Tavecchio non teme concorrenti. Il suo primo sbarco negli organi direttivi della Lega nazionale dilettanti (Lnd) risale al 1987, quando la poltrona di consigliere del comitato regionale Lombardia era giusto un’occasione per l’allora sindaco e presidente della Pontelambrese di rafforzare il consenso locale grazie allo spargimento di qualche contributo finanziario. Oggi, dopo quindici anni ininterrotti di Tavecchio alla presidenza nazionale, la Lnd è diventata una macchina colossale con 1,3 milioni di tesserati, 14 mila società iscritte e un fatturato complessivo che lo stesso Tavecchio stima in 700 milioni di euro all’anno, oltre un terzo di quanto fattura la serie A. In questi anni, il ragiunàtt di Ponte Lambro non ha smesso di allargare il suo perimetro d’impresa prendendosi in carico non solo il calcio femminile, ma anche il beach soccer e soprattutto il calcio a cinque, una delle realtà economico-sportive emergenti di questi anni. Per deformazione professionale l’ex dirigente della Banca di credito cooperativo Alta Brianza sa badare ai danè come pochi altri. Sul modello del Coni, ha dotato la Lega dilettanti di una società di capitali, la Lnd Servizi. La cassaforte della Lega ha un attivo di tutto rispetto (31 milioni di euro) che cresce di anno in anno grazie a varie operazioni immobiliari, finanziate da un prestito infruttifero di 20 milioni di euro da parte del socio unico Lnd e quindi anche dai contributi delle società dilettantische. Oltre a non pagare interessi sui 20 milioni, Lnd servizi ha aiutato le proprie prestazioni contabili tagliando dal 10 al 5 per cento le royalties dovute alla casa madre per l’uso del marchio. In questi anni, Lnd servizi ha comprato, ampliato e ristrutturato le sue due sedi principali a Roma in piazzale Flaminio e in via Cassiodoro, dove ci sono gli uffici della commissione impianti in erba artificiale, cuore del business dilettantistico. Una volta riservato agli amatori dei tornei scapoli-ammogliati, il sintetico è stato esteso all’attività agonistica e trasformato da Tavecchio in un affare dai contorni poco trasparenti con un andirivieni di collaudi di moquette, sottofondi e consulenze tecniche per l’omologazione che ogni anno muovono milioni di euro per sdoganare oltre 2 mila impianti con fondo artificiale. È una realtà che si concilia poco con l’enfasi tavecchiana sul volontariato sportivo e che ha già impegnato il presidente della Lnd come consulente del Ministero dell’economia sulla fiscalità dello sport dilettantistico. Il volontariato è bello e Tavecchio lo esercita anche fuori dai campi in sintetico come consigliere della Healthy Foundation guidata da Sergio Pecorelli, rettore dell’Università di Brescia, presidente dell’Agenzia del farmaco e ginecologo personale dell’ex ministro forzista Mariastella Gelmini. Ma senza soldi non si canta messa e il cattolicissimo Tavecchio lo sa. Così appena ricevuta l’investitura a candidato per la Federcalcio, ai primi di luglio, mentre l’Italia si riprendeva dall’eliminazione al primo turno in Brasile, il ragiunàtt di Ponte Lambro ha concluso il suo progetto di spinoff regalandosi per il settantunesimo compleanno (13 luglio) la Lnd Immobili, dove sarà trasferito il tesoretto di fabbricati e terreni di Lnd servizi e dove continueranno gli investimenti per dotare ognuna delle venti regioni italiane di un centro federale di reclutamento. L’ultimo, in Molise, è stato acquistato a marzo e comporterà lavori per 1,2 milioni di euro. Che poi i grandi club puntino sul Molise – o sul Veneto o sull’Umbria – per rimpolpare le loro squadre, invece di andare a pescare il nuovo Optì Pobà in Africa è tutto da vedere. Anche l’altra idea-guida di riportare il settore tecnico della Nazionale a uno staff di allenatori cresciuti all’interno dei ranghi federali e non nei club sembra anacronistica rispetto ai tempi di Ferruccio Valcareggi, Enzo Bearzot e Azeglio Vicini. Un commissario tecnico oggi è un allenatore di primo livello. Pensare di pagarlo 200 mila euro all’anno significa perderlo in fretta, se è vincente. Ma il programma politico dipende poco o nulla da Tavecchio. La carta di navigazione per rilanciare il calcio italiano è stata scritta da due autori di serie A: Lotito e Agnelli. Al di là del folklore campagnolo sugli handicap femminili e sugli africani poco qualificati, Tavecchio o chiunque vincerà le elezioni avrà scarso margine di manovra rispetto al diktat della prima divisione. Certo, il laureato in pedagogia Lotito è schieratissimo con Tavecchio. Agnelli molto meno. C’è un pregresso di polemiche furiose che risale a tre anni fa quando la commissione federale rigettò la richiesta juventina di revocare all’Inter lo scudetto 2006 di Calciopoli. L’interistissimo Tavecchio si espose sulla ribalta del grande calcio difendendo la scelta della Figc, di cui era vicepresidente vicario, e respingendo gli attacchi juventini a Giacinto Facchetti. Agnelli non gliel’ha perdonata ma è abbastanza pragmatico per accettare le garanzie di Lotito che Tavecchio saprà stare al suo posto limitandosi a qualche battuta infelice di quelle che fanno la gioia dei social network e dei nostri concorrenti all’estero. Quindi, si porterà la serie A a diciotto squadre, si scremeranno le serie minori che già si scremano da sé con la crisi. E il resto continuerà come prima, con le grandi che perdono terreno sulla concorrenza europea e le piccole che tirano a campare con le plusvalenze e il factoring sui diritti televisivi scontato da qua a trent’anni, mentre tutti mostrano grande volontà di cambiamento nimby (not in my backyard). Su una cosa Tavecchio ha ragione. È quando gli scappa detto: «Ora devo occuparmi di questo bordello». Dopo 27 anni che lavora nella politica e nel calcio, forse sa di che parla.”

Ciò nonostante, per un eventuale ricorso di annullamento nulla ha potuto fare il Coni, pur pungolato. Per quanto riguarda il ricorso al Tar, già è stato presentato ma per altri motivi che quello della incandidabilità. Un ricorso al Tar del Lazio contro le regole di elezione del vertice della Federcalcio italiana e contro ogni altro atto legato a questo passaggio viene annunciato dal Codacons all’indomani dell’elezione di Carlo Tavecchio. Un ricorso non tanto contro il neo presidente o contro Albertini, se fosse stato questi ad essere eletto a capo del calcio italiano, quanto invece contro il meccanismo che – precisa Carlo Rienzi, presidente del Codacons – “esclude i primi fruitori dell’attività sportiva calcistica, e cioè i tifosi”. Secondo Rienzi, infatti, “i tifosi non hanno voce in capitolo, non possono dire la loro sulla presidenza, non è previsto il loro coinvolgimento attraverso una consultazione magari anche online”.

 

Marco Pantani

MARCO PANTANI. ASPETTANDO GIUSTIZIA.

Nel libro scritto da Antonio Giangrande “SPORTOPOLI”, un capitolo è dedicato alla vicenda giudiziaria sulla morte di Marco Pantani.

Su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti dello sport in Italia ha pubblicato un volume “Sportopoli. L’Italia delle frodi sportive”.

MARCO PANTANI. ASPETTANDO GIUSTIZIA.

La solitudine, il residence e la coca. Quegli ultimi giorni del Pirata, scrive Alessandra Nanni su “Quotidiano Nazionale”. La morte di Marco Pantani comincia il 9 febbraio del 2004, quando arriva a Rimini a bordo di un taxi. Sta scappando da Milano, dopo una lite furibonda con i genitori. Sarà l’ultima volta che vedranno quel figlio in fuga da se stesso, dal campione che era stato e di cui lui per primo non vede più che l’ombra. È l’inchiesta che ha portato al processo, a ricostruire i suoi ultimi giorni di vita. Il Pirata è sprofondato nella cocaina, e mentre il suo corpo tiene ancora il colpo di 15 grammi al giorno, il suo cuore batte di una rabbia smisurata. Come quando correva è di nuovo irraggiungibile, ma la sua ‘vetta’ ora è solo la coca, e in riviera c’è il suo fidato fornitore, Fabio Miradossa. Al processo riminese, testimoni, investigatori e imputati hanno messo insieme i pezzi di quei cinque giorni. Pantani si fa scaricare dall’autista lungo il viale, e va dritto a casa degli amici che ospitano lo spacciatore. Ma Miradossa non c’è, mamma Tonina ha minacciato di farlo arrestare se avesse continuato a vendere droga al figlio. Si è spaventato ed è tornato di corsa a Napoli. Per lui, per tutti, il campione è diventato un cliente che scotta. Ma Pantani non accetta un rifiuto, pianta una grana: devono trovare il napoletano. Capiscono che non mollerà, e fanno pressione su Miradossa: liberaci di Pantani. Lo spacciatore cede e incarica il suo galoppino di accontentare il campione. È Ciro Veneruso, quella stessa sera, a consegnare a Pantani i 30 grammi di cocaina che lo uccideranno il 14 febbraio. Appartamento 5D, al quinto piano del residence Le Rose. Il Pirata ci arriva a mezzogiorno di quel lunedì, e da allora lo vedranno di rado. Racconteranno di un uomo rinchiuso in un mondo immaginario, frasi sconnesse, insofferenza. Scende solo a fare colazione, qualche incursione al bar per una pizzetta. Non mangia altro e tollera a malapena la donna delle pulizie. Come un animale braccato che si lecca le ferite dell’ingiustizia, sceglie il buio. Le tapparelle della stanza sono abbassate come in una grotta, sta macinando migliaia di chilometri solo con se stesso. «Si lamentava del rumore — racconteranno i clienti — bastava un passo per fargli spalancare la porta». «Chiamate i carabinieri» urla in un delirio che riempie di pena chi è testimone di tutto quel dolore. Alle 11,30 di sabato, Pantani chiama la portineria e chiede di non essere disturbato più, non gli interessa che la camera venga rifatta. Sono le 19, quando il portiere suona alla porta del 5D. Nessuna risposta, scende in cortile per cercare una luce al quinto piano, ma non riesce a vedere e il telefono della stanza dà sempre occupato. È preoccupato, decide di entrare con una pila di asciugamani. Usa il passepartout, ma la porta si apre solo di uno spiraglio, il mobile della tv e del telefono sono rovesciati. Dentro l’appartamento il caos, come un uragano. «Poi sono salito nel soppalco, era a terra adagiato su un fianco, non respirava più». Fine della corsa.

CHI HA UCCISO PANTANI ? A DIECI ANNI DALLA SUA MORTE, IL CASO RIAPRE E SI INDAGA………..

PANTANI, CASO RIAPERTO DOPO 10 ANNI: “FU UCCISO? DOBBIAMO APPROFONDIRE”, scrive Guglielmo Buccheri per “la Stampa”. Cinquemila pagine fotocopiate, decine di testimonianze e immagini. L’esposto voluto dalla famiglia di Marco Pantani è finito sul tavolo del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli ed ora l’indagine è aperta come riporta la Gazzetta dello Sport. «Non fu suicidio volontario, ma Pantani fu ucciso…», sostengono i familiari del campione romagnolo e, da ieri, è l’ipotesi a cui lavoreranno gli inquirenti. «Nessun commento, dobbiamo approfondire. Bisognerà fare delle valutazioni anche alla luce del risultato del processo che ci fu a suo tempo. Quando – precisa il procuratore Giovagnoli – arriva un esposto-denuncia per omicidio volontario è sempre un atto dovuto aprire un’indagine…». La svolta, clamorosa, è sul tavolo. E, in un attimo, i fatti della notte del 14 febbraio di dieci anni fa tornano sotto i riflettori. La procura di Rimini si metterà al lavoro, lo farà dopo l’estate e l’indagine appena aperta durerà almeno un anno prima di arrivare alle sue conclusioni. La famiglia del Pirata, da sempre, ha sostenuto come non fossi possibile che il loro Marco avesse deciso di chiudersi nella stanza della pensione sul lungomare per dire basta. Ora, dopo un decennio di dubbi e perplessità, ecco il primo passo: l’esposto presentato in procura dall’avvocato Antonio De Rensis, e accompagnato da una perizia accurata, è stato giudicato fondato, ma dire oggi quale potrebbe essere il punto di arrivo è fin troppo prematuro. «Non fu suicidio, ma Pantani fu ucciso…», sostengono nella loro dettagliata ricostruzione i familiari del Pirata. «Ora esca la verità…», così gli ex colleghi, ma, soprattutto, amici del romagnolo, Claudio Chiappucci e Davide Cassani. «Non capisco perchè ci sia stato tutto questo ritardo, è giusto che si vada a fondo sulla tragica morte di Marco…», sottolinea Chiappucci. «Forse – così Cassani – si sono date per scontate troppe cose che non lo erano. Chi ha voluto bene a Marco vuole capire cosa realmente sia accaduto quella notte…». Il lavoro della procura di Rimini non sarà facile. Come detto dal procuratore Giovagnoli occorrerà ripartire nell’inchiesta tenendo conto degli sviluppi che hanno portato alle conclusioni del processo già celebrato. Da tempo la famiglia Pantani non perdeva occasione per chiedere la riapertura del caso che, adesso, riaccendere l’attenzione sugli attimi di vita del campione delle due ruote. Per presentare l’esposto c’è voluto un faticoso impegno, fra difficoltà nel reperire il materiale e riuscire nella visione di documenti e faldoni datati quasi dieci anni. Dopo l’estate, i pm si metteranno in azione.

AVEVA CHIESTO AIUTO E FORSE NON ERA SOLO NELLA STANZA MALEDETTA, scrive Giorgio Viberti per “la Stampa”.

Domande e risposte sui misteri di quella notte.

Perché Marco Pantani è uno dei campioni più amati e insieme discussi nella storia dello sport e non solo nel ciclismo?

«Perché si dimostrò pressoché imbattibile sulle montagne, dove fece entusiasmare i tifosi quasi come ai tempi di Bartali e Coppi, ma subì poi una sospensione dalle corse molto discussa e morì ancora giovane, a 34 anni, in circostanze quasi misteriose».

Per molti Pantani non fu soprattutto il simbolo di un ciclismo diventato ostaggio del doping?

«In quegli anni tanti corridori usarono farmaci vietati e alcuni in seguito lo confessarono, eppure Pantani in 12 anni di professionismo non risultò mai positivo all’antidoping».

Ma non morì per un eccesso di cocaina?

«È quanto asserì l’inchiesta dopo la sua morte, avvenuta il 14 febbraio 2004. E paradossalmente fu quella l’unica volta in cui Pantani risultò positivo a una sostanza dopante».

Pantani assumeva cocaina anche quando correva?

«Non venne mai rilevata nei tanti test ai quali si sottopose da corridore, ma è probabile che Pantani abbia cominciato ad assumere cocaina dopo lo choc per l’esclusione dal Giro d’Italia 1999, che aveva ormai quasi vinto, a due tappe dalla fine per ematocrito alto, cioè perché aveva il sangue troppo denso».

Perché si torna a indagare sulla morte del Pirata dopo dieci anni dalla sua morte?

«La mamma Tonina e il papà Paolo non hanno mai accettato la tesi del suicidio involontario per overdose di cocaina. Insieme con i loro legali hanno raccolto una serie di dati e testimonianze che hanno convinto i giudici a riaprire l’inchiesta».

Ma è lecito pensare che la prima inchiesta non sia riuscita a fare piena luce sulle cause della morte?

«Secondo molti ci sarebbero tante incongruenze e contraddizioni che quantomeno lascerebbero molti dubbi sulle conclusioni delle indagini di dieci anni fa. Di sicuro, se è stata riaperta l’inchiesta, devono essere emersi elementi nuovi e importanti di valutazione».

Per esempio?

«C’è l’ipotesi che Pantani non fosse solo nella stanza del residence in cui fu trovato senza vita. Lo farebbero pensare alcuni abiti che non dovevano essere lì, del cibo che il Pirata non amava e non avrebbe mai mangiato, il disordine troppo «ordinato» della stanza, una doppia ma vana richiesta di aiuto che il Pirata fece alla reception, l’enorme quantità di cocaina trovata nel suo organismo come se fosse stato costretto a ingerirla, le escoriazioni sul suo corpo, i segni sul pavimento come se il cadavere fosse stato trascinato… Incredibile poi che l’hotel nel quale morì Pantani sia stato ristrutturato pochissimo tempo dopo, come se fosse urgente cancellare ogni prova residua».

Chi è riuscito, dopo tanto tempo, a trovare tanti nuovi indizi?

«L’avvocato Antonio De Rensis, per conto dei signori Pantani, ha studiato i faldoni sia delle indagini di allora, sia quelli relativi al successivo processo. Ma non basta, perché sono stati sentiti di nuovo alcuni testimoni chiave di quella vicenda. È stata poi molto preziosa una perizia medico-legale eseguita dal professor Francesco Maria Avato, che ha aggiunto tantissimi elementi nuovi».

Ma perché queste cose non emersero subito?

«È quanto eventualmente stabilirà questa seconda inchiesta. Di sicuro la prima autopsia sul corpo di Pantani sbagliò a indicare l’ora presunta della morte e si rivelò molto superficiale anche nel valutare alcuni dati di medicina legale che avrebbero potuto aiutare a fare chiarezza sul caso».

Chi avrebbe avuto interesse a falsificare l’esito dell’inchiesta?

«Difficile dirlo, di sicuro Pantani era finito in un giro di droga che magari coinvolgeva anche persone molto importanti. Avrebbe potuto parlare e fare dei nomi».

Per questo potrebbe essere stato ucciso?

«È questa la tesi sostenuta dai legali dei genitori di Marco. Ed è quanto dovrà appurare questa seconda inchiesta. L’ipotesi di reato è addirittura di omicidio volontario a carico di ignoti e alterazione del cadavere e dei luoghi. Il procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, ha affidato il fascicolo a Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore. Toccherà a lei far luce su quanto avvenne quel giorno».

«LO SCRISSI GIÀ ALLORA: TROPPI PUNTI OSCURI», scrive ancora Giorgio Vibereti per “la Stampa”. Philippe Brunel, giornalista francese e inviato speciale del quotidiano parigino L’Équipe, l’aveva già scritto nel suo libro «Gli ultimi giorni di Marco Pantani»: la morte del Pirata ha molti lati oscuri.

Brunel, che ne pensa di questa nuova inchiesta?

«L’avevo già detto dieci anni fa. Nella morte di Pantani ci sono troppe incongruenze, troppi episodi inspiegabili per poter accreditare la tesi del suicidio involontario».

È quanto però emerse dalla prima inchiesta…

«Mi interesso da molti anni di ciclismo, soprattutto italiano, e fui incaricato da L’Équipe di indagare, cercare di capire, raccogliere testimonianze e prove sulla morte di Pantani. E le cose non quadravano».

Che cosa soprattutto la lasciò perplesso?

«Tante cose. Marco era una persona precisa, quadrata e amabile. Impossibile che si sia messo a urlare e spaccare tutto nella sua stanza d’albergo, come dissero invece gli inquirenti della prima inchiesta».

Tutto qui?

«No, certo. Nella camera del residence Le Rose era stato portato del cibo che Marco odiava e non avrebbe mai mangiato, e poi le escoriazioni sul suo corpo, la bottiglia d’acqua mai analizzata, certi indumenti che non avrebbero dovuto essere lì, quel disordine troppo ordinato, il mancato rilevamento delle impronte…».

Per lei Pantani non era solo in quella stanza, vero?

«Ne sono sicuro. In quel residence si poteva entrare anche dal parcheggio sul retro, di sicuro Marco è stato raggiunto dal suo pusher ma credo anche da altre persone. Incredibile poi che quell’albergo, cioè la scena della morte di Pantani, sia stato completamente ristrutturato dopo pochissimo tempo, cancellando di fatto anche le eventuali possibili prove rimaste».

Ma chi e perché avrebbe voluto la morte di Pantani?

«Temo ci fossero sotto interessi molto grossi, che magari coinvolgevano anche persone importanti. Una storia di droga e prostituzione. Pantani era diventato un tossicodipendente, che frequentava gente senza scrupoli. A un certo punto non ha più saputo controllare la situazione, e ci ha rimesso la vita. Una morte oscura e irrisolta, però, come quelle di Tenco o Pasolini».

Brunel, che cosa si augura ora dalla nuova inchiesta?

«Marco era una persona sensibile e generosa che spesso si spingeva fino agli estremi, come faceva in bici. Per lui il ciclismo era finito e si sentiva smarrito, perduto. Ma era un uomo sincero e molto intelligente, che diceva sempre ciò che pensava e che sarebbe potuto diventare scomodo. Non può essere morto come un disperato, per un’overdose, da solo in una stanza d’albergo. Non è andata così. Marco merita giustizia».

«Verità lontana dagli atti ufficiali». Da una parte gli atti di un processo che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal professor Francesco…, scrive “Il Tempo”. Da una parte gli atti di un processo che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal professor Francesco Maria Avato per la sua perizia, il cuore dell’esposto che ha fatto riaprire il caso Pantani con l’ipotesi di reato, per ora a carico di ignoti, di omicidio volontario. Il medico legale – perito, tra l’altro, del caso Bergamini – per definirsi usa lessico da ciclista: «Ho solo aggiunto un tassello da umile gregario al lavoro del legale», commenta. «La mia esperienza mi ha portato a conclusioni diverse sulla morte di Marco Pantani. Si è trattato di rivedere gli atti di causa e non solo, ma anche informazioni recuperate dalle indagini difensive mettendo insieme i frammenti come in un puzzle. È stato un lavoro di equipe con De Rensis». Il lavoro del professor Avato si è basato sull’autopsia del campione morto a Rimini il 14 febbraio 2004 e sull’analisi di foto e video delle indagini, giungendo a conclusioni differenti rispetto alla prima perizia e all’esame autoptico effettuato quasi 48 ore dopo il ritrovamento del cadavere di Marco Pantani. «Sono questioni di pertinenza dell’autorità giudiziaria – aggiunge il medico legale – non posso esprimermi al di là del fatto che il quantitativo di cocaina rinvenuta suggeriva modalità di assunzione diverse da quelle classiche. Sono indagini molto delicate e complesse. Non vogliamo creare confusione o disagio». La parola adesso è ai magistrati. «Il mio lavoro finito? – risponde Avato – Dipende dalle informazioni ulteriori che possono giungere, tutto è perfettibile nella vita».

«Pantani non è stato ucciso». Parla Fortuni, il medico della prima perizia sulla morte del campione. «Overdose al termine di un delirio da cocaina. Lo provano i suoi scritti», scrive Davide Di Santo su “Il Tempo”. «Non ci sono veri nuovi elementi oggettivi» che facciano pensare a «una overdose “omicidiaria”». A parlare è Giuseppe Fortuni, il medico legale nominato dalla Procura di Rimini per eseguire la perizia sul corpo di Marco Pantani ai tempi del processo ai suoi pusher. È l’uomo «famoso» per essersi portato il cuore del Pirata a casa, dopo l’autopsia terminata nella notte del 16 febbraio 2004. Pensava di essere seguito da auto sospette – più tardi si apprese che si trattava di giornalisti – mentre tornava al laboratorio per depositare i tessuti. Le sue conclusioni di allora sono messe oggi in discussione dall’esposto presentato dal nuovo legale della famiglia Pantani, Antonio De Rensis, secondo il quale il campione cesenate, quel giorno di San Valentino di dieci anni fa, nel residence Le Rose di Rimini nel quale si era barricato, in realtà sarebbe stato ucciso. La ricostruzione si basa sulle indagini del legale e sulla nuova perizia di parte del professor Francesco Maria Avato. Pantani avrebbe ricevuto la visita di uno o più uomini che dopo un diverbio lo avrebbero aggredito e immobilizzato, costringendolo a bere un cocktail letale di acqua e cocaina. Per Fortuni, però, il Pirata è morto da solo e in preda ad allucinazioni. «Nessuno parla degli scritti deliranti di Pantani che furono ritrovati nel residence – le sue parole – prova certa del suo delirio e in alcun modo causabili da un overdose “omicidiaria” ma solo da un uso continuo e crescente della cocaina». Il riferimento è a quanto scritto dal campione nelle sue ultime ore. Pensieri affidati a fogli e quaderni, ma anche scritti sul muri del bagno del bilocale riminese. Si va da accuse inquietanti, cariche di astio («Hanno voluto colpire solo me», forse un riferimento alla vicenda del doping) alle composizioni nonsense («Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata». E ancora: «Con tutti Marte e Venere segnano per sentire»). Prove certe di un «delirio da cocaina», per il perito della Procura. Eppure molti amici di Marco sostengono che anche quando era lucido il campione scrivera poesiole e pensieri dello stesso tipo. La madre, la signora Tonina, conserva ancora fogli e quaderni con quelle strane poesie. L’altro elemento sottolineato nella prima perizia è la morte sopraggiunta dopo l’assunzione prolungata di droga, circostanza che si scontra con l’ingestione coatta, in un solo atto. Nell’organismo c’era una quantità sei volte superiore a quella considerata la dose letale minima, ma nel sangue «periferico» la concentrazione era addirittura tredici volte più alta, mentre l’esame del midollo ha mostrato una compatibilità con un uso cronico della sostanza. Il tutto in un quadro in cui omissioni e incongruenze sono superiori alle certezze.

Morte Pantani, professor Avato: “Provinciale l’approccio alle indagini”. “Ogni ricostruzione di un delitto dovrebbe partire dalla medicina legale” afferma il professor Francesco Maria Avato sul caso Pantani. La sua perizia ha contribuito all’indagine sulla morte del Pirata. “Un cold case è sempre il segno di una primitiva sconfitta”, scrive Alessandro Mastroluca su “Fan Page”. Pantani è stato costretto ad assumere un enorme quantitativo di droga. È questa la conclusione principale della nuova perizia medica completata dal professor Francesco Maria Avato, incaricato dalla famiglia del Pirata e dall’avvocato De Rensis. Il suo esame, insieme ai risultati delle prime indagini di De Rensis, ha convinto Paolo Giovagnoli a riaprire il caso per omicidio. Avato, coordinatore della sezione di Medicina Legale e delle Assicurazioni dell’Università di Ferrara, ha eseguito la prima autopsia sul corpo di Denis Bergamini, il “calciatore suicidato”. È il perito incaricato dalla difesa di Alberto Stasi, accusato di aver ucciso la fidanzata, Chiara Poggi, a Garlasco. Nel febbraio 2011, poi, insieme a Giuseppe Micieli della Neurologia dell’Università di Pavia e a Francesco Montorsi dell’Urologia del San Raffaele di Milano, incontra Bernardo Provenzano, per valutarne i problemi di salute che lo avevano indotto a chiedere il permesso di poter uscire dal supercarcere di Novara. Il suo esame sul corpo di Pantani si è basato sull’autopsia del professor Fortuni e sull’analisi di quasi 200 foto a colori e del video della Scientifica, ed è giunto a conclusioni diverse dal primo esame autoptico effettuato quasi 2 giorni dopo il ritrovamento del cadavere. Avato accerta la presenza nel corpo di un quantitativo di cocaina sei volte superiore alla dose letale. La droga, ci spiega il professor Avato che abbiamo raggiunto telefonicamente, “era in quantità tale da lasciar intuire un’assunzione in forme diverse da quella classica. Il conteggio però è complicato, eviterei le semplificazioni”, aggiunge. “Se poi l’abbia bevuta disciolta nell’acqua o l’abbia mangiata, attiene alla ricostruzione di competenza dell’autorità giudiziaria”. Fatto sta che nella stanza D5 del residence Le Rose c’erano molliche di pane rigurgitate, con presenza di polvere bianca, e una bottiglietta d’acqua mai esaminata dalla scientifica. Avato sposta l’ora della morte tra le 10.45 e le 11.45 della mattina di San Valentino del 2004 e conclude che il cadavere sia stato spostato, probabilmente nel pomeriggio, perché anche nel video della polizia si notano segni di trascinamento spiegabili solo se il sangue fuoruscito non si era ancora rappreso. “Il corpo era poggiato sul fianco sinistro” sottolinea Avato, “con la parte destra più alta. Rimanendo così per molte ore, a causa dell’emorragia il sangue sarebbe defluito maggiormente nel polmone sinistro”. Invece è il destro a pesare di più, circa 200 grammi. Come nel caso della morte di Denis Bergamini, anche la gestione delle prime ore dopo il ritrovamento del cadavere “aprirebbe un discorso davvero molto ampio sulle indagini investigative, sulle modalità di approccio al delitto che definirei un po’ ‘provinciale‘” spiega Avato. “La medicina legale dovrebbe essere la genitrice prima di ogni ricostruzione. Noi avevamo un sistema di indagine che è stato un modello per tutto il mondo, ma l’abbiamo trascurato e abbiamo sviluppato un approccio inglese, alla Scotland Yard, che è antico”. Ogni vicenda delittuosa, prosegue Avato, “ogni episodio che richieda competenze medico-legali è sempre diverso”. Nelle inchieste sulla morte di Bergamini e di Pantani, tuttavia, c’è uno schema ricorrente: un’indagine frettolosa, una tesi accettata dal primo momento come vera, sopralluoghi tutt’altro che da manuale sulla scena. “Qui si tratterebbe di considerare dall’inizio tutti i passaggi, le decisioni che hanno portato alla formulazione iniziale. Il punto sostanziale è che le competenze richieste in situazioni del genere devono sempre essere intese come competenze di altissimo livello”. Ma così non è stato, come dimostra lo stesso video della Scientifica in cui si vedono addetti che perlustrano la stanza senza protezioni, senza guanti e non prendono le impronte digitali. Per questo, conclude Avato, “il cold case non va inteso come un’occasione per mettere in rilievo le capacità tecniche. Possiamo discutere se l’insufficienza originaria dipenda da un’impostazione organizzativa o da altre cause. Ma la riapertura di un cold case è sempre il marchio di una primitiva sconfitta”.

Marco Pantani non aveva più controllo sul proprio patrimonio economico e immobiliare, scrive “Il Tempo”. È quanto filtra da ambienti investigativi di polizia, secondo cui il Pirata di fatto aveva un vitalizio che gestiva con la carta di credito trovatagli nel portafoglio messo sotto sequestro l’altro ieri, come tutta la stanza del residence Le Rose dove ha trovato la morte nel giorno di San Valentino. Questo spiegherebbe anche i rapporti tesi con la famiglia, di cui si è parlato nelle ultime ore, e l’ allontanamento del campione da Cesenatico, dove non si faceva vedere da parecchio tempo. Non ci sarebbero però accuse ai parenti fra i biglietti trovati nella stanza del residence, affermano fonti investigative. Le stesse fonti smentiscono categoricamente le indiscrezioni sul contenuto dei foglietti riportate da alcuni giornali, in realtà una sorta di testamento di una persona molto provata psicologicamente che si è sfogata devastando la camera dell’albergo dove aveva preso alloggio e affidando i propri pensieri a parole e frasi sconnesse, non riconducibili una all’altra, di interpretazione impossibile. L’unico riferimento al mondo del ciclismo che Pantani avrebbe fatto su un pezzo di carta dell’albergo è quello alla sua bicicletta, una sconclusionata dichiarazione d’amore. Il ciclista nella sua carriera aveva accumulato una fortuna: si parla di sei milioni di euro che erano stati investiti in varie società, soprattutto immobiliari a Cesenatico e in Romagna. Di queste società il campionissimo risultava essere l’amministratore unico. Amministratore unico insieme al padre Ferdinando. Questo già nel 2003, e forse da prima. Dopo il ciclone Marco continuava a seguire le vicende delle sue aziende partecipando alle assemblee ordinarie. Lo testimonierebbe, ad esempio, il verbale dell’assemblea della società immobiliare «Sotero» del 30 maggio 2003 che aveva come ordine del giorno la presentazione del bilancio 2002. All’incontro erano presenti Marco Pantani e Ferdinando Pantani in qualità di amministratore unico. La precaria situazione psicofisica del figlio aveva spinto il genitore a subentrargli nelle vicende finanziarie. Marco avrebbe reagito male. In un momento delicato della sua vita, segnata dalla fine della carriera sportiva, dallo scandalo mal digerito e dall’accentuarsi dei problemi psicologici, forse l’ingerenza del padre è suonata come una prova ulteriore del suo fallimento. È anche vero che negli ultimi tempi la deresponsabilizzazione di Marco era diventata un fardello pesante.

Vita notturna sfrenata, serate in discoteca che si prolungavano fino all’alba, amicizie discutibili. Quelle vecchie che appartenevano a un mondo passato, cancellate. «Non mi cercate più» aveva detto a tutti quelli che avevano cercato di ributtarlo nel mondo delle due ruote. Poi quel lungo viaggio a Cuba in novembre. Una fuga, la precisa volontà di allontanarsi dalla famiglia, da casa. La rottura coi genitori, nella quale ha un peso determinante anche la molla economica, sembrerebbe pure il motivo per cui Pantani a un certo punto era andato a vivere nella casa di un amico a Predappio. Michel, l’amico che lo ha ospitato e che non ha nulla a che fare con il mondo del ciclismo, in questo momento è chiuso nel suo dolore e non vuole parlare. Sembra però che durante un colloquio informale si sia lasciato andare affermando che nella scelta di Marco di allontanarsi dalla famiglia c’era pure il suo zampino.

La morte di Pantani è iniziata a Campiglio, scrive Xavier Jacobelli su “La Provincia di Varese”. Marco era un ragazzo generoso, trasparente. Gli hanno teso un tranello perché dava fastidio. La gente era tutta per lui e per il ciclismo; il calcio e la Formula Uno perdevano seguito e milioni di euro: per questo lo hanno fatto fuori». Col du Galibier, 2.301 metri di altitudine, Alta Savoia, Francia, 19 giugno 2011. Paolo Pantani ha gli occhi lucidi. Come Tonina, sua moglie. Lui e lei hanno appena assistito all’inaugurazione del monumento dedicato a Marco, voluto con tutte le proprie forze da Sergio Piumetto, piemontese di Cherasco trapiantato a Les Deux Alpes dove il 27 luglio 1998 il Pirata firmò una delle imprese più memorabili della sua straordinaria carriera. Quella che lo lanciò al trionfo nel Tour, due mesi dopo avere vinto il Giro. Quel giorno di giugno sono sul Galibier, accanto a Paolo e a Tonina. Dirigo quotidiano.net, l’edizione on line dei giornali della Poligrafici Editoriale (Il Resto del Carlino, La Nazione, il Giorno, Quotidiano Nazionale). Piumetto era venuto a trovarmi un anno prima, a Bologna, per raccontarmi il suo sogno. Erigere un monumento al Pirata lassù, sulle montagne francesi. E siccome chi sogna non si arrende mai, sino a quando la vita che s’immagina diventa realtà, noi di quotidiano.net avevano deciso di accompagnare passo dopo passo la costruzione di quel sogno. Le parole di Paolo Pantani mi sono tornate alla memoria in queste ore in cui ha fatto il giro del mondo la notizia della riapertura delle indagini sulla fine di Marco, trovato morto nel bilocale D5 del residence Le Rose di Rimini. L’ipotesi di reato è: «omicidio e alterazione di cadavere e dei luoghi». La magistratura si è mossa dopo avere ricevuto l’esposto dall’avvocato Antonio De Rensis, legale dei Pantani. Né Paolo né Tonina hanno mai accettato la tesi che Marco fosse morto per overdose lui spontaneamente assunta. Mai. Ecco perché, adesso, Tonina ripete le parole che aveva pronunciato quel giorno sul Galibier, che i due genitori hanno pronunciato sempre da quando Marco se n’è andato: «Da una parte sono contenta, finalmente non sto più urlando al vento. Ma dentro di me c’è anche rabbia, rabbia e ancora rabbia: perché tutto questo tempo? Perché nel 2004 diverse cose non erano al loro posto e nessuno ha fatto nulla per darmi delle risposte?». Tonina e Paolo hanno sempre difeso strenuamente la memoria di Marco. E lo avevano sempre difeso anche prima della notte di San Valentino in cui se ne andò. Lo avevano difeso dalle accuse di doping, lui che non era mai stato positivo a un controllo; avevano chiesto invano di sapere che cosa fosse esattamente successo a Campiglio, quando il 5 giugno del ’99, mentre stava vincendo il Giro, venne squalificato per un valore dell’ematocrito alterato di un punto. Ai cialtroni e ai mentecatti che da quel giorno hanno sputato solo veleno addosso a Marco, spingendolo nel tunnel senza ritorno della depressione, bisogna ricordare le parole del campione: «Ero già stato controllato due volte, avevo già la maglia rosa e il mio ematocrito era del 46 per cento. Ora invece mi sveglio con questa sorpresa: c’è qualcosa di strano». Pantani lascia Madonna di Campiglio alle 13.05. A Imola, nel pomeriggio, si sottopone a un esame del sangue in un laboratorio accreditato dall’Uci: nei due test il suo ematocrito risulta pari a 47,8 e 48,1. Regolare. Ma dal Giro l’hanno fatto fuori per sempre. La mattina di Campiglio un giornale aveva titolato: Marco pedala nella leggenda. Il giorno dopo l’ha scaricato come un pacco postale. Paolo e Tonina non hanno mai dimenticato. Ora hanno il diritto di sapere la verità anche su Campiglio. Mentre le jene sono andate a nascondersi.

Pantani, un uomo sempre solo quando vinceva e quando sbandava. Non era un angelo né un diavolo: arrivava da un ciclismo antico, parlava una lingua diversa, sulla canna della sua bici c’era l’Italia. Dieci anni fa la morte misteriosa, scrive Gianni Mura su “La Repubblica”. Dieci anni, di già. Ma siete ancora qui a esaltare un drogato? Oppure: ma non avete ancora capito che era l’agnello sacrificale? Dieci anni dopo la morte, Marco Pantani continua a dividere, come dieci giorni dopo. Solo quando correva e vinceva tutti lo sentivano loro. Io non mi riconosco in nessuna delle due fazioni, quella del diavolo e quella dell’angelo. Troppo estreme, in un certo senso troppo comode. Sarebbe meglio conciliare: anche i diavoli hanno slanci positivi, anche gli angeli non resistono alle tentazioni. E, comunque, Pantani era un uomo. Un uomo solo al comando quando staccava tutti in salita. Un uomo solo allo sbando dopo Madonna di Campiglio. La lunga, sofferta discesa in fondo alla quale non sapeva più distinguere gli amici veri dai finti, quelli che si preoccupano della tua infelicità e quelli che la rivestono di polveri bianche e donne a pagamento. Mi riconosco pure in un libro appena uscito: «Pantani era un dio». L’ha scritto Marco Pastonesi, collega della Gazzetta che ha per primo amore il rugby ma che nel ciclismo tiene bene la ruota dei grandi suiveurs sui fogli rosa. È uno che sa osservare e sa ascoltare, Pastonesi. E anche onesto. Prime righe della prefazione: «Pantani non era uno dei miei. Nessun campione, nessun capitano, nessun vincitore né vincente né vittorioso è uno dei miei. I miei sono i corridori che, da professionisti, non ne hanno vinta neanche una». Dunque non Pantani. In questi dieci anni sono usciti molti libri sulla vita e la morte di Pantani, scritti da giornalisti italiani e stranieri, dalla manager, dalla madre Tonina. Più un film per la tv e un lungo, doloroso e umanissimo spettacolo del Teatro delle Albe di Ravenna (romagnoli come lui) e una decina di canzoni, dai Nomadi ai Litfiba, da Lolli agli Stadio. Più le processioni: sui blog, al cimitero di Cesenatico, sulle salite di Pantani. Quelle domestiche, l’amato Carpegna, il Centoforche, il Fumaiolo. Quelle più famose. Mortirolo, Alpe d’Huez, Galibier, Ventoux. Per come correva, posso dire che tutte le salite erano di Pantani. Erano il suo pascolo naturale, il suo mare verticale, erano croce e delizia. La croce era quella che chiamava agonia, la fatica più dura. La delizia era quel suo attaccarle stando in coda al gruppo e poi un po’ alla volta sorpassare tutti gli altri guardandoli in faccia. Lo faceva apposta, non era un caso. Non era un caso l’alleggerirsi in vista dell’attacco, era un segnale per gli avversari, un avvertimento, come il drin di un campanello: tra un po’ comincio a darci dentro, mi venga dietro chi può. Non a caso, ancora, Pastonesi dilata il quadro, dà voce a tutti i gregari di Pantani, a chi s’è allenato con lui e ha corso con lui, anzi per lui, perché la Mercatone Uno prevedeva un solo capitano, Pantani, e tutti gli altri al servizio della causa, Se vinceva lui, vincevano tutti. E se perdeva, tutti perdevano. Nella dilatazione del quadro ci sono i grandi ciclisti romagnoli del passato, e i grandi scalatori come Gaul, Bahamontes, Massignan. Come il primo dei grandi scalatori, René Pottier, vincitore del Tour 1906, che s’impiccò a una trave delle officine Peugeot il 25 gennaio del 1907. Delusione d’amore, dissero ai tempi. Nessun biglietto lasciato, un’altra morte misteriosa. Come quella di Pantani. Che ha due grandi punti interrogativi su due stanze d’albergo. Una è quella di Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999, l’inizio della fine. Come mai, trattandosi di una visita annunciata, non a sorpresa, il sangue di Pantani presentava un ematocrito a 52? E cosa accadde veramente nella stanza D5 del residence Le Rose, a Rimini, la fine della fine? Un libro di Philippe Brunel dell’Equipe ha documentato quante smagliature e lacune ci fossero nell’inchiesta. I dubbi restano e quel residence non c’è più, è stato demolito in tempi brevi, sorprendenti per la burocrazia nostrana. I dubbi non restano in chi parla di Pantani solo come di un drogato, in bici e giù dalla bici, o solo come di un angelo innocente tirato giù dal cielo. Rivivere quegli anni, tra la fine degli ’80 e poco oltre il 2000, è come seguire le piste dell’Epo. Pantani ne ha fatto uso? Sì, come tutti. In che misura? Pastonesi cita livelli alquanto alti. Avrebbe vinto ugualmente? Sì, a parità di carburante. Ma, a Pantani morto, è saltato fuori che su qualcuno (Armstrong) l’Uci teneva aperto un larghissimo ombrello. Per onestà, come Pastonesi ha scritto che Pantani non era uno dei suoi, devo scrivere che Pantani è stato uno dei miei. Perché, come i vecchi ciclisti, in corsa faceva di testa sua, non usava il cardiofrequenzimetro e quando s’allenava dalle sue parti beveva alle fontane e mangiava pane e pecorino. Perché, più ancora delle vittorie, ricordo l’attesa delle vittorie, o comunque dell’attacco in salita. E l’entusiasmo della gente, come un ascensore sonoro fra tornante e tornante. E l’Italia sulla canna di quella bicicletta, e i francesi che s’incazzavano, ma neanche tanto. Perché gli piaceva ascoltare Charlie Parker. Perché dipingeva. Perché era piccolino. Perché parlava una lingua diversa. Pontani (Aligi, quasi un omonimo) mi chiamò dalla redazione quel 14 febbraio 2004. Ero in ferie, stavo cenando a Firenze. È morto Pantani. Non si sa di preciso, in un residence. Serve un coccodrillo, di corsa. Taxi, albergo, speciale Tg, dettare. Trovo ancora lettori che mi dicono che quel pezzo a caldo, in morte di Pantani, è tra i più belli che ho scritto. Non avrei mai voluto scriverlo e non l’ho scritto, è venuto fuori così. Come aprire un rubinetto, o una vena.

Pantani, dopo quella morte speculazione infinita, scrive Eugenio Capodacqua su “La Repubblica”. Avevo fatto un patto con me stesso, in nome dell’amicizia che mi ha legato per breve tempo a Marco Pantani, e cioè che non avrei più scritto un rigo su di lui e sulle sue tragiche vicende. Pur conoscendo la sua storia nei minimi particolari non ritenevo di dover puntualizzare fatti e situazioni; proprio per rispetto di un uomo che ha comunque pagato il prezzo più alto. Ma evidentemente non c ‘è pace sotto gli ulivi. E, con la riapertura d’ufficio dell’inchiesta sulla morte, riecco Pantani pronto ad essere di nuovo immolato sull’altare della cronaca. Quella più bieca e nera che allunga un triste velo di grigio sull’ immagine dell’uomo e dell’atleta, comunque rimasto profondamente nel cuore di molti appassionati e tifosi. Un atto dovuto da parte dei magistrati dopo l’esposto dei genitori e l’accurata perizia dell’avvocato di parte che ipotizza l’omicidio. Diciamo subito che se ci sono dubbi (e ce ne sono) sulle circostanze di questa tragedia è doveroso andare fino in fondo. Anche se il cammino delle indagini, a dieci anni di distanza dai fatti, risulta piuttosto difficile. Ma, più in generale, sembra arrivato il momento di fare un minimo di chiarezza. Per lunghissimi dieci anni l’informazione (specie la tv di stato) ha contribuito a mistificare un dramma che è e resta umano prima ancora che sportivo. Pantani trasformato in un eroe. Pantani campione, esempio da seguire e imitare. Pantani vittima di chissà quale complotto. Pantani “capro espiatorio” di una realtà che invece tutti conosciamo, purtroppo. E cioè la realtà di un ciclismo all’epoca stradopato che ha tradito la passione degli spettatori propinando uno “spettacolo” al di fuori e al di sopra di ogni umana credibilità. Pantani faceva sognare e del sogno in questa dannata società c’è fame come dell’aria, dell’acqua, del pane. Lui incarnava l’attacco, il successo, la botta vincente. Quello che tanti “travet” covano nell’intimo. Il “come” poco importava. Quanti erano in grado di capire, o volevano capire il “come”? E forse poco importa, adesso. Da questo punto di vista Pantani è stato un grande. Ha toccato nel più profondo l’animo degli appassionati. Ancorché alle prese con un problema esistenziale che tormenta spesso, troppo spesso, la vita di tanti protagonisti. Un problema che Madonna di Campiglio ha acuito e fatto esplodere. Mettendo in risalto tutta la fragilità dell’uomo, ma anche l’insensibilità, l’egoismo e l’ignoranza di qualcuno che gli è stato accanto. Vediamo di ragionare con un minimo di freddezza. Pantani è stato un eccellente ciclista. Un eccellente scalatore che, doping o meno, probabilmente avrebbe inebriato ugualmente le folle con le sue gesta in salita, con il suo carattere e la sua personalità. Perché comunque il ciclismo si fa e si esalta in salita. Ma che facesse come tutti gli altri lo ammette anche la stessa madre che – è comprensibile: è la mamma – continua una sua battaglia infinita. La capisco: la mia, di mamma, è andata fuori di testa alla morte del figlio 25enne in un incidente aereo di cui non si è mai data ragione. E comunque si vuole restituire dignità. Ma quale dignità? Quella del “così fan (hanno fatto) tutti”? Ben magra consolazione… Perché che facesse come tutti i ciclisti della sua epoca è ormai chiarissimo. E adesso, dopo l’indagine del Senato francese sul Tour 1998, è addirittura comprovato al di là di ogni sospetto. Niente da aggiungere. Niente da chiedere al mondo ipocrita del ciclismo. La dignità a Pantani la si restituisce non arzigogolando attorno a presunti complotti, ma spiegando come la vita possa mettere trappole mortali anche sulla strada degli uomini di più grande successo. Insegnando a diffidare della notorietà, della gloria effimera (un giorno sugli altari, il giorno dopo nella polvere); ad essere guardinghi e mai esagerati. La breve vita del Pirata è un paradigma dove c’è tutto: dall’esaltazione nel momento della gloria, alla più profonda depressione quando un mondo costruito con cura crolla davanti al test di Campiglio. Pantani come gli altri. Tanti altri. L’osservatore un minimo distaccato tocca con mano la profondità del baratro quando si finisce nei meandri della droga. Vede come sia facile scivolare, cadere definitivamente. Eppure cosa era è successo, in fondo, a Madonna di Campiglio? Nient’altro che quello che è successo a decine di altri corridori. Uno stop (di soli 15 giorni, neppure una squalifica…) per essere fuori dalle regole stabilite in quel momento. Scontata quella pena che all’epoca non aveva neppure il marchio del doping (“sospensione a tutela della salute”) tutto era finito. Ma paradossalmente è stata proprio la sensibilità particolarissima dell’uomo, la coscienza e il sentimento di vergogna per essere stato scoperto e messo a nudo, a perderlo. Non ha retto, dicono, e si è rifugiato nella droga, trascinato in un mondo che gli turbinava attorno da tempo. In un mondo di cinici si è comportato come l’ultimo dei romantici. Ciò che lo rende umano, umanissimo. Tutt’altro che un dio: umanissimo uomo. Per questo ancora più apprezzabile. Per questo, a me non danno fastidio le celebrazioni e i ricordi. Men che meno che si scavi per chiarire i dubbi sulla morte. Mi da fastidio il sentimento peloso che trasuda interesse economico attorno a tutta la vicenda. Mi da fastidio chi su quella morte ci ha guadagnato e continua a guadagnarci, speculando sull’emozione. Pantani è stato un business milionario da vivo e ancora di più da morto. I libri basati sulla sua tragica epopea sono andati a ruba. Al ritmo di 25-27 mila copie vendute. Fra il 2003 e il 2005, raggranellando cifre di gadget, dvd, bandane, donazioni, libri, poster, foto e tutto il merchandising connesso sono arrivato a calcolare quasi un milione di euro. Una cifra che si può tranquillamente moltiplicare per 3, per 5 arrivando ai nostri giorni. Chiaro che a questo mercato serva l’eroe. Anche se eroe non è. Pace all’anima sua. Il sistema che in qualche modo lo ha messo in un angolo, continua a succhiarne la linfa. Come? Raccontando la favola dell’eroe tragico. Della vittima predestinata. Del campione che suscita invidia e viene eliminato. Emozione, sentimento, partecipazione. Sul piano umano è tutto più che comprensibile, dopo la grande tragedia. Ma se vogliamo dare un esempio ai giovani non possiamo continuare a proporre tesi senza fondamento. Complotto? E chi mai avrebbe avuto interesse a complottare contro il Pirata? La Fiat perché lui aveva scelto la Citroen come sponsor? Ma, andiamo! Chi lo voleva in squadra ottenendo il rifiuto? E come si sarebbe realizzato il complotto? Corrompendo i medici prelevatori? Quello che si è letto negli anni e di recente appare chiaramente strumentale. E a mio avviso infondato. Oggi c’è di mezzo la giustizia ordinaria e un’indagine ufficiale, ma se ne sono viste e lette in passato… Soprattutto per assecondare la tesi della trappola. Qualcuno ha tirato fuori perfino la provetta di quel tragico prelievo ematico a Campiglio che sarebbe stata scaldata per alzare l’ematocrito. Ma – è addirittura banale – scaldando il sangue si scalda e aumenta di volume anche la parte liquida non solo quella corpuscolare e il rapporto in percentuale dell’ematocrito resta inalterato. Insostenibile scientificamente, eppure c’è chi ne ha fatto un elemento saliente della tesi complottistica. E poi: chi l’avrebbe scaldata? Il medico prelevatore? I medici dell’ospedale di Parma che nella serata di quel 5 giugno 1999 hanno ripetuto i test su ordine del pm di Trento Giardina trovando gli stessi valori dei medici Uci? Si può sostenere un’accusa così grave, che sfiora la calunnia, in modo così generico? Chi fa riferimento al complotto deve anche spiegare chi, come e dove può aver complottato. Per questo dico che sono solo speculazioni per suscitare emotività e vendere copie (o altro) al tifoso. Pantani era la gallina dalle uova d’oro per il ciclismo di quel tempo. E non solo. L’atleta che era riuscito a riportare milioni di tifosi sulle strade del Giro e con loro gli sponsor, cioè il potere economico. Cioè il dio denaro. Tanto e disponibile per tanti. Su Campiglio ha indagato la Procura di Trento. Il verdetto è stato univoco: nessuna truffa, nessuna sostituzione di provette (il sangue era di Pantani, come hanno provato i test del DNA), nessun complotto, nessuna manomissione. Resta solo l’ombra delle scommesse. Ma le indagini fin qui fatte non hanno portato a nulla. E ad anni di distanza il nome di quell’ “amico” di Vallanzasca che gli avrebbe consigliato di non scommettere su Pantani perché non sarebbe arrivato a Milano nonostante la maglia rosa sulle spalle e la classifica ormai blindata dai risultati, ancora non viene fuori. Su Pantani si specula. Come definire altrimenti il sottolineare l’irregolarità della procedura punto centrale in una delle ultime pubblicazioni? La provetta sarebbe stata scelta da uno dei medici prelevatori e non dall’atleta come vuole il regolamento. Un vizio di forma ininfluente ai fini del test. A meno di non chiamare in causa la stessa ditta produttrice delle provette, che sono sigillate e sottovuoto. Tutte. E anche qui senza prove si sfiora la calunnia. Ma a cosa può servire tirare fuori un vizio di forma di fronte al quale oggi non si può fare nulla se non instillare senza motivo il dubbio generico che qualcosa di irregolare sia accaduto? Facile rispondere: è una mossa furba per accalappiare ancora di più il tifoso. Ma dire, 14 anni dopo, che si sarebbe potuto fare ricorso contro le modalità di quel test, non toglie nulla alla realtà storica: l’ematocrito fuori norma per le regole del tempo. Controllato otto volte sul sangue del Pirata. Valori fiori norma. Non per la prima volta, come del resto provano i dati emersi nel processo Conconi alle cui cure Pantani si era affidato già dal ‘94. E baggianate come “il prelevatore ha messo la provetta in tasca alzando la temperatura, ecc. ecc.” dicono sopratutto dell’ignoranza se non della malafede di chi sostiene tale ridicola tesi. Basta pensare alla temperatura corporea: 38 gradi circa. Ci sono 38 gradi in una tasca? Difficile. Dunque caso mai la provetta si sarà raffreddata non riscaldata. Ma tant’è. Lo dico chiaro: queste “spiegazioni postume” non mi convincono. Come quella che la macchina da analisi (Coulter Act) avrebbe “visto” un ematocrito alto per via del raggrumarsi delle piastrine. Ma gli esperti sono chiarissimi: “E’ impossibile – sostiene Benedetto Ronci ematologo di fama dell’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma, consulente dei pm nella inchieste doping più clamorose – anche se le piastrine hanno tendenza ad aggregarsi non incidono sul volume corpuscolare; non possono modificare in alcun modo l’ematocrito”. Piuttosto al medico che avrebbe fatto l’ematocrito a tutta la squadra in quei giorni andrebbe posta una semplice domanda. Perché? Si sa che con lo sforzo prolungato per settimane l’ematocrito cala. Che bisogno c’era di controllare? Altro discorso è la morte nel residence. Ma qui la scelta è ancora più netta. O si sposa la tesi dell’esagerata ingestione di cocaina (sette volte la dose mortale), overdose accidentale, come dice il referto di morte e dunque si spiega così il delirio la gran baraonda trovata in quella tristissima camera n.5 del Residence Le Rose, che è poi la tesi ufficiale di chi ha indagato. Oppure si allineano una serie di elementi di dubbio. Particolari incerti che dall’ora della morte, al cibo cinese (odiato dal Pirata), trovato in camera, alle ferite sul corpo, ai boxer che farebbero sospettare un trascinamento, al particolare del cuore portato via dal medico che eseguì l’autopsia timoroso che venisse rubato (da chi?); alimentano dubbi concreti. Cui dovrà rispondere l’indagine. Si continua a confondere il piano umano che merita il massimo della comprensione per una morte assurda con quello sportivo sfruttando la mozione degli affetti. Cosa dobbiamo fare? Giustificare tutto in nome della tragedia? E cosa raccontiamo ai nostri figli? Segui quell’esempio e sarai felice?

Protagonisti e comparse. Ecco il dizionario del mistero Pantani. Chi poteva volere morto il campione? L’inchiesta della Procura di Rimini parte da nomi e ruoli dei personaggi dell’affaire, scrive Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”. «Pantani è stato ucciso». Questo è il titolo del «romanzo noir» di questa estate italiana poco assolata e calda. A gridarlo da anni mamma Tonina. A raccogliere il suo grido di dolore e le prove per presentare un fascicolo presso la Procura di Rimini che ha competenza sull’accaduto è l’avvocato De Rensis. La richiesta: riaprire il caso sulla base dei molti fatti nuovi contenuti nelle pagine (120) dell’istanza. Un romanzo che ha una storia buia, molti protagonisti e qualche comparsa. Ecco un dizionario per orientarsi, mentre la Procura rinvia a settembre la decisione su chi assegnare la delega a indagare, carabinieri o polizia.

A come avvocato. Antonio De Rensis è l’avvocato della famiglia Pantani, che in nove mesi di lavoro ha raccolto una serie impressionante di contraddizioni e anomalie. È a lui che si deve l’esposto per la riapertura del caso.

D come dubbi. Il lavoro del professor Avato si discosta di molto dalle conclusioni prospettate all’epoca dal collega Giuseppe Fortuni, che aveva eseguito l’autopsia su incarico della Procura. Quali sono i rilievi di Avato? Molti. A partire dall’ora della morte: posizionata tra le 10.45 e le 11.45. La quantità di droga trovata su Pantani equivarrebbe a diverse decine di grammi, tale da essere paragonabile ai pacchetti ingeriti dai corrieri per eludere i controlli. Impossibile per qualunque persona mangiare o inalare una dose simile. L’unico modo per farlo è diluirla nell’acqua e farla bere a forza (la bottiglia trovata nella stanza, non viene nemmeno analizzata). Le numerose ferite sul corpo di Pantani sono compatibili con opera di terzi, con evidenti segni di trascinamento del cadavere. Il corpo di Pantani è poggiato sul fianco sinistro ma per Avato è il polmone destro a pesare 200 grammi di più: quindi, il corpo di Marco è stato spostato dalla posizione originaria della morte. E poi c’è la stanza, con il suo «disordine ordinato». L’ipotesi è fin troppo chiara: far passare Pantani in preda al delirio per celare altro. Nessuna impronta fu presa e non sarà più possibile farlo neppure 10 anni dopo.

E come esperto. Francesco Maria Avato è il perito di parte, il medico-legale (lo stesso che ha contribuito a far riaprire dopo 23 anni il caso Bergamini, il calciatore «suicidato») che ha fornito un contributo fondamentale per completare e avvalorare l’esposto preparato da De Rensis.

I come imputati. Dieci anni fa l’indagine sulla morte di Pantani viene svolta dal sostituto procuratore romagnolo Paolo Gengarelli, con la Squadra mobile di Rimini e la Polizia di Napoli. Tre mesi dopo la morte del Pirata, il 14 maggio 2004 vengono arrestati Fabio Miradossa (il fornitore napoletano di cocaina del romagnolo già dal dicembre 2003), Elena Korovina (la cubista russa che ebbe una relazione con il corridore), Fabio Carlino (leccese, titolare di un’agenzia di immagine) e Ciro Veneruso (il corriere napoletano che portò la dose letale a Pantani). Viene rinviato a giudizio anche il barista peruviano Alfonso Ramirez Cueva. Il processo di primo grado inizia il 12 aprile 2005 davanti al Gup di Rimini. Vengono in seguito accettati i patteggiamenti di Miradossa (4 anni e 10 mesi) e di Veneruso (3 anni e 10 mesi) e Cueva (1 anno e 11 mesi). Gli altri accettano di affrontare il dibattimento. La russa viene assolta. Fabio Carlino viene condannato in primo grado e in appello, ma poi prosciolto in Cassazione.

M come manager. Manuela Ronchi è la manager del campione romagnolo. La sua è una figura non marginale in tutta questa vicenda, anche perché è una delle ultime a vedere Marco vivo. Doveva andare a sciare con suo marito, per questo Marco passa il 26 gennaio da Cesenatico per prendere tre giacconi che porta su a Milano. Il 31 gennaio Marco ha una lite con la manager davanti agli occhi di mamma Tonina e papà Paolo, chiamati per l’occasione dalla Ronchi. Il 9 febbrario Marco decide di andare a Rimini. La Ronchi gli fa recapitare una «sportina» di effetti personali (non ha valige) ad un hotel in piazza della Repubblica. Marco qualche giorno dopo parte per Rimini. Uno dei grandi misteri di questa vicenda è: come ci sono arrivati i tre giubbotti al residence Le Rose?

P come procuratore. Paolo Giovagnoli è il procuratore capo di Rimini al quale è stato consegnato il fascicolo, il quale a sua volta l’ha assegnato ad Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore, arrivato a Rimini da pochi mesi. Toccherà a lei far sul luce su quella sera del 14 febbraio 2004.

Pantani, il legale accusa: “Inchiesta piena di buchi”. Nove mesi di indagini private e una perizia medica hanno messo in forse la tesi del suicidio. L’avvocato di famiglia contro il pm che archiviò: “Troppi silenzi”, scrive Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”. Quando facciamo suonare il suo cellulare l’avvocato Antonio De Rensis è alla buca 18. Cerca, dopo mesi duri e difficili, di rilassarsi un po’, di liberare la mente dalle tossine accumulate durante la preparazione di un’indagine difensiva molto delicata. «In verità forse mi conveniva restare a casa, perché sono riuscito a giocare pochissimo». Per dirla con un linguaggio molto caro al nostro presidente del Consiglio, l’avvocato De Rensis per certi versi assomiglia a un «rottamatore»: non vuole mandare a casa nessuno ma smontare teorie e ricostruzioni fatte dieci anni fa, quello sì. E grazie ai suoi nove mesi di lavoro, di indagini e alla perizia di parte effettuata dal medico-legale, il professor Francesco Maria Avato, la ricostruzione originaria sulla fine tragica di Marco Pantani è stata smontata pezzo per pezzo. Ci vorranno mesi, per arrivare ad una nuova fase di questa storia che in dieci anni non ha finora trovato la vera parola fine. E una verità. Al momento il bandolo della matassa è nelle mani del procuratore Capo di Rimini Paolo Giovagnoli e in quelle della pm Elisa Milocco. «È esattamente così – spiega l’avvocato De Rensis -, ci vorranno mesi di lavoro, anche perché ovviamente sono tantissime le cose che la dottoressa Milocco dovrà esaminare. Bisognerà solo avere pazienza». Si parte dalle accuse di mamma Tonina, che non ha mai creduto al suicidio del figlio, ai nove mesi di indagini condotte dall’avvocato Rensis, trascorsi a recuperare carte e materiale di ogni tipo e studiandole successivamente con assoluta minuzia e passione. «Il tutto è concentrato in centodieci pagine, dense di dati e osservazioni», puntualizza il legale. Lui, però, non se la sente di stilare una graduatoria tra le tante incongruenze che nella sua inchiesta ha portato alla luce. «Mi creda, non voglio apparire per quello che vuole eludere ad una legittima curiosità o a una domanda, ma si fa fatica a dire quali di queste incongruenze possa essere più decisiva rispetto ad altre. Vedrà, sono e saranno tutte decisive perché concatenate l’una all’altra». Paolo Gengarelli, il pubblico ministero della prima inchiesta, non si è soffermato molto su questo nuovo capitolo della storia tragica di Marco Pantani, limitandosi a dire stizzito che «non sono abituato a commentare le notizie, come del resto dovrebbero fare in tanti». L’avvocato De Rensis, non esita a rispondergli: «Anche noi cerchiamo di parlare con i fatti. Anche noi cerchiamo di rispettare le indagini. Ma soprattutto noi vogliamo raccontare che all’epoca dei fatti non sono state prese le impronte digitali; che il video dei carabinieri dura 51 minuti mentre il girato è di due ore e cinquantasei minuti e via elencando. Non mi sembra di parlare di atti dell’indagine. Mi sembra solo di evidenziare cosa è stato fatto o meglio, non è stato fatto all’epoca. Anche noi staremo zitti nel momento in cui si tratterà di affrontare le cose da fare, ma queste sono fatti accaduti in passato ed è giusto portarli alla luce. Se il silenzio è luminoso ha un senso, i silenzi con le ombre a me non piacciono neanche un po’». L’avvocato De Rensis è capace di attaccare, ma si dimostra abile anche in fase difensiva. Quando gli chi chiede se ha un’idea di chi abbia ucciso Marco, si chiude a riccio. «Se sia stata una persona o più persone che fanno sempre parte del giro dei pusher? Se si tratta di persone fuori da questi giri? La prego, non mi chieda nulla. Sui nomi non mi esprimo. Non posso e non voglio». Più morbido all’ultima domanda: ma se la pm Milocco, alla fine dovesse decidere di chiudere il tutto con un nulla di fatto, quale sarebbe la sua reazione. Si griderebbe al complotto? «È una eventualità che non voglio nemmeno prendere in considerazione. Ho grande fiducia nel procuratore Capo Paolo Giovagnoli e nella dottoressa Elisa Milocco. Il procuratore capo è un galantuomo e la dottoressa Milocco – che ho conosciuto da poco – mi ha dato l’idea di essere una persona molto rigorosa. Quindi…».

Pantani, l’avvocato di famiglia: «Leggendo le carte la strada s’illuminerà da sola», scrive “Giornalettismo”. Antonio De Renzis, legale della famiglia del Pirata, parla della perizia che potrebbe far emergere una nuova verità sulla morte del ciclista romagnolo. Intanto, il ristoratore che consegnò l’ultima cena ricorda: «Non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ufficialmente per la giustizia italiana Marco Pantani, trovato morto in una stanza d’albergo il 14 febbraio del 2004, è deceduto «come conseguenza accidentale di overdose». Per la famiglia del campione romagnolo, invece, la verità è un altra. Il Pirata sarebbe stato ucciso da una o più persone che lo avrebbero raggiunto quella sera al Residence Le Rose di Rimini, forse dopo essere stato costretto a bere cocaina disciolta nell’acqua. A parlare dopo la riapertura del caso è innnanzitutto la mamma di Pantani, Tonina Belletti, che ha provveduto a presentare un esposto-denuncia per omicidio volontario in Procura. Ma ad esporsi è anche l’avvocato della famiglia del ciclista, Antonio De Renzis, che alle telecamere di Sky racconta oggi di «mancanze», «lacune», «incongruenze», «anomalie», «accertamenti non fatti», che avrebbero condizionato la prima inchiesta sulla morte del Pirata che risale a 10 anni fa e che fu chiusa a tempo di record, in soli 55 giorni. Il legale, descrivendo la segnalazione alla Procura, parla di «rilettura» di quegli «atti d’indagine e processuali» che avrebbero determinato una verità giudiziaria a suo parere lontana dalla realtà, di una rilettura che contiene «elementi che convergono e vanno in una direzione precisa» e opposta rispetto a quanto emerso finora. Secondo De Renzis, in sostanza, la tesi seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Pantani, e «mai più abbandonata», andrebbe dunque «assolutamente rivisitata», ed è possibile che fancendo luce sulle «mancanze» della prima inchiesta emergerà un’altra verità. «Le carte e il video parlano molto», ha detto l’avvocato parlando della «corposa e approfondita consulenza» (perizia medico-legale) realizzata da professor Francesco Maria Avato. E ha aggiunto: «Credo che leggendo bene le carte sia possibile colmare queste lacune», «la strada si illuminerà da sola». Molto chiara è stata la signora Tonina, la prima ad annunciare, su Facebook, la riapertura del caso Pantani. «Me l’hanno ammazzato. La mia sensazione, sin da subito, è che avesse scoperto qualcosa e gli abbiano tappato la bocca», ha dichiarato nei giorni scorsi la madre del Pirata. «Non vedo altre ragioni – ha spiegato a TgCom24 -. Non mi sono mai sbagliata su Marco. Così come non credo siano stati gli spacciatori». «Sono dieci anni – ha aggiunto – che lotto e non mollerò, fino alla fine. Voglio la verità, voglio sapere cosa è successo a mio figlio. Da subito ho detto che me l’hanno ammazzato e, infatti, me l’hanno ammazzato». La signora Tonina ha poi parlato anche di una richiesta di aiuto del Pirata nelle ultime ore di vita: «Ha chiamato i carabinieri, parlando di ‘persone che gli davano fastidio’». E infine: «Marco aveva pestato i piedi a qualcuno, perché lui quello che pensava diceva: parlava di doping, diceva che il doping esiste».

Morte di Marco Pantani, legale: “Realtà è molto diversa da quella ufficiale”. Per l’avvocato Antonio De Rensis le indagini che vennero condotte dieci anni fa “presentano lacune e contraddizioni”. Il legale ha ottenuto la riapertura delle indagini da parte della procura di Rimini che indaga per “omicidio volontario a carico di ignoti”. La tesi della famiglia e della difesa è che il campione non morì di overdose ma venne ucciso, scrive “Il Fatto Quotidiano”. La realtà che emerse dieci anni fa sulla morte di Marco Pantani è “molto diversa” da quello che è accaduto realmente la mattina del 14 febbraio 2004, nel bilocale del residence Le Rose di Rimini. Ne è convinto l’avvocato dei familiari del Pirata, Antonio De Rensis, che spinto dalla tenacia della madre del campione, Tonina, ha riletto e analizzato migliaia di pagine che compongono le indagini e il processo. Per il legale le conclusioni a cui gli inquirenti giunsero dieci anni fa sono piene di “lacune e contraddizioni”. Pantani non morì per un’overdose, ma venne ucciso da una o più persone che il campione romagnolo conosceva e a cui lui stesso aprì la porta. Nella stanza scoppiò una lite. Il Pirata ebbe la peggio. L’aggressore (o gli aggressori) fecero bere al ciclista una dose letale di cocaina diluita in acqua. In sostanza, gli investigatori condussero le indagini su una messa in scena. Quelle certezze sono state messe nero su bianco dall’avvocato De Rensis che ha presentato un esposto alla procura di Rimini. “Accolto”. Il fascicolo accantonato per dieci anni è stato riaperto per “omicidio volontario a carico di ignoti”. “Mi limito a dire – ha dichiarato all’Ansa il legale – che è già importante comprendere tutti che la realtà fattuale è molto diversa. E già questo è tanto, perché porta poi in direzioni molto precise. Intanto facciamo emergere le enormi lacune e contraddizioni, facciamo emergere ciò che si poteva comprendere facilmente all’epoca e poi partiamo tutti insieme da qui per arrivare a ristabilire una verità. È un’indagine nuova che si apre con una ipotesi di reato grave. Sarà un’indagine che durerà molto, perché comunque è complessa. Gli elementi che dovrà valutare la procura sono tantissimi, però il nostro intendimento è di evidenziare in modo chiaro che la verità ufficiale è piuttosto lontano da quella fattuale”. De Rensis, avvocato del foro di Bologna, è un legale abituato alle battaglie che legano lo sport alla giustizia: ha assistito Antonio Conte nella vicenda del calcio scommesse. Il lavoro dell’avvocato su carte e riscontri investigativi è suffragato dalla perizia medico scientifica del prof. Francesco Maria Avato, che con un suo lavoro aveva portato alla riapertura del caso di Denis Bergamini, il calciatore del Cosenza morto il 18 novembre 1989 a Roseto Capo Spulico (Cosenza). Un caso che per anni è stato considerato un suicidio poi è stato riaperto per omicidio. “Un lavoro faticoso e impegnativo – dice De Rensis – anche di rilettura. Gli atti non è stato nemmeno semplice acquisirli. Questi faldoni sono negli archivi, sono migliaia e migliaia di pagine che sono state analizzate, sezionate, studiate, confrontate. Poi il lavoro scientifico del prof. Avato, che si è andato a confrontare e intrecciare continuativamente con le analisi degli atti di indagine e processuali, a confronto reciproco e intreccio reciproco. Quindi le indagini difensive che sicuramente, seppure assolutamente riservate, hanno evidenziato elementi importantissimi”. “Io nutro un grande rispetto per la magistratura – precisa De Rensis – Noi abbiamo lavorato pensando che dovevamo aprire una pagina nuova sulla base di enormi lacune e enormi contraddizioni“. “Queste lacune e incongruenze per noi possono essere colmate – conclude – possono essere riviste e credo che questo sia un dovere morale, oltre che giudiziario, da parte di tutti. Dobbiamo lavorare insieme per riscrivere la pagina di quella dolorosissima vicenda il più possibile vicino alla realtà”. Un ricordo di Pantani lo offre in queste ore anche Oliver Laghi, il ristoratore di Rimini che in albergo consegnò al campione romagnolo la sua ultima cena, un’omelette di prosciutto e formaggio. Il Piarata appariva stanco , ma sereno. «Ricordo – ha detto Laghi al Corriere della Sera – come ieri il volto di Marco: stanco, le occhiaie profonde, la barba un po’ lunga, ma ho pensato che fosse colpa del viaggio e che una bella dormita avrebbe rimesso tutto a posto, tanto che prima di andarmene gli chiesi se potevo tornare il giorno dopo con mio figlio piccolo per un autografo e lui mi rispose con un sorriso timido e una pacca sulla spalla: ‘Va bene, a domani’». E ancora: «Il Marco con cui ho parlato quella sera non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ora gli occhi sono tutti puntati sulla procura di Rimini che dovrà esprimersi sulla perizia del dottor Aveta (secondo la quale le ferite presenti sul corpo di Pantani «non sono autoprocurate, ma opera di terzi») e che dovrà esprimersi relativamente alla nuova ipotesi«omicidio con alterazione del cadavere e dei luoghi». Il lavoro spetta innanzitutto al pm Elisa Milocco, cui è stato affidato il fascicolo dell’indagine bis, e comincia senza che alcuna persona risulti indagata. Va ricordato che tre anni fa la corte di Cassazione aveva assolto il presunto pusher di Pantani, accusato di aver provocato la morte del campione vendendogli cocaina purissima, «perché il fatto non costituisce reato».

Il timer fissa la durata del girato in due ore e 56 minuti, ma ne restano solo 51. Caso Pantani, un buco di 125 minuti nel video della polizia scientifica. Per i pm cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una verità diversa sulla morte del Pirata. Tutti i punti oscuri del caso, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Un «buco» di 125 minuti nel video della Polizia scientifica e almeno cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una diversa verità sulla morte di Marco Pantani. Riparte da qui la nuova indagine avviata dalla procura di Rimini e si concentra su almeno sei anomalie denunciate dalla famiglia del «Pirata» con l’esposto presentato dall’avvocato Antonio De Rensis. Ricomincia da un’imputazione di omicidio volontario che non sarà facile dimostrare a oltre dieci anni di distanza da quel San Valentino che il ciclista trascorse nell’appartamento D5 del Residence «Le Rose». Anche perché la struttura alberghiera è stata completamente modificata, ma soprattutto perché l’ipotesi più probabile è che se davvero qualcuno è entrato in quel bilocale e ha picchiato Pantani, è possibile che lo abbia fatto per fargli pagare uno «sgarro», non per ucciderlo. E che la situazione gli sia poi sfuggita di mano. Il campione era un uomo disperato, preda dei suoi demoni e della sua totale dipendenza dalla droga. Ma – questo dicono alcune nuove testimonianze – non sembrava affatto «fuori di testa» come qualcuno ha voluto far credere. «L’ho trovato stanco ma lucido – ha raccontato Oliver Laghi, il ristoratore che la sera del 13 febbraio 2004 gli portò un’omelette al prosciutto e formaggio -, mi disse di tornare il giorno dopo con mio figlio che voleva l’autografo». Secondo l’inchiesta svolta dieci anni fa e chiusa avvalorando la tesi del suicidio, Laghi è stato l’ultimo a vedere Pantani vivo. Il procuratore Paolo Giovagnoli e il sostituto Elisa Milocco dovranno stabilire se è davvero così. Ma la convinzione è che qualcuno sia comunque entrato in quella stanza prima delle 20,30 del 14 febbraio, quando i soccorritori accertarono che per Pantani non c’era ormai più nulla da fare. Agli atti del processo contro i due spacciatori Fabio Miradossa e Ciro Veneruso – hanno patteggiato condanne rispettivamente a 4 anni e 10 mesi e 3 anni e 10 mesi – c’è un video girato dai poliziotti della Scientifica che comincia alle 22,45 del 14 febbraio e termina all’1.01 del 15 febbraio. Il timer fissa dunque la durata in due ore e 56 minuti ma il «girato» è di soli 51 minuti e termina prima dalla fine dell’ispezione. Chi ha effettuato i «tagli»? Perché ci sono dei «salti» tra una scena e l’altra? Eppure è proprio il filmato a fornire le tracce più evidenti di una ricostruzione diversa da quella ufficiale mostrando indizi evidenti per accreditare l’ipotesi che, almeno in un certo lasso di tempo di quel giorno, Pantani non sia stato da solo. Ma anche per dimostrare quelle che appaiono alcune «lacune» nelle indagini. L’avvocato della famiglia ha infatti denunciato come nel fascicolo processuale non risulta la rilevazione di alcuna impronta digitale durante il lungo sopralluogo. E questo nonostante ci fossero molti mobili spostati, alcuni rotti, un filo dell’antenna tv legato come un cappio e pendente dal soppalco, una confusione pressoché totale. Lo stesso filmato mostra svariate dosi di cocaina. Secondo quanto accertato al processo, Pantani aveva acquistato 20 grammi di droga. La nuova relazione medico-legale, firmata dal professor Francesco Maria Avato e basata sulla rilettura delle analisi effettuate dieci anni fa, assicura invece che Pantani aveva assunto cocaina in quantità sei volte maggiore di quanto una persona possa sopportare e altra sia rimasta inutilizzata. Proprio questo accredita l’ipotesi che qualcuno l’abbia portata durante la giornata. Nella denuncia si parla di «costrizione a bere cocaina sciolta nell’acqua», una circostanza difficile da dimostrare e che probabilmente costituirà uno dei punti più controversi della nuova inchiesta. Strano anche quanto accertato riguardo ai pasti consumati da Pantani. Secondo la versione ufficiale l’ultimo cibo ingerito è l’omelette portata da Laghi. Per l’autopsia Pantani ha invece fatto colazione, i resti vengono rinvenuti nello stomaco. I dipendenti del residence hanno sempre dichiarato che il Pirata non ha mai lasciato l’appartamento e che nessuno è entrato. E allora come ha fatto a procurarsela? In realtà rileggendo quanto verbalizzato all’epoca, il legale ha scoperto il racconto di un custode che ha spiegato come fino alle 21 fosse «possibile entrare passando dal garage». E dunque potrebbe essere proprio questa la strada percorsa da chi voleva incontrare il campione senza essere visto. E che potrebbe aver lasciato almeno due indizi: nel bilocale non c’era il frigobar, ma è stata trovata la carta di un cornetto Algida; Pantani era arrivato con un piccolissimo bagaglio, «una sporta», ma lì c’erano tre giubbotti pesanti. Un quadro indiziario nuovo, lo definiscono gli stessi inquirenti che prima di riaprire il fascicolo, sia pur come «atto dovuto», hanno avuto un lungo incontro con il legale della famiglia. E adesso dovranno concentrarsi sulla visione del filmato incrociata con la relazione medico-legale che evidenzia due punti: il corpo trascinato sulle tracce di sangue e dunque spostato dopo il decesso; lesioni ed ecchimosi incompatibili con l’autolesionismo, sia pure in una persona completamente stravolta dalla cocaina.

Caso Pantani, depistaggi e buchi nell’indagine. “Quando lo trovammo non c’era sangue”. I racconti dei primi soccorritori contraddicono la perizia fatta all’epoca dal medico legale. E le testimonianze di chi lo vide nelle sue ultime ore si smentiscono a vicenda, scrivono Marco Mensurati e Matteo Pinci su “La Repubblica”. Testimonianze stridenti, perizie divergenti e protagonisti dimenticati s’intrecciano intorno alle ultime ore di vita di Marco Pantani. E con il passare dei giorni i dettagli inquietanti sembrano quasi sommarsi, alimentarsi uno con l’altro, accentuando i depistaggi, le lacune nella versione ufficiale, ma anche nei racconti di chi per primo intervenne sul corpo dell’atleta, fino a quelli dei testimoni della primissima ora. “Non c’erano tracce di sangue”. Così lo raccontano i medici del 118, i primi a intervenire dopo la segnalazione del portiere del residence Le Rose. Eppure, i filmati della polizia dimostrano come Pantani sia stato trovato riverso a terra in una pozza di sangue, il viso una maschera rossa. La lettura dell’esame autoptico rivela poi anche una serie di ferite sul corpo, sulla fronte, sul naso, intorno al capo. Eppure, chi arriva per primo nella stanza D5 di viale Regina Elena, a Rimini, proprio non riesce a ricordarle: “Marco non aveva alcuna ferita sul viso”. Incongruenze curiose, come le divergenze sulle macchie di sangue presenti nella stanza. Quegli schizzi secondo la perizia del professor Avato allegata alle indagini condotte dal legale della famiglia, Antonio De Rensis, non possono essere frutto della caduta. Non la pensava così però il dottor Fortuni, il medico legale che condusse l’autopsia, seppur 48 ore dopo il ritrovamento del corpo: volevano lui, anche a costo di doverlo aspettare due giorni. E pensare che Fortuni e Avato hanno sostenuto tesi opposte anche sul caso Aldrovandi, controverso almeno quanto la morte del Pirata: il primo consulente della difesa dei poliziotti sotto accusa, l’altro per la famiglia del giovane. Ma incollato come un’ombra al nome di Fortuni è rimasto soprattutto il dettaglio macabro del cuore del Pirata portato via dal laboratorio e custodito in casa per una notte, per evitare furti. Un pezzo del cuore del campione di Cesenatico che rappresentava “un corpo di reato, sotto la mia custodia in qualità di perito, che ovviamente non poteva andare né perso né distrutto”. Procedura non inconsueta, eppure oggetto di attenzioni quasi morbose. Il cuore di un uomo farneticante: così almeno lo raccontavano le indagini dell’epoca. Un ritratto che nasce dalle dichiarazioni notturne di tre ragazzi, giovani, 27 anni appena: si presentano spontaneamente alle 23.30 della notte di San Valentino per consegnare la loro verità sul campione scomparso a un ispettore mentre nella stanza D5 del residence Le Rose si muovono ancora inquirenti al lavoro e civili, filmati impietosamente dall’occhio delle telecamere della polizia. Avevano incontrato Pantani, dicono, la sera prima, sul pianerottolo, intorno alle 22.15. Avevano impiegato un po’ a riconoscerlo, poco curato, una barba sciatta. Lo avevano sentito dire cose surreali, lo avevano salutato con un generico “a domani”, salvo sorprendersi nel sentirlo rispondere in dialetto “non so se ci sarà un domani per me”. Visibilmente turbato, poco lucido e tragicamente inquieto, quasi consapevole del proprio destino irreversibile. Testimonianza ritenuta credibile al punto da essere inserita nella consulenza medico legale. Quella testimonianza diventa l’elemento per dare coerenza alla tesi di un Pantani in preda al delirio, quello che avrebbe potuto demolire la stanza del residence o barricarsi in camera e drogarsi fino a morire. Apparentemente affermazioni utili a raccontare lo sviluppo delle ultime ore del campione caduto. Eppure, nessuno sentirà la necessità di ascoltarli ancora: né durante le indagini, né durante il procedimento giudiziario. Curioso, almeno. Viene da chiedersi perché, al contrario, durante la pur fugace indagine non sia venuto in mente a nessuno di ascoltare se avesse qualcosa dire l’ultima persona che, con certezza, ebbe occasione di incontrare Pantani vivo. Eppure era proprio lì, a pochi metri dalle stanze ormai demolite e rivoluzionate del Le Rose. Oliver Laghi è il ristoratore a cui viene ordinata l’ultima cena del Pirata, un’omelette prosciutto e formaggio, qualche succo di frutta che prende dal concierge dove scopre che il cliente da servire, stavolta, è il suo idolo. Tra le 21 e le 21.30, Pantani gli apre la porta: se qualcuno lo avesse sentito all’epoca, Laghi avrebbe detto quello che dice soltanto ora. “Non aveva la faccia di chi voleva suicidarsi”, dice. Racconta che emozionato per quell’incontro inatteso gli chiese di poter tornare con il figlio, che sarebbe impazzito per un suo autografo. Marco gli diede una pacca sulla spalla e rispose “va bene, ci vediamo domani”. L’esatto opposto di quello che solo un’ora dopo, un Pantani sconvolto e delirante avrebbe detto ai tre ragazzi. Almeno stridente, se non inquietante. In un’ora scarsa, Pantani avrebbe dovuto mangiare la cena ricevuta per poi imbottirsi di cocaina e uscire dalla stanza per apparire instabile, in preda a manie persecutorie, perso in discorsi surreali ai giovani che lo incontrano sul pianerottolo. Rimini parla, racconta, aspetta. La pm Elisa Milocco dalle vacanze genovesi inizia a cercare risposte.

Pantani, il giallo dei pusher. Contatti frenetici al telefono mentre Marco era già morto. L’indagine per omicidio: cellulari impazziti tra le 13 e le 20. Il gelo del magistrato che archiviò: per me parlano gli atti. Si riparte da zero: il fascicolo affidato a una giovane pm, l’ultima arrivata nella procura. Dall’esame dei tabulati l’ultimo mistero sulla fine del Pirata nel motel Le Rose di Rimini.Il legale della famiglia: “Possibile colmare le lacune”, scrivono Marco Mensurati e Matteo Pinci su “La Repubblica”. La nuova indagine sulla morte del Pirata ripartirà da una serie di tabulati telefonici. Numeri che si incrociano in maniera convulsa nelle ore immediatamente successive all’omicidio di Marco Pantani, in quel tragico pomeriggio del 14 febbraio 2004, e che disegnano una strana, fittissima triangolazione tra Fabio Miradossa, Ciro Veneruso – vale a dire il fornitore e lo spacciatore del ciclista (successivamente per questo condannati) – e altri numeri per il momento non meglio identificati. Cosa c’era all’origine di quel febbrile giro di chiamate rimbalzato nell’etere tra le 13 e le 20 di quel giorno? Chi sapeva cosa? Per quale motivo, di punto in bianco, due “pesci piccoli” dello spaccio in Riviera cominciano ad agitarsi in maniera scomposta? Ci vorranno mesi per saperlo. Le indagini penali, si sa, hanno tempi lunghi, specialmente quando diventano tecniche. Ma ormai la macchina si è messa in moto, e comunque vada, alla fine, una risposta definitiva sulla morte di uno dei campioni più amati di sempre dovrà pur venire fuori. Almeno questo è l’intento del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli. “Abbiamo appena ricevuto le carte presentate dai familiari e aperto un’indagine. È un atto dovuto quando arriva un esposto-denuncia per omicidio volontario. Leggeremo le carte, se ci sarà l’esigenza di indagini chiederemo al giudice”. Le carte, in realtà, Giovagnoli le aveva già lette la scorsa settimana facendo in tempo ad aprire il fascicolo “contro ignoti” e ad affidare l’inchiesta a una giovane fidata collega, il pm Elisa Milocco. In procura – dove tutti si nascondono dietro il più assoluto segreto istruttorio – nessuno sottovaluta la difficoltà di un cold case del genere, con una vittima tanto famosa e amata, uno scenario alternativo così suggestivo, e con dieci anni di distanza a rendere tutto, se possibile, ancor più complicato. Basti pensare che il luogo del delitto, semplicemente, non c’è più: il residence Le Rose, nella cui stanza D5 venne ritrovato, il 14 febbraio 2004, il cadavere di Marco Pantani, è stato demolito. E non è un dettaglio da poco. Molto, nella ricostruzione originaria, quella fatta a pezzi dalle indagini difensive condotte dall’avvocato Antonio De Rensis, ruotava attorno al fatto che nessuno fosse entrato o uscito in quei giorni dalla stanza di Pantani, visto che nessuno era passato per la portineria chiedendo di lui. In realtà, si è scoperto, quella stanza, così come tutte le altre in quel residence, poteva essere raggiunta comodamente e con la massima discrezione dal garage (non c’era nemmeno una telecamera di controllo). Insomma, in quei giorni chiunque potrebbe essere entrato e uscito dalla stanza di Pantani, spacciatori, vecchi amici del posto, gente venuta da Milano. Chiunque, insomma, oltre allo stesso Pantani e ai suoi eventuali assassini. Purtroppo però non sarà possibile effettuare alcun sopralluogo. Ciononostante la voglia di fare luce su un caso che da anni avvelena le acque di questa piccola procura è tanta. Ancora ieri Paolo Gengarelli, il pm della prima inchiesta, quella oggi sotto tiro ha rilasciato una dichiarazione non proprio amichevole: “Io non commento la notizia, sono un magistrato con l’abitudine di non parlare come dovrebbero fare in tanti, lascio che siano gli atti a farlo”. La scelta di affidare l’incartamento a un magistrato “nuovo” dell’ambiente, lontano per definizione da ogni possibile pressione locale non appare casuale. La strada dell’indagine a questo punto è abbastanza scontata. La dottoressa Milocco al ritorno dalle vacanze (ha chiuso ieri l’ufficio portando con sé il fascicolo) avvierà i primi accertamenti, delegando la polizia giudiziaria. Poi disporrà una nuova perizia. Il cuore delle accurate indagini effettuate da De Rensis e il suo staff è infatti la perizia medico legale del professor Francesco Maria Avato che ha parlato di “ferite non autoprodotte, ma inferte da terzi” sul corpo di Pantani, di “evidenti segni di trascinamento del cadavere”, e della “probabile ingestione della cocaina da una bottiglia di acqua” ritrovata sulla scena e “mai repertata”. Elementi che, se confermati, non lascerebbero più dubbi sull’omicidio di Pantani. Resterebbe a quel punto da rispondere alle altre domande: chi e perché ha ucciso Pantani, e chi e perché ha coperto l’assassino? Nell’istanza presentata da Rensis ci sono numerosi altri elementi che potrebbero aiutare a rispondere anche a queste domande. E i tabulati telefonici sono uno di questi. “Quando i genitori di Marco mi hanno contattato, mi sono riservato prima di capire perchè non volevo creare false illusioni ma non c’è voluto molto per comprendere che c’era molto lavoro da fare – racconta l’avvocato De Rensis ai microfoni di Sky -. La stessa consulenza scientifica è stata inizialmente un percorso esplorativo ma abbiamo capito subito che dovevamo buttarci a capofitto con una rilettura della vicenda. Sono stati mesi molto faticosi, dolorosi, pieni di tensione e speranza. Adesso sappiamo che abbiamo molto lavoro da fare insieme e mi concentro sul fatto che inizia un nuovo percorso faticoso, lungo, ma che affronteremo con determinazione massima. La prima indagine? Penso al passato soltanto in proiezione futura, sono molto concentrato su quello che dobbiamo fare”. L’esposto presentato, spiega De Rensis, “è una rilettura, un esame degli atti di indagine e processuali, c’è una corposa e approfondita consulenza scientifica, tutti elementi che convergono verso una direzione molto precisa. Ci sono state molte mancanze, molte lacune, accertamenti non fatti e una tesi seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Marco mai più abbandonata e che credo vada invece assolutamente rivisitata”. Ancora nessuna pronuncia su possibili sospetti: “Iniziando a fare luce sulle mancanze, sulle lacune, sulle incongruenze, sulle anomalie, credo che la strada si illuminerà da sola, il percorso sarà molto chiaro e preciso. Il perchè certe cose sono venute meno non lo devo dire io, chi fa le indagini avrà molti punti da chiarificare e credo che questo sia assolutamente possibile. Colmare le lacune credo sia possibile, le carte parlano molto, il video parla molto, leggendo le carte nel modo giusto, leggendo il video e altri dati credo che sia possibile colmare queste lacune”. “Credo che adesso inizierà un’indagine molto faticosa – conclude De Rensis – ma il procuratore capo di Rimini è un galantuomo, la dottoressa Milocco mi ha dato l’impressione di una persona molto rigorosa. C’è grandissima fiducia nell’opera della magistratura e daremo il nostro piccolo supporto perchè i fatti vengano chiarificati e la verità fattuale prevalga su quella ufficiale che penso sia molto lontana dalla verità dei fatti”.