Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ARTICOLI PER TEMA
Di Antonio Giangrande
INDICE
La definizione di mafie.
La Mafia
Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo.
La Mafia degli Avvocati
Racket di Stato
Regione Puglia, Lazio, Sicilia e tutte le altre. Per favore non chiamatele Mafia.
L'Antiracket Salento
Mai dire Antimafia...
Antimafia Connection.
La liturgia antimafia.
Basta con la liturgia dell’antimafia di sinistra.
L'Antimafia a scuola. Indottrinamento e
proselitismo.
Se questa è antimafia…
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Assolti e confiscati
Inchiesta. La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati.
Non è cosa loro!
Mafia: quello che la Stampa di regime tace
Le Associazioni Antiracket
A proposito di Mafia e Terrorismo islamico.
Antimafia razzista e censoria
La Mafia degli Ausiliari Giudiziari
La definizione di mafie.
La definizione di mafie del dr Antonio
Giangrande è: «Sono sodalizi mafiosi tutte le organizzazioni formate da più di
due persone specializzati nella produzione di
beni e servizi illeciti e nel commercio di tali beni. Sono altresì mafiosi i
gruppi di più di due persone che aspirano a governare territori e mercati e che,
facendo leva sulla reputazione e sulla violenza, conservano e proteggono il loro
status quo».
In questo modo si
combattono le mafie nere (manovalanza), le mafie bianche (colletti bianchi,
lobbies e caste), le mafie neutre (massonerie e consorterie deviate).
Tommaso Buscetta: “Cosa Nostra ha costituzione piramidale. La famiglia mafiosa prendeva il nome dal paese di origine. Tre famiglie contigue formavano il mandamento. I mandamenti formavano la Commissione provinciale o Cupola, i cui rappresentanti formavano la Commissione interprovinciale o Cupola. Di fatto i mafiosi non votavano la DC in quanto tale, ma votavano e facevano votare ogni partito che non fosse il Partito Comunista”. Per questo i comunisti, astiosi e vendicativi, ritengono mafiosi tutti coloro che non sono comunisti o che non votano i comunisti. Tenuto conto che al Sud i moderati hanno maggiore presa, in tutte le loro declinazioni, anche sinistri, ecco la gogna territoriale o familiare o come scrive Paolo Guzzanti: Il teorema della mafiosità ambientale.
L’accanimento prende forma in varie forme:
Il caso del delitto fantastico di “concorso esterno”.
Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.
La Mafia delle interdittive prefettizie che alterano la concorrenza.
Lo scioglimento dei Consigli Comunali eletti democraticamente.
La Mafia
LA MAFIA è una presenza discreta e silenziosa, che cerca di evitare i clamori della cronaca con lo spargimento di sangue. Ma la mafia c’è ed incombe pericolosamente sulla vita sociale e democratica dell’Italia, anche se di essa, per omertà dei media, non vi è adeguata consapevolezza nei cittadini e nelle istituzioni. C’è “la mafia bianca”, sodalizio massonico delle lobby e delle caste, insinuata nelle istituzioni e nei poteri dello Stato, che si attiva direttamente per influenzare le scelte e la gestione della cosa pubblica. Poi c’è “la mafia nera”, la criminalità organizzata comune che non ha cessato di mettere in discussione l’autorità dello Stato e continua la cura dei suoi tradizionali interessi: dal traffico di stupefacenti e di clandestini all’usura e al racket delle estorsioni, fino allo sfruttamento della prostituzione e del gioco d'azzardo. Entrambe le mafie, cosa ancora più grave, tentano di mettere le mani sulla gestione degli appalti pubblici finanziati da fondi nazionali od europei, insinuandosi nelle pieghe della vita politica e amministrativa, come dimostrano alcune indagini della magistratura su ipotesi di rapporti illeciti di taluni rappresentanti della pubblica amministrazione e del mondo dell’imprenditoria e della stessa magistratura con esponenti della criminalità organizzata, in vicende dal rilevante profilo economico e finanziate con i soldi dei cittadini.
Arrestare boss, assassini, estorsori, usurai è importante, ma per sconfiggere la mafia bisogna prevenirla, combattere il suo sistema di potere, incidere sulle sue complicità, estirpare le coperture che creano cultura, prassi e contesti mafiosi. L’uomo non è libero, la società è malata se le minacce e le intimidazioni creano nei cittadini paura, angoscia e terrore, alimentano un cancro morale che intorbida le coscienze, condiziona la democrazia e la convivenza civile. Ma l’insicurezza nei cittadini onesti viene talvolta alimentata anche dalla soggezione che impone la burocrazia, dall’arroganza che promana dal potere politico e amministrativo, dall’umiliazione che spesso gli eletti nelle istituzioni pubbliche impongono ai cittadini solo per ascoltare le loro esigenze, richieste o proposte. Consiglieri comunali, provinciali, regionali, assessori e parlamentari, sindaci e presidenti di ogni ordine e grado diventano spesso “irraggiungibili” una volta eletti, anche dai loro stessi più prossimi elettori. Segretari, addetti stampa, attendenti e portaborse creano filtri e contro-filtri, una cortina fumogena impenetrabile, tanto che per poterla squarciare bisogna farsi raccomandare. E la pratica della raccomandazione è il primo viatico alla cultura della mafiosità.
Prassi agevolata dall’inerzia e dall’indifferenza, se non addirittura dalla collusione della magistratura, spesso sorda alle richieste di intervento dei cittadini onesti e coraggiosi.
“La mafia nera”, che in Puglia prende le sembianze mediatiche della Sacra corona unita, come Cosa nostra in Sicilia, la ‘ndrangeta in Calabria e la Camorra in Campania, è innominata nelle regioni del nord Italia, dove è ben radicata e in commistione con quella dell’est Europa. Essa è ancora viva ed opera efficacemente anche quando non uccide. In realtà essa si articola in una miriade di consorterie malavitose in continuo rimescolamento conflittuale e alla ricerca della supremazia territoriale. Una presenza flessibile e tendenzialmente discreta, che evita il clamore degli episodi delittuosi estremi proprio per potersi mimetizzare e infiltrare nelle istituzioni. Esercita soprusi e prepotenze nei confronti di comuni cittadini, imprenditori, commercianti, ma anche giudici, politici, pubblici amministratori, giornalisti. Uno stillicidio quotidiano di notizie ne segnala continuamente la presenza preoccupante, ma troppo spesso vengono evitate, ignorate, dimenticate in fretta, forse per esorcizzare la paura di scoprire di vivere in una regione che rischia di essere dominata dalla mafia.
Ma vivere con gli occhi bendati, le orecchie tappate e le mani sulla bocca, come le tre famose scimmiette, non serve a nulla. La realtà è un’altra: è quella della paura e delle intimidazioni quotidiane subite da chi non vuole sottostare alle regole della mafia. Una sequenza impressionante di piccoli e grandi episodi che fanno correre il contachilometri della criminalità. Gli amministratori pubblici non ne sono esenti.
Nel campionario c’è di tutto: la testa di cavallo mozzata lasciata davanti all’abitazione, l’auto incendiata, la bomba esplosa all’esterno del Municipio, i colpi di pistola contro le finestre, la lettera minatoria con le cartucce di un fucile.
L'Italia sta scoprendo un nuovo modo di fare politica. Non attraverso le elezioni, ma con le intimidazioni. Difficile dare una lettura omogenea delle vicende, perché ogni Comune ha una storia a sé. Insomma, non è detto che tutti gli amministratori colpiti finiscano per pagare così l’impegno contro l’illegalità o la crociata per un’amministrazione trasparente.
Secondo gli investigatori, si può finire nel mirino anche per non aver rispettato - ad esempio - patti precedentemente stabiliti. Oppure perché singoli cittadini decidono di vendicarsi ricorrendo ai metodi tipici della criminalità organizzata, adottandone le modalità, pur essendo esterni ai clan. Tre chiavi di lettura diverse, che rendono ancora più difficile l’attività di chi cerca di dare nomi e cognomi ai mandanti. Ma gli esperti non tralasciano le piste investigative più inquietanti. Bombe, proiettili e minacce porterebbero o all’infiltrazione diretta nelle amministrazioni comunali o alla ricerca delle dimissioni di un amministratore per sostituirlo con un altro di fiducia della Piovra spa. D’altra parte, la criminalità di casa nostra ha sempre mostrato una spiccata flessibilità operativa. E l’atto intimidatorio non è altro che una prova di forza, una esibizione di muscoli da parte di chi è convinto di controllare il territorio. Un particolare non sfuggito, di recente, alla Direzione nazionale antimafia. In una relazione si sottolineavano, tra l’altro, alcune peculiarità. Come l’intervento di boss e picciotti nell’intercettare i flussi finanziari destinati alla realizzazione di grandi opere (contratti d’area, distretti tecnologici, energie alternative, smaltimento rifiuti), o attraverso la strategia del «doppio binario», adottata per infiltrarsi nei subappalti (movimento terra) e facendo pressioni (estorsioni) nei confronti di imprese affidatarie di lavori ad alto profilo tecnologico. Vanno di moda, anche, l’affidamento di servizi ai clan, la costituzione di società per la gestione di piccoli affari, le ingerenze e il controllo di attività come l’affissione dei manifesti elettorali, gli accordi di natura elettorale (richieste di voti in cambio di assunzioni).
Esemplare è il caso di Santi Cosma e Damiano (LT). Un consigliere comunale di quel comune, adempiendo al suo dovere di vigilanza e controllo sulla legittimità degli atti amministrativi degli enti territoriali, con altri associati dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie del posto, ha presentato vari esposti alle autorità competenti laziali. Esposti circostanziati e provati.
Da questa meritoria attività è conseguita una duplice interrogazione parlamentare e un intervento da parte del Direttore Regionale del Dipartimento del Territorio della Regione Lazio.
Di questo si è dato conto sul portale di informazione dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, per rendere coscienti i cittadini di una realtà sottaciuta.
Dalle risposte istituzionali scaturisce una vasta infiltrazione mafiosa e ripetute illegittimità perpetrate a danno del territorio locale e dei suoi abitanti, in particolare sul territorio del basso Lazio, in provincia di Latina, da qui la richiesta di scioglimento dei consigli comunali di Santi Cosma e Damiano e di Minturno.
Pur palesandosi la fondatezza delle accuse e il diritto-dovere costituzionale di informare i cittadini, oltretutto riportando fedelmente il contenuto di atti pubblici, la reazione è stata la presentazione di una denuncia per calunnia e diffamazione a danno del consigliere comunale e del Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande.
Denuncia infondata in fatto e in diritto, ma per la quale la Procura di Roma ha proceduto, in palese incompetenza territoriale, riconducibile a Latina (domicilio consigliere) o a Taranto (luogo di pubblicazione). Nessuna informazione di garanzia e nessuna informazione sul diritto di difesa. Insomma, non si conosce il chi, il come, il quando e il perché della denuncia, oltre che ogni informazione utile al diritto di difesa.
Dato che la mafia ti uccide, o ti affama, o ti condanna, ci si chiede: ma in questa Italia alla rovescia, è conveniente uscire dalla conformità omologata per lottare a favore di ideali di giustizia?? Agli occhi dei giustizialisti a senso unico e di facciata, che vogliono al Parlamento Deputati incensurati, pur se incapaci ed inetti, quelli che lottano per la giustizia, l’uguaglianza e la libertà, se condannati in base alle denunce di cui sopra, sarebbero meritevoli di essere eletti in Parlamento ??
Il Presidente dr Antonio Giangrande denuncia: “la lotta alle mafie ed alle illegalità non deve essere, né apparire, solo lotta politica di “sinistra”, né deve essere fondata sulla santificazione dei magistrati. Una domanda da scrittore a scrittore: se Saviano fosse uno scrittore antimafia di destra, avrebbe avuto tanta attenzione, tale da meritare film e scorta? E per finire una domanda da presidente antimafia a presidente antimafia: se Don Ciotti non fosse appoggiato dall’apparato politico, mediatico e giudiziario di sinistra, avrebbe avuto tanta visibilità e sostegno ?
La "Associazione Contro Tutte le Mafie" - ONLUS è una associazione nazionale contro le ingiustizie e le illegalità, iscritta per obbligo di legge, ai fini dell'attività antiracket ed antiusura, solo presso la Prefettura - UTG di Taranto, competente sulla sede legale. Non ha sostegno politico perchè è apartitica e non nasconde gli abusi e le omissioni del sistema di potere, tra cui i magistrati, e la codardia della società civile. Per questo non riceve alcun finanziamento pubblico, o assegnazione da parte della magistratura dei beni confiscati. I suoi siti web sono oscurati dalla magistratura e il suo presidente è, spesso, perseguito per diffamazione, solo perchè riporta sui portali web associativi le interrogazioni parlamentari o gli articoli di stampa sugli insabbiamenti delle inchieste scomode. Le scuole non lo invitano, in quanto il motto "La mafia siamo noi" non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Pur affrontando questioni attinenti la camorra, la mafia, la 'ndrangheta, la sacra corona unita, la mafia russa, ecc; pur essendo stato ringraziato dal Commissario governativo per la collaborazione svolta ed invitato da questi a partecipare al forum tenuto a Napoli coi Prefetti del Sud Italia per parlare di Mafie e sicurezza, la Prefettura di Taranto, non solo non gli dà la scorta, ma gli diniega la richiesta del porto d'armi per difesa personale. La regione Puglia non iscrive la stessa associazione all'albo regionale, né il comune di Avetrana, città della sede legale, ha iscritto l'associazione presso l'albo comunale. Il sostegno mediatico è inesistente, tanto che vi è stata interrogazione parlamentare del sen. Russo Spena per chiedere perchè Rai 1 non ha trasmesso il servizio di 10 minuti dedicato all'associazione, autorizzato dall'apposita commissione parlamentare. L'editoria ha rifiutato le pubblicazione del saggio d'inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", il sunto e l'elenco degli scandali e i misteri italiani, senza peli sulla lingua.
La associazione "Libera" è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. I magistrati assegnano a loro i beni confiscati. Le scuole invitano i loro rappresentanti. Il sostegno mediatico è imponente, come se "Libera" fosse l'unico sodalizio antimafia esistente in Italia. La regione Puglia, con giunta di sinistra, riconosce a loro cospicui finanziamenti, pur non essendo iscritta all'Albo regionale.
In un'intervista a Magazine del Corriere della Sera, si rivela che non c'erano motivi perchè a Roberto Saviano, autore di “Gomorra”, venisse assegnata la scorta. Vittorio Pisani, capo della Squadra Mobile di Napoli, è un poliziotto con gli “attributi” che ha ottenuto l'importante incarico all'età di 40 anni; rischia la pelle tutti i giorni e, persona seria in questo mondo di quaquaraquà e opportunisti. Intervistato da Vittorio Zincone ha detto le cose come stanno: “Resto perplesso quando vedo scortare persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni”.
All'ex collaboratore de “Il Manifesto” è però stata concessa l'assidua compagnia d'un folto manipolo di guardie del corpo, che oltrepassa ogni ridicolo, schierando persino cani anti-bomba; eppure, rivela Pisani, “a noi della Mobile fu data la delega per riscontrare quel che Saviano aveva raccontato a proposito delle minacce ricevute. Dopo gli accertamenti demmo parere negativo sull’assegnazione della scorta”. Tuttavia Roberto Saviano, sull'onda della popolarità antimafia e dell'autocommiserazione per la “vita sotto scorta”, è diventato un miliardario di fama mondiale che, oltre a sfornare libri alla moda e presenziare ovunque, collabora a testate come L'espresso e La Repubblica, negli Stati Uniti con il Washington Post e il Time, in Spagna con El Pais, in Germania con Die Zeit e Der Spiegel, in Svezia con Expressen e in Gran Bretagna con il Times.
Una domanda da scrittore a scrittore: se Saviano fosse uno scrittore antimafia di destra, avrebbe avuto tanta attenzione, tale da meritare film e scorta? E perché ad Antonio Giangrande, autore del saggio di inchiesta "L'Italia del trucco, l'Italia che siamo", che scrive 100 volte cose più gravi e pericolose, toccando gli interessi di mafie, lobby, caste e massonerie, oltre che denunciare il comportamento dei cittadini collusi o codardi, viene negato addirittura il porto d’armi ?
E per finire una domanda da presidente antimafia a presidente antimafia: se Don Ciotti non fosse appoggiato dall’apparato politico, mediatico e giudiziario di sinistra, avrebbe avuto tanta visibilità e sostegno ?
Detto questo, la risposta è arrivata con l’articolo 2 della finanziaria 2010, il quale sancisce che i beni “di cui non sia possibile effettuare la destinazione o il trasferimento per le finalità di pubblico interesse ivi contemplate entro i termini previsti – vale a dire 90 giorni – sono destinati alla vendita i cui proventi saranno destinati a finalità istituzionali e sociali”.
Don Ciotti, presidente di “Libera”: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra".
Antonio Giangrande, presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie: “I beni confiscati sono cosa di tutti, non degli apparati appoggiati dalla sinistra. Basta favoritismi ed ipocrisie. Ben venga la riforma. I proventi della vendita dei beni non assegnati vadano a finanziare i bisogni della Giustizia e non essere un peso al bilancio dello Stato”.
“Libera”, è un coordinamento di oltre 1500 associazioni o comitati locali, che spesso si appoggiano presso le sedi ARCI, ACLI, CGIL. Esse sono assegnatari dei beni confiscati e beneficiari dei finanziamenti per la fruizione e la funzionalità di immobili ed aziende. Loro santificano i magistrati e sono appoggiati dall’apparato dei media, dei docenti, degli intellettuali, dei politici e dei magistrati di sinistra. Con un apparato del genere e con molte Giunte che la sovvenzionano, “Libera” non ha bisogno di elemosinare sostegno, finanziamenti e visibilità.
“Noi non siamo di sinistra – dice il presidente dr Antonio Giangrande - ma vogliamo portare all’attenzione della collettività una verità alternativa a quella della sinistra militante dove vige il motto: La mafia sono gli altri e nessuno tocchi i “Dei” magistrati. Noi non abbiamo visibilità, nè sostegno, perché palesiamo una verità eclatante: la mafia è l’istituzione che collude, i media che tacciono e i cittadini che emulano. Mafie, lobbies, caste e massonerie gestiscono la nostra vita. E ne riportiamo gli esempi sui nostri siti e per sunto nel libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”. Noi non siamo tanto forti da rompere questo muro di gomma erto dalla “inteligentia” e dagli apparati di sinistra, ma siamo forti della nostra ragione. Per questo diciamo che i beni dei mafiosi, devono essere “cosa di tutti” e non “cosa di sinistra”.
Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo.
La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.
La Mafia degli Avvocati
LA MAFIA DEGLI AVVOCATI
L’Associazione Contro Tutte le Mafie denuncia: «Altro che liberalizzazioni. Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell’Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.»
Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L’Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l’esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L’istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l’abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli “avvocati stabiliti”, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione – conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».
Racket di Stato
ITALIA: RACKET DI STATO
Concussione, Corruzione, Usura Bancaria, Finanziamento illecito ai partiti, Voto di Scambio, Nepotismo e clientelismo, Tassazione eccezionale……Il tutto per mantenere lor signori: il “potere” infedele ed inefficiente. Non paghi le tasse? Loro ti tolgono la vita!
Il bilancio lo danno le imprese che falliscono e gli imprenditori che si tolgono la vita (già 26 da gennaio a marzo dell’anno 2012 secondo la Cgia di Mestre).
Italia: una Repubblica fondata sulle tasse.
«Se tutti pagano le tasse, le tasse ripagano tutti. Con i servizi» e «Chi vive a spese degli altri, danneggia tutti» (spot tv del fisco: tasse e servizi pubblici ed il parassita)».
Questa è la campagna organizzata dalla Agenzia delle Entrate e dal Ministero dell’Economia contro l’evasione fiscale.
Il primo spot è “Stop a chi vive a spese d’altri”.
Il primo spot dal titolo «Se», è un’animazione in motion graphic e spiega (a qualche cittadino distratto) l’utilizzo del denaro ricavato dalle tasse: a produrre servizi pubblici, dagli ospedali alle scuole, dalle strade ai parchi, ai trasporti. Ma tutto ciò può avvenire se a pagare le tasse sono tutti.
La headline è: «Se tutti pagano le tasse, le tasse ripagano tutti. Con i servizi».
Il secondo spot è “Chi evade le tasse è un parassita sociale”.
Il secondo spot, ancora più asciutto e didascalico del primo, mostra una serie di slide con immagini di parassiti in natura, mostrando alla fine un volto di un uomo: l’evasore fiscale come parassita della società, che succhia energie, soldi, risorse e accesso ai servizi pubblici a tutta la collettività, senza contribuire al suo sostentamento.
Alla luce degli ultimi eventi, accaduti in questi ultimi mesi, il dr. Antonio Giangrande, scrittore e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie si chiede se sia proprio il caso di presentare anche questi spot da parte dell’Agenzia delle Entrate. Sembra una presa in giro. Se qualcuno non paga le imposte sui redditi, comunque dall’iva, dalle accise, dalle tasse specifiche, dai contributi previdenziali non si scappa. E comunque gli accertamenti, di cui più della metà all’esame dei ricorsi alle commissioni tributarie risultano infondati, non bastano? Gli italiani oltre al luogo comune di essere mafiosi, devono subire l’onta ed il sospetto di essere anche evasori fiscali? Gli “scienziati” al parlamento perché non prevedono l’assoluta deduzione delle spese dai redditi da parte dei cittadini. In questo modo la fattura è un interesse personale chiederla e si incentivano i consumi e quindi la produzione.
Già. Però c’è tanto da ridire. Da “Fai Notizia” di Radio Radicale una scottante verità. Più di 800 dei dirigenti dell’ente pubblico che vigila contro l’evasione fiscale di cittadini, imprese, partiti ed enti in tutta Italia, è stata scelta in maniera discrezionale, senza criteri di trasparenza.
Inoltre la sanguisuga Statale, che con il suo vampirismo ha prosciugato il sangue degli italiani, nulla fa per giustificare l’eccezionale prelievo. Perché l’Italia oltre ad essere una repubblica fondata sulle tasse è anche fondata sui disservizi, oltre che sull’ingiustizia.
La domanda è: che fine fa l’oceano di soldi che gli italiani versano in quel pozzo che sembra essere senza fondo?
La giustizia allo sfascio, ma questo è risaputo.
La sanità allo sfascio, ma questo è risaputo. Ecc., ecc., ecc.. Insomma non funziona niente, ma tutti sono sovvenzionati. Qualche esempio.
La Provincia di Taranto, Adiconsum e Federconsumatori hanno deciso di avviare una ‘class action’ contro Trenitalia per l’eliminazione di numerosi collegamenti a lunga percorrenza e notturni da e per Taranto.
Ancora in provincia di Taranto, a Manduria.
L’associazione “Pro Specchiarica” promuove una “Class Action” contro il Comune di Manduria per l’abbandono della sua marina orientale. Un’azione civile di risarcimento per danno di immagine e svalutazione della proprietà, oltre che per danno esistenziale dovuto al degrado ed all’abbandono cinquantennale, in aggiunta alle privazioni subite per omesso investimento di opere primarie e secondarie in zona densamente edificata. Abbandono, degrado e disservizi nonostante milioni di euro incassati da Manduria in un territorio dove ci sono pochi manduriani. Milioni di euro incassati tra oneri concessori, ici, addizionale irpef, tarsu, quota enel, ecc. Il tutto con destinazione vincolata, ma impiegati altrove e per altri scopi.
Ed ancora. Uffici postali in tilt, code e rabbia in tutta Italia. Lunedì 16 aprile 2012 ancora una volta negli uffici postali di tutta Italia si sono create lunghe code, tra rabbia e sconforto dei cittadini arrivati per pagare bollette e fare operazioni sul conto. Il blocco informatico deriva da un problema di connessione al server centrale. “I computer sono in tilt, non riusciamo a fare operazioni”, spiegano i dipendenti dietro allo sportello. Qualche sede locale ha messo cartelli per informare i clienti del problema, ma qualcuno prova comunque ad aspettare, e magari si fa pure il giro di più uffici. Da Roma hanno spiegato agli addetti che il blocco potrebbe essere risolto nel giro di poco tempo. E lì gli utenti speranzosi sin dal mattino ad aspettare, con i dipendenti che consigliavano ai clienti di tornare più tardi Alle 13.30 negli uffici postali italiani era ancora tutto bloccato. Connessioni ripristinate pian piano dalle 15. «Per l’ennesima volta tutti gli uffici postali d’Italia sono in tilt per il blocco del sistema operativo informatico.- Lo afferma in una nota alla stampa Mario Petitto, Segretario Generale Cisl-Poste. -Oggi – continua Petitto- gli uffici postali sono pieni di pensionati Inpdap che non riescono a riscuotere la pensione e di cittadini che non riescono ad effettuare alcuna operazione finanziaria agli sportelli. Come sempre in queste occasioni la tensione negli uffici postali è alta ed a farne le spese sono gli incolpevoli lavoratori che non riescono a far fronte alle proteste dei cittadini -, osserva il sindacalista, che aggiunge – ormai le nostre denunce si sprecano ed il silenzio perdurante del management di Poste diventa sospetto. Ci appelliamo pubblicamente al ministro vigilante se non ritiene di fare luce sui perenni disservizi di una Azienda pubblica che eroga servizi pubblici, e ci chiediamo come mai la magistratura non sia ancora intervenuta a cercare di capire dove siano le eventuali responsabilità della continua interruzione di pubblico servizio. Chiediamo inoltre ai rappresentanti dei consumatori – conclude – di tutelare i diritti degli utenti postali così come noi ci sforziamo di tutelare i diritti dei lavoratori che in queste circostanze sono il parafulmine di responsabilità altrui.»
Naturalmente il disservizio riguarda anche l’invio della posta e dei pacchi.
Non è la prima volta e, è facile immaginarlo, non sarà l’ultima. Per l’ennesima volta, come denuncia la Cisl, tutti gli uffici postali d’Italia sono in tilt per il blocco del sistema operativo informatico, e per l’ennesima volta, quindi, questi disservizi finiscono per creare disagi che si allargano a macchia d’olio su tutto il territorio italiano. Il management di Poste italiane, come sempre in questi casi, rimane in silenzio, al contrario degli utenti, costretti a lunghe (e spesso inutili) code e ai pensionati che non riescono a ritirare la propria pensione o ai cittadini che devono inviare lettere e pacchi o fare operazioni finanziarie. Utenti che si ritrovano a protestare contro i lavoratori degli uffici postali. Utenti che hanno perso un’intera giornata per nulla. Rimane, di questa grottesca storia dal sapore troppo antico, il succo, che purtroppo è un succo serissimo, invece, e terribilmente amaro, la triste vicenda di un’azienda pubblica che troppo spesso non sa o non riesce ad erogare un servizio pubblico. Essa come tante altre. “Ed io pago….” è la celebre frase di Totò, spesso ripresa da Striscia la Notizia.
Regione Puglia, Lazio, Sicilia e tutte le altre. Per favore non chiamatele Mafia.
«Un certo tipo di giornalismo, che va per la maggiore, produce un certo tipo di politica imperante. Questi promuovono un certo tipo di antimafia monopolista: di parte e di facciata. – spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” http://www.controtuttelemafie.it , scrittore dissidente che proprio sul tema della mafia e della mala politica e della mala amministrazione ha scritto dei libri, tra i tanti libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. – I soliti giornalisti promuovono ed i soliti politici finanziano iniziative della solita antimafia monopolista. Iniziative volte a dare un’immagine della mafia come la manovalanza del crimine organizzato. Per loro la mafia deve essere il cafone analfabeta con la lupara in mano che chiede soldi a strozzo o denaro in cambio di sicurezza. Come dire: affidati allo Stato che con i soldi estorti con le tasse esso sì ti presta i soldi e ti assicura benessere, istruzione, cultura, salute, giustizia e sicurezza (sic). Invece per me la mafia siamo tutti noi: omertosi, emulatori, collusi e codardi. Questo tipo di giornalismo e questo tipo di antimafia, che addita gli avversari politici o la manovalanza criminale come mafiosi, è foraggiato da questo tipo di politica, spesso regionale. Ed è foraggiato con i nostri soldi estorti con le tasse. Invece di denunciare lo sperpero di denaro pubblico per amicarsi un certo sistema d’informazione ed un discutibile sistema antimafia, ai consiglieri ed agli assessori regionali si dà la colpa di dilapidare i nostri soldi. Ed i cittadini lì ad imprecare. Però si fa finta di non sapere che quei soldi, di cui a volte facciamo finta di chieder conto, non sono altro che quelli usati (per voto di scambio) per attirare favori e benevolenza da parte di quell’elettorato, che oggi è indignato. Quei soldi servono per comprare il consenso per la rielezione di quei politici che oggi si manda all’inferno. Fa niente se per mantenere lor signori si chiudono ospedali e tribunali. Ma tanto per il sistema tutto ciò non è racket, anche perché è omertosamente taciuto. Sulle emittenti tv vi sono sempre servizi di parte, se non servizi che raccontano altre realtà (su Studio Aperto alle 12.47 circa di tutti i gironi vi è un servizio sulla famiglia reale inglese). Certo che a fare vera informazione si rischia l’oscuramento del portale web o la galera (ma solo per il direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti, vi è stato il polverone). Anche di questo una certa politica si deve fare carico. Sul nostro canale Youtube MALAGIUSTIZIA abbiamo dovuto montare e produrre un video sugli scandali alle Regioni. Un video tratto da servizi caricati sul web dal TG3, dal 884c25tv e dal TRnews di Tele Rama. Un video che è bene far vedere a tutti perché si dimostra che tutte le regioni sono uguali. Spezzoni video di tv anche locali. Vi è anche una parte riferita alla Regione Puglia di Nicola Vendola (dispensatore di sogni e di speranze), affinchè ci si renda conto con che tipo di informazione e di antimafia e di politica il cittadino si deve confrontare e che con questo sistema informativo è dura debellare.»
L'Antiracket Salento
L’ANTIRACKET SALENTO PRESENTATA DA ALFREDO MANTOVANO. LA POSIZIONE DELL’ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE
Antiracket Salento. Arrivano con il progetto Pon sulla Sicurezza 2.4 dall’Unione Europea 1.351.000,00 Euro per il Salento. Un contributo per le province di Taranto, Lecce e Brindisi per l’apertura di sportelli comunali antiracket che raccolgano le denunce. “La nostra terra è meritevole di un sostegno” ha spiegato l’onorevole Alfredo Mantovano a Taranto il 22 giugno 2012 in un incontro con la stampa ed il sindaco di Taranto.
Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, riguardo agli aspetti trattati da Alfredo Mantovano (ex magistrato, eletto PDL, ex AN) rilascia questa dichiarazione:
«la nostra terra è sì meritevole di un sostegno, ma perché è ritenuta un covo di mafiosi, in quanto così è presentata da chi ha un interesse politico od economico. Per raccogliere le denunce non ci sono già le caserme dei carabinieri, i commissariati o le Procure? Come presidente nazionale, quindi, data la mia esperienza extraterritoriale, ho adottato alcune misure che ho proposte a tutte le Prefetture d’Italia. Suggerimenti divulgabili ed adottabili da ogni ente governativo provinciale, per poterne usufruire ed apprezzare gli aspetti più utili. Il tutto senza alcuna reclame.
L’Associazione Contro Tutte le Mafie:
con Tele Web Italia, la sua web tv nazionale, ospita tutte le web tv locali e dà visibilità gratuita al territorio ed alle aziende che ivi producono per superare la crisi di mercato o il pericolo di usura;
considerando che le vittime del racket e dell’usura non hanno bisogno di visibilità e non vogliono apparire per paura delle ritorsioni, ha predisposto sui suoi siti web associativi uno sportello telematico (VADEMECUM) affinchè le vittime, senza ausilio di intermediari, possano accedere agli strumenti di denuncia e di autotutela più adeguati, previa informazione senza filtri sui benefici di legge, questo perché gli sportelli antiracket aperti a Lecce, Taranto e Brindisi, od in altri posti, pur in apparenza utili, possono sembrare solo strumenti di propaganda politica e di speculazione economica per attingere ai progetti PON o POR;
ha invitato ad una collaborazione reale la Camera di Commercio e le associazioni di categoria attraverso l’accesso ai Cofidi o gli Interfidi per superare l’ostacolo della mancata fruizione di finanziamenti dalle banche, per evitare il fallimento delle aziende o l’accesso al mondo usuraio dei cittadini.
In virtù di tali atti e proposte, quindi, si spera in una collaborazione senza oneri per lo Stato e che non sia solo di stampo burocratico, con la creazione di un Pool informale con il delegato dell’ufficio competente presso la Prefettura territoriale; con il responsabile della locale Camera di Commercio, Industria, Agricoltura ed Artigianato, in rappresentanza delle categorie sociali ed economiche; con il magistrato delegato ai reati specifici; con la presente associazione che telematicamente aiuta i bisognosi sul territorio a trovare una sponda istituzionale per risolvere i loro problemi. Insomma, noi abbiamo bisogno da parte dello Stato di avere un solo nome presso cui convogliare le innumerevoli richieste di aiuto, per ovviare altresì ai disservizi esistenti nel sistema. Quel nome istituzionale, territorialmente, deve garantire: procedibilità della denuncia fondata presentata; immediato accesso ai finanziamenti dei Cofidi e Statali od ai risarcimenti di legge; tempestiva interruzione dei procedimenti giudiziari esecutivi a carico dell’usurato denunciante. Crediamo che la lotta al racket ed all’usura (anche bancaria e di Stato) non debba essere fatta solo di chiacchiere, ma deve essere sostenuta da atti concreti, che a quanto pare nessuno vuole adottare. La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l’abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall’inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.»
Mai dire Antimafia...
MAI DIRE ANTIMAFIA.
«Mai dire antimafia» scrive Antonio Giangrande, il noto autore di saggi sociologici che raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema e presidente nazionale di una associazione antimafia.
«Il mio intento è dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono – spiega Antonio Giangrande – Quando Luigi Vitali, noto avvocato brindisino, era sottosegretario alla Giustizia col Governo Berlusconi ed Alfredo Mantovano, noto magistrato leccese, era sottosegretario agli Interni, a loro espressi il mio disappunto su come mal funzionava la giustizia nei tribunali e sull’accesso criminoso alle professioni togate e sulla censura e le ritorsioni operate dai magistrati nei confronti delle notizie a loro scomode e come tante associazioni pseudo antimafia erano sostenute in modo amicale finanziariamente, mediaticamente e politicamente a danno di altre. Addirittura alla regione Puglia è impedita l’iscrizione al registro generale alla Associazione Contro Tutte le Mafie, di cui sono presidente, per poter tranquillamente finanziare le loro associazioni amiche. Mantovano non mi ha mai risposto, Vitali ad un mia telefonata in diretta su TBM, una televisione privata di Taranto, in cui gli chiedevo cosa intendesse per Mafia, mi rispose che certamente non la intendeva come la intendevo io. Questo in modo da crearmi grande imbarazzo ed a palese tutela del sistema di potere di cui egli in quel preciso momento ne faceva parte, salvo cambiar opinione quando vittima ne diventa egli stesso. Da allora ho aspettato di sapere come effettivamente loro intendessero la lotta alla mafia ed essere degno come loro di essere dalla parte dell’antimafia. Dai fatti succeduti ed acclarati, però, penso che io avessi e continuo ad aver ragione».
“Personalmente abolirei l’udienza preliminare che è diventata, col tempo, tutt’altro di quello che aveva immaginato il legislatore. Da filtro rigoroso dei presupposti per un giudizio si è trasformata in una tappa di smistamento per il dibattimento”. Così l’ex deputato del Pdl ed ex sottosegretario alla Giustizia Luigi Vitali commenta in una nota, pubblicata su “La Gazzetta del Mezzogiorno, il rinvio a giudizio deciso dal gup di Brindisi nei confronti dello stesso ex parlamentare e di quasi tutta la maggioranza del consiglio comunale del 2012 di Francavilla Fontana (Brindisi) per presunti vantaggi ottenuti attraverso il piano locale delle farmacie. All’epoca dei fatti anche Vitali era consigliere comunale. “Sono più che sicuro – aggiunge Vitali – che non vi potrà essere nessun giudice che possa condannare i consiglieri comunali per aver esercitato, in piena autonomia e libertà, le loro prerogative. Sarebbe un colpo mortale alla democrazia. Dal fascicolo, infatti, non risulta, nonostante le puntuali, prolungate ed articolate indagini, nessun rapporto e/o contatto tra alcun consigliere comunale ed il presunto favorito dott. Rampino nè con altri farmacisti”. “Nutro massima fiducia nella giustizia e, pertanto, attendo con assoluta serenità il processo” commenta da parte sua il senatore di Forza Italia Pietro Iurlaro, anch’egli rinviato a giudizio per la stessa vicenda. “Sempre nel pieno rispetto del lavoro della magistratura – prosegue Iurlaro – trovo comunque discutibile che si possa contestare ad un consigliere comunale qualsiasi responsabilità di natura penale per aver contribuito, con un voto di natura politica, all’approvazione di una delibera dell’esecutivo che si sostiene. Almeno quando, come poi sembrerebbe che le stesse indagini abbiano appurato, non emergono in alcun modo rapporti tra gli stessi consiglieri e i farmacisti coinvolti nella vicenda”. Iurlaro si dice quindi “ottimista”, confidando che “l’intera procedura possa svolgersi in maniera serena per concludersi, infine, nel più breve tempo possibile”.
Torna la polemica sui professionisti dell’antimafia, scrive Mario Portanova su “Il Fatto Quotidiano”. Non a Palermo, ma – specchio dei tempi – a Milano. La celebre invettiva di Leonardo Sciascia contro Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere della Sera il 10 gennaio 1987 è risuonata oggi nell’aula bunker del carcere di San Vittore a Milano, nella terza udienza del “maxiprocesso” alla ‘ndrangheta lombarda scaturito dall’operazione Infinito del 13 luglio scorso. A riesumarla ci ha pensato Roberto Rallo, il legale di Giuseppe “Pino” Neri, il consulente tributario accusato di essere un uomo di vertice della criminalità calabrese trapiantata al Nord. I nuovi “professionisti dell’antimafia”, secondo l’avvocato Rallo, sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile “di processo in processo”, da Reggio Calabria a Milano, “anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati”. E così facendo “realizzano soltanto l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”, visto che in genere ricevono finanziamenti. Sono due le sigle attive contro il “pizzo” che si sono costituite al processo milanese: Sos Impresa di Confesercenti e la Federazione della associazioni antiracket e antiusura italiane, di cui è presidente onorario Tano Grasso.
Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia, scrive Angela Camuso su “Il Corriere della Sera”. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” – risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “ Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro ) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.
Antiracket, i conti non tornano scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia. Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.
Antimafia Connection.
Senza la mafia, cosa sarebbe l’antimafia?
Falcone diceva: “segui i soldi e troverai la Mafia”.
Ora avrebbe detto: “fai Antimafia e troverai i soldi…”
Le storture di un sistema sinistroide che si inventa l’espropriazione proletaria illegittima di beni privati ed il foraggiamento statale di Onlus per mantenere amici e parenti, nascondendosi dietro la demagogia della legalità.
Lunga intervista-inchiesta al dr Antonio Giangrande per capire in esclusiva con verità indicibili cosa si nasconda dentro un apparato di sistema e dietro la liturgia delle ricorrenze. Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, autore controcorrente che sull’argomento ha scritto “Mafiopoli. L’Italia delle Mafie”; “Massoneriopoli. Mafia e Massoneria”; “Castopoli. Mafia, Caste e Lobbies”; “Usuropoli e Fallimentopoli; ed infine “La Mafia dell’Antimafia.”.
Dr. Antonio Giangrande lei su quali basi può essere ritenuto un fine conoscitore della materia?
«Anni di studi, approfondimenti e ricerche per guardare il risvolto nascosto della medaglia. Per questo posso dire che la parola antimafia è lo specchio per gli allocchi, per subornare gli ingenui per fare proselitismo politico e speculazione economica. La Mafia siamo noi, se non accondiscendenti con il potere, mentre l’Antimafia è solo lo Stato (Sic!). L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà».
Dr Antonio Giangrande, le scuole non la invitano, in quanto il motto “La mafia siamo noi” non è accettato dai professori di Diritto, che sono anche, spesso, avvocati e/o giudici di pace e/o amministratori pubblici, sentendosi così chiamati in causa per corresponsabilità del dissesto morale e culturale del paese. Come se lo spiega?
«In un mondo dove sono tutti ciottiani e savianiani per convenienza, pronti a spartirsi il ricavato, mi onoro di essere il solo ad essere sciasciano e come lui processato dai gendarmi dell’antimafiosità».
A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare. In virtù degli scandali, gli Italiani dalla memoria corta, periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Cosa ha da dire?
«Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che, se ottenessero quello che chiedono, nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti».
La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra comunista per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare e queste manifestazioni pseudo antimafia, non è che sono propaganda per non far cessare il sostentamento?
«E’ difficile cambiare la situazione, tenuto conto degli interessi in campo. “I nemici principali di Giovanni furono proprio i suoi amici magistrati”. Lo ha detto Maria Falcone in un’intervista a Soul, il programma-intervista di Tv2000, condotto da Monica Mondo. E dietro la coperta giudiziaria c’è la speculazione. Libera. Gli attivisti dell’associazione creata da Don Ciotti promuovono il riuso sociale dei beni confiscati alla mafia. Alcuni di loro gestiscono in prima persona aziende agricole e agriturismi nati su terreni che un tempo erano nelle mani dei più potenti boss di Cosa nostra».
Come si diventa associazione antimafia?
«Scrive Federica Angeli l’8 settembre 2014 su “La Repubblica”, Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l’ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un “club” antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un’associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d’associazione presso l’ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all’albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all’anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c’è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l’atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull’ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: “La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparenti”. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell’Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale “416bis” o “41bis”. Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all’ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all’associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti “contro tutte le mafie”».
Prendono e non dichiarano. Quanto è grande quest’arcipelago dei No Profit antimafia?
«Non profit: i tanti Don Ciotti che battono la Mafia Spa, scrive Marco Crescenzi l’1 settembre 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. Il settore non profit è più forte economicamente e “fattura” più delle Mafie (leggi l’accurata trattazione e le fonti citate da Mario Centorrino e Pietro David in Il fatturato di Mafia Spa, Lavoce.info, ilfattoquotidiano.it. Vedi anche Bankitalia 2012), con un volume di entrate stimato di 67 miliardi di euro con un’incidenza del 4,3% sul Pil (2012), simile a quello agricolo e in deciso aumento rispetto ai dati Istat del 2001 che attestavano tale cifra a 38 miliardi. Una economia “civile” e partecipativa, con una occupazione in aumento negli ultimi 20 anni che impiega stabilmente oltre 1 milione di persone – superiore al 3% degli occupati in Italia, prevalentemente giovani, prevalentemente donne, al nord come al sud. Dati ancor più significativi se accompagnati da una quantificazione del risparmio sociale derivante dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai quattro milioni di volontari. Il non profit è quindi un potente motore culturale e di economia civile. E’ sul territorio, può controllare il territorio. In ogni caso, come diceva Falcone: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”. Già camminare…Pensi che per farvi fare i cento passi che separavano la casa di Peppino Impastato all’abitazione del suo carnefice, l’antimafia si fa pagare 60 euro. 60 centesimi a passo…In questo modo Falcone e Borsellino si rivolterebbero nella tomba e questo ti fa rimanere l’amaro in bocca.».
L’amaro in bocca?
«Sì. Perché c’è in atto un accanimento mediatico/politico atto ad instillare nei ragazzi delle scuole la convinzione che l’antimafia di sinistra è portatrice di verità e legalità e chi non è antimafioso come loro, allora si è mafiosi. E tutta questa propaganda è sostenuta dai contribuenti italiani».
Lei che conosce tutto il materiale probatorio, spieghi come fa la lotta politica a speculare sul fenomeno mafioso.
«Sin dalla morte di Falcone e Borsellino si è tentato di tenere fede ai loro insegnamenti: segui i soldi…troverai la mafia. Il fatto è che proprio l’ingordigia dei soldi ha fatto degenerare i buoni intenti. E si sono inventati tutti i tipi di sistemi per fare cassa, dietro il paravento della lotta alla mafia.
Costituzione delle ONLUS. Tante scatole cinesi vuote che però fanno capo ad associazioni di rilevo sostenuti da media e sinistra. Mafia onlus, scrive Barbara Di su “Il Giornale” il 16 maggio 2017. La mafia va dove c’è ampio margine di guadagno. Da sempre hanno un fiuto per gli affari impareggiabile. Che sia droga, prostituzione, usura, scommesse o pizzo, quando c’è da guadagnare tanto loro non mancano mai. D’altronde sono ambiti dove l’evasione fiscale è inevitabile e sistematica per cui il guadagno è triplo rispetto ai tartassati italiani. Non puoi mica far fattura per la cocaina. Ma di certo sono decenni che non si accontentano delle loro attività illecite tradizionali e spaziano dove possono trovare guadagni facili con la minima spesa. E guarda caso ci sta sempre di mezzo il denaro pubblico.
Le Onlus e la speculazione sui migranti. Migranti: le Ong tra volontariato e business. Quali sono le differenze e i compiti delle non governative, come si distinguono dalle “sorellastre” governative e da quelle criminali, scrive Nadia Francalacci il 4 maggio 2017 su “Panorama”. Le parole di Zuccaro all’Antimafia. Il 9 maggio 2017 Zuccaro, procuratore di Catania, è stato convocato in Commissione Antimafia. “È sbagliato ritenere che la mafia operi dovunque, perché così rischiamo di aumentare l’aurea di onnipotenza”, ha detto. “Non ritengo ci siano rapporti diretti tra le organizzazioni criminali che controllano il traffico di migranti e le nostre mafie locali”, ma “c’è una massa di denaro destinata all’accoglienza che attira gli interessi delle organizzazioni mafiose e dico questo sulla base di risultanze investigative”. Appunto. Mafia Capitale, Buzzi: “Con immigrati si fanno molti più soldi che con la droga”. Uno dei settori in cui la “cupola” era più influente era quello delle politiche sociali: Luca Odevaine, membro del Tavolo di coordinamento nazionale sull’immigrazione, al telefono spiega: “Avendo questa relazione continua con il Ministero, sono in grado un po’ di orientare i flussi”. Il braccio destro di Carminati: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?” Scrive Marco Pasciuti il 2 dicembre 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. I clandestini? Valgono 20 milioni. Succede a Isola Capo Rizzuto, dove c’è il centro d’accoglienza più grande d’Italia. Ora ha 1500 posti, con la ripresa estiva degli sbarchi diventeranno 2000. Aumentando il business che gira intorno ai migranti, scrive Gianfrancesco Turano l’11 aprile 2013 su “L’Espresso”. Cantone e migranti: nei Cara bandi costruiti per escludere concorrenza. Il presidente dell’autorità anti corruzione in commissione racconta anni di lavoro, situazioni in cui false onlus create da pregiudicati ospitavano migranti in cantine. Considerare l’accoglienza un’emergenza è ridicolo, è questione di organizzazione”, scrive Caterina Pasolini il 18 maggio 2017 su “La Repubblica”. “Quello per il Cara di Mineo “ci sembrò un bando costruito per escludere la concorrenza”, era “il classico bando costruito su misura”, addirittura “mancava soltanto che indicassero anche il nome del vincitore” e “quando sollevammo i dubbi ci fu un vero e proprio fuoco di sbarramento contro il nostro provvedimento, che fu oggetto anche di attacchi in alcune audizioni parlamentari. Valuteremo l’ipotesi di commissariamento del Cara di Crotone”. Lo ha detto il presidente dell’Autorità nazionale anti corruzione, Raffaele Cantone, in audizione presso la commissione parlamentare di inchiesta sul Sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione. “Attualmente il bando è ancora commissariato, non ce n’è uno nuovo”, ha aggiunto facendo un quadro della situazione nazionale, passando da realtà regionali che hanno visto coinvolti appalti, situazioni mafiose, sfruttamento di lavoratori, organizzazioni del terzo settore. E ripete come ci sia bisogno di fare appalti divisi per capitoli per evitare situazioni “patologiche” e la necessità di controlli “. Parla con puntualità, del lavoro fatto dall’Autorità anti corruzione. Racconta delle ispezioni al Cara di Catania che ancora prima di Mafia Capitale avevano evidenziato “che il settore servizi sociali, medaglia di quel volontariato così forte in Italia, era stato macchiato da interessi. ‘Ndrangheta, assalto ai fondi Ue e all’affare migranti; 68 arresti. Coinvolti un sacerdote e il capo della Misericordia. Operazione della Dda di Catanzaro contro il clan Arena che controllava il Cara più grande d’Europa. Le accuse: associazione mafiosa, estorsione, porto e detenzione illegali di armi, malversazione ai danni dello Stato, truffa aggravata, frode in pubbliche forniture. Al sacerdote 132 mila euro in un anno per “assistenza spirituale”, scrivono Alessia Candito e Fabio Tonacci il 15 maggio 2017 su “La Repubblica”. Don Scordio, da eroe antimafia alle manette. Il prete simbolo della lotta ai clan prendeva 132mila euro per assistere i migranti, scrive Andrea Cuomo, Martedì 16/05/2017, su “Il Giornale”. Quando Gratteri elogiava don Scordio, scrive Stefano Arduini il 16/05/2017, su “Vita”. Il magistrato che ha lanciato l’operazione Jonny contro il clan Arena che controllava il Cara di Crotone nell’ottobre del 2013 dava alle stampe un libro sui rapporti fra chiesa e ‘ndrangheta nel quale fra i religiosi citati come esempi positivi compariva don Edoardo Scordio oggi fermato e accusato di crimini gravissimi insieme all’ex governatore della Misericordia di Isola Capo Rizzuto.
La gestione dei beni confiscati. Beni che spesso sono stati illegittimamente sottoposti a confisca e mai restituiti. Libera, da gestione dei beni confiscati a finanziamenti alle coop, ecco tutti i fronti della guerra interna all’Antimafia. L’attacco del pm anticamorra Catello Maresca all’associazione fondata da Don Ciotti è solo l’ultimo capitolo di una lunga querelle. Al centro della polemica c’è la torta da 30 miliardi dei beni sequestrati alle associazioni criminali: l’accusa di Maresca, che ricalca quella del prefetto Giuseppe Caruso, è che vengono amministrati dalla galassia legata a Libera “in regime di monopolio”, scrive Giuseppe Pipitone il 19 gennaio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. L’ultimo attacco è arrivato da Catello Maresca, stimato pm anticamorra, che ha accusato Libera di aver acquisito “interessi di natura economica”. “Gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”, è stato il j’accuse del magistrato, che ha ricevuto a sua volta la promessa di una querela da parte di don Luigi Ciotti. Due mesi prima l’associazione guidata dal sacerdote torinese era invece finita sotto il fuoco incrociato delle polemiche dopo l’addio di Franco La Torre, il figlio di Pio, il senatore del Pci assassinato da Cosa nostra, ideatore della legge che introduce la confisca dei beni ai boss mafiosi. “Mi hanno cacciato con un sms, don Luigi è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario”, aveva detto La Torre, lamentando una carenza di democrazia dentro Libera, dove “qualcosa non va nella catena di montaggio”. Sono solo gli ultimi due fronti aperti intorno all’associazione fondata nel 1995 dal leader del Gruppo Abele, ma sono anche gli ultimi due episodi di una violenta guerra intestina esplosa nel mondo dell’Antimafia. Il casus belli? 30 miliardi di beni confiscati a Cosa nostra – Prima ci sono state le querelle tra la stessa Libera e il Movimento 5 Stelle per la questione della spiaggia di Ostia, le dimissioni da direttore dell’associazione di Enrico Fontana a causa di un incontro con due politici finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale, le indagini che hanno colpito alcuni tra i principali presunti frontman delle legalità tra magistrati e imprenditori e una torta da trenta miliardi di euro che sembra essere diventata il vero casus belli della faida a colpi di accuse e veleni che ha travolto la galassia dell’antimafia. A tanto ammonta il valore che hanno oggi i beni sequestrati dallo Stato alle associazioni criminali: un vero e proprio tesoro, che immesso nel mondo delle coop e delle associazioni antimafia sembra averlo corroso dall’interno. Appena un anno fa, il ministro Angelino Alfano aveva nominato Antonello Montante tra membri del comitato direttivo dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che gestisce 10.500 immobili, più di 4.000 beni mobili e circa 1.500 aziende. Poi dopo essere finito indagato per concorso esterno a Cosa nostra, il numero uno di Confindustria Sicilia si è autosospeso dalla carica. Ed è proprio all’interno dell’Agenzia dei beni confiscati che si consuma il primo strappo sul fronte della lotta a Cosa nostra: è il 5 febbraio del 2014 e il prefetto Giuseppe Caruso, all’epoca al vertice dell’Agenzia, viene ascoltato dalla commissione Antimafia. E in quella sede ribadisce le sue accuse agli uomini d’oro, e cioè gli amministratori giudiziari, sempre gli stessi, nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati in cambio di parcelle a sei zeri. “Queste sono affermazioni gravi. Se non sono sue, signor prefetto, lei deve fare una smentita ufficiale molto seria e vedersela con il giornale e con i giornalisti”, lo redarguì la presidente di San Macuto Rosi Bindi, accusandolo di delegittimare le istituzioni con le sue affermazioni. La rivincita per Caruso arriverà solo un anno e mezzo dopo, quando l’inchiesta della procura di Caltanissetta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, svela l’effettiva esistenza di un cerchio magico fatto di favori e prebende all’ombra dei beni confiscati ai boss. In quei giorni era stato lo stesso Luigi Ciotti a lanciare l’allarme: “L’antimafia – aveva detto – è ormai una carta d’ identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Adesso, invece, è proprio Libera ad essere finita al centro delle polemiche, con la Bindi che anche in questo caso ha difeso a spada tratta il sacerdote torinese, definendo “ingiuriose” le parole di Maresca. Una è l’accusa principale che viene rivolta a Libera: essersi trasformata da associazione nata per guidare la riscossa della gente perbene contro Cosa nostra a holding che gestisce bilanci milionari, progetti, incarichi, finanziamenti. E in effetti, basta dare uno sguardo ai numeri per rendersi conto che oggi Libera è molto cresciuta: a vent’anni dalla sua fondazione, è ormai una galassia che raccoglie oltre 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss e ha un fatturato che supera i 5 milioni di euro all’anno. “È stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa”, è uno dei tanti passaggi della discussa intervista del pm Maresca».
Ma è la mancanza di fondi economici per operare a far sì che l’antimafia tende a delinquere per sostenersi? Cosa si inventa l’apparato di sinistra per sostenere l’antimafia per speculare economicamente e politicamente sulla mafia?
«L’antimafia è un pozzo senza fondo dove la politica di sinistra arraffa a mani basse. Pioggia di milioni sull’antimafia. Non sono i valori morali che li spingono, ma quelli monetari. Ed i migranti sono uno strumento per arraffare ancora di più. Antimafia s.p.a. Gli espedienti di approvvigionamento economico sono: I Pon Sicurezza, la gestione dei beni confiscati, i finanziamenti alle Coop, i finanziamenti privati e pubblici, il 5Xmille. Così la legalità è diventata un business. Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici, scrivono Lidia Baratta e Luca Rinaldi il 13 Maggio 2016 su “L’Inkiesta”. I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi. In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand. «Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari… Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia». Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”. Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l’ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa». Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici. Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto. Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia. Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime. Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito. Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non. Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato. A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate. La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea. E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose»».
Vediamo per favore le voci d’incasso. Una per una?
«I PON SCUOLA. Punto forte del proselitismo antimafioso di sistema. Il regime elargisce fondi per far parlare, nelle aule ai ragazzi ingenui, oratori omologati e conformati. L’antimafiosità non si può permettere di inculcare nei giovani la verità sullo stato delle cose e farli evolvere nel futuro. Per gli “onesti” di sinistra bisogna crescere automi, affinchè ideologie vetuste siano sempre contemporanee. Quanto costa la scuola d’antimafia. I finanziamenti del ministero, scrive Salvo Toscano Giovedì 16 Giugno 2016 su Live Sicilia. Follow the money, diceva Gola Profonda in Tutti gli uomini del Presidente. Segui i soldi, una lezione che i grandi investigatori in prima linea contro la mafia fecero propria tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, per infliggere colpi durissimi ai boss. Oggi, quasi per un beffardo contrappasso, il tema del “seguire i soldi” torna d’attualità, tra le polemiche, quando si parla d’antimafia. Soldi, tanti soldi piovuti su un sottobosco variopinto che sotto diverse forme ha beneficiato di un ingente flusso di denaro pubblico. Stanziato di certo con le migliori intenzioni. Un tema, quello della “antimafia spa”, di cui s’è parlato non solo nei commenti e negli editoriali che predicano il ritorno all’antimafia “scalza” (la definizione è di Claudio Fava), ma anche nelle sedi istituzionali. La commissione Antimafia dell’Ars, ad esempio, ha avviato un’indagine sui contributi statali, regionali ed europei incassati dalle associazioni antiracket e antiusura in questi anni per capirne meglio l’utilizzo. Un’indagine “per verificare i contributi pubblici percepiti, il fatturato delle aziende confiscate gestite e l’utilizzo dei fondi del Pon sicurezza” che è ancora alle prime battute, spiega il presidente Nello Musumeci. Ma anche l’Antimafia nazionale ha affrontato il tema. La commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi da tempo ha avviato una serie di audizioni per scandagliare il variegato mondo dell’antimafia. Tra le altre audizioni quella del giornalista Attilio Bolzoni, che, sentito dai commissari di San Macuto, dopo essersi a lungo soffermato sulla Confindustria siciliana analizzando criticamente la sua svolta “legalitaria”, ha allargato il discorso al “mondo associativo e all’antimafia sociale”, che “sopravvive fra liturgie e litanie e soprattutto grazie a un fiume di denaro – diceva Bolzoni ai commissari –. Tutto ciò che conquista lo status di antimafia certificata si trasforma in milioni o in decine di milioni di euro, in finanziamenti considerevoli a federazioni antiracket, in uno spargimento di risorse economiche senza precedenti e nel più assoluto arbitrio”. Lo “spargimento di risorse economiche” passa, spiegava il giornalista, anzitutto dai Pon, i Programmi Operativi Nazionali di sicurezza del Ministero dell’interno. E poi dal Ministero dell’istruzione, che, ha “distribuito milioni e forse anche decine di milioni a scuola e che poi smistava quelle somme ad associazioni sul territorio sulla base di legami e patti”, diceva Bolzoni. Proprio quell’audizione ha spinto il Ministero dell’Istruzione a rispondere con una dettagliata missiva inviata alla Commissione Antimafia dal direttore generale Giovanna Boda, in cui veniva descritta nel dettaglio l’attività di sostegno economico a iniziative per diffondere la cultura della legalità nelle scuole. Tanta roba, più di quattro milioni all’anno. Destinati a iniziative di grande respiro come le commemorazioni del 23 maggio ma anche a piccoli progetti portati avanti dalle scuole. Somme che sono però poca cosa rispetto alle più ingenti risorse gestite con analoghe finalità dal ministero dell’Interno, tra le quali, appunto, quelle del Pon Legalità che per la programmazione 2014-2020 ha una dotazione di 377 milioni. Insomma, tra Roma e Palermo l’Antimafia istituzionale vuole vederci chiaro sull’ombra del business che si è affacciata sull’antimafia dei movimenti, una galassia che in questi anni è cresciuta a dismisura, assumendo in certi casi le sembianze della holding, dell’ufficio di collocamento o magari della claque per l’icona del momento. La prima puntata del viaggio nel mondo del denaro destinato all’antimafia parte quindi proprio dal Ministero dell’Istruzione, che sul tema offre tempestivamente informazioni precise e molto dettagliate. E utili a evitare generalizzazioni. I soldi alle scuole. In totale per l’anno scolastico appena concluso il Ministero della Pubblica Istruzione ha stanziato più di quattro milioni. Di questi, 3,4 milioni sono stati erogati attraverso un bando pubblico per il finanziamento di 1.139 progetti educativi sul tema della promozione della cittadinanza attiva e della legalità realizzati su tutto il territorio nazionale. La media degli stanziamenti quindi è di circa 3mila euro per progetto. L’anno precedente per questa stessa voce c’era ancora di più: 4 milioni e 200mila euro. La parte del leone la fanno le scuole siciliane che quest’anno si sono accaparrate più del 16 per cento delle risorse disponibili (seconda la Campania). I soldi vanno alle scuole che a loro volta li utilizzano per le attività finalizzate a diffondere la cultura della legalità, che magari coinvolgono vari attori del territorio – è qui che possono entrare in scena varie associazioni antimafia, antiracket e via discorrendo –, sotto il monitoraggio e il controllo del Miur. I progetti sono i più svariati e riguardano argomenti legati alla promozione della legalità con il coinvolgimento degli studenti. Le stesse scuole possono attingere a loro volta, oltre che ai fondi del Miur, anche a finanziamenti di altri ministeri (come il Viminale) o regionali o degli enti locali (per quelli che ancora hanno qualche spicciolo da spendere). I bandi. A questi 3 milioni e mezzo si aggiungevano nel 2015 altri 840mila euro che attingono a un altro capitolo di bilancio. Di questi, 100 mila euro hanno finanziato un altro bando pubblico per sostenere attività in accordo con associazioni impegnate sul campo dell’educazione alla legalità in tutta Italia, assegnando a ciascuna delle realtà selezionate piccoli stanziamenti compresi tra i quattro e i settemila euro. Tra i beneficiari le fondazioni Rocco Chinnici e La Città Invisibile (7.200 euro per creare un’orchestra che coinvolge i bambini delle aree a rischio dell’hinterland catanese), l’Auser di Augusta e l’Acmos (7.470 euro per attivare laboratori didattici sul gioco d’azzardo all’interno di beni confiscati). I restanti 740 mila euro di questa voce (“Spese per iniziative finalizzate a promuovere la partecipazione delle famiglie e degli alunni alla vita scolastica. Spese per il sostegno del volontariato sociale”) vanno alle attività di interesse nazionale organizzate dalla Fondazione Falcone (490mila euro) e Associazione Libera (250). Queste le cifre del 2015, quest’anno il contributo alla Fondazione Falcone è sceso a 400mila euro e quello a Libera a 150mila euro. I protocolli d’intesa. Le somme impegnate dal ministero per le attività realizzate insieme a Fondazione Falcone e Libera (740mila euro nel 2015, 550mila nel 2016) sono stanziate in base alle convenzioni che danno attuazione ai protocolli d’intesa sottoscritto dal Miur con questi due soggetti. La convenzione con Libera, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti, finanzia la Giornata della Memoria delle vittime delle mafie, che si celebra ogni anno in una città diversa il 21 marzo con partecipazioni da tutta Italia e la presenza di migliaia di studenti. I fondi per la Fondazione Falcone finanziano le iniziative del 23 maggio e gli altri eventi analoghi organizzati per tenere viva la memoria del magistrato ucciso a Capaci (quest’anno oltre a Palermo erano coinvolte altre sei “piazze” in Italia). “Facile dunque comprendere che non si tratta di generose elargizioni a favore di Associazioni che non hanno alcun obbligo di rendicontazione”, ha scritto al riguardo il Ministero alla Commissione Antimafia. “Come vengono dunque spesi i soldi? Per assicurare l’organizzazione, la sicurezza, il ristoro di tutti i partecipanti – si legge nel documento del Miur –. Se si calcola quindi circa 20.000 partecipanti (per il 23 maggio, ndr) lo stanziamento prevede un costo persona pari a circa 25 euro (analogo il costo per persona per l’iniziativa di Libera, ndr) che devono coprire rimborsi spese, pranzo e merenda, allestimenti stand, palchi, sicurezza, stampe, eccetera”. Le manifestazioni del 23 maggio hanno coinvolto negli anni decine di migliaia di studenti italiani avvicinando generazioni alla conoscenza dei valori incarnati da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Abbiamo cercato di portare avanti un movimento culturale che coinvolga tutti i giovani d’Italia – spiega Maria Falcone, sorella di Giovanni e da sempre anima della Fondazione – per portare avanti i valori nei quali hanno creduto Giovanni, Francesca, Paolo. Ai ragazzi il messaggio della legalità arriva più forte grazie all’accostamento di queste figure. E il ministero ha sempre creduto in questo lavoro, a prescindere dal colore politico”. E lo stesso ministero ricorda nel documento sopra citato come Falcone e Borsellino si fossero espressi sulla sfida “culturale” che la mafia impone alla società. Le altre attività nelle scuole. Il ministero della Pubblica Istruzione, inoltre, realizza altre attività per diffondere la cultura della legalità nelle scuole in forza di convenzioni sottoscritte con vari soggetti, dal Csm all’Autorità Anticorruzione, dalla Federazione Nazionale della Stampa all’Anm. Sulla base di queste carte d’intenti, gli esperti dei partner del ministero vanno gratuitamente nelle scuole per parlare agli studenti di legalità. Anche le convenzioni possono avere dei costi: il Miur nella sua lettera all’antimafia allega a titolo d’esempio la convenzione con l’Università di Pisa per la realizzazione di un “piccolo Atlante della Corruzione”, progetto che ha un costo di 35mila euro.
I PON SICUREZZA. La pioggia di milioni sull’Antimafia. Ecco i fondi del Pon Sicurezza, scrive Domenica 17 Luglio 2016 Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Seconda puntata del viaggio sui finanziamenti destinati all’antimafia. La fetta più grossa è quella gestita dal ministero dell’Interno. Una valanga di soldi. Che innaffiano il prato sempre verde dell’antimafia. Un campo diventato ricco negli ultimi anni. Grazie a diverse fonti di finanziamento. Tra le quali spiccano le ingenti risorse del Pon sicurezza gestito dal ministero dell’Interno. Che in questi anni ha finanziato con quelle somme, oltre a diversi interventi per potenziare la sicurezza del territorio, anche, indirettamente, la galassia dell’antimafia organizzata, quella dell’associazionismo. Con le ingenti risorse del Pon, infatti, oltre a campetti da calcio e piscine, si sono finanziate iniziative legate all’utilizzo dei beni confiscati, vini, cartoni animati, botteghe della legalità, fiere. Un mese fa avevamo intrapreso il viaggio nel vasto mondo dei soldi dell’antimafia partendo da quelli erogati dal ministero dell’Istruzione. La seconda puntata si affaccia ora su risorse ben più cospicue. Quelle, saldamente nelle mani del ministero dell’Interno guidato da Angelino Alfano, del Programma Operativo Nazionale per la Sicurezza. Per il quale è in rampa di lancio la nuova programmazione settennale. Per questa nuova tornata in ballo ci sono 377 milioni di euro. A tanto ammonta la dotazione del Pon Legalità 2014/2020, che è stato presentato nel marzo scorso. Un tesoro che sarà gestito dal Viminale. Così come quello ancora più cospicuo della precedente programmazione. Ottenere informazioni dal ministero dell’Interno sul tema non è stato facile. Sono state necessarie un paio di email, altrettante telefonate e una lunga attesa per riuscire a sapere, alla fine, dall’ufficio stampa che le informazioni sul Pon si possono trovare sul sito Internet del Pon (sicurezzasud.it). Punto. Un flusso di informazioni menofluido rispetto al ministero dell’Istruzione che ha messo tempestivamente a disposizione di Livesicilia in tempi stretti tutti i dettagli delle somme stanziate per le iniziative su legalità e antimafia che coinvolgono gli studenti (leggi l’inchiesta). Per le ben più abbondanti somme gestite dagli Interni, che hanno distribuito a soggetti istituzionali una pioggia di finanziamenti destinati anche al variegato universo delle sigle “legalitarie” e antimafia, bisogna quindi districarsi tra i tanti documenti pubblicati sul ricco sito Internet del Pon Legalità 2007-2013. Il programma ha portato in dote per Calabria, Campania, Puglia, Sicilia addirittura 852 milioni, tra fondi europei e nazionali. L’ultimo rapporto annuale di esecuzione pubblicato è quello relativo al 2013. Al 31 dicembre di quell’anno il totale delle spese ammissibili certificate sostenute dai beneficiari del Programma, che sono tutti soggetti istituzionali, ammontava a poco meno di 500 milioni, che corrispondono al 58% della dotazione finanziaria complessiva. Gli ultimi rilevamenti della scorsa primavera, scriveva a marzo il Sole24Ore, davano gli impegni di spesa all’86,3 per cento, un po’ indietro rispetto alla media dei fondi strutturali. I fondi sono destinati a finanziare una serie di voci legate alla legalità, tra cui anche quelle che mirano a tutelare la sicurezza dei cittadini o quelle che puntano a “realizzare iniziative in materia di impatto migratorio” (ad esempio a Ragusa a marzo di quest’anno sono partite le attività all’interno del Centro Polifunzionale d’informazione e servizi per migranti finanziato dal Pon con un importo di 1.950.000 euro) o ancora quelle rivolte ai giovani per diffondere la cultura legalità. Per questa voce, ad esempio, è stato varato negli scorsi anni un programma specifico rivolto alla Sicilia con un milione e mezzo a disposizione, che ha finanziato tra l’altro il progetto “In campo per la legalità” per creare un cento di aggregazione giovanile a Catania (oltre 800mila euro l’investimento), due centri analoghi sui Nebrodi a Torrenova e San Fratello (nel locale che ospita la biblioteca intitolata al nonno di Bettino Craxi), la manutenzione straordinaria di un campo polifunzionale e della piscina comunale di Racalmuto (372mila euro, l’impianto non è ancora entrato in attività) e nello stesso comune dell’Agrigentino la “valorizzazione e ampliamento della capacità ricettiva del teatro comunale “Regina Margherita” (intervento effettuato ma il teatro ancora non funziona perché mancano una serie di misure sulla sicurezza della struttura). Tra le attività realizzate nel 2012 il rapporto mette in evidenza la partecipazione ai campi estivi nei beni confiscati di Libera, la partecipazione al Prix Italia, la partecipazione con uno stand alle celebrazioni del 23 maggio a Palermo. Sempre nel 2012 è stato finanziato con poco meno di 100mila euro un progetto per dare vita a un centro di aggregazione giovanile a Lentini (Siracusa) per contrastare fenomeni di dipendenza. Tra i beneficiari istituzionali dei finanziamenti c’è l’Ufficio del Commissario straordinario antiusura ed antiracket, che sostiene la galassia di associazioni antipizzo proliferate negli ultimi anni in giro per l’Italia. Sul sito del Viminale l’ufficio del Commissario antiracket ne accredita 120, e quasi la metà ha sede in Sicilia. Una per esempio ha visto la luce nel 2014 a Castelvetrano, in provincia di Trapani, nel paese d’origine di Matteo Messina Denaro. Un battesimo sostenuto dal Pon attingendo alle ricchissime risorse messe a disposizione per questo genere di iniziative. Nel giorno del battesimo dell’associazione di Castelvetrano ne nasceva un’altra a Ragusa e pochi mesi prima ne erano sorte altre due, a Vittoria e Niscemi. Per il solo progetto “Consumo critico antiracket: diffusione e consolidamento di un circuito di economia fondato sulla legalità e lo sviluppo” c’è un tesoretto da un milione e mezzo: beneficiario è l’Ufficio del Commissario straordinario del governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura in partenariato con l’associazione Addiopizzo. È attingendo a questi fondi ad esempio che si finanzia la Fiera del consumo critico di Palermo. Ma gli interventi finanziati nell’ambito del Pon spaziano da quelle relative al vino prodotto sui beni confiscati e gestiti da Libera Terra alla coproduzione di un cartoon sulla vita di Padre Puglisi. E ancora al riutilizzo dei beni confiscati. Come quello nel centro storico di Corleone un tempo appartenente alla famiglia Provenzano in cui nel 2010 è stata inaugurata la Bottega della Legalità, dove commerciare i prodotti delle cooperative che lavorano nei terreni confiscati alla mafia. Per l’inaugurazione si fecero vedere a Corleone i ministri Alfano e Maroni, vertici delle forze dell’ordine, sottosegretari e l’immancabile Don Ciotti. Ora si apre la stagione dei nuovi fondi. La prima dopo la crisi d’immagine dell’antimafia organizzata, che proprio sull’utilizzo dei ricchi fondi di cui ha beneficiato ha collezionato pagine imbarazzanti. Tanto da attrarre su di sè l’attenzione delle commissioni Antimafia di Roma e Palermo.
Hanno il monopolio e dettano legge. Le ultime parole famose. Parla il leader della Fai: “La normativa per costituirle non va bene”. Il Commissario straordinario: “Alcune non ci convincono. C’è chi ci marcia”. Antiracket, rischi truffe per le associazioni. Grasso: “I controlli sono insufficienti”, scrive Francesco Viviano l’1 novembre 2007 su “La Repubblica”. “Alcune associazioni antiracket non ci convincono molto e sono sotto osservazione”. La traduzione di questa affermazione, fatta dal Prefetto Raffaele Lauro, Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket ed antiusura, è che attorno ad alcune di queste associazioni “c’è chi ci marcia”. Perché il business è davvero grosso. Basti pensare che tra gennaio ed agosto scorso il Commissario straordinario antiracket ha erogato 17 milioni e 431 mila euro per le vittime dell’usura e del racket. Ma c’è un altro dato che fa riflettere. Sempre da gennaio ad agosto scorso, più della metà delle domande presentate da “vittime” del racket e dell’usura, sono state respinte. Su 214 richieste, 111 hanno avuto risposta negativa. Non solo ma alcune associazioni antiracket sono nel mirino delle magistratura. Un esempio per tutti, quella di Caltanissetta il cui presidente, Mario Rino Biancheri si è dovuto dimettere per un ammanco di 100 mila euro dalle casse dell’associazione. E la Procura ha avviato un’indagine indagando Mario Rino Biancheri. Il boss Antonino Rotolo, per esempio, nelle conversazioni intercettate dalla polizia, suggeriva ad un estorto di iscriversi all’antiracket così non avrebbe avuto problemi.
Tano Grasso, che sta succedendo dentro e fuori le associazioni antiracket? I fondi fanno gola a molti e qualcuno ci specula sopra. E’ così?
“Il punto è che è inadeguata la normativa per il riconoscimento delle associazioni; oggi la norma prevede che cinque o sei persone si mettono assieme e fanno un’associazione purché non abbiano precedenti penali e chiedono il riconoscimento in prefettura”.
Qual è il ruolo delle associazioni e quali “vantaggi” hanno?
“Nel sud Italia sono 80, complessivamente circa 200 e chi ottiene il riconoscimento viene iscritto nell’albo prefettizio e questo consente di accedere a dei fondi per iniziative e progetti. Però il problema è che l’associazione antiracket è una cosa delicatissima perché è una struttura che dovrebbe gestire la speranza e la sicurezza delle persone perché sono nate per garantire la sicurezza. Tutti quelli che hanno denunciato non hanno mai subito un atto di rappresaglia”.
Ma, come teme il prefetto Lauro, c’è qualcosa che non va in alcune associazioni?
“Ripeto, la norma per la loro costituzione è assolutamente inadeguata, non basta un controllo formale sui requisiti personali, un’associazione ha senso solo se tu muovi le denunce, li accompagni dalle forze dell’Ordine e li assisti in tribunale”.
Invece?
“Io posso parlare per quelle che aderiscono alla Fai (Federazione Antiracket Italiane) di altre non so anche se ho sentito dire che alcune associazioni, almeno fino ad ora, si occupano di fare convegni ed altre attività… Bisogna vedere cosa fanno le associazioni, quante costituzioni di parte civile hanno fatto, quante persone hanno fatto denunciare. Sono elementi di valutazione importantissime”.
Ci sono associazioni che fanno pagare un po’ troppo l’iscrizione agli associati, alle vittime del racket, alcune anche 400 euro.
“Le associazioni che aderiscono alla Fai sono composte tutte di volontari e le nostre fanno pagare quote veramente minime, dai 10 ai 30 euro ma tutti i servizi sono gratis e molte nostre associazioni non navigano certo nell’oro. La Fai, per esempio, ha un bilancio di 5-6 mila euro l’anno”.
Il rischio della truffa c’è? Ci sono vittime od associazioni che non sono del tutto trasparenti? Il numero delle richieste di risarcimento da parte di presunte vittime che è stato respinto dal Commissario per l’Antiracket è superiore di quelle accolte. Questo lascia pensare che non tutto è perfettamente in regola.
“Il rischio della truffa potrebbe esserci ma il controllo, e lo dimostrano appunto le richieste di risarcimento respinte, è minimo”.
Ma la realtà è un’altra. Palermo, un audio scuote i 5 stelle: “Forello dettava legge sui soldi di Addiopizzo”. Un ex socio del comitato racconta a Nuti e ad altri deputati di parcelle e affari. La registrazione finisce sul web. L’ira del candidato: “Solo falsità”, scrivono Emanuele Lauria e Claudio Reale l’8 maggio 2017 su “La Repubblica”. Un audio di trenta minuti che mette in circolo nuovi veleni nella campagna elettorale dei 5 stelle. Viene rilanciato da alcuni profili Twitter, finisce su YouTube, riaffiora in un numero imprecisato di punti dell’universo del web. Dentro, ci sono accuse pesanti nei confronti del candidato sindaco Ugo Forello e del suo modo di gestire Addiopizzo, l’associazione da lui presieduta sino all’anno scorso. C’è il racconto della vita di una delle organizzazioni antimafia più attive, fatto da un insider, da un ex socio fuoriuscito con altre 18 persone nel 2009. A parlare è Andrea Cottone, attuale componente dello staff della comunicazione di M5S alla Camera. E attorno a lui, in una stanza di Montecitorio, ci sono Riccardo Nuti e i deputati palermitani a lui vicini. Siamo nel luglio del 2016, i cosiddetti “monaci” sono già in allarme per la possibile candidatura di Forello. E chiedono a Cottone dettagli (e documenti) sull’attività dell’avvocato leader di Addiopizzo. Il giornalista è puntiglioso. Parla dell’influenza che, nella fase iniziale, sul movimento avrebbe esercitato l’ex commissario antiracket Tano Grasso (“Un fantasma che muove tutte queste persone”), parla soprattutto dei compensi che Forello e un paio di legali a lui vicini avrebbero percepito nei processi innescati dalle testimonianze degli imprenditori taglieggiati. Parla di “un circuito meraviglioso” per il quale “si convincono gli imprenditori a denunciare, si portano in questura e gli avvocati diventano automaticamente uno fra Forello e Salvatore Caradonna”. Poi Addiopizzo si costituisce parte civile “e viene difesa da quell’altro”. Poi come parte civile i vertici dell’associazione chiedono i rimborsi “e se li liquidano loro stessi”. “Geniale”, commenta la deputata Chiara Di Benedetto. Gli altri deputati annuiscono, mostrano di trovare conferma ai loro sospetti. Al centro di quello che sembra una specie di interrogatorio di Cottone da parte dei parlamentari finisce anche la gestione definita “poco trasparente” dei fondi (un milione di euro) del Pon Sicurezza. E quel presunto conflitto di interessi degli esponenti di Addiopizzo, presenti sia nel comitato del ministero degli Interni che gestisce il fondo per i risarcimenti agli imprenditori estorti sia appunto nei collegi difensivi degli imprenditori stessi: una doppia presenza che era già stata avvistata in commissione antimafia nel 2014 e che farà poco più avanti parte di una denuncia pubblica del deputato Francesco D’Uva. “Nessuno ha pensato di denunciare queste cose? Perché Addiopizzo non si può toccare”, dice Giulia Di Vita. Il clima, fra i “nutiani” è di insofferenza crescente. E diventa rovente con la considerazione che gli esponenti di Addiopizzo avevano nel frattempo invaso M5S: “Noi rappresentiamo un involucro da riempire”, commenta Nuti. E quasi con sorpresa, durante il dibattito, i deputati “scoprono” di avere molti rappresentanti di Addiopizzo nei propri staff. “È un fatto molto grave”, ancora Nuti. “Siamo stati scalati”, fa notare Cottone. L’ex capogruppo si mostra preoccupato per il fatto che, di lì a poco, l’assemblea dei grillini palermitani avrebbe scelto Forello o uno del suo gruppo come candidato sindaco. Ecco l’invito a Grillo a intervenire per bloccare l’assemblea e procedere invece con il voto online. La situazione sarebbe esplosa in autunno, con il caso delle firme false, l’inchiesta e le sospensioni di Nuti, Di Vita e Claudia Mannino. La campagna elettorale di M5S è partita con un movimento spaccato. Ora, qualcuno, ha messo in rete l’audio che imbarazza Forello e il suo gruppo. Chi l’ha registrato? Chi l’ha diffuso? La seconda domanda ha una risposta: fra coloro che l’hanno pubblicato c’è Alessandro Ventimiglia, iscritto al meet-up “Il Grillo di Palermo”, storica roccaforte dei “monaci”. Ieri la notizia della registrazione aleggiava sull’iniziativa di Forello per lanciare i candidati nelle circoscrizioni. A margine della kermesse, il candidato sindaco sbotta: «Un mucchio di falsità». Valerio D’Antoni, uno degli avvocati di Addiopizzo, entra più nel merito: “Pur avendo ottenuto il riconoscimento del risarcimento, Addiopizzo non ha mai incassato un euro. È stata riconosciuta solo la compensazione delle spese legali, stabilita dalle sentenze”. Solo bugie, insinuazioni, mascariamenti? Di certo per i 5 stelle è un’altra grana in piena campagna elettorale.
Antiracket, i conti non tornano, scrive Arnaldo Capezzuto il 19 gennaio 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. Progetti teleguidati. Bandi sartoriali. Contratti di lavoro per gli amici. Incarichi solo su segnalazione. Consulenze a compagni di merenda. Assegnazione di fondi e finanziamenti pubblici su preciso mandato. Creazione di scatole vuote per l’affidamento e poi il propedeutico assegnazione dei beni confiscati. Centri studi che non si sa cosa studino. Strani consorzi. Associazioni di associazioni. Federazioni di associazioni. Cooperative di associazioni. E’ proprio un vero e proprio guazzabuglio il variegato mondo dei professionisti dell’anticamorra. Per non parlare di sportelli e sportellini, vacue campagne di sensibilizzazione come sagre di paese e poi i dibattiti a chili, le iniziative, gli anniversari con lacrime incorporate, l’editoria di promozione, le segreterie organizzative, gli uffici e le tante sedi distaccate. E’ chiaro che la trasparenza è un termine sconosciuto nel mondo dei professionisti della legalità. Mai e dico mai troverete in questa giungla uno straccio di bilancio, di nota spese, di un computo analitico sulle entrate e uscite, un rendiconto dei contributi pubblici. Impossibile trovarne traccia. Non si conoscono i criteri di come si utilizzino i denari dell’anticamorra. Tutto è nascosto, tutto è segreto, tutto è gestito nell’ombra. Accade a Napoli ma è come dire Italia.
Non è la prima volta e non sarà l’ultima che la Corte dei Conti di Napoli, ovvero i giudici contabili, stigmatizzano questo modus operandi o quanto meno una pratica alquanto disinvolta nell’affollato mondo dei professionisti della legalità. I giudici – a più riprese- vagliando corpose documentazioni con atti formali chiedono, interrogano, dispongono approfondimenti, delucidazioni alle pubbliche amministrazioni quali erogatori: dalla Ue, ai Ministeri, alla Regione, alla Provincia, ai Comuni. Capita spesso che i giudici della Corte dei Conti debbano smascherare consulenze ad personam accordate a Tizio, Caio e Sempronio accreditati come esperti di “Camorrologia” come puro scambio di favori. Gli importi sono fissati da un prezzario segretamente in vigore, i zeri sono svariati. Prendo spunto dall’ultimo accertamento della Corte dei Conti di Napoli, di cui ha dato notizia solo Corriere.it. Nel mirino dei giudici partenopei è finito il mondo dell’antiracket e dell’usura. Mi sembra che dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole mi sembra – a naso – davvero di trovarci di fronte ad un’altra storiaccia. Al centro delle indagini sono finiti i Pon-Sicurezza cioè il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea per contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. Pare che il F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che raggruppa una cinquantina di associazioni antiracket e facente capo a Tano Grasso abbia ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro. Una cifra – secondo le indagini – sproporzionata in considerazione delle tante realtà operanti in Italia e che si occupano da anni di lotta al racket e all’usura. Il sospetto è che l’iter per l’assegnazione di questa pioggia di denaro pubblico non sia stata molto trasparente. La Corte dei Conti di Napoli insomma sospetta un illecito amministrativo che avrebbe provocato un danno erariale. Gli accertamenti sono stati avviati grazie all’esposto della “Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” dove in una lettera denunciavano la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine ‘politiche’ ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. C’è un ampio spazio dove Tano Grasso saprà documentare e chiarire la posizione del Fai. Ma desta qualche perplessità – sinceramente – la nascita di una newsletter quindicinale “Lineadiretta” dove il Fai ha stanziato per la copertura di dodici mesi di pubblicazione la somma di centomila euro. L’unica certezza è che i giudici della Corte dei Conti di Napoli sapranno scrivere una parola di verità a tutela dei tanti che lottano in silenzio la camorra.
Corte dei Conti di Napoli indaga sull’assegnazione «arbitraria» di fondi Ue ad associazioni antiracket. Presunte violazioni nel trasferimento di circa 13,5 milioni a favore di poche associazioni antiracket che sembrano aver ricevuto i fondi senza un bando pubblico. Alcune delle associazioni escluse avevano già denunciato in una lettera alla Cancellieri la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, scrive Angela Camuso il 14 gennaio 2014 su “Il Corriere della Sera”. Un nuovo scandalo investe i professionisti dell’Antimafia. Dopo i casi clamorosi di Rosy Canale e dell’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arriva la notizia che la Corte dei Conti di Napoli sta indagando su un corposo trasferimento di fondi pubblici a favore di un pugno di associazioni antiracket le quali, secondo i giudici contabili, sarebbero state privilegiate a discapito di altre, in violazione della legge sugli appalti. La posta in gioco è alta: 13 milioni e 433 mila euro stanziati da Bruxelles che fanno parte del cosiddetto Pon-Sicurezza, ovvero il Programma Operativo Nazionale finanziato dalla Comunità Europea con la finalità di contrastare gli ostacoli allo sviluppo del nostro Mezzogiorno. I soldi sono arrivati da Bruxelles solo agli inizi del 2012, ma registi dell’operazione, concepita a partire dal 2008 con l’approvazione dei singoli progetti poi finanziati dal Pon, furono l’allora sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano; l’allora commissario antiracket Giosuè Marino, diventato in seguito assessore in Sicilia della giunta dell’ex Governatore Lombardo indagato per mafia; nonché l’allora presidente dell’autorità di gestione del Pon-Sicurezza e al contempo vicecapo della polizia Nicola Izzo, il prefetto travolto dallo scandalo sugli appalti pilotati del Viminale. Da quanto ad oggi ricostruito dal sostituto procuratore generale della Corte dei Conti della Campania Marco Catalano, fu questo l’asse che selezionò i pochi partners a cui destinare i fondi secondo quelli che sembrano essere criteri arbitrari, visto che molte altre associazioni analoghe – tra cui ad esempio la nota “Libera” – risulterebbero avere i medesimi requisiti di quelle prescelte e dunque avrebbero potuto anch’esse ricevere i finanziamenti su presentazione di progetti, se solo ci fosse stato un bando pubblico di cui invece non c’è traccia. Nell’albo prefettizio, per il solo Mezzogiorno, risultano attive oltre cento associazioni antiracket. Tuttavia i fondi del Pon sono stati destinati soltanto a: “Comitato Addio Pizzo” (1.469.977 euro); Associazione Antiracket Salento (1.862.103 euro) e F.A.I. (Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura), che pur raggruppando una cinquantina di associazioni ha ottenuto finanziamenti per 7 milioni di euro in qualità di soggetto giuridicamente autonomo. Altri 3.101.124 euro sono infine andati a Confindustria Caserta e Confindustria Caltanissetta. La F.A.I., il cui presidente è il popolare Tano Grasso, ha sede a Napoli ed è per questo, essendo competente in quel territorio, che il fascicolo di indagine è finito sul tavolo della Corte dei Conti della Campania. L’istruttoria infatti è partita la scorsa estate a seguito di un esposto in cui si evidenziavano le presunte violazioni. Così il sostituto procuratore Catalano ha iniziato a lavorare, prima acquisendo una serie di documenti, presso il ministero dell’Interno e presso la prefettura di Napoli. Successivamente, sono stati escussi a sommarie informazioni diversi funzionari della stessa prefettura a vario titolo responsabili dell’erogazione dei fondi e dei presunti mancati controlli. Alla Corte dei Conti questi funzionari, secondo quanto trapelato, avrebbero confermato di aver agito su indicazione del Ministero e ora l’indagine è nella sua fase conclusiva e cruciale. Si prospetta l’esistenza di un illecito amministrativo che potrebbe aver prodotto un danno erariale sia in termini di disservizi sia in termini di sprechi visto che, paradossalmente, molte delle associazioni escluse dai finanziamenti continuano a svolgere, supportate dal solo volontariato, attività identiche, per qualità e quantità, a quelle messe in pratica da chi ora può contare su contributi pubblici erogati in deroga a ogni principio di trasparenza. Per questi motivi, già a marzo del 2012, le associazioni “La Lega per la Legalità” ed “S.O.S. Impresa” avevano inviato una lettera al ministro Cancellieri, denunciando la “mercificazione” dell’attività contro il pizzo, l’esistenza di una “casta dell’antiracket” e, addirittura, alcuni casi di nomine politiche ai vertici di associazioni antimafia diventate a parere dei firmatari della missiva mera merce di scambio, in una logica di premi e promesse elettorali. “Prendiamo il caso di Maria Antonietta Gualtieri, presidentessa dell’Antiracket Salento e già candidata a Lecce sei anni fa nella lista civica di Mantovano…” insinua Lino Busà, presidente di S.O. S Impresa. La lettera al Ministro e le successive polemiche furono oggetto l’anno scorso di pochi articoli comparsi sulla stampa locale ma poi sulla vicenda calò il silenzio. Ora l’indagine della Corte dei Conti sembra dimostrare che la questione va al di là di una lotta fratricida. Le decisioni che presto prenderanno i giudici contabili preludono infatti a nuovi inquietanti sviluppi. Una volta chiusa questa prima istruttoria, gli atti potrebbero essere trasferiti in procura. Se ciò avverrà, sarà il tribunale penale a dover accertare se il presunto illecito amministrativo sia stato commesso per errore o se, invece, nella peggiore delle ipotesi, la violazione della legge sugli appalti sia stata dolosa e dunque funzionale a un drenaggio sottobanco di soldi pubblici, negli interessi di qualcuno.
Lecce, truffa sui fondi per le vittime: presa la presidente di un’associazione antiracket Maria Antonietta Gualtieri. Arrestato un funzionario comunale. Trentadue le persone indagate: fra loro c’è anche l’assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi. Al setaccio una convenzione del 2012 con il Viminale, scrive Chiara Spagnolo il 12 maggio 2017 su “La Repubblica”. Una bufera giudiziaria si abbatte sull’amministrazione comunale di Lecce nel giorno in cui si avvia la presentazione delle liste elettorali per le elezioni dell’11 giugno. Un’inchiesta della guardia di finanza su presunti illeciti in alcune attività dello Sportello antiracket ha portato all’arresto della presidente dell’associazione, Maria Antonietta Gualtieri, e di un funzionario dell’ufficio Patrimonio del Comune di Lecce, Pasquale Gorgoni (già coinvolto nell’inchiesta sulle assegnazioni delle case popolari). Le ipotesi di reato – contestate nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Giovanni Gallo su richiesta dei sostituti procuratori Massimiliano Carducci e Roberta Licci – sono corruzione e truffa e riguardano le azioni di un presunto sodalizio criminale che sarebbe capeggiato proprio da Gualtieri. Un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici è stato emesso nei confronti dell’assessore comunale ai Lavori pubblici, Attilio Monosi, candidato al consiglio comunale in una delle liste che sostengono il candidato sindaco del centrodestra Mauro Giliberti. Proprio nelle ore in cui la guardia di finanza stava notificando le ordinanze del gip, a Palazzo Carafa era in programma la presentazione ufficiale dei candidati. In totale sono quattro le ordinanze di custodia cautelare (tre in carcere e una ai domiciliari) disposte dal gip, sette le misure interdittive dai pubblici uffici e 32 sono le persone indagate. Sequestrato anche l’equivalente di somme indebitamente percepite dal ministero dell’Interno, pari a 2 milioni di euro. Secondo la ricostruzione degli investigatori, nel 2012 Gualtieri avrebbe stipulato convenzioni con il Viminale per istituire tre Sportelli antiracket a Lecce, Brindisi e Taranto. Le indagini hanno accertato che tali strutture in realtà non sono mai state operative, avendo come unico obiettivo l’indebita percezione dei fondi pubblici destinati alle vittime di racket e usura. Documentati la fittizia rendicontazione di spese per il personale impiegato; l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti afferenti l’acquisizione di beni e servizi; la rendicontazione di spese per viaggi e trasferte in realtà mai eseguite; la falsa attestazione del raggiungimento degli obiettivi richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero di denunce raccolte. Un altro capitolo dell’inchiesta ha riguardato le presunte collusioni con pezzi dell’amministrazione comunale di Lecce. A partire dal funzionario Gorgoni, che avrebbe fatto carte false per far sì che alcuni lavori di ristrutturazione dell’ufficio dello Sportello antiracket venissero pagati dal Comune anziché dal commissario Antiracket. L’obiettivo – secondo la tesi investigativa – era agevolare il costruttore che ha effettuato i lavori e che avrebbe poi avuto un occhio di riguardo per il funzionario pubblico per altri interventi eseguiti nella sua abitazione. Anche le ristrutturazioni eseguite all’ufficio dello Sportello antiracket di Brindisi sarebbero state viziate da anomalie, relative a false certificazioni di interventi mai ultimati da parte di dipendenti comunali. Ad aggravare ulteriormente la situazione di Gualtieri c’è il fatto che avendo appreso che alcuni suoi collaboratori erano stati convocati dalla finanza per gli interrogatori, li avrebbe istruiti sulle versioni da fornire al fine di cercare di nascondere i numerosi illeciti commessi al fine di ottenere indebitamente i soldi del Fondo antiracket, sottraendoli al loro legittimo utilizzo.
Il Quotidiano di Puglia scrive: Gli arrestati finiti in carcere sono Maria Antonietta Gualtieri, presidente dell’associazione antiracket di Lecce, Giuseppe Naccarelli, ex dirigente del settore finanziario del Comune di Lecce, e Lillino Gorgoni, funzionario di Palazzo Carafa. Agli arresti domiciliari è finita invece Simona Politi, segretaria dell’associazione antiracket. Tra le sette misure interdittive c’è il divieto di ricoprire cariche pubbliche per l’attuale assessore al Bilancio del Comune di Lecce Attilio Monosi, in procinto di candidarsi alle elezioni amministrative con Direzione Italia, e che proprio alcuni giorni fa aveva inaugurato il suo comitato elettorale. Stessa misura per l’avvocato Marco Fasiello, uno dei legali dell’associazione antiracket.
IL BUSINESS DELLE COSTITUZIONI DI PARTE CIVILE E LE DENUNCE INVENTATE. Le convenzioni con il Viminale ed i fondi elargiti dal PON-Sicurezza sono parametrati a seconda degli obbiettivi raggiunti e richiesti dal progetto in termini di assistenza ai nuovi utenti e numero di denunce raccolte. Da qui le storture e la speculazione sui procedimenti penali attivati dalle associazioni antimafia per poter godere dei benefici: più denunci più incassi dal Fondo POR e dalle relative costituzioni di parte civile nei processi attivati.
IL POZZO SENZA FONDO DEL 5XMILLE ALLE ONLUS AMICHE. Da Wikipedia. Il PM anticamorra Catello Maresca e il prefetto Giuseppe Caruso hanno duramente criticato le attività di Libera, sostenendo che esse, aldilà della parvenza di legalità e onestà, siano semplicemente mirate alla spartizione dei proventi che derivano dal sequestro dei beni mafiosi. Secondo alcuni infatti, Libera si è trasformata da associazione antimafia a holding economica che gestisce bilanci milionari, progetti e finanziamenti in regime di monopolio. Anche il modo con cui vengono amministrati i beni sottratti alla mafia è stato criticato per la sua scarsa trasparenza e per il fatto che i progetti vengono vinti dalle solite associazioni legate a Libera. Questa cosiddetta Holding economica ha i suoi contatti politici e sindacali a sinistra. E da sinistra si attingono maggiormente i proventi del 5xmille anche su intervento dei CAF o in base ad una massiccia campagna promozionale mediatica e di visibilità. L’associazione “Libera” è un coordinamento nazionale di tante associazioni e comitati locali. Queste, spesso hanno sede presso la CGIL, sindacato di sinistra, come a Taranto. Libera, Bilancio Consuntivo al 31/12/2015: 5 per mille € 700.237».
Come si spendono i soldi ricevuti dallo Stato e pagati dai contribuenti italiani?
«La giornalista Alessia Candito, sotto scorta e minacciata dalla ‘Ndrangheta, ha pubblicato sul Corriere della Calabria la contabilità dal 2011 al 2014 dell’associazione della Musella, legata al Liceo Piria di Rosarno, salito alle cronache nazionali grazie al libro “Generazione Rosarno” di Serena Uccello. Nell’articolo della Candito si parla di “Magliette in numero sufficiente a vestire un reggimento, fiori costati quanto lo stipendio annuale di un impiegato di discreto livello, compensi e rimborsi a familiari, e poi hotel, viaggi, ristoranti e qualche gadget elettronico di troppo di cui è oggettivamente difficile spiegare la continenza”. E si conclude scrivendo che: “Analizzando la contabilità, gonfiata dalle iniezioni di liquidi degli enti, ma che in quattro anni fa registrare meno di una decina di donazioni di soci, non si può non notare come la maggior parte dei finanziamenti arrivati nel corso degli anni sia stata spesa in viaggi, hotel e ristoranti”».
Come si può concludere questa lunga intervista-inchiesta?
«Che l’antimafia può deviare in palesi illegalità. Ma è il loro mantenimento legale che dà da pensare e riflettere su come l’illegalità si purifichi in base all’ipocrisia generale. Non è che non bisogna combattere la mafia. Il problema è che è marcio il Sistema. Per speculare, inoltre, non bisogna vedere la mafia dove non c’è e criminalizzare un intero popolo: il meridione in Italia; l’Italia all’estero. Alla fine bisogna dire una cosa. L’antimafia deve essere di Stato. Se lo Stato abdica è volontariato. Il volontariato se tale è, necessariamente deve essere gratuito. Ergo: non vi può essere volontariato di Stato».
La liturgia antimafia.
«Da presidente nazionale di una associazione antimafia è una vergogna non
essere invitati ad alcuna celebrazione istituzionale o scolastica
dedicata ai martiri della mafia: tra cui Falcone e Borsellino. Questo pur
essendo il massimo esperto della materia. Questo perché noi non seguiamo la
logica nazionale delle celebrazioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino,
specialmente fatta da chi ne ha causato la morte. Perché non ci associamo alla
liturgia di questa antimafia che poi è forse solo propaganda. Si farebbe cosa
nobile, invece, svelare la verità sulla loro morte e disincentivare tutti quei
comportamenti socio mafiosi che inquinano la società italiana. Come si farebbe
onore alla verità svelare chi e come paga l’andabaran di carovane e carovanieri.
In riferimento all’attentato di Brindisi ed a tutte le manifestazioni di
esaltazione di un certo modo di fare antimafia di parte e di facciata, denuncio
l’ipocrisia di qualcuno che suggestiona e manipola la mente dei giovani per
indurli ad adottare comportamenti miranti a promuovere una verità distorta su
chi e come fa antimafia» Questa è la denuncia del Dr Antonio Giangrande,
presidente nazionale de “L’Associazione Contro Tutte le Mafie”. «Brindisi e
Mesagne e l’intero Salento sono diventate tutto d’un tratto terra di mafia e di
mafiosi e per gli effetti sono diventate palco promozionale per carovane e
carovanieri proveniente da ogni dove, da cui noi prendiamo assolutamente le
distanze. Mesagne e Brindisi e tutto il Salento non hanno bisogno di striscioni
in sparute manifestazioni o di omelie religiose per fare ciò che deve essere
fatto: sia in campo istituzionale, sia in campo sociale. Gli studenti, con la
mente vergine ed aperta, non devono essere influenzati da falsi pedagoghi
catto-comunisti, sostenuti da sindacati e movimenti di sinistra, che inducono a
falsi convincimenti di tipo ideologico. La lotta alla mafia è un’altra cosa: è
conoscenza senza censura ed omertà scevra da giudizi preconcetti».
Basta con la liturgia dell’antimafia di
sinistra.
Antonio Giangrande: «Se aprile è il mese dei riti cristiani con la pasqua,
maggio è il mese della liturgia dell’antimafia di sinistra.»
Io sono abituato a
parlare di argomenti, di cui ho qualcosa da dire. Sulla mafia, per esempio, ho
scritto un libro letto in tutto il mondo: “Mafiopoli. Mafia, quello che non si
osa dire”. Per me Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono il faro a cui mi
ispiro ed il loro esempio è l’oggetto del mio libro. Il mio ricordo a loro va
tutti i giorni e non solo nell’anniversario della loro morte. Per molti la data
della loro morte è solo l’anniversario degli attentati. Il gesto criminale
sminuisce la figura dell’uomo che viene a mancare. Mai dire antimafia è il
concetto che divulgo, in qualità di noto autore di saggi sociologici che
raccontano di una Italia alla rovescia, profondo conoscitore ed esperto del tema
e presidente nazionale di una associazione antimafia. Il mio intento è
dimostrare che la mafia siamo noi: i politici che colludono, i media che
tacciono, i cittadini che emulano e le istituzioni che abusano ed omettono.
Credo che sul tema io sia uno dei principali esperti, anche perché sono
presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antiracket ed
antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Una delle tante associazioni
a cui viene disconosciuto il ruolo e gli onori che meritano, solo perché non
fanno parte del sistema strutturato dalla sinistra, di cui “Libera” è la
maggiore espressione.
Anche quest’anno i
giornali e le tv, quasi sempre di sinistra, osannano l’evento che corrompe le
giovani menti. Se aprile è il mese dei riti cristiani con la pasqua, maggio è il
mese della liturgia dell’antimafia di sinistra. A Civitavecchia si sono
imbarcati circa 1.500 studenti, gai per aver marinato la scuola, a cui si sono
aggiunti altri 1.500 studenti all’arrivo a Palermo. Corrompendo le menti dei
giovani si cerca di perpetrare quel credo partigiano, per il quale gli onesti
stanno da una parte e i delinquenti dall’altra, Grillo permettendo.
QUALE ANTIMAFIA? Camera
dei Deputati. 15 maggio 2014. Alessio Villarosa (Movimento 5 Stelle) accusa la
maggioranza di non rispettare (nei fatti) gli insegnamenti di Falcone e
Borsellino. "Noi siamo il partito di Pio La Torre e non accettiamo lezioni da
nessuno in materia di legalità. Soprattutto da chi è guidato da chi sostiene che
la mafia non esiste". Lo ha urlato nell'aula della Camera Anna Rossomando del Pd
replicando al M5s in dichiarazione di voto sulla richiesta di arresto per
Francantonio Genovese. Tutti i suoi colleghi di gruppo si sono levati in piedi
per applaudirla mentre il M5s urlava: "Vergognatevi". "Noi siamo i fondatori
della democrazia", ha rivendicato l'esponente democratica citando Pio La Torre,
il segretario del Partito comunista siciliano ucciso dalla mafia il 30 aprile
del 1982. Il Pd, ha detto Rossomando rivolta al gruppo M5S, "non accetta lezioni
da nessuno, soprattutto da chi è andato in Sicilia dicendo che la mafia non
esiste, facendo le buffonate attraversando lo Stretto". La presidente della
commissione parlamentare antimafia Rosi Bindi (Pd) ha preso la parola in aula,
al termine del dibattito sulla richiesta di arresto a carico del deputato
democratico Francantonio Genovese, per replicare al polemico intervento di
Alessio Villarosa del Movimento 5 stelle. "Vorrei restasse agli atti di questa
Camera, nel rispetto del sacrificio della loro vita e dei loro familiari - ha
detto Bindi - che nessuno può appropriarsi di Falcone e di Borsellino". Secondo
la presidente dell'antimafia, i due magistrati uccisi dalla mafia "sono di tutta
la nazione, di tutta l'Italia e da quando abbiamo messo le loro immagini nel
parlamento europeo sono di tutta l'Europa". Bindi a capo dell'Antimafia: sfruttò
i sindaci anti boss per farsi eleggere alla Camera. Il Pd la candidò in
Calabria: ma una volta presi i voti, non s'è più fatta vedere, scrive Felice
Manti su “Il Giornale”. A Siderno la stanno ancora aspettando. Eppure a Rosy
Bindi la Locride dovrebbe esserle cara, visto che quei voti raccolti alle
primarie Pd in Calabria sono stati decisivi per la sua elezione come capolista.
Da febbraio invece l'ex presidente Pd i calabresi la vedono solo in tv.
D'altronde la Bindi non ha fatto un solo incontro sulla 'ndrangheta durante la
campagna elettorale, ammettendo «di non sapere niente di mafia».
Da presidente nazionale
di una associazione antimafia è una vergogna non essere invitati ad alcuna
celebrazione istituzionale o scolastica dedicata ai martiri della mafia: tra cui
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Questo pur essendo il massimo esperto della
materia. Questo perché noi non seguiamo la logica nazionale delle celebrazioni
dei due magistrati, specialmente fatta da chi ne ha causato la morte. Perché non
ci associamo alla liturgia di questa antimafia che poi è forse solo propaganda.
SVELARE LA VERITÀ SUI
MAGISTRATI. Si farebbe cosa nobile, invece, svelare la verità sulla loro morte e
disincentivare tutti quei comportamenti socio mafiosi che inquinano la società
italiana. Come si farebbe onore alla verità svelare chi e come paga il giro di
carovane e carovanieri. In riferimento all’attentato di Brindisi e a tutte le
manifestazioni di esaltazione di un certo modo di fare antimafia di parte e di
facciata, denuncio l’ipocrisia di qualcuno che suggestiona e manipola la mente
dei giovani per indurli ad adottare comportamenti miranti a promuovere una
verità distorta su chi e come fa antimafia.
LOTTA ALLA MAFIA CON LA
CONOSCENZA. Con l’attentato alla scuola Morvillo-Falcone e la morte di Melissa
Bassi Brindisi e Mesagne e l’intero Salento sono diventate tutto d’un tratto
terra di mafia e di mafiosi e per gli effetti sono diventate palco promozionale
per carovane e carovanieri proveniente da ogni dove, da cui noi prendiamo
assolutamente le distanze. Mesagne e Brindisi e tutto il Salento non hanno
bisogno di striscioni in sparute manifestazioni o di omelie religiose per fare
ciò che deve essere fatto: sia in campo istituzionale, sia in campo sociale. Gli
studenti, con la mente vergine e aperta, non devono essere influenzati da falsi
pedagoghi catto-comunisti, sostenuti da sindacati e movimenti di sinistra, che
inducono a falsi convincimenti di tipo ideologico. La lotta alla mafia è
un’altra cosa: è conoscenza senza censura e omertà scevra da giudizi
preconcetti. E di questo anche il Santo Padre, Papa Francesco, ne deve essere
edotto: non esiste solo un’antimafia clericale-comunista. E Don Ciotti non è
l’unico punto di riferimento.
Le vittime di mafia, non
hanno bisogno di ricordare, perché la mafia la vivono sulla loro pelle ogni
giorno.
Le vittime di mafia non
hanno bisogno di front office pubblicizzati e finanziati dalla politica. Le
vittime non hanno bisogno di visibilità, a loro basta che l’Ordine Pubblico e la
Giustizia funzionino. Che le loro denuncie non siano insabbiate.
Ma a Palermo la liturgia
antimafia del 23 maggio non si tocca: e così i vip istituzionali della
“Falconeide” hanno ricordato la strage di Capaci riempiendosi la bocca di una
parola cruciale: la memoria. La “Falconeide” è un festival della memoria, ma di
quella memoria a intermittenza che è tipica dei professionisti della “doppia
morale istituzionale”. Dispiace per la buona volontà disinteressata di alcuni:
ma finché la memoria istituzionale sarà esclusivo privilegio di defilé
mediatici, regolati da star del buonismo televisivo, finché la memoria
istituzionale non avrà lo stessa sacralità della verità storica, la “Falconeide”
– e le analoghe manifestazioni che fanno spettacolo dell’impegno antimafia – non
potrà essere altro che quello che oggi (tristemente) appare: una sfilata di
virtuosi dell’ipocrisia di Stato che forse non fanno parte, come sostiene Beppe
Grillo, “dello stesso governo che ha ucciso Falcone e Borsellino”, ma di certo
sono parte integrante della stessa classe politica senza scrupoli.
Peccato che trattasi,
anche quest’anno, di memoria buona solo ed esclusivamente alle passerelle
antimafia, come ha rilevato qualche tempo fa il pm Nino Di Matteo che ha toccato
con mano le tante amnesie istituzionali nell’indagine sulla trattativa
Stato-mafia: “Per tanti, i magistrati sono da onorare solo da morti; siamo
stanchi dell’ipocrisia di chi, quando erano in vita Falcone e Borsellino, non
esitava a definirli “giudici politicizzati”, mentre, dopo che sono morti finge
di onorarli. E’ un falso storico”. E quei “giudici politicizzati” non erano di
sinistra, quindi si ricordi bene da vivi da chi erano attaccati: da chi oggi li
osanna!!!
CHI PAGA? Tra canti,
fiaccole e palloncini, infatti, è stato un vero trionfo dell’ipocrisia
istituzionale. E per ultimo, in tempo di spending review , tutti noi dovremmo
chiederci: tutto l’ambaradan comunista della nave della legalità che porta in
gita gli studenti, la cui estrazione sociale è tutta da verificare, quanto costa
alla comunità, quindi a noi stessi, pur distanti da quella ideologia vetusta?
L'Antimafia a scuola. Indottrinamento e
proselitismo.
«Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e conoscenza»
Dante Alighieri.
Inchiesta del dr. Antonio
Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente
dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Tutto è rito, e
l'antimafia è liturgia. “Non ci interessa la retorica, la liturgia ripetitiva.
Perché 24 anni dopo Capaci e 24 dopo via D’Amelio, il rischio c’è. Come per
certa antimafia da operetta”. Così Mimmo Milazzo, segretario della Cisl Sicilia,
il 21 maggio 2016 a quasi un quarto di secolo dalle stragi mafiose. Era il 23
maggio del 1992 quando un’esplosione devastante mandò per aria, sulla A29 nei
pressi di Palermo, la Fiat Croma in cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone,
la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito
Schifani e Antonio Montinaro. Quasi un mese dopo a perdere la vita furono, con
Paolo Borsellino, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Emanuela Loi, Vincenzo Li
Muli, Agostino Catalano. Un’ecatombe. Ma il cui anniversario, sostiene Milazzo,
“non può essere una mera occasione formale, dentro e fuori dal palazzo.
L’ennesimo show”.
Scuola ed antimafia,
scrive Franca De Mauro. Franca De Mauro è figlia di Mauro De Mauro e nipote di
Tullio De Mauro, Linguista e Ministro della Pubblica Istruzione. C’è un equivoco
che ricorre frequentemente sia all'interno della scuola, e questo è grave, sia
all'esterno: cioè che noi insegnanti si faccia educazione alla legalità soltanto
quando, per un motivo contingente, affrontiamo un tema, per così dire,
monografíco: la storia della mafia, mafia e latifondismo in Sicilia, la vita di
Peppino Impastato, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, di Placido Rizzotto,
di Pio La Torre... ahimè, l'elenco potrebbe essere anche più lungo. Ma noi
insegnanti, questo è il mio parere, facciamo educazione alla legalità quando
facciamo nostre le dieci tesi di educazione linguistica, quando, cioè,
insegniamo ai nostri alunni a muoversi da protagonista all'interno dell'universo
della comunicazione. Quando insegniamo ad ascoltare e comprendere, a leggere e
comprendere, a parlare e scrivere con chiarezza nelle diverse situazioni
comunicative e con scopi diversi. Solo allora saranno in grado di scegliere.
Perché se ci limitiamo a proporre argomenti antimafia, e non diamo loro il
possesso della lingua, noi conosceremo diecimila vocaboli e saremo liberi, loro
ne conosceranno sempre mille e saranno schiavi. Saremo sempre noi a scegliere
per loro. Sceglieremo, giustamente, un impegno per la legalità, ma saremo noi a
scegliere, non loro. E, uscendo dalla scuola, i ragazzi, così come dimenticano
immediatamente date, fatti, personaggi, letture, dimenticheranno quanto diciamo
sulla legalità. E dovremo registrare di non aver neanche scalfito il consenso
sociale verso la mafia, di non avere intaccato la cultura mafiosa. Ma se daremo
agli alunni gli strumenti linguistici per capire un articolo di giornale, il
discorso di un politico, un volantino sindacale, il telegiornale, la
Costituzione, forse il loro impegno per la legalità sarà più concreto e
duraturo. La cultura facilita scelte etiche, non le rende immediate, me ne rendo
conto: certo 'don Rodrigo aveva più cultura di Renzo, Andreotti più di un
operaio che vendeva il suo voto per un pacco di pasta... però se Renzo, se
quell'operaio avessero avuto gli strumenti per difendersi da angherie, raggiri,
soprusi, per lottare contro l'illegalità... per loro le cose sarebbero andate
meglio. In un'epoca in cui le grandi ideologie, l'aggregazione politica non
esistono quasi più, in cui la Tv spazzatura è il modello di riferimento
culturale per moltissimi, dare agli alunni gli strumenti per comprendere, per
smascherare promesse messianiche, ideali di ricchezza facile e veloce, questo
diventa la vera scommessa della scuola per la legalità.
Istruzione o
Indottrinamento? Scrive David Icke. L‘istruzione esiste allo scopo di
programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo, in una realtà
che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di
mentalità del…non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema
vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba. Ciò che
noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert
Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia
istruzione.” Egli disse anche che “l’istruzione è ciò che rimane dopo che si è
dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola”. Perché i genitori sono
orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per
aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto
dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo
parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a
quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i
funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati,
giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema,
invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti
(per l’indottrinamento), cioè l’università. Triste a dirsi. Molto spesso si
crede che l’intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa.
Giuseppe Costanza ha
deciso di parlare perché a suo parere troppi lo fanno a sproposito. C' è un uomo
che più di altri avrebbe titolo a dire qualcosa sull'apparizione di Riina junior
in Rai e sulla lotta alla mafia in generale. È Giuseppe Costanza, l'autista di
Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al
23 maggio 1992. Costanza era a Capaci, scrive Alessandro Milan per “Libero
Quotidiano” il 18 aprile 2016. Di più, Costanza era a bordo della macchina
guidata da Falcone e saltata in aria sul tritolo azionato da Giovanni Brusca.
Eppure in pochi lo sanno. Perché per quei paradossi tutti italiani, e siciliani
in particolare, da quel giorno Costanza è stato emarginato. Non è invitato alle
commemorazioni, pochi lo ricordano tra le vittime. Ho avuto la fortuna di
conoscerlo, di essere suo ospite a cena in Sicilia e ho ricavato la sensazione
di trovarmi di fronte a qualcuno che è stato più del semplice autista di
Giovanni Falcone: forse un confidente, un custode di ricordi e, chissà, uno
scrigno di segreti. Che però Costanza dispensa col contagocce: «Perché un conto
è ciò che penso, un altro è ciò che posso provare». Un particolare mi colpisce
del suo rapporto con Falcone: «Il dottore - Costanza lo chiama così - aveva
diritto a essere accompagnato in macchina, oltre che da me, dal capo scorta. Ma
pretendeva che ci fossi solo io».
Perché non si fidava di
nessun altro?
«Quale altro motivo ci
sarebbe?».
Cominciamo da Riina a
"Porta a Porta"?
«Mi sono rifiutato di
vederlo. Solo a sapere che questo soggetto era stato invitato da Bruno Vespa mi
ha dato il voltastomaco. Vespa qualche anno fa ha invitato pure me, mi ha messo
nel pubblico e non mi ha rivolto una sola domanda. Ora parla con il figlio di
colui che ha cercato di uccidermi. I vertici della Rai dormono?».
Cosa proponi?
«Lo Stato dovrebbe
requisire i beni che provengono dalla vendita del libro di Riina. Questo si
arricchisce sulla mia pelle».
Lo ha proposto la
presidente Rai Monica Maggioni.
«Meno male. Ma tanto non
succederà nulla. D'altronde sono passati 24 anni da Capaci senza passi avanti».
Su che fronte?
«Hanno arrestato la
manovalanza di quella strage. Ma i mandanti? Io un'idea ce l'ho».
Avanti.
«Presumo che l'attentato
sia dovuto al nuovo incarico che Falcone stava per ottenere, quello di
Procuratore nazionale antimafia».
Ne sei convinto?
«Una settimana prima di
Capaci il dottore mi disse: "È fatta. Sarò il procuratore nazionale antimafia"».
Questa è una notizia.
«Ma non se ne parla».
Vai avanti.
«Se lui avesse avuto
quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone mi disse che
all' Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di
avocare a sé i fascicoli. Chiediti quali poteri ha avuto il Procuratore
antimafia in questi anni. E pensa quali sarebbero stati se invece fosse stato
Falcone».
Chi non lo voleva
all'Antimafia?
«Forse politici o
faccendieri. Gente collusa. Ma queste piste non le sento nominare».
Torniamo ai mandanti.
«L'attentato a Palermo è
un depistaggio, per dire che è stata la mafia palermitana. Sì, la manovalanza è
quella. Ma gli ordini da dove venivano? Ti racconto un altro particolare. Io
personalmente, su richiesta di Falcone, gli avevo preparato una Fiat Uno da
portare a Roma. E lui nella capitale si muoveva liberamente, senza scorta. Se
volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci.
Ricorda l'Addaura».
21 giugno 1989, il
fallito attentato all'Addaura. Viene trovato dell'esplosivo vicino alla villa
affittata da Falcone.
«Io c'ero».
All'Addaura?
«Sì, ero lì quando è
intervenuto l'artificiere, un carabiniere. Eravamo io e lui. Lui ha fatto
brillare il lucchetto della cassetta contenente l'esplosivo con una destrezza
eccezionale. Poi ha dichiarato in tribunale che il timer è andato distrutto. Ha
mentito. Io ho testimoniato la verità a Caltanissetta e lui è stato condannato».
Invece come è andata?
«L'esplosivo era intatto.
Lo avrà consegnato a qualcuno, non chiedermi a chi. Evidentemente lo ha fatto
dietro chissà quali pressioni».
Falcone aveva sospetti
dopo l'Addaura?
«Parlò di menti
raffinatissime. Io posso avere idee, ma non mi va di fare nomi senza prove.
Attenzione, io non generalizzo quando parlo dello Stato. Ma ci sono uomini che
si annidano nello Stato e fanno i mafiosi, quelli bisogna individuarli».
23 maggio 1992: eri a
Capaci.
«Ma questo agli italiani,
incredibilmente, non viene detto. Quella mattina Falcone mi chiamò a casa, alle
7, comunicandomi l'orario di arrivo. Io allertai la scorta. Solo io e la scorta
in teoria sapevamo del suo arrivo».
Cosa ricordi?
«Falcone, sceso
dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero
dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva
lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto,
facendoci rallentare. Lo richiamai: "Dottore, che fa, così ci andiamo ad
ammazzare". Lui rispose: "Scusi, scusi" e reinserì le chiavi. In quel momento,
l'esplosione. Non ricordo altro».
Perché la gente non sa
che eri su quella macchina?
«Mi hanno emarginato».
Chi?
«Le istituzioni. Ti
sembra giusto che la Fondazione Falcone non mi abbia considerato per tanti
anni?».
La Fondazione Falcone
significa Maria Falcone, la sorella di Giovanni.
«Io non la conoscevo».
In che senso?
«Negli ultimi otto anni
di vita di Giovanni Falcone sono stato la sua ombra. Ebbene, non ho mai
accompagnato il dottore una sola volta a casa della sorella. Andavamo spesso a
casa della moglie, a trovare il fratello di Francesca, Alfredo. Ma mai dalla
sorella».
Poi?
«Lei è spuntata dopo
Capaci. Ha creato la Fondazione Falcone e fin dal primo anno, alle
commemorazioni, non mi ha invitato».
Ma come, tu che eri
l'unico sopravvissuto, non eri alle celebrazioni del 23 maggio 1993?
«Non avevo l'invito, mi
sono presentato lo stesso. Mi hanno allontanato».
È incredibile.
«Per anni non hanno
nemmeno fatto il mio nome. Poi due anni fa ricevo una telefonata. "Buongiorno,
sono Maria Falcone". Mi ha chiesto di incontrarla e mi ha detto: "Io pensavo che
ognuno di noi avesse preso la propria strada". Ma vedi un po' che razza di
risposta».
E le hai chiesto perché
non eri mai stato invitato prima?
«Come no. E lei: "Era un
periodo un po' così. È il passato". Ventitré anni e non mi ha mai cercato. Poi
quando ho iniziato a denunciare il tutto pubblicamente mi invita, guarda caso.
Comunque, due anni fa vado alle celebrazioni, arrivo nell'aula bunker e scopro
che manca solo la sedia con il mio nome. Mi rimediano una seggiola posticcia. Mi
aspettavo che Maria Falcone dicesse anche solo: "È presente con noi Giuseppe
Costanza". Niente, ancora una volta: come se non esistessi».
L' emarginazione c'è
sempre stata?
«Un anno dopo la strage
di Capaci sono rientrato in servizio alla Procura di Palermo ma non sapevano che
cavolo farsene di un sopravvissuto. Così mi hanno retrocesso a commesso, poi
dopo le mie proteste mi hanno ridato il quarto livello, ma ero nullafacente».
Per l'ennesima volta:
perché?
«Ho avuto la sfortuna di
sopravvivere».
Come sfortuna?
«Credimi, era meglio
morire. Avrei fatto parte delle vittime che vengono giustamente ricordate ma che
purtroppo non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Diciamola
tutta, questi presunti "amici di Falcone" dove cavolo erano allora? Ma chi li
conosce? Io so chi erano i suoi amici».
Chi erano?
«Lo staff del pool
antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi.
Attorno a lui era tutto un sibilìo».
Tu vai nelle scuole e
parli ai ragazzi: cosa racconti di Falcone?
«Che era un motore
trainante. Ti racconto un episodio: lui viveva in ufficio, più che altro, e
quando il personale aveva finito il turno girava con il carrellino per prelevare
i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone».
È vero che amava
scherzare?
«A volte raccontava
barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche
mantenere le distanze».
Tu hai servito lo Stato o
Giovanni Falcone?
«Bella domanda. Io mi
sentivo di servire lo Stato, che però si è dimenticato di me. E allora io mi
dimentico dello Stato. L'ho fatto per quell' uomo, dico oggi. Perché lo
meritava. È una persona alla quale è stato giusto dare tutto, perché lui ha dato
tutto. Non a me, alla collettività».
Il presidente Mattarella
non ti dà speranza?
«Io spero che il
presidente della Repubblica mi conceda di incontrarlo. Quando i miei nipoti mi
dicono: "Nonno, stanno parlando della strage di Capaci, ma perché non ti
nominano?", per me è una mortificazione. Io chiederei al presidente della
Repubblica: "Cosa devo rispondere ai miei nipoti?"».
Questo silenzio attorno a
te è un atteggiamento molto siciliano?
«Ritengo di sì. Fuori
dalla Sicilia la mentalità è diversa. Devo dire anche una cosa sul presidente
del Senato, Piero Grasso».
Prego.
«Di recente, a Ballarò,
presentando un magistrato, un certo Sabella, come colui che ha emanato il
mandato di cattura per Totò Riina, mi indicava come "l'autista di Falcone".
Ma come si permette
questo tizio? Io sono Giuseppe Costanza, medaglia d'oro al valor civile con un
contributo di sangue versato per lo Stato e questo mi emargina così? "L'autista"
mi ha chiamato. Cosa gli costava nominarmi?».
Costanza, credi nell'
Antimafia?
«Non più. Inizialmente
dopo le stragi c'è stata una reazione popolare sincera, vera. Poi sono
subentrati troppi interessi economici, è tutto un parlare e basta. Noi
sopravvissuti siamo pochi: penso a me, a Giovanni Paparcuri, autista scampato
all' attentato a Rocco Chinnici, penso ad Antonino Vullo, unico superstite della
scorta di Paolo Borsellino. Nessuno parla di noi».
Il 23 maggio che fai?
«Mi chiudo in casa e non
voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre
io che ero a Capaci non vengo nemmeno considerato. Questa è la vergogna
dell'Italia».
Non li voglio vedere,
scrive Salvo Vitale il 22 maggio 2016. Stanno preparando il vestito buono per la
festa. Passeranno la notte a lustrarsi le piume. E domani, l’uno dopo l’altro,
con una faccia che definire di bronzo è un eufemismo, correranno da una parte
all’altra della penisola cercando i riflettori della tivvù, il microfono dei
giornalisti, per inondarci della loro vomitevole retorica su twitter, facebook,
e in ogni angolo della rete; loro, tutti loro, gli assassini di Giovanni
Falcone, della moglie, e dei tre agenti della sua scorta, saranno proprio quelli
che ne celebreranno la memoria. Firmandola. Sottoscrivendola. Faranno a gara per
raccontarci come combattere ciò che loro proteggono. Spiegheranno come custodire
l’immensa eredità di un magistrato coraggioso; loro, proprio loro che ne hanno
trafugato il testamento, alterato la firma, prodotto un perdurante falso
ideologico che ha consentito ai loro partiti di rinverdire i fasti di un eterno
potere. Li vedremo tutti in fila, schierati come i santi. Ci sarà anche chi
oserà versare qualche calda lacrima, a suggello e firma dell’ipocrisia di stato,
di quel trasformismo vigliacco e indomabile che ha costruito nei decenni la mala
pianta del cinismo e dell’indifferenza, l’humus naturale dal quale tutte le
mafie attive traggono i profitti delle loro azioni criminali. Domani, non
leggerò i giornali, non ascolterò le notizie, non seguirò i telegiornali, e men
che meno salterò come una pispola allegra da un mi piace all’altro su facebook a
commento di striscette melense e ipocrite che inonderanno la rete con una
disgustosa ondata di piatta e ipocrita demagogia. Domani, uccideranno ancora
Giovanni Falcone, sua moglie e la sua scorta. E io non voglio farne parte.
E un altro giorno di
Borsellino è andato, scrive Luca Josi per “Il Fatto Quotidiano” il 21 luglio
2015. Stormi di parole alate, visi contriti, rugiada di lacrime. Qualche minuto,
una crocetta sopra, e la terra ha continuato il suo giro intorno al sole. Ci si
rivede l'anno prossimo per ascoltare nuove cronache sudate di dolore, impregnate
di partecipazione e narrazione per "sensibilizzare i cittadini e non
dimenticare". Bene. Tra i sacerdoti laici chiamati a celebrare il rito e la
liturgia della memoria, la Rai. Sostenuta dal nostro canone per onorare il
contratto di servizio con lo Stato la Rai dovrebbe informare gli italiani così
da contribuire al loro crescere civile; nello Stato appunto. Molto bene.
Parafrasando l'audizione de "La primula rossa di Corleone" alla Commissione
Antimafia - quella in cui l'interrogato in merito all'esistenza della mafia,
rispose: "Se esiste l'antimafia esisterà anche la mafia" - la Rai certifica
l'esistenza dello Stato. Ne è infatti la tv. Benissimo. Veniamo al punto. Ero un
imprenditore del panorama televisivo italiano (un gruppo che ha avuto centinaia
di dipendenti, ha prodotto migliaia di ore di programmi, ha conquistato cinque
Telegatti, premi di ogni genere e tanti altri primati da snocciolare). Per una
produzione in Sicilia, davvero poco fortunata, il gruppo è fallito (ma non starò
a ricordare il carrozzone di schifezze, angherie e miserie che hanno prodotto
questo scempio). C'è solo un punto che vorrei puntualizzare nel giorno
successivo alle retoriche per Borsellino. Il 7 giugno 2007 il più stretto
collaboratore di un direttore della Tv di Stato mi telefona per raccomandarmi un
tizio per la nostra produzione Rai (tra l'altro Educational!): "... un
personaggio locale di qui - siciliano - di dubbia provenienza, che comunque pare
non faccia molte, come dire, non faccia molti problemi insomma, si accontenta di
molto poco e cioè di, di, di, veramente ... insomma pare che sia, che sia
tranquillizzante insomma la cosa. Non lo è per le sue tradizioni e per le sue
origini, però, non lo so io comunque ti ho avvertito …". Non ho nemmeno bisogno
di registrare l'assurdo. L'acuto dirigente fa tutto da sé lasciando il messaggio
sulla mia segreteria telefonica (la si può ancora ascoltare su il
fattoquotidiano.it: Agrodolce, i raccomandati e uomini in odor di mafia). Dal
giorno successivo metto a conoscenza della telefonata i dirigenti competenti.
Penso che si tratti ancora del caso di un singolo, ma gli anni successivi mi
dimostreranno, ampiamente, che non era così. Incontri successivi e lettere per
denunciare la situazione producono il silenzio. Di fronte a tutto questo il mio
gruppo, nella mia persona di allora presidente, decide di procedere penalmente
verso i protagonisti della nostra distruzione. Il 4 dicembre 2011, dopo la
pubblicizzazione della telefonata incriminata il protagonista della stessa
risponde così a il Fatto Quotidiano: “Si sa che quando le produzioni vanno in
Sicilia, devi sottostare alle regole legate alle tradizioni dell’isola” per
aggiungere “ho chiamato Josi, e lui mi fatto una scenata incredibile, dicendo
che lui ‘ rapporti con mafiosi non li voleva avere, mai e poi mai”. Il 17
dicembre 2011 sarà la cronaca giudiziaria a confermarne la veridicità di questa
interpretazione. Infatti, la DDA di Palermo farà eseguire ventotto arresti
all’interno del Clan Porta Nuova. Nel mirino dello stesso, la produzione di
Canale 5, Squadra Antimafia Palermo Oggi. Non erano attratti dal contenuto
editoriale della fiction, ma dall’opportunità di controllarne i servizi di
trasporto, il catering per la troupe e di assumere come comparse parenti e
affiliati (oltre all'opportunità di fornire droga all'interno della produzione).
Tutto questo avveniva a pochi chilometri dagli stabilimenti del nostro gruppo
televisivo con l’aggravante che noi si era capaci di occupare fino a 440
comparse al mese per una prospettiva di diversi anni - le soap opera possono
durare decenni - in uno dei distretti a più alta disoccupazione giovanile
europea. Il 23 ottobre 2012 - sei mesi dopo dalla messa in onda della fiction
Paolo Borsellino - I 57 giorni, per Rai Uno: - la vicenda incontrerà una
conclusione tragicamente solare. L'imprenditore "proposto" nella telefonata
dall'incaricato Rai verrà arrestato dalla Polizia di Palermo, insieme al
fratello, per i reati di estorsione e associazione mafiosa (trattavasi
d'imprenditori polivalenti che, oltre a una struttura dedicata alle forniture di
servizi per lo spettacolo, diversificavano con un’attività di pompe funebri). La
sua compagine era riuscita a infiltrarsi all’interno di un’altra produzione
esterna Rai, Il segreto dell’acqua (fiction sul tema della lotta alla mafia).
Purtroppo dall'azienda pubblica che impegna gli imprenditori a sottoscrivere
corposi Codici Etici e Codici Antimafia non si sono mai registrate riflessioni
sulle singolari vicende risultate forse troppo neorealiste. In compenso le
fiction antimafia, continueranno a prolificare perché "non possiamo permetterci
di abbassare la guardia". Antimafia e magistratura. L’alleanza malsana che
Falcone rifiutò. Indagine sui professionisti della patacca che hanno trasformato
l’antimafia in una macchietta della giustizia politica, scrive Giuseppe Sottile
il 12 Maggio 2016 su "Il Foglio".
Prologo. “Tutto pagato
mio”. Quando l’onorevole Salvo Lima varcò la soglia del bar “Rosanero”, i
picciotti di don Masino Spadaro, boss della Kalsa e re del contrabbando,
formarono – così, spontaneamente – due piccole ali di folla. L’onorevole si
inconigliò nel mezzo e salutò prima a destra e poi a sinistra. Raggiunse il
banco e ordinò il caffè. “Lei, carissimo onorevole, merita questo ed altro”,
declamò cerimonioso don Masino. Ma senza fortuna. Perché l’onorevole continuò a
masticare il suo bocchino di madreperla, quello con la molletta interna e la
cicca estraibile, senza pronunciare sillaba. Si limitò solo a guardarli, quei
picciotti. E guardandoli gli significò che se avevano qualcosa da dire potevano
anche dirla. Tanto lui era in campagna elettorale e li avrebbe certamente
ascoltati. Figurarsi però se don Masino poteva mai lasciare una simile entratura
a Vincenzo Mangiaracina, detto “Scintillone”, pizzicato otto anni prima per
tentato omicidio, e appena uscito dall’Ucciardone; o a Filippo Paternò, detto “Cardone”,
che nell’aprile del 1989 andò per sparare e fu sparato, e parlava con mezza
bocca perché l’altra era praticamente affunata in un nodo cavernoso di osso,
muscolo e pelle; o a Lillo Trippodo, detto “Cacauovo” perché prima di ogni tiro,
scippo o rapina che fosse, aveva sempre un dubbio da manifestare ma poi puntava
la pistola ch’era una meraviglia. “Tutti bravi ragazzi, onorevole”, disse don
Masino presentando cumulativamente i picciotti disposti a semicerchio, come gli
ami di una paranza. Ma l’onorevole Lima ostinatamente non parlava. Se ne stava
appoggiato al bancone, con la tazzina di caffè appiccicata alle dita. Fino a
quando, don Masino – e che boss sarebbe stato, altrimenti – non si armò di
coraggio e mirò a quello che, per lui, era il cuore del problema. “Mi dica,
onorevole: che dobbiamo fare con quei cornuti di Ciaculli che si sono inventati
questa minchiata del rinnovamento…”. Il tema, in effetti, era molto delicato.
Delicatissimo. “La sbirrame di Leoluca Orlando e padre Pintacuda ha fatto
breccia. Ora fanno tutti gli antimafiosi, anche a Ciaculli, ma in realtà sono
semplicemente cornuti. Così cornuti che, nei loro confronti, il fango è acqua
minerale”. Ciaculli, Orlando, Pintacuda. L’onorevole si cambiò di faccia. Posò
la tazzina sul bancone e ringraziò per il caffè. Ma don Masino gli puntò al
petto l’ultima domanda: “Sono o non sono cornuti, quelli di Ciaculli?”.
L’onorevole si bloccò sulla soglia. Si abbottonò il cappotto, alzò il bavero del
colletto, infilò un’altra sigaretta nel bocchino di madreperla e sentenziò:
“Gentuzza… Gentuzza e nulla più”.
Svolgimento. Che Dio ce
ne guardi. Nessuno qui si azzarderà a definire “gentuzza” gli uomini
dell’antimafia, anche se dentro la compagnia di giro ci ritrovi qualche
pataccaro, come Massimo Ciancimino, già processato e condannato per avere
invischiato in storiacce di mafia dei galantuomini che non c’entravano nulla; o
come quel Pino Maniaci, che per anni si è spacciato come giornalista coraggioso
ed è finito sotto inchiesta per estorsione: secondo la procura di Palermo
sparava fuoco e fiamme ma, sottobanco, prometteva benevolenza soprattutto a chi
aveva la compiacenza di allungargli la mille lire. No, nessuno qui si azzarderà
a definire “gentuzza” gli uomini dell’antimafia. Perché dentro quel mondo non ci
sono solo degli inquisiti sui quali prima o poi dovrà essere detta una parola di
verità. Ci sono anche e soprattutto figli che hanno assistito al martirio del
padre, come Claudio Fava o Lucia Borsellino o Franco La Torre; o sorelle, come
Maria Falcone, che portano ancora negli occhi il terrore di avere visto, su un
tratto di autostrada sventrato dal tritolo, il sangue versato dal proprio
fratello. No, questi nomi non possono essere trascinati in polemiche da quattro
soldi. Nemmeno quando uno di loro – ed è il caso di Salvatore Borsellino,
fratello di Paolo, il giudice assassinato in via D’Amelio – se ne va in giro per
Palermo ad abbracciare Massimuccio Ciancimino, il figlio di don Vito, prima
celebrato come “icona dell’antimafia” e poi gettato negli abissi chiari
dell’inattendibilità dagli stessi pupari che lo avevano offerto a giornali e
talk-show come il testimone del secolo, l’unico in grado di rivelare gli
intrighi delle cosche e di scardinare finalmente l’impero di Cosa nostra, con le
sue ricchezze e i suoi misteri, con i suoi boss e i suoi picciotti, con le sue
coperture e le sue complicità. Non chiameremo “gentuzza” neppure quelli che
hanno utilizzato l’antimafia per amministrare al meglio i propri affari, per
intramare nuove e più sofisticate imposture, per costruire nuove e più
spregiudicate carriere; o per meglio aggrapparsi alla grande mammella dei beni
sequestrati ai mafiosi – terreni, case e aziende – diventati all’improvviso una
immensa terra di nessuno sulla quale hanno mangiato a quattro mani, fino a
ingozzarsi, magistrati e cancellieri, avvocaticchi e commercialisti. E non
chiameremo “gentuzza” nemmeno i tanti narcisi che pure popolano questo mondo.
Non c’è magistrato che non abbia i suoi quattro angeli custodi, non c’è papavero
dell’antimafia che non abbia diritto a una sorveglianza, non c’è pentito, vero o
fasullo, che non pretenda una tutela particolare. Ah, le scorte. A volte hai il
sospetto che siano diventate gli svolazzi del nuovo potere: Rosario Crocetta, il
governatore della Sicilia che ha trasformato l’antimafia in una macchietta della
politica, può contare su cinque blindate, pagate dalla regione a peso d’oro. Uno
spreco? Guai a pensarlo, ma immaginate l’effetto che fa il suo scorrazzare in
lungo e in largo per l’Isola con tutto questo fragore o il suo arrivo, a ogni
fine settimana, a Gela o a Tusa Marina, dove altri militari sono impegnati a
presidiare le sue case. Oppure pensate a quale timore o a quale riverenza vi
spingerà, se mai capiterete all’aeroporto di Palermo, la visione di Roberto
Scarpinato, procuratore generale del Palazzo di giustizia e Gran Sacerdote
dell’Antimafia, scortato all’imbarco per Roma non da uno ma da cinque agenti in
borghese. Tre dei quali non lo mollano nemmeno quando tutti i passeggeri sono
già dentro l’aereo. Ragioni di sicurezza, si dirà. E sarà anche vero, ma una
domanda andrebbe comunque posta: e se la mafia fosse ancora governata da quegli
stragisti che rispondevano al nome di Totò Riina e Bernardo Provenzano quanti
uomini sarebbero necessari per scortare il dottore Scarpinato? Forse sette,
forse sette volte sette. La verità, tanto per andare subito al sodo, è che il
Piazzale degli eroi – nel quale sono stati collocati tutti i campioni della
lotta a Cosa nostra – rifiuta tenacemente di accettare quello che gli storici
più coscienziosi, come Salvatore Lupo, hanno accertato con la forza dei loro
studi e della loro onestà. E cioè che, dopo una guerra durata oltre trent’anni,
il risultato è che la mafia ha perso e lo stato ha vinto. Una verità semplice ma
capace di mandare a gambe per aria non solo il concetto mistico di antimafia ma
anche tutte le impalcature – e i privilegi e i narcisismi – che attorno a un
tale concetto sono state costruite. Questo spiega perché la tesi del professore
Lupo sia stata tanto sbeffeggiata durante una infausta audizione alla
commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi. E spiega anche perché una
fetta ancora consistente della magistratura palermitana insiste nel portare
avanti un processo senza capo né coda qual è quello sulla fantomatica trattativa
tra la mafia e alcuni vertici degli apparati statali. Quel processo serve per
tenere in piedi il postulato che la storia della Repubblica abbia un doppio
fondo, e che dietro ogni verità, anche dietro quella processualmente accertata,
ci sia sempre una verità nascosta. Un azzardo, non c’è dubbio. Ma che consente a
quei magistrati particolarmente votati alla militanza politica, di chiamare in
causa qualunque esponente del potere costituito. Ricordate cosa combinò Antonio
Ingroia, procuratore aggiunto oltre che maestro compositore e arrangiatore della
Trattativa, pochi mesi prima di presentarsi con una sua lista, Rivoluzione
civile, alle elezioni politiche di tre anni fa? Intercettò il presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, e ci impiantò sopra un casino mediatico di
proporzioni tali da fare tremare le colonne del Quirinale. Nel braccio di ferro,
Ingroia ha perso e Napolitano ha vinto. Ma il partito dei magistrati che
vogliono tenere sotto tiro il potere politico resta ancora forte e agguerrito.
Con una aggravante: che questo partito ha saputo anche costruirsi un’antimafia
di supporto. L’antimafia di Massimo Ciancimino e di Salvatore Borsellino, tanto
per fare un doloroso esempio: dove il fratello del giudice assassinato diventa
fraternissimo amico del figlio di don Vito per il semplice fatto che il
pataccaro è stato contrabbandato dalla magistratura politicizzata come l’unico
grimaldello capace di violare il sancta sanctorum dei segreti mafiosi. Ai tempi
di Giovanni Falcone, questa alleanza malsana non si sarebbe stretta. E non si è
stretta. Ricordate il caso del falso pentito Giuseppe Pellegriti? Eravamo alla
fine degli anni Ottanta e l’antimafia di quel tempo – i leader erano Leoluca
Orlando e il gesuita Ennio Pintacuda – si era aggrappata all’indiscrezione
secondo la quale il pentito Pellegriti, un delinquentucolo di periferia, avrebbe
accusato Salvo Lima, plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia, di essere
il mandante dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Falcone andò
al carcere di Alessandria. E, dopo avere verificato che Pellegriti sosteneva
soltanto cose non vere, lo incriminò per calunnia. Non la passò liscia.
L’antimafia di Orlando e Pintacuda – quella che aveva inventato la formula del
“sospetto come anticamera della verità” – se la legò al dito e scatenò contro
Falcone una offensiva senza precedenti. Fino ad accusarlo di tenere le prove
nascoste nei cassetti; o a esporlo, nel corso di un indimenticabile Maurizio
Costanzo Show, a una gogna tanto ingiusta quanto feroce. L’antimafia di oggi,
quella finita nella polvere con tutti i suoi imbroglioni e i suoi pataccari, si
è prestata invece a tutte le manovre giudiziarie, anche le più avventate e le
più spregiudicate. E forse anche per questo, alla fine, è rotolata nel burrone
profondo dell’irrilevanza. Chi è quell’uomo? – chiede a un certo punto il
Signore. “E’ uno che imbratta di tenebra il pensiero di Dio. Parla senza sapere
quello che dice”, risponde Giobbe.
La Carlucci e il PdL
contro i libri di scuola: “Propagandano il comunismo, vanno cambiati”, scrive "Giornalettismo"
il 12/04/2011. Secondo 19 deputati del Popolo delle Libertà, scrive l’agenzia
Dire, c’è bisogno di una commissione d’inchiesta per valutarne l’imparzialità.
Ma il testo che più si distingue “per la quantità di notizie partigiane e
propagandistiche” è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In
Elementi di storia, citano, viene descritta l’attuale presidente del Pd, Rosy
Bindi, come la “combattiva europarlamentare” che, ai tempi della militanza nella
Democrazia cristiana, sollecitava ad “allontanare dalle cariche di partito”
tutti “i propri esponenti inquisiti”. E come viene descritto l’antagonista
Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di
testo, “con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a
un passo dal disastro”. Secondo gli autori, “l’uso sistematicamente aggressivo
dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale
antimafia, alla Banca d’Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al
presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce
esasperarono le tensioni politiche nel Paese”. L’elenco dei libri “naturalmente
potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi
esempi per capire la gravità della questione”.
Se questa è antimafia…
Se questa è antimafia…afferma il maggior espero di mafia, avendo scritto dei veri e propri trattati sulla Mafia (nelle sue varie forme e denominazioni) e sull’antimafia, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS…e vittima di mafia.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale, già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro. Notifica consegnata l’8 novembre 2017.
Antimafioso, sì, complice di una stortura legislativa, no.
Se questa è antimafia…Lettera
al Direttore di Antonio Giangrande*
In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di
Stato e la speculazione
del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono
mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca
dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro.
Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di
stampo costituzionale.
Interventi di
antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza
territoriale.
Questa antimafia, per
mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket
ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a
definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposti a verifica.
L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e
costituzioni di parti civili attivate.
L’esortazione a
denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non
denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
Ma cosa sarebbe codesta
antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico
della mafia di loro invenzione?
E, poi, chi ha dato la
patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e
chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti
dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato
l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di
sinistra che sobillano la società civile?
E perché questa
antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato
per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa.
Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in
Italia?
Fintanto che le vittime
dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici,
continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle
degli avversari politici.
Se la legalità è
l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione
alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi?
La legge va sempre
rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali
condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali
prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto
che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia
dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè:
calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola
sete di potere.
La mafia esiste ed è solo
quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie
deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…
Allora niente è mafia.
E se niente è mafia, alla
fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni
atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e
dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende
complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se
rimarranno da soli ed inascoltati.
*Antonio Giangrande ha
scritto dei saggi sulla Mafia. (Mafiopoli; La Mafia dell’Antimafia; Castopoli;
Massoneriopoli; Impunitopoli.)
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva. Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori, su Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Assolti e confiscati
ASSOLTI E CONFISCATI. I CAVALLOTTI: STORIE DI MAFIA O DI INGIUSTIZIA?
Questo è un tema da approfondire. Si può essere assolti dai magistrati giudicanti ed allo stesso tempo essere additati come mafiosi dai magistrati requirenti e per gli effetti essere destinatari di confisca dei propri beni, che in base alla sentenza sono frutto di impresa legale? Da quanto risulta sembra proprio di sì. Certo è che la stampa asservita al potere giudiziario mai approfondirà un tema così scottante. E se poi tra i beneficiari dell’atto di confisca ci sono gli stessi magistrati, allora……
La questione non è solo pertinente a Palermo e la Sicilia. Partiamo da Bari. “Assolti e Confiscati”. Un libro da leggere, per capire e meditare! “Assolti e Confiscati” è il libro che Michele Matarrese ha dato alle stampe per raccontare, ovviamente dal punto di vista dei Matarrese, i vent’anni della vicenda Punta Perotti, scrive Lucio Marengo. Finalmente c’è ancor qualcuno che ha il coraggio di ribellarsi in termini ovviamente legali, allo strapotere illimitato di parte di una magistratura che supponendo sia stata in buona fede, ha però distrutto nella sostanza una grande famiglia come di imprenditori come i Matarrese ed impedendo nei fatti lo sviluppo di quello che sarebbe potuto diventare il più bello lungomare d’Italia. Solo il fanatismo ecologico associato alla stupidità politica ha potuto giustificare una battaglia a difesa di una fauna avicola inesistente indicando nella zona di punta Perotti addirittura la presenza di uccelli speciali e particolari. Non sappiamo a quali uccelli volessero riferirsi gli ambientalisti visto che da quelle parti da sempre risultavano stanziali transessuali, puttane, ed in più grosse zoccole di fogna ed animali sicuramente non rari. Se avessero lasciato finire di costruire, altri imprenditori avevano già investito denaro nella realizzazione di terziario, residenziale e tanto verde, ma questo era di secondaria importanza dal momento che qualcuno probabilmente aveva già deciso di costruire una lungimirante carriera sulla pelle degli altri. Il 2 aprile 2006, dopo dieci anni di battaglie giudiziarie, il sindaco di Bari Michele Emiliano, davanti ad una tavola imbandita, alla presenza di ambientalisti politicamente schierati festeggiò l’abbattimento dei manufatti di Punta Perotti con un lungo ed applaudito brindisi. Noi eravamo lì e non esultammo perchè prendemmo atto che il lungomare sarebbe diventato quello che oggi è e che fa vergognare tutti noi, specialmente dopo il tramonto. Nessun imprenditore ha mai costruito senza autorizzazioni legittime e legali ma ad un magistrato non costa troppa fatica trovare la pagliuzza nell’occhio ed imbastire un processo come questo che si è concluso dopo quindici anni con la condanna del Governo italiano a risarcire i danni agli imprenditori Matarrese ed altri. Come sempre pantalone pagherà, quello che non condividiamo è che ancora una volta i magistrati che hanno sbagliato non pagano; questa sarebbe la Legge uguale per tutti? Assolti e confiscati, per capire e meditare!
«Mi chiamo Matarrese, Michele Matarrese». Per quanto poco originale, l’inizio è indubbiamente a effetto. Ma la colonna sonora non è quella di James Bond, bensì il crepitare sordo del cemento che implode, sgretolando i palazzi di Punta Perotti e il sogno imprenditoriale della più nota famiglia di costruttori pugliesi, scrive Massimiliano Scagliarini su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una storia tutta barese, perché Bari è la città in cui l’urbanistica fa e disfa fortune, costruisce carriere e crea (falsi) miti nel triangolo tra imprenditori, politica e magistratura. «Assolti e confiscati» è il libro che Michele Matarrese – «una vita dedicata a creare e realizzare, nel segno della serietà e per decenni, strade, ponti, ferrovie, stadi, strutture pubbliche e via dicendo», come si perita di evidenziare nella prefazione – manda in libreria per i tipi del Sole-24 Ore al prezzo (indubbiamente confindustriale) di 28 euro. È la storia, naturalmente dal punto di vista dei Matarrese, dei vent’anni trascorsi tra il primo via libera al complesso di Punta Perotti e la decisione con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sancito che lo Stato italiano non avrebbe dovuto appropriarsi dei terreni su cui sorgevano i palazzoni abusivi. Un pasticcio all’italiana in cui Matarrese – lo ripetiamo, dal suo punto di vista – ha qualche briciolo di ragione: un costruttore progetta, investe, chiede un permesso, lo ottiene, inizia a costruire salvo poi subire un sequestro, ottenere un’assoluzione, poi un secondo sequestro e alla fine l’onta della demolizione pur senza aver riportato alcuna condanna. E dopo tre lustri, a Bruxelles, c’è un giudice che ordina allo Stato di risarcire. Anche per questo il sottotitolo del libro, che sarà presentato a Bari presso il Parco dei Principi (luogo che non può non far venire in mente la vicenda similissima di Lama Balice, con Vito Vasile e il suo «Imputato inconsapevole») è «una storia di straordinaria ingiustizia». Una storia infinita impastata di tribunali e di sofferenze – siamo, diciamolo ancora, dal punto di vista del costruttore -, ma anche di qualche passaggio divertente (una perizia giustificò il pregio ambientale dell’area di Punta Perotti con la presenza in loco di «merli, torni, pettirossi, passere scopaiole, capinere, silvie, occhicotti, magnanine, sterpazzole, cuculi (…) e altre specie di fosso che si uniscono alle stanziali»: prima dei palazzi lì c’erano prostitute e sfasciacarrozze) e di molti particolari inediti, tipo l’esposto inviato al Csm contro i magistrati baresi o anche la lunga lettera al giudice Maria Mitola che per prima aveva disposto il sequestro. Rimasti, l’uno e l’altra, senza risposta. Il libro, la cui tesi è che in molti – a partire dal sindaco di Bari, Michele Emiliano – hanno costruito una carriera sulla demolizione dei palazzi, è costruito su documenti e ritagli di giornale.
Sono 364 le pagine che separano la costruzione dei palazzi di “Punta Perotti” dalla sentenza con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) condanna l’Italia a un risarcimento danni milionario, in favore delle imprese costruttrici, scrive Corato Live. In “Assolti e Confiscati”, il noto costruttore barese Michele Matarrese ripercorre le tappe di una querelle infinita, fra lunghi strascichi giudiziari, inevitabili implicazioni politiche e giuridiche. Le 364 pagine di “Assolti e Confiscati”, volume a firma di Michele Matarrese, con cui il noto costruttore barese ripercorre le tappe di una querelle infinita, fra lunghi strascichi giudiziari, inevitabili implicazioni politiche e spinose questioni giuridiche. Insomma, quella cortina di nebbia che ha avvolto i palazzi eretti a sud di Bari nel ’95 e abbattuti nel 2006, meglio noti come “saracinesca” o “eco-mostro”. Il testo, uscito nello scorso maggio per i tipi de “Il Sole 24 Ore”, è stato presentato nel pomeriggio di martedì scorso presso il Corato Executive Center, in un meeting organizzato dal Rotary di Corato, Bisceglie e Molfetta, con l’Associazione Imprenditori Coratini. Per l’occasione Matarrese – accompagnato da Marco, uno dei figli, e dal cognato, l’ex senatore Mario Greco, già governatore del distretto Rotary 2120 – ha tracciato la “sua” ricostruzione della storia di “Punta Perotti”, fra chiaroscuri e “perché” irrisolti. Una storia che è anche un pezzo importante della storia di Bari e dell’Italia. Famosa o famigerata, a seconda dei punti di vista. Punto nodale del libro la confisca di fabbricati e suoli disposta dalla Cassazione, nonostante il processo penale si sia concluso con l’assoluzione di tutti i soggetti coinvolti dalle accuse di abuso edilizio, assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Per la Cassazione, infatti, gli imputati sono incorsi in un errore scusabile nell’applicazione della legge, ciononostante fu disposta la confisca che, per la CEDU, non sarebbe dovuta seguire all’assoluzione, perché «arbitraria e senza alcuna base legale». Risultato: violazione del dettato della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in due punti, quello che tutela la proprietà privata e quello per cui nessuna pena può essere irrogata senza una legge che, previamente, preveda il fatto come reato. E la conseguente condanna dell’Italia al risarcimento di 49 mln di euro. «Quello che è accaduto non doveva accadere nella nostra Italia, perché è stato un danno alla collettività in senso ampio, qualunque siano le valutazioni di ciascuno di noi», così il presidente dei rotariani coratini, Michelangelo De Benedittis, nel suo indirizzo di saluto. A rappresentare i Rotary Club che hanno patrocinato l’iniziativa, oltre al’avvocato De Benedittis, c’erano i suoi omologhi, molti soci e Michele Loizzo, delegato dell’attuale governatore distrettuale. Dopo la rituale introduzione rotariana, a stretto giro il presidente dell’AIC, Franco Squeo, ha stigmatizzato le lungaggini di quella vicenda, gli innumerevoli organismi e autorità coinvolte, le norme poco chiare e la scarsa certezza del diritto. «Chi è il colpevole?», si è chiesto Squeo. Di odissea ha parlato l’autore del libro, «anche se non vorrei essere un altro Omero», che nel lungo intervento non ha elemosinato strali a chicchessia, dai magistrati ai politici di ogni dove e colore. «Per scrivere ho atteso l’esito del ricorso alla Corte di Strasburgo e nel libro ho scritto molti perché, a cominciare dal perché il Perotti è stato abbattuto se c’era un ricorso a Strasburgo? Ad alcuni perché ho trovato risposta, per gli altri ci vuole la volontà politica e giudiziaria di voler andare in fondo. Finora ho visto solo la volontà di coprire le malefatte», ha dichiarato Matarrese. Nel suo j’accuse a tutto tondo, Michele Matarrese non ha risparmiato l’omonimo sindaco di Bari, Emiliano. A detta dell’ingegnere ci fu una bozza di transazione, inviata il 25 marzo 2005 al Comune, «che io non volevo firmare manco pazzo, perché troppo onerosa per l’impresa», bozza di cui «io sto ancora aspettando la risposta». Matarrese, poi, ha svelato alcuni retroscena che coinvolgerebbero addirittura il Quirinale. I progettisti del complesso residenziale abbattuto erano in origine gli architetti Chiaia e Napolitano, il compianto fratello del Presidente della Repubblica. «In un incontro al Quirinale – ha riferito il costruttore – come Cavaliere del Lavoro, dissi al Presidente ‘io sono quello del Perotti’, lui mi strinse il braccio e disse “mio fratello ha sofferto molto”». Fra i “perché” in attesa di risposta, in cima all’elenco di Matarrese ce n’è uno che chiamerebbe in causa l’operato della magistratura. «Noi abbiamo iniziato a costruire nel gennaio ’95, piano per piano, la prima denuncia arriva nell’aprile del ’96. Non c’è mai stata una iscrizione nel registro degli indagati, nonostante le verifiche in Procura del nostro legale, e noi andavamo avanti tranquilli. Fino al 17 marzo del ‘97 in cui ci fu l’iscrizione nel registro degli indagati e l’emanazione dell’ordine di sequestro. Se la Procura era di fronte al cantiere – si è chiesto l’imprenditore – e dalle finestre avevano la perfetta visione del cantiere, perché ci fanno arrivare al 13° piano, dopo due anni, per sequestrare? Perché?». Nell’elenco bipartisan è la volta dell’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti (PdL), «che ha remato contro, quello che ha fatto è spettacolare» ha chiosato Matarrese fra il serio e il faceto, inanellando poi una serie di dettagli, fra gli emendamenti presentati da Tremonti e gli incontri con Gianni Letta, allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Dalla presentazione del suo “Assolti e Confiscati”, il testo di Michele Matarrese è apparso come una sorta di diario o reportage sull’annosa vicenda di Punta Perotti, dal punto di vista dell’imprenditore, naturalmente. Con la pronuncia della Corte di Strasburgo e il relativo risarcimento danni dovuto dallo Stato alle imprese edili ricorrenti, tuttavia, potrebbe non essere calato il sipario sulla “saracinesca” abbattuta. All’orizzonte si affaccia la possibilità – ventilata da Matarrese e rigettata dall’attuale Sindaco Emiliano in un recente duello a singolar tenzone, a colpi di conferenze stampa e lettere aperte – che lo Stato possa rivalersi sul Comune di Bari. In quel caso, la parola “fine” dovrà attendere ancora.
Altra storia è quella dei Cavalotti a Palermo, dove per colpire qualcuno basta brandire l’accusa di mafia e mafiosità. Di loro nessuno ne parla, se non in modo negativo. Bene. Lo faccio io, Antonio Giangrande. Cerchiamo di fare chiarezza e facciamo parlare le carte, a scanso di conseguenze reazionarie da parte di chi si sente defraudato della voce della verità e della giustizia.
Mafia, assolti a Palermo tre fratelli imprenditori.
I tre fratelli imprenditori, Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti, sono stati assolti nel pomeriggio del 6 dicembre 2011 dall’accusa di concorso in associazione mafiosa: la sentenza è della I sezione della Corte d’appello di Palermo, presieduta da Salvatore Di Vitale, che ha accolto le tesi dei difensori. I Cavallotti erano stati arrestati nel 1998, nell’ambito dell’operazione Grande oriente, ed assolti nel 2001. Successivamente, la Corte d’appello aveva ribaltato la decisione e condannato i Cavallotti a pene comprese fra quattro anni e quattro anni e due mesi. La Cassazione aveva poi annullato la sentenza con rinvio, ordinando un nuovo processo. Gli imputati sono di Belmonte Mezzagno (Pa) e sono titolari della Comest, un’azienda che si è occupata della metanizzazione di una serie di Comuni siciliani. L’accusa, basata anche sulla lettura dei pizzini del boss Bernardo Provenzano, consegnati dal confidente Luigi Ilardo, sosteneva che i Cavallotti fossero stati complici dei boss e che avessero ottenuto appalti e commesse grazie al loro essere titolari di un’impresa di mafia. Secondo i giudici, però, sarebbero stati vittime del racket mafioso.
Diventa definitiva l’assoluzione per tre imprenditori, scrive Riccardo Arena su “Il Giornale di Sicilia” del 14 maggio 2012. Ora l’assoluzione è irrevocabile: la Procura generale non ha impugnato la sentenza della Corte d’appello del 6 dicembre 2011, che è così passata in giudicato. «Assolti perché il fatto non sussiste». È per questo che i fratelli imprenditori di Belmonte Mezzagno Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti sono stati definitivamente assolti dall’accusa di concorso in associazione mafiosa. Per arrivare al verdetto finale ci sono voluti quattro processi e 13 anni: la vicenda giudiziaria era iniziata con l’inchiesta «Grande Oriente» del 1998. A passare in giudicato è stata la decisione della prima sezione della Corte d’appello. I Cavallotti erano stati assolti già in tribunale nel 2001, ma poi un’altra sezione della Corte d’appello li aveva condannati a pene comprese fra 4 anni e 4 anni e 2 mesi. La Cassazione, il 18 dicembre 2004, aveva annullato con rinvio la sentenza ed era stato celebrato un altro dibattimento, rallentato anche da una questione risolta dalla Corte costituzionale, che ha dichiarato illegittime le norme sull’inappellabilità delle assoluzioni di primo grado. Cinque mesi fa la sentenza finale, nei giorni scorsi il passaggio in giudicato. Salvatore Vito Cavallotti era difeso dagli avvocati Franco Inzerillo e Ernesto D’Angelo; Gaetano dagli avvocati Gioacchino Sbacchi e Franco Coppi; Vincenzo dagli avvocati Francesca Romana De Vita e Marzia Fragalà, subentrata al padre, Enzo, ucciso nel febbraio dell’anno scorso. Nei confronti dei Cavallotti rimane però il sequestro dei beni, su cui la sezione misure di prevenzione del Tribunale, presieduta da Silvana Saguto, si è riservata la decisione finale: confisca o restituzione. L’assoluzione nel processo penale è un buon viatico per i «prevenuti», ma i due procedimenti camminano su piani diversi e hanno presupposti differenti. Dunque I ‘applicazione di una misura di prevenzione non può essere automaticamente esclusa, in virtù dell’assoluzione. I Cavallotti erano titolari della Comest, un’azienda che aveva vinto una serie di appalti per realizzare impianti di metanizzazione in moltissimi paesi dell’Isola. Erano imprenditori vittime di estorsioni o «a disposizione» e complici? Vicini a Provenzano e per questo favoriti, o costretti a sottostare alle regole mafiose? Ora l’accoglimento delle tesi della difesa e dunque l’affermazione della totale estraneità degli imputati a Cosa nostra.
Da quanto si denota, sembra chiaro che gli stessi magistrati hanno inteso la condotta dei Cavallotti come quella di vittime di mafia. Eppure, nonostante ciò, è lo Stato a far più male a loro.
La sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo il 19 ottobre 2011 ha confiscato il patrimonio dei fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti, imprenditori di Belmonte Mezzagno, processati e assolti, dopo alterne vicende giudiziarie, perché ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano. I beni – le aziende Comest e Imet, diversi immobili aziendali e personali e autoveicoli -, passati ora al patrimonio dello Stato, ammontano a oltre 20 milioni di euro. I giudici hanno ritenuto i Cavallotti ”socialmente pericolosi” e hanno applicato loro anche la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per due anni. La legge distingue il procedimento di prevenzione dall’esito del processo penale, quindi la misura personale e patrimoniale può essere applicata in presenza di indizi di pericolosità sociale anche se il soggetto è stato assolto.
A chi credere? Angeli o demoni? E poi perché due valutazioni diverse e contrastanti?
La sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo ha confiscato il patrimonio dei fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti, imprenditori di Belmonte Mezzagno, processati e assolti, dopo alterne vicende giudiziarie, perchè ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano. I beni – le aziende Comest e Imet, diversi immobili aziendali e personali e autoveicoli – passati ora al patrimonio dello Stato, ammontano a oltre 20 milioni di euro. I giudici hanno ritenuto i Cavallotti “socialmente pericolosi” e hanno applicato loro anche la misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per due anni. La legge distingue il procedimento di prevenzione dall’esito del processo penale, quindi la misura personale e patrimoniale può essere applicata in presenza di indizi di pericolosità sociale anche se il soggetto è stato assolto. I Cavallotti erano stati arrestati nel 1998, nell’ambito dell’operazione Grande oriente, ed assolti nel 2001. Successivamente, la Corte d’appello aveva ribaltato la decisione e condannato i Cavallotti a pene comprese fra quattro anni e quattro anni e due mesi. La Cassazione aveva poi annullato la sentenza con rinvio, ordinando un nuovo processo. Quindi sono stati assolti nel dicembre 2010 dall’accusa di concorso in associazione mafiosa. L’accusa contro di loro era basata anche sulla lettura dei ‘pizzini’ del boss Bernardo Provenzano, consegnati dal confidente Luigi Ilardo, e sosteneva che i Cavallotti fossero stati complici dei boss e che avessero ottenuto appalti e commesse grazie al loro essere titolari di un’impresa di mafia. Il giudice che li scagionò in primo grado invece accolse la tesi difensiva secondo la quale i tre fratelli sarebbero stati citati nei pizzini di Provenzano perchè vittime del racket. Mentre nella seconda assoluzione in appello si sostenne che nei biglietti di Provenzano si parlava genericamente dei Cavallotti e non era stato possibile accertare le responsabilità individuali.
«Sono soggetti di pericolosità sociale, inseriti nell’ambito dell’imprenditoria colluso-mafiosa», scrive “La Repubblica” palesemente giustizialista e faziosa. Il tribunale, sezione misure di prevenzione, dispone la confisca di beni per 20 milioni e l’obbligo di soggiorno per due anni nel comune di residenza per i fratelli Salvatore Vito, Vincenzo e Gaetano Cavallotti, i re del metano di Belmonte Mezzagno. La confisca riguarda le quote di Comest e Imet, la Eurocostruzioni, la Siciliana Servizi di Belmonte Mezzagno, auto e diversi appezzamenti di terreni sparsi in Sicilia.I fratelli di Belmonte sono passati indenni attraverso il processo Grande Oriente per associazione mafiosa, dopo l’arresto nel 1998, e poi assolti definitivamente nel 2010 dalla corte d’Appello, decidendo su rinvio della Cassazione. La loro assoluzione in primo grado, nel 2001, aveva fatto esplodere la polemica. I Cavallotti vennero giudicati vittime di Cosa nostra per essere stati costretti a pagare la “messa a posto”. Dopo l’arresto, invece, erano accusati di avere turbato le gare di mezza Sicilia con minacce e violenze. Dalle indagini era anche emerso che boss del calibro di Benedetto Spera e Bernardo Provenzano avrebbero assicurato l’aggiudicazione dei lavori e l’apertura di cantieri in territori controllati da diverse famiglie mafiose. Furono anche studiati alcuni pizzini di Provenzano, consegnati alla Procura dal confidente Luigi Ilardo, in cui il boss si mostrava interessato alle imprese dei Cavallotti. Dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino i magistrati rilevarono anche che Vito Cavallotti, dall’86 al ’91, «a Belmonte Mezzagno era personaggio di rilievo e aveva fatto regolarmente parte dell’accordo provincia pagando direttamente, aggiudicandosi dei lavori e facendo delle cortesie» Si evince da quest’articolo che la piega data è fuorviante.
Di taglio diverso, invece è quest’altro articolo. Giusto per dimostrare come si può influenzare il giudizio del lettore. Confiscati i beni dei Cavallotti, “Le loro aziende erano al servizio di Cosa nostra”, scrive “La Gazzetta di Sicilia” il 19 ottobre 2011. Nonostante l’assoluzione dei tre “prevenuti” nel processo penale, il patrimonio dei fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti è stato confiscato dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Si tratta di imprenditori di Belmonte Mezzagno, paese a pochi chilometri dal capoluogo dell’Isola: furono assistiti, all’inizio della loro vicenda penale, da un loro concittadino, l’avvocato Saverio Romano, attuale ministro delle Politiche agricole. Passano così allo Stato beni per circa 20 milioni: i giudici hanno ritenuto i Cavallotti e le loro aziende, la Comest in particolare, al servizio di Cosa nostra e del boss Bernardo Provenzano. La misura di prevenzione è stata applicata nonostante l’assoluzione, perché il procedimento ha presupposti diversi, in particolare la “pericolosità sociale”: e per questo motivo ai Cavallotti è stata imposta anche la sorveglianza speciale per due anni. I Cavallotti furono coinvolti, nel 1998, nell’operazione Grande Oriente, contro i fiancheggiatori dell’allora latitante Provenzano: fu in questo ambito che venne fuori – secondo le dichiarazioni del colonnello Michele Riccio – che Provenzano si sarebbe potuto catturare già nel 1995; la circostanza è oggi oggetto del processo Mori. Gli elementi contro i tre fratelli furono individuati grazie ai pizzini di Provenzano, consegnati a Riccio dal confidente Luigi Ilardo, l’uomo che aveva dato indicazioni sulla presenza del superlatitante a un summit tenuto a Mezzojuso (Palermo) il 31 ottobre di sedici anni fa. Ma il blitz che sarebbe stato sollecitato da Riccio non venne organizzato dal Ros del generale Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu, oggi entrambi imputati, per questo motivo, di favoreggiamento aggravato. I Cavallotti in primo grado furono assolti; la Corte d’appello invece li condannò, con l’accusa di concorso in associazione mafiosa, e la Cassazione annullò tutto, ordinando un quarto processo, concluso l’anno scorso con l’assoluzione, non più impugnata dalla Procura generale di Palermo e dunque divenuta definitiva. La Comest, come la Gas di cui era socio occulto Vito Ciancimino, si occupò negli anni ’80 e ’90 della metanizzazione di molti Comuni siciliani. Da imputati i Cavallotti si sono sempre difesi sostenendo di essere vittime del racket. Ora sono divenuti “prevenuti” e contro di loro potrebbe giocare il fatto che, al di là dell’incertezza degli elementi probatori sulla loro responsabilità, l’ultima sentenza assolutoria ha tenuto conto del fatto che non era possibile individuare con certezza a quale dei Cavallotti si riferissero i pentiti. Il collaboratore di giustizia Francesco Campanella, in particolare, aveva fatto confusione e, nel corso di una “ricognizione personale” fatta nel corso di un’udienza, in videoconferenza, aveva indicato come personaggio in rapporti con i boss, sbagliandone il nome di battesimo, un quarto fratello Cavallotti, in realtà non coinvolto nel processo.
Ma non finisce qui: assolti e confiscati? No, la storia continua. La seconda parte parla ancora di arresti, sequestri e confische. Per tutta la stampa avevano costituito una ditta fantasma per occultare 14 milioni di beni e sottrarli alla confisca e soprattutto rimanere in attività. Con queste accuse i tre fratelli Cavallotti, i re del metano di Belmonte Mezzagno, sono stati arrestati per la seconda volta. Considerati vicino al boss Bernardo Provenzano erano stati processati e assolti su rinvio della Cassazione. Avevano però subito la confisca dell’azienda e del patrimonio.
Nuovo arresto per i re del metano ditta ombra per sfuggire alle confische, scrive faziosamente “La Repubblica” il 25 febbraio 2012. Finiscono agli arresti domiciliari i tre fratelli Vincenzo, Gaetano e Giovanni Cavallotti, i re del metano di Belmonte Mezzagno. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria della Finanza li hanno raggiunti ieri nelle loro case per notificargli l’ordinanza emessa dal gip del tribunale di Termini Imerese. Un provvedimento, quello contro i tre fratelli ritenuti in passato anche vicini al capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, che ha disposto anche un maxi sequestro di beni. I sigilli sono stati messi alla società “Enoimpianti plus” di Milazzo, che si occupa della realizzazione di impianti di metanizzazione, ma anche a un complesso aziendale. L’ accusa è di trasferimento fraudolento di valori per 14 milioni di euro. Vincenzo, Gaetano, Giovanni Cavallotti, di 56, 53 e 47 anni, già nello scorso ottobre avevano subito una pesante confisca. Il tribunale, sezione misure di prevenzione, aveva disposto la confisca di beni per 20 milioni e l’ obbligo di soggiorno per due anni nel comune di residenza peri fratelli. «Sono soggetti di pericolosità sociale, inseriti nell’ ambito dell’ imprenditoria colluso-mafiosa», hanno scritto i magistrati. La confisca colpì le quote di Comest e Imet, la Eurocostruzioni, la Siciliana Servizi di Belmonte Mezzagno, auto e diversi appezzamenti di terreni sparsi in Sicilia. Le indagini delle fiamme gialle, adesso, avrebbero accertato che i tre, dopo la misura di prevenzione e per proseguire la loro attività imprenditoriale negli stessi settori, hanno provveduto a costituire una nuova società, questa volta nella provincia di Messina, intestandola fittiziamente a propri familiari ma gestendola direttamente. Per questo sono stati anche denunciati cinque parenti dei Cavallotti per concorso nello stesso reato. Si tratta dei due figli di Vincenzo, dei due figli di Gaetano, e la moglie di Giovanni. Trai beni sequestrati anche 12 terreni a Milazzo, 16 macchine e 37 autocarri. «Siamo dei perseguitati dalla giustizia», si sono limitati a dire ai finanzieri i tre fratelli che sono stati raggiunti a Belmonte e in Campania, dove si trovava Giovanni. I fratelli di Belmonte erano passati indenni attraverso il processo Grande Oriente per associazione mafiosa, dopo l’ arresto nel 1998, e poi assolti definitivamente nel 2010 dalla corte d’ Appello, che aveva deciso su rinvio della Cassazione. La loro assoluzione in primo grado, nel 2001, aveva fatto esplodere la polemica. I Cavallotti vennero giudicati vittime di Cosa nostra per essere stati costretti a pagare la “messa a posto”. Dopo l’ arresto, invece, erano accusati di avere turbato le gare di mezza Sicilia con minacce e violenze. Dalle indagini era anche emerso che boss del calibro di Benedetto Spera e Bernardo Provenzano avrebbero assicurato l’ aggiudicazione dei lavori e l’ apertura di cantieri in territori controllati da diverse famiglie mafiose. Furono anche studiati alcuni pizzini di Provenzano, consegnati alla Procura dal confidente Luigi Ilardo, in cui il boss si mostrava interessato alle imprese dei Cavallotti. Dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Angelo Siino i magistrati rilevarono anche che Vito Cavallotti, dall’ 86 al ‘ 91, «a Belmonte Mezzagno era personaggio di rilievo e aveva fatto regolarmente parte dell’ accordo provincia pagando direttamente, aggiudicandosi dei lavori e facendo delle cortesie».
Dopo il sequestro, scattano gli arresti per i fratelli Cavallotti, gli imprenditori palermitani attivi anche in provincia di Messina, in particolare a Milazzo dove lo scorso 13 gennaio 2012 la Guardia di Finanza ha messo i sigilli alla Euroimpianti, scrive “Oggi Milazzo” il 24 febbraio 2012. Oggi le fiamme gialle hanno posto sotto sequestro l’intero patrimonio della famiglia e posto ai domiciliari tre persone e denunciate altre cinque. Il provvedimento è stato emesso dal gip di Termini Imerese, su richiesta del sostituto procuratore Francesco Gualtieri. I Cavallotti sono accusati di trasferimento fraudolento di valori. Le Fiamme gialle, nel corso dell’operazione, hanno messo i sigilli anche a una società operante nel settore della realizzazione di impianti di metanizzazione. Nell’ambito dello stesso provvedimento è scattato il sequestro anche per i beni già sotto sigilli dal mese scorso. Sotto chiave quindi la Euroimpianti, con sede a Milazzo specializzata nelle imprese pubbliche per il trasporto di gas, 12 terreni ricadenti nel comune mamertino, 16 autoveicoli e 37 autocarri. Sottoposta a sequestro patrimoniale anche la Imest, mentre già nell’ottobre dello scorso anno era stata confiscata la Comest. Si tratta di sigle attive in tutta la Sicilia, ma anche in Calabria ed Abruzzo, vincitrici di parecchie commesse pubbliche per la metanizzazione dei comuni. Beni riconducibili, secondo gli investigatori, ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, paese d’origine del politico Saverio Romani. I fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Francesco. Cavallotti sono, secondo gli inquirenti, legati alla criminalità organizzata facente capo a boss del calibro di Spera e Provenzano. Arrestati poi prosciolti nell’operazione Grande Oriente del 1998, nell’ottobre 2011 viene loro confiscato il patrimonio da 20 milioni di euro. Ora il nuovo sequestro: secondo gli investigatori infatti dopo la confisca avevano avviato nuove imprese, intestate ai figli, che malgrado il modesto avviamento commerciale riuscivano ad aggiudicarsi importanti commesse pubbliche pressoché immediatamente. A Milazzo la Euroimpianti ha partecipato nel 2009 alla gara di ammodernamento della rete del metano, insieme alla Eurovega dell’orlandino Mangano.
Da notare che a proposito della mafiosità dei Cavallotti vi è sempre una sentenza definitiva di assoluzione, mentre gli articoli parlano di atti adottati dai magistrati inquirenti. Negli articoli, altresì, come sempre sulle notizie di cronaca, manca la voce della difesa.
Altro esempio di cattiva pratica giornalistica è l’articolo che segue: Così la mafia sbarca a Novara. Per loro: puttana per i pubblici ministeri; puttana per tutti….e puttana per sempre. Fa niente se si parla di gente assolta e, comunque, non ancora condannata dai magistrati. Ma da qualcuno preventivamente condannata …e come!
Il caso dell’impresa dei fratelli Cavallotti: vicini a Provenzano, lavoravano in città, scritto da Alessandro Barbaglia. Articolo tratto da Tribuna Novarese. «E adesso dire che siamo un’isola felice in cui la mafia non riesce ad arrivare sarà quantomeno complesso. E già perché la Euro Impianti Plus, la ditta di Milazzo che su Novara (e in mezza Italia) nel settembre 2011 vinse l’appalto per la manutenzione degli impianti dell’Italgas da gennaio è stata posta in amministrazione giudiziaria per sequestro antimafia. Ma dove? A Novara di Sicilia? No no, a Novara casa nostra. Una cosa non da poco visto che agli imprenditori titolari della Euro Impianti Plus, i fratelli Gaetano e Vincenzo Cavallotti (già processati e assolti nel 2010 dall’accusa di concorso in associazione mafiosa perché ritenuti vicini al boss Bernardo Provenzano), la sezione di prevenzione del tribunale di Palermo ha confiscato complessivamente un patrimonio da 20 milioni di euro. Un sequestro che ha portato l’intera ditta ad essere posta in amministrazione giudiziaria, organizzata e gestita, per conto dello Stato, da uno studio legale di Palermo con clamorosi sviluppi che hanno avuto risvolti anche su Novara. Ma la Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, che cos’è e come arriva a Novara? Costituita nel 2006 dalle ceneri di altre ditte finite sotto la lente degli investigatori, la Euro Impianti Plus arriva a Novara nel settembre 2011 quando, come detto, vince l’appalto di manutenzione di Italgas. I titolari sono i fratelli Cavallotti: arrestati nel 1998 nell’ambito dell’operazione Grande Oriente con cui venne colpita la cosca dell’allora latitante Bernardo Provenzano vennero assolti in primo grado, condannati in secondo per finire rimandati ad altro giudizio terminato con una seconda assoluzione nel 2010. Un processo strano: i nomi dei fratelli Cavallotti comparivano oggettivamente sui pizzini di Provenzano; secondo l’accusa quei pizzini dimostravano che i Cavallotti erano complici di Provenzano per conto del quale ottenevano commesse e appalti in Sicilia forti del loro essere titolari di un’impresa di mafia, secondo il giudice però i Cavallotti venivano citati nei pizzini genericamente, e senza che se ne potessero accertare responsabilità, al limite solo in quanto vittime di racket. Fatto sta che nel 2011 i Cavallotti con la Euro Impianti Plus vincono l’appalto a Novara per la manutenzione Italgas. Il primo lavoro di grande visibilità di cui devono occuparsi sulla città è l’allaccio all’Inps per installare una caldaia a metano in viale Manzoni. Un lavoro grosso: bisogna chiudere un pezzo di viale Manzoni e modificare la viabilità. Non solo, in contemporanea, analoghi interventi, dovevano essere fatti dalla Euro Impianti Plus in largo Don Minzoni e via Gnifetti. Ed è allora, a marzo, che si scopre quello che è successo a gennaio in Sicilia e che solo oggi è palese anche a Novara: la Euro Impianti Plus non può eseguire i lavori direttamente, li fa fare a una ditta del territorio autorizzata e controllata dall’amministrazione giudiziaria che ha, di fatto, rilevato il Cda della ditta siciliana. Dopo i sequestri di gennaio e il passaggio dei beni allo Stato le opzioni erano due: far saltare la Euro Impianti Plus e tutti gli appalti vinti o assumere la guida della ditta ricollocando i lavori a imprenditori “puliti” che operavano già sui territori per conto della Euro Impianti Plus. Su Novara l’amministrazione giudiziaria opta per questa ipotesi e così la ditta che affittava i capannoni come base per le Euro Impianti Plus a San Pietro Mosezzo, Edil Penta’s di Carmine Penta, viene vagliata e considerata idonea (dopo consegna di tutta la documentazione necessaria e di certificazioni antimafia) per lavorare come ramo sano nel novarese. Ecco perché i lavori in viale Manzoni proprio dagli uomini della ditta di Penta vennero eseguiti. Ed ecco che si scopre come una ditta poi finita in amministrazione giudiziaria per sequestro di antimafia avesse vinto appalti per lavorare a Novara. Le indagini delle Fiamme Gialle che hanno portato al sequestro della Euro Impianti Plus nel gennaio scorso sono partite dall’ennesimo, sospetto, aumento di capitale (il terzo in poco tempo). L’accusa per i titolari è stata di trasferimento fraudolento di valori. Da lì è scattato il sequestro. Resta una considerazione: è questa un’altra dimostrazione di come la nostra città sappia reagire e scovare le ditte in odore di malavita e sostituirle con altre sane del territorio? No: a Novara nessuno si è accorto di nulla, né dello sbarco della ditta dei fratelli Cavallotti né della loro sostituzione dopo il sequestro antimafia. L’intera operazione è stata gestita da chi, evidentemente, queste dinamiche le ha viste, le forze dell’ordine siciliane, e ha sentito una forte puzza. Di gas, ovviamente. Ma a Milazzo cosa dicono? La Euro Impianti Plus conferma tutta la ricostruzione dei fatti? E’ effettivamente in amministrazione giudiziaria per ragioni di antimafia? Se si chiamano gli uffici dell’impresa, dei fratelli Cavallotti si parla senza alcun problema. “Confermo quello che dice lei: la Euro Impianti Plus è da gennaio in regime di amministrazione giudiziaria per un sequestro di beni che ha coinvolto il precedente comitato di amministrazione”. Quello guidato da Vito e Gaetano Cavallotti? “Esattamente”. Sequestro avvenuto per ragioni di antimafia. “Io sul tema non posso dire nulla. L’amministrazione giudiziaria ha rinnovato interamente il Cda di Euro Impianti Plus e il nuovo corso sta lavorando sui territori tempestivamente e in maniera eccellente”. Sui territori? Perché oltre a Novara dove opera la “nuova” Euro Impianti plus dell’amministrazione giudiziaria? “Novara, San Remo, Chiavari, Carrara, Napoli, Caltanissetta ed Enna”. Tutti appalti vinti dalla “vecchia” Euro Impianti Plus. Insomma, tutti appalti vinti dai fratelli Cavallotti. “E’ così”. E non è strano? Non è strano che una ditta che poi finisce sotto sequestro vinca con Italgas appalti di manutenzione in tutta Italia? “Io non ci vedo nulla di strano, per vincere quelle gare bisogna rispettare requisiti e consegnare documentazioni che vengono vagliate attentamente. Evidentemente se quegli appalti sono stati vinti è perché c’erano i requisiti”. Poi però il sequestro di gennaio cambia questa prospettiva. “Del sequestro, ripeto, non sono autorizzato a parlare. Posso dire che l’intervento dell’amministrazione giudiziaria ha permesso di portare avanti i cantieri in maniera corretta e tempestiva nonostante le vicende giudiziarie”. Senta, l’appalto di Novara quanto vale? “Non posso dirglielo, non sono notizie pubbliche”. Cioè, importo, numero e la durata di validità del contratto sono notizie che non possiamo avere? “Non sono notizie di dominio pubblico. Posso solo dire che questi contratti durano, solitamente un paio di anni”. E a Novara sono iniziati a settembre 2011? “Questo lo dice lei. Diciamo che l’aggiudicazione è sicuramente recente”.»
Detto questo: da Bari abbiamo iniziato ed a Bari finiamo l’inchiesta. La Corte di Appello di Bari ha revocato la confisca delle case di proprietà delle figlie di Antonio di Cosola, il boss barese capo dell’omonimo clan da alcuni mesi sottoposto al regime del 41 bis. Accogliendo il ricorso proposto dal difensore delle ragazze, l’avvocato Giuseppe Giulitto, contro la sentenza emessa dal Tribunale di Bari (sezione misure di prevenzione) nel gennaio 2012, i giudici del secondo grado hanno ordinato la restituzione dei beni alle figlie del boss, mai state coinvolte in indagini sulla criminalità organizzata. Si tratta di due appartamenti in via Regina Margherita a Ceglie del Campo, alla periferia di Bari. La Corte di Appello ha infatti ritenuto che una delle due figlie, oggi 30enne, “sia stata sempre estranea al nucleo famigliare di suo padre”. Soltanto dopo il 2008, quando è stata confiscata la casa del boss, Antonio Di Cosola con la moglie e un altro figlio hanno abitato nell’appartamento di proprietà della giovane. L’altra figlia, di 27 anni, con “reddito lecito e dichiarato da lavoro dipendente”, “nel 2006 si è allontanata dal suo nucleo famigliare e, dopo essere andata ad abitare con i nonni materni, ha acquistato da costoro (nel 2007, ndr) l’immobile” mediante un mutuo bancario. “Non si rilevano – concludono i giudici – indizi sufficienti che possano far ritenere che i beni oggetto di confisca siano in tutto o in parte frutto di attività illecite e ne costituiscano il reimpiego». Del resto, osserva la Corte di Appello richiamando sentenze della Cassazione, “la disciplina delle misure di prevenzione non ha e non può avere la finalità di sanzionare i terzi, tantomeno retroattivamente”.
Questo a Bari. A Palermo le colpe dei padri, se di colpe si tratta, ricadono sempre sui figli.
Inchiesta. La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati.
Come si vampirizzano le aziende sane. Di Antonio Giangrande
«L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»
Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione. “La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute”, ha detto nel suo discorso di insediamento. “La corruzione – ha aggiunto – ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci”. Il capo dello stato ha citato le “parole severe” di Papa Francesco contro i corrotti, “uomini di buone maniere ma di cattive abitudini”. Ed ha sottolineato quanto sia “allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti”. A giudizio del presidente Mattarella occorre “incoraggiare l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie – ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione – abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità”. Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c’erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.
Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.
Dopo l’elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l’elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: “Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia”. Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: “Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L’uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia”. Un commento che di certo farà discutere.
«L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire.
L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.
L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.
Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l’illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!
L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.
Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO’.
A cosa porta per davvero l’interesse dell’Antimafia se non tutelare le vittime dell’estorsione e dell’usura, così come propinata?
Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.
I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.
I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.
Firma l’appello: “Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra”, si legge sul sito web di “Libera”. “Cosa nostra”? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. “Cosa vostra”? Con quale diritto?
“Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività”, si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di “Libera” e della CGIL.
Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.
Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola “Il silenzio è dolo”. Marco Ligabue l’ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati “selezionati” gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L’iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l’appoggio del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che “la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli”. Della selezione e dell’operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l’associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all’appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.
«Mafia dell’Antimafia: l’inchiesta di Telejato audita in Parlamento – scrive Pino Maniaci – C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l’uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia – Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le – forse volute – incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».
Il business dell’Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.
Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L’amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato. Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.
Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…
Non è cosa loro!
BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!
“Cose nostre: per un uso sociale dei beni confiscati alla mafia” recita il titolo di un convegno tenuto il 12 febbraio 2015 a Manduria nel tarantino e promosso dai Verdi e dal movimento Giovani per Manduria. A relazionare sul tema son venuti da Mesagne, nel brindisino, quelli di “Libera” ed erano presenti soggetti istituzionali di Manduria e di Mesagne.
“Cose nostre” si affermava nel titolo del convegno, mutuata dallo spot nazionale di “Libera” come se di una espropriazione proletaria si trattasse.
La Gazzetta del Mezzogiorno e Manduria Oggi ha dato ampio risalto all’evento.
Già nel marzo 2010 si leggeva su La voce di Manduria che “Il comune bandirà una gara per l’affidamento alle associazioni di tutti i 25 beni (terreni ed immobili) confiscati alle due famiglie mafiose Stranieri e Cinieri di Manduria. I primi tre lotti riguardano l’ex ristorante Tutti Frutti ed altre due villette a San Pietro in Bevagna. L’associazione contro le mafie, Libera, coordinerà i progetti finanziati dalla Regione Puglia.
Già da allora “Libera” voleva mettere le mani sui beni manduriani, non riuscendoci.
Si legge su Manduria Oggi del 3 dicembre 2014 «Quando la Regione Puglia, nel 2010 varò il progetto “Libera il Bene”, una iniziativa che promuoveva, con finanziamenti, il recupero e il riuso dei beni confiscati, nessun ente locale della provincia di Taranto partecipò, perdendo così una occasione preziosa» ricorda Anna Maria De Tomaso Bonifazi, referente per la provincia dell’associazione “Libera”. «Più volte “Libera”, fin dal 2004, ha chiesto di conoscere lo stato degli immobili confiscati sia al Comune di Taranto che a quello di Manduria, ricevendo risposte evasive. Eppure proprio a Manduria, in un periodo di commissariamento del Comune, il Prefetto di Taranto e i referenti nazionali di “Libera” riuscirono finalmente a mettere a bando i beni confiscati. Ma ci accorgemmo ben presto che si trattò di una vittoria di Pirro, perché, con l’elezione del nuovo Consiglio Comunale, il sindaco che si insediò annullò tutto e, di fronte alle rimostranze di “Libera”, non seppe fornire spiegazione alcuna, se non rifacendosi ad una decisione del segretario generale del Comune».
Vorrei, se possibile, come presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, associazione antiracket ed antiusura riconosciuta dal Ministero dell’Interno, in quanto iscritta presso la prefettura di Taranto dal 2006, ma non facente parte della sfera di Libera, contribuire a far chiarezza su un dato, tenuto conto che nei convegni si devono sentire tutte le campane e fare compendio, specialmente se in quel convegno di diritto si avrebbe avuto interesse a prendere la parola. Non foss’altro per spirito territoriale, avente la sede legale a 10 km da Manduria. E non è per spirito polemico, ma per ragioni di verità, per non far passare dei principi non esatti ma ritenuti come tali, in virtù dell’ampia visibilità che a “Libera” si dà. Opinioni secondo scienza e coscienza forte delle mansioni nazionali che ricopro.
Si spera che la mia precisazione abbia lo stesso risalto che si è dedicato ai presenti al convegno.
Descrizione del Fenomeno, si legge sul sito della Commissione Nazionale Antimafia. Uno degli elementi fondamentali per sconfiggere le mafie è procedere al loro impoverimento confiscando loro tutti i beni e i patrimoni acquisiti mediante l’impiego di denaro frutto di attività illecite. Si tratta di un principio fondamentale che Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista in Sicilia e parlamentare della Commissione antimafia, ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, capì in modo molto chiaro. Infatti, la legge che successivamente introdurrà nel codice penale italiano l’articolo 416-bis e altre norme, denominate misure patrimoniali, che consentono la confisca dei capitali mafiosi, porta il suo nome insieme a quello dell’allora Ministro dell’Interno, Virginio Rognoni. I beni dei quali sia stata accertata la proprietà da parte di soggetti appartenenti alle organizzazioni mafiose vengono confiscati, vale a dire sottratti definitivamente a coloro che ne risultano proprietari. Questi beni sono rappresentati da immobili (case, terreni, appartamenti, box, ecc.), da beni mobili (denaro contante e titoli) e da aziende. Secondo quanto previsto dalla legge 7 marzo 1996, n. 109, una legge di iniziativa popolare sostenuta dalla raccolta di un milione di firme da parte dell’associazione Libera, i beni immobili possono essere usati per finalità di carattere sociale. Questo significa che essi possono essere concessi dai comuni, a titolo gratuito, a comunità, associazioni di volontariato, cooperative sociali e possono diventare scuole, comunità di recupero per tossicodipendenti, case per anziani, ecc. Nelle regioni meridionali, ad esempio, sono sorte delle Cooperative sociali di giovani che coltivano terreni confiscati alle organizzazioni mafiose producendo pasta, vino e olio. In base alle previsioni della legge finanziaria 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296, comma 201-202) i beni confiscati possono essere assegnati anche a Province e Regioni. I beni immobili non assegnati ai comuni sono acquisiti al patrimonio dello Stato e vengono utilizzati per finalità di giustizia, ordine pubblico e protezione civile. I beni mobili vengono trasformati in denaro contante, il quale viene successivamente depositato in un apposito fondo prefettizio. Le aziende vengono vendute, date in affitto o messe in liquidazione. Il ricavato viene versato nel fondo prefettizio. La Cancelleria dell’Ufficio giudiziario provvede a comunicare il provvedimento definitivo di confisca ai seguenti soggetti: l’Ufficio del territorio del Ministero delle Finanze, il Prefetto, il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno. L’Ufficio del territorio una volta stimato il valore del bene da assegnare sente il Prefetto, il Sindaco, l’Amministrazione ed entro novanta giorni formula una proposta finalizzata all’assegnazione del bene. È il Direttore Centrale del Demanio che entro trenta giorni emette il provvedimento di assegnazione.
Bene. Su tutti i territori italiani operano delle associazioni distribuite per competenza provinciale ed iscritte presso le rispettive Prefetture. Dichiarazione, relazione e documentazione comprovante l’attualità dei requisiti e delle condizioni prescritte di cui agli artt. 1 e 3 del regolamento (DM 220 del 24/10/2007) recante norme integrative ai regolamenti per l’iscrizione delle associazioni e organizzazioni previste dall’art. 13, comma 2, L. 44/99 e dall’art. 15, comma 4, L. 108/96.
Associazioni antimafia che operano per assistere le vittime di estorsione ed usura, molte delle quali non fanno capo a Libera, che, spesso, presso la CGIL fa eleggere domicilio alle delegazioni locali.
Quindi sfatiamo un fatto: i beni confiscati non sono roba loro, ossia di “Libera”.
Un’altra cosa. I beni già sequestrati in odor di mafia, si confiscano solo a sentenza di condanna definitiva. In caso contrario tornano ai legittimi proprietari. Ma di altre questioni nei convegni di cui si parla ci si dovrebbe occupare: Ossia denunciare pubblicamente quello che la gente non sa circa gli interessi economici e politici che ruotano intorno ai beni sequestrati, prima, ed eventualmente confiscati, poi…
Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. «Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia», ha spiegato Nello Musumeci, presidente della commissione regionale (siciliana ndr), che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria. Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante, pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta. Questo vale per la Sicilia, così come vale per tutta l’Italia.
Spero di aver dato un contributo costruttivo al dibattito.
Mafia: quello che la Stampa di regime tace
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
Le Associazioni Antiracket
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…).
Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti.
«L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!».
Va giù duro il presidente Antonio Giangrande.
« Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D'altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!»
Continua Antonio Giangrande.
«Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore.
A proposito di Mafia e Terrorismo islamico.
L’opinione del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
A proposito delle vittime della Mafia e del Terrorismo islamico ed i soliti pregiudizi idioti. Per una volta, noi meridionali d’Italia vittime del razzismo becero ed ignorante, mettiamoci nei panni di quei mussulmani che terroristi non sono.
Il 19 marzo 2016 i media parlano della cattura di Salah Abdeslam, il terrorista islamico detto «la bestia», capo del commando che la sera del 13 novembre 2015, al grido di «Allah Akbar», assaltò a Parigi il Bataclan. In quella discoteca rimasero a terra i corpi di 93 persone. Per quattro mesi un quartiere islamico, Molenbeek, gli ha fatto da rifugio. Molenbeek, quartiere islamico di Bruxelles, a meno di un chilometro dal Parlamento Europeo. Cosa sono a Molenbeek, tutti terroristi, o anche solo estremisti, o solo gente ignara della presenza del terrorista? La risposta perentoria la dà Alessandro Sallusti su “Il Giornale” del 19 marzo 2016. “No, sono quelli che in molti definirebbero «islamici moderati», «integrati», «fratelli in altra fede» – dice Sallusti -. Sono l’equivalente di quei «cittadini onesti» che in Sicilia hanno protetto nell’omertà la latitanza di Totò Riina e Bernardo Provenzano, i capimafia ricercati per anni in tutto il mondo che se ne stavano tranquillamente a casa loro”.
Certo ci ricordiamo le immagini di quando, in talune città del Sud Italia, alla cattura di qualche malvivente, in sua difesa, i suoi pochi amici e parenti si frapponevano alle forze dell’ordine. Non vuol dire, però, che il resto della cittadinanza fosse criminale e ne agevolasse la latitanza.
Certo è che l’islam è una religione, ma anche una setta: non esiste il giusto o sbagliato, il bene o il male. Vale solo «o con me o contro di me». E chi è contro è un infedele.
Ma questo vale, a ragion del vero, anche per il comunismo. Il comunismo è anch’esso una religione-setta, ma ce ne passa a considerare tutti i comunisti come terroristi durante gli anni di piombo con i morti ammazzati dalle Brigate Rosse.
L’assioma vale, addirittura, per l’idiotismo. Sì perché dell’idiotismo si fanno partiti politici che vanno per la maggiore. Incompetenti tuttologi mediatici. Se non si è padano si è meridionale o mussulmano terrorista. Fa niente se tra i padani ci sono gli stessi trapiantati arabi, africani e meridionali, la cui propria origine denigrano richiamando mafiosità e islamicità terroristica. Qualcuno dice che le altre religioni (ebrei, buddisti, ecc.) e le altre comunità (cinesi, filippini, ecc.) non si sentono per niente: dove li lasci, lì li trovi. Forse, perché, come gli scandali al nord, non si ha interesse a parlarne e la devianza, quando non è islamica o meridionale, non fa notizia?
Tra Mafia e Terrorismo Islamico, certamente nessuno deve dimenticare il terrorismo di Stato: le morti per l’ingiustizia, come per la sanità, o per la povertà e l’emarginazione.
Noi meridionali d’Italia che non siamo mafiosi e non siamo complici dei mafiosi (tipo Riina o Provenzano) né siamo collusi con gli antimafiosi che le aziende le mettono ko in nome dell’antimafia politica e dell’espropriazione proletaria; noi che non siamo tali ma additati come se lo fossimo, cosa penseremmo se qualche idiota dicesse che, per difendere la propria sicurezza, si dovrebbe andare a bombardare da Roma in giù tutto il Sud Italia come si farebbe in Siria o in Libia, perchè a Napoli come a Palermo son tutti mafiosi per antropologia? O cosa penseremmo se si dicesse che si dovrebbero cacciare tutti i meridionali dal meridione d’Italia, perchè sono biologicamente e culturalmente mafiosi, come si vorrebbe fare in Europa con tutti i mussulmani, considerati, da questi idioti, tutti terroristi?
La risposta sarebbe: queste idiozie lasciamoli uscire dalle bocche dei soliti noti. Ma altrettanto idiota sarebbe appoggiare la cazzata opposta del falso buonismo: accogliamo pecore e porci, anche quando non siamo in grado di ospitarli e di sostentarli ed in nome della multiculturalità rinunciamo in casa nostra alla nostra cultura, ai nostri usi ed alle nostre tradizioni.
Basterebbe, per buon senso, per difenderci da mafia e terrorismo islamico, solo esercitare i dovuti controlli all’entrata e far rispettare le leggi durante il soggiorno, inibendo, così, le speculazioni politiche della destra e le speculazioni economiche della sinistra. Speculazioni create ad arte per gli italioti.
Antimafia razzista e censoria
ANTIMAFIA RAZZISTA E CENSORIA. PERCHE’ CE L’HANNO CONTRO I MERIDIONALI?
Dici Calabria o Sicilia o Campania, pensi a tutto il Sud Italia.
Nei libri scritti da Antonio Giangrande, “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE”, “MEDIOPOLI. DISINFORMAZIONE, CENSURA ED OMERTA’” ed “ITALIA RAZZISTA”, un capitolo è dedicato all’Antimafia razzista e censoria.
Su questo tema Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti del razzismo palese o latente contro il popolo dell’Italia meridionale si è soffermato prendendo spunto dai fatti di attualità.
Quando i posti di chi ha ragione sono tutti occupati……..e gli occupanti parlano, anche il Papa si fa abbindolare………
Gli ‘ndranghetisti rinchiusi nel carcere di Larino non vogliono più partecipare alla messa della domenica, scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”. Dopo le parole pronunciate da Papa Francesco proprio in Calabria (“Coloro che nella loro vita hanno questa strada di male, i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati”), in tanti hanno protestato con il cappellano del penitenziario don Marco Colonna e annunciato che non parteciperanno più alle funzioni in cappella. E lo sciopero della messa è andato avanti per giorni. A rivelarlo è stato il vescovo di Termoli-Larini Gianfranco De Luca che ha varcato la soglia del carcere di Larino per incontrare i detenuti che protestano e officiare una messa speciale per loro. “Ma per favore non parlare di rivolta… – s’infuria don Marco rispondendo alle domande di Repubblica.it – qui nessuno è in rivolta. Oggi alla messa erano in tanti per fortuna. La verità è che in questi giorni tanti detenuti hanno manifestato dubbi e proteste dopo le parole del Papa. Parole che a quanto pare hanno colpito nel segno se tanti di loro sono venuti a parlarmi per chiedermi cosa dovevano fare. Se dovevano ritenersi scomunicati. Alcuni mi hanno detto: padre, ma se siamo scomunicati noi a messa che ci veniamo a fare? A questo punto non veniamo più… Io invece ho spiegato loro che il Papa non vuole cacciare nessuno. Ha indicato solo la retta via, ha chiesto la loro redenzione, non la loro espulsione”. Ed è stato il vescovo di Campobasso, Giancarlo Bregantini a confermare la vicenda: «la Sezione di alta sicurezza del carcere di Larino – ha spiegato durante un intervento alla radio Vaticana – si è messa in protesta con questa frase: “Se siamo scomunicati, a Messa non vale la pena andarci”. Ne hanno parlato con il cappellano; quest’ultimo questa mattina ha invitato il vescovo al carcere per parlare e spiegare il senso dell’intervento del Papa. Questo dimostra come non sia vero che dire certe cose, sia clericalismo; in realtà le parole del Papa, come quelle della Chiesa e di Gesù Cristo, hanno sempre una valenza etica che diventa poi sempre culturale ed economica, quindi con grandi riflessi politici». La direttrice del carcere Rosa Ginestra ha voluto comunque smentire la notizia della rivolta. «Ma chi ha usato il termine rivolta? Quale rivolta… E’ falso. Oggi in carcere è un giorno tranquillo come gli altri». E don Marco spera di aver fermato lo sciopero della messa. A Oppido Mamertina, nelle stesse ore, esplode il caso della Madonna portata in processione davanti alla casa di un boss ergastolano ai domiciliari. “Interverremo con provvedimenti energici”, assicura il vescovo.
Il razzismo è latente: dici Calabria, pensi al Sud Italia.
RAZZISTI. SE QUESTA E’ L’ANTIMAFIA. Questo è un pezzo scritto da Nando Dalla Chiesa. Esso va letto con gli occhi e con il senso che si può dare al di là delle parole. Si capisce fino in fondo quanto può essere cattivo l’animo umano di un settentrionale. Interi paesi del nord Italia contro l’infiltrazione della ‘ndrangheta? No. Contro l’inserimento dei calabresi nel loro territorio padano. “Mettiamola così: questo è un diario di bordo, una testimonianza doverosa di un militante dell’antimafia che in vita sua ne ha viste, studiate e sentite tante. E che una sera capita a Viadana, ricca provincia mantovana. Invitato da militanti locali del Pd che vogliono dare la sveglia all’ambiente. Strattonare gli ignavi, gridare che con la ‘ndrangheta non si può convivere. “Per favore, vieni a presentare il tuo Manifesto dell’Antimafia, ce n’è bisogno”. E’ la sera di martedì 1 luglio quando arrivo a Viadana dopo un passaggio alla biblioteca comunale di Mantova. Ho già scoperto dai toni tirati, preoccupati, usati nell’occasione dall’ex sindaco del capoluogo Fiorenza Brioni che deve esserci qualcosa di grave nell’aria. La classica cortina di ferro, già vista innumerevoli volte, da Palermo a Milano, tirata su, stavolta anche a sinistra, in difesa del solito argomento: l’inesistenza della mafia in provincia, la rimozione maledetta; magari pure la derisione o l’alzata di spalle verso che denuncia. Affetto da protagonismo, mosso da ragioni personali. E’ appena finita una bufera d’acqua. La presentazione, prevista in piazza, è stata spostata sotto i portici. Che sono già affollati all’ora dell’inizio, file di sedie bianche che gli organizzatori continuano ad allungare e allargare all’esterno dei portici. Al tavolo un membro del circolo anti-‘ndrangheta del Pd locale (commissariato come l’altro), un esponente dell’associazionismo e il corrispondente della “Gazzetta di Mantova”. Non ci vuole molto per capire che l’atmosfera è elettrica. Che i presenti (c’è anche qualcuno di Forza Italia) vogliono ribellarsi a qualcosa. Vengono subito in mente gli incontri fatti negli ultimi anni a Desio, Lonate Pozzolo, Bordighera, i comuni dove i clan calabresi avevano affermato il loro dominio contrastati da un pugno di persone senza ascolto nei partiti. Questa è zona di tradizioni democratiche. Eppure è successo qualcosa che ha sconvolto tutto. “Viadana è nostra” giurava gongolando nel 2006 un giovane esponente dei clan in una telefonata. Una millanteria? No, i segni ci sono tutti. Gli incendi, linguaggio inconfondibile e prova provata della presenza mafiosa. Le imprese edili calabresi infarcite di pregiudicati che crescono nel mezzo di una crisi che non risparmia nessuno. L’ingresso di tesserati sconosciuti nel maggior partito di governo (il Pd), provenienza Isola di Capo Rizzuto e zone confinanti. Gli avvertimenti che giungono sibillini a chi promuove in consiglio comunale un questionario da dare ai cittadini sulla percezione della presenza mafiosa, nulla di forte, per carità, ma loro capiscono e prendono cappello lo stesso. O l’assessore che porta un ferito da arma da fuoco in ospedale asserendo di averlo raccolto per strada come un buon samaritano: uno sconosciuto, dice; mentre l’interessato lo dichiara amico suo. Eccetera eccetera. Un oratore racconta che chi ha dato i volantini della serata è stato seguito e oggetto di attenzioni non amichevoli. Il giornalista aggiunge che quando ha indagato sull’accoglienza riservata al questionario, si è imbattuto nel vittimismo. Ce l’hanno con noi perché siamo calabresi, è un pregiudizio razzista. Obietto che i veri razzisti sono gli uomini dei clan, visto che in tutte le conversazioni intercettate identificano se stessi con “la Calabria”. Mi viene poi detto che i più tosti nell’innalzare la bandiera vittimista non ne vogliono però sapere di prendere le distanze dagli Arena, il clan che a Isola di Capo Rizzuto spadroneggia che è un piacere. “E’ accaduto tutto quello che dici nel libro. Le tre ‘C’, i complici, i codardi e i cretini. L’avessimo saputo prima… anche il gemellaggio che dici, pure quello abbiamo fatto, con la processione del loro santo. Ma ti rendi conto?”. Mi rendo conto. L’ho visto decine di volte. E’ così che conquistano i paesi, che si mette nelle loro mani un pezzo d’Italia dopo l’altro. Con le autorità che concedono le white list a imprese assai discusse, per non avere grane con il Tar. Con i partiti più preoccupati dei loro equilibri interni che dei drammi del paese e che proprio non ci riescono a pensare come se fossero lo Stato. Metti una cosa dietro l’altra e alla fine succede la cosa più logica: vincono loro. Soprattutto se chi si ribella viene commissariato”.
SINONIMI E CONTRARI: ‘NDRANGHETISTA E’ UGUALE A CALABRESE. QUEL FASTIDIOSO MARCHIO MESSO NERO SU BIANCO DA DALLA CHIESA. “Nei cantieri che sono di Expo abbiamo rilevato segni di presenza mafiosa così come abbiamo rilevato la capacità delle organizzazioni criminali di inserirsi in opere anche appaltate direttamente da Expo. C’è una situazione che deve essere controllata meglio”. È questo l’allarme lanciato dal presidente del Comitato antimafia del Comune di Milano, Nando Dalla Chiesa, nel corso della presentazione della V relazione stilata dall’organo da lui presieduto il 3 agosto 2014. Una relazione questa presentata “con una certa urgenza – ha chiarito Dalla Chiesa – e che riporta i segni di presenza mafiosa riscontrati dal Comitato”. Fin qui tutto nella norma potremmo dire, Ferdinando Dalla Chiesa presiede il Comitato antimafia del Comune di Milano che a sua volta stila una relazione nella quale segnala la presenza di forze mafiose nei cantiere dell’Expo. Nulla da dire se non fosse che nel documento in questione i calabresi tutti vengano bollati come affiliati alla ‘ndrangheta, ma andiamo con ordine, scrive Maria Chiara Coniglio su “Telemia”. Dalla Chiesa nel corso della conferenza stampa del Comitato antimafia ha detto senza troppi giri di parole che bisogna chiudere i varchi non agli ‘ndranghetisti ma ai calabresi. Una gaffe, può aver pensato qualcuno, e invece no, Dalla Chiesa a scanso di equivoci ha ampiamente ribadito il concetto all’interno del documento in cui per ben 13 volte il termine calabrese viene utilizzato come sinonimo di ‘ndranghetista. Nel testo si fa infatti riferimento alla presenza di “padroncini calabresi nello svolgimento di lavori che pur si realizzano a forte distanza dai comuni di loro residenza” o ancora a come l’impresa Perego avesse il compito di mantenere “150 famiglie calabresi”. Insomma basta con questo stupido buon senso e addio al non far di tutta l’erba un fascio, un capro espiatorio dovrà pur esser trovato e qual miglior posto della Calabria per dar frutto ad una simil ed ardua ricerca. Del resto in regione al fango si è purtroppo concesso che ci abituassero e poco è stato fatto per rimuovere il marchio dei brutti, sporchi e cattivi. Calabrese è uguale a ‘ndranghetista ed ora Dalla Chiesa lo ha messo nero su bianco in un documento ufficiale in barba ai calabresi, silenti vittime di un razzismo sempre più manifesto.
Il delegato di Confindustria Calabria per Expo 2015, Giuseppe Nucera, ha inviato una lettera al presidente del Consiglio regionale Francesco Talarico, stigmatizzando la mancata presa di posizione del mondo politico-istituzionale calabrese di fronte alle affermazioni rese nei giorni scorsi da Nando Della Chiesa durante la conferenza stampa di presentazione del rapporto del Comitato Antimafia del Comune di Milano, scrive “Stretto Web”. In quella sede, Dalla Chiesa, che presiede l’organismo, ha affermato che bisogna “chiudere ai calabresi” in quanto ‘ndranghetisti. Nella missiva, Nucera sollecita una presa di coscienza e una corale reazione da parte della società civile e dei corpi intermedi della comunità calabrese. “Alla gravità di quanto sostenuto da Dalla Chiesa – scrive Nucera a Talarico – non è seguita una ferma e forte presa di posizione da parte dei politici calabresi e/o degli organi istituzionali regionali . L’ufficio che lei presiede rappresenta tutti i calabresi residenti e non e, quindi, ci aspettavamo che la massima istituzione della Calabria scendesse in campo per difendere la dignità e l’onore dei suoi cittadini. Silenzio assoluto da destra e da sinistra. Allo sconcerto di quelle dichiarazioni oggi aggiungiamo l’indignazione nei confronti di chi esercita una funzione di rappresentanza dei calabresi”. “Solo Confindustria – aggiunge il delegato degli industriali calabresi per l’Expo – ha preso posizione e porterà in tribunale Nando Della Chiesa. Questo è il fatto. Da qui bisogna partire per iniziare un percorso diverso, una riflessione, una strategia che ci consenta di uscire dal ghetto in cui ci hanno portato. Abbiamo il dovere di reagire per i nostri figli, per i nostri nipoti che vivono, studiano, lavorano in Lombardia e in tutto il mondo” Ad avviso di Giuseppe Nucera, “bisogna reagire con un piano strategico di comunicazione su vasta scala, che metta in evidenza la vera identità del popolo calabrese. Un’identità sfregiata dai mafiosi e da coloro che se ne servono per i loro sporchi affari sia in loco che nel nord Italia. Saranno i giudici a stabilire le responsabilità penali ed a colpire il ghota mafioso e gli ambienti economici che ci sguazzano. Noi siamo positivi, siamo la vera Calabria e chiederemo ai calabresi di scienza, di cultura, di impresa, che hanno dato prova di ottima e sana amministrazione pubblica e privata, di scendere in campo, di testimoniare con la propria storia l’identità di un popolo. E’ un grande impegno a cui dobbiamo far fronte – conclude Nucera – altrimenti ci saranno altri Nando dalla Chiesa e qualcuno, quanto prima, chiederà la deportazione dei calabresi e l’apertura dei campi di sterminio. Adesso basta”.
Da diversi mesi sono troppe le notizie e le illazioni che leggiamo sui media locali e nazionali e sui diversi social network tese a delegittimare un intero sistema economico e sociale. I calabresi non sono tutti malavitosi. Basta con questi vili attacchi, scrive Angelo Marra, Presidente del Gruppo giovani imprenditori di Confindustria Reggio su “Zoom Sud”. Purtroppo l’ostilità mediatica degli ultimi giorni sta innescando un circuito pericoloso che avrà conseguenze molto negative. Credo che quanto stia accadendo non nasca in maniera accidentale, bensì sia il risultato di un’azione ben programmata al fine di delegittimare tutto e tutti, aziende e cittadini, per una volontà politica-commerciale precisa. Se si continua su questa scia, se i vari personaggi pubblici continueranno a descriverci come ‘pericolosi’ o ‘disonesti’, tutte le nostre imprese correranno grossi rischi, perderanno commesse o trattative. In un periodo storico di grandi difficoltà economiche, eliminare un competitor, considerando tra le altre cose, che gli spazi sono sempre più ristretti, è una strategia di mercato. Non sta a noi descriverci come aziende sane e rispettose delle regole, ma tutti gli sforzi fatti fin qui da migliaia di uomini e donne reggini e calabresi, rischiano di divenire vani se continuano ad etichettarci come qualcosa che non siamo. La Calabria è colma di imprenditori onesti e professionali, di giovani talentuosi e vogliosi di fare impresa e dare corpo alle proprie idee. Vogliamo competere ad armi pari con le imprese settentrionali e per farlo pretendiamo dalle istituzioni da un lato maggiori controlli, a garanzia di legalità e trasparenza, e dall’altro, con la stessa scrupolosità, maggiore impegno ad eliminare radicalmente il gap atavico del nostro geographical handicap ”.
QUANDO L’ANTIMAFIA DIVENNE RAZZISMO: CALABRESE= ‘NDRANGHETA. LETTERA APERTA A NANDO DALLA CHIESA. Carissimo dott. Dalla Chiesa (scrive Angelo Costantino Presidente “Giovani Per il Futuro”), curiosando sulla prima pagina de “Il Garantista”,non ho potuto fare altro se non acquistare il quotidiano e sfogliare frettolosamente sino a pag. 4. Il titolo era alquanto emblematico, ma volevo capirci meglio. Non potevo credere ai miei occhi. Le parole riportate nell’articolo, la relazione che Lei ha presentato al Comune di Milano nella veste di coordinatore del comitato antimafia sarebbero dovute essere state scritte da un neofita, ma non da Lei. Lei che ha visto i propri genitori morire sotto i colpi della mafia per le strade di Palermo, Lei che è docente di Sociologia della Criminalità organizzata presso l’Università degli Studi di Milano, Lei che ha ricordato nei suoi scritti Falcone e Borsellino, ma anche uno sconosciuto a molti come Rosario Livatino, Lei che è un esperto dell’argomento non poteva permettersi una simile caduta di stile. Chi Le parla è uno studente di Giurisprudenza presso l’Università Cattolica di Milano, REGGINO CALABRESE INCAZZATO. “Del resto chi è nato e cresciuto da quelle parti, qualcosa da nascondere ce l’ha sempre, al limite qualche parentela o amicizia sospetta.” Con queste parole Lei ha chiaramente voluto intendere che chi nasce in Calabria è marchiato a vita,che calabrese equivale a ‘ndranghetista. Che per noi non v’è alcuna speranza. Lei questa la chiama realtà, io razzismo. Le replico con durezza perché queste parole mi hanno fatto male,e so per certo che rappresento lo sgomento di milioni di calabresi. Lei con poche ma incisive parole ha mancato di rispetto ai milioni di cittadini onesti; ai numerosi ragazzi che militano nelle associazioni antimafia; agli imprenditori che resistono, denunciano, e non pagano il pizzo; ai politici che non si fanno piegare; ai magistrati che per speranza e passione non hanno più una vita normale; ai ragazzi che non si arrendono e sperano ogni giorno in un futuro migliore. Ha offeso suo padre, morto per combattere il sistema. Ha offeso tutti i morti “ammazzati”, i nostri veri eroi. La sua grande conoscenza dell’argomento l’ha portata ad una conclusione ignorante. Non si diventa simboli dell’antimafia sparando a zero o facendo di tutta l’erba un fascio, ma solo arrivando al cuore del problema, lottando e appoggiando la gente onesta e desiderosa di cambiamento, quella stessa gente che Lei ha offeso. La invito a scusarsi per alcune parole da Lei pronunciate e, mi auguro, interpretate in modo errato. Ma soprattutto La invito a venire qui da noi, ospite dei Calabresi onesti, per dimostrarLe che la nostra terra è più bella che maledetta, ma soprattutto ricca di speranza.
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.
L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.
Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di “Inchini tollerati”. Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell’Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la “Costa Concordia” – così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo – era “seguita” da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell’11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all’isola del Giglio era un omaggio all’ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell’isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all’anno quella nave aveva fatto gli “inchini”. Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell’ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito “passeggiare” in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all’isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.
Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.
Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?
Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l’accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora – spiega ancora il sindaco – la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa – chiarisce Giannetta – non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi – sottolinea – siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all’incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d’uomo la vara si fermava all’intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell’attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l’obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l’effigie, venga dissacrata l’onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell’immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».
Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti – fedeli, portatori, istituzioni – a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza, nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».
In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.
L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D’altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?
Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati. Eppure la demagogia e l’ipocrisia non si spegne.
La Madonna si inchina al covo del padrino, processione shock tra i vicoli di Ballarò. Il boss Alessandro D’Ambrogio è in carcere a Novara ma domenica, a Palermo, la sfilata del Carmine gli ha reso onore davanti al luogo simbolo di Cosa Nostra. La chiesa: “Ancora una sosta anomala”, scrivono Salvo Palazzolo e Giorgio Ruta su “La Repubblica”. L’ultimo padrino di Cosa Nostra è rinchiuso nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora tra i vicoli di Ballarò, qui dove due anni fa portava orgoglioso la vara della madonna del Carmine. Domenica scorsa il boss Alessandro D’Ambrogio non c’era. Ma la processione ha voluto comunque rendergli onore: si è fermata proprio davanti all’agenzia di pompe funebri della sua famiglia. Un uomo di mezza età, con la casacca della confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, urla: «Fermatevi». E così la processione della madonna del Carmine si ferma, mentre la banda continua a suonare. La vara tutta dorata di Maria immacolata si ferma davanti all’agenzia di pompe funebri della famiglia del capomafia Alessandro D’Ambrogio, uno dei nuovi capi carismatici di Cosa nostra palermitana. Lui non c’è, rinchiuso dall’altra parte dell’Italia, nella sezione “41 bis” del carcere di Novara, ma è come se fosse ancora qui, tra i vicoli di Ballarò. Questo accadeva domenica, intorno alle 19: la processione ferma per quasi cinque minuti davanti all’agenzia di via Ponticello, tra la gente in festa per l’arrivo della statua della madonna. Fino a un anno e mezzo fa, in questi uffici arrivavano solo poche persone, scendevano da auto e moto di lusso e si infilavano velocemente dentro. Nell’agenzia di pompe funebri dove la processione si è fermata Alessandro D’Ambrogio organizzava i summit con i suoi fedelissimi, ripresi dalla telecamera che i carabinieri del nucleo investigativo avevano nascosto da qualche parte. Ecco perché questo luogo è un simbolo per i mafiosi di tutta Palermo, il simbolo della riorganizzazione di Cosa nostra, nonostante la raffica di arresti e di processi. Ecco perché il capomafia di Ballarò sembra ancora qui: la processione gli rende omaggio nella sua via Ponticello, a due passi dall’atrio della facoltà di Giurisprudenza dove sono in bella mostra le foto dei giudici Falcone e Borsellino il giorno della loro laurea. È questa l’ultima cartolina di Palermo. Ancora una volta, diventa sottilissimo il confine fra mafia e antimafia. Quasi non esiste più confine fra sacro e profano. Due anni fa, D’Ambrogio portava orgoglioso la vara di questa madonna con la casacca della confraternita. Adesso è accusato di aver riorganizzato la mafia di Palermo, aver diretto estorsioni a tappeto e traffici di droga milionari. Ma la processione continua a rendergli onore. I tre fratelli del padrino sono tutti lì, davanti all’agenzia di pompe funebri, per accogliere la festa più importante dell’anno. Franco, con amici e parenti. Iano e Gaetano un po’ in disparte. I fratelli D’Ambrogio non sono mai stati indagati per mafia, ma non è per loro che si ferma la processione. Sembra una sosta infinita, la più lunga di tutto il corteo. Anzi, soste ce ne sono ben poche lungo il percorso. Per i giochi d’artificio o per le offerte di alcuni fedeli. I D’Ambrogio non fanno né fuochi d’artificio, né offerte. Chiedono ai confrati di portare sin sulla statua due bambini della famiglia. Poi, Franco D’Ambrogio saluta con un sorriso. E la processione riprende. «È stata una fermata anomala», ammette fra’ Vincenzo, rettore della chiesa del Carmine Maggiore. «Anche quest’anno è accaduto», sussurra il giorno dopo la processione. «Io ero avanti, su via Maqueda, stavo recitando il santo rosario. A un certo punto mi sono ritrovato solo. Ho capito, sono tornato indietro di corsa, e ho visto la statua della madonna ferma. Qualcuno stava passando un bambino ai confrati, per fargli baciare la Vergine. Cosa dovevo fare? Era pur sempre un atto di devozione quello. Qualche attimo dopo, la campanella è suonata e la processione è andata avanti». Adesso, frate Vincenzo cerca con dolore le parole: «Avevo cercato di esprimere concetti chiari durante la preparazione del triduo della Madonna, richiamando tutti al senso di questa processione così importante. Ho detto certe cose nel modo più gentile possibile, per evitare reazioni, ma le ho dette. Ed è accaduto ancora. Cosa bisogna fare?». Il frate va verso l’altare. «Cosa bisogna fare?», ripete. Da quando l’anziano sacerdote si è ammalato lui è solo nella frontiera di Ballarò, che continua ad essere il regno dei D’Ambrogio, nonostante i blitz disposti dalla procura antimafia. «Da qualche tempo, la Curia si sta muovendo in modo deciso — il tono della voce di fra’ Vincenzo diventa più sollevato — sono stati chiesti gli elenchi dei componenti delle confraternite, e poi il cardinale ha inviato suoi rappresentanti alle processioni ». Anche domenica pomeriggio, a Ballarò, c’era un ispettore inviato dal cardinale Paolo Romeo. Perché Cosa nostra continua ad essere molto legata ad alcune processioni. Uno degli ultimi boss arrestati, Stefano Comandè, era addirittura l’autorevole superiore della Confraternita delle Anime Sante, che organizza una delle più importanti processioni del Venerdì Santo a Palermo. I carabinieri l’hanno fermato alla vigilia di Pasqua, poche ore dopo aver portato in giro per il quartiere della Zisa le statue di Cristo morto e di Maria Addolorata: le microspie hanno svelato che Comandè era fra i registi di una faida che stava per scoppiare. La Curia l’ha rimosso e ha sciolto la confraternita. Anche perché il boss devoto non si rassegnava e dal carcere faceva sapere tramite i familiari: «A giugno faremo un’altra grande processione. E alla confraternita nomineremo una brava persona». Ma questa volta l’intervento della Chiesa è stato severissimo: «Scioglimento della confraternita a tempo indeterminato per infiltrazioni mafiose». È la prima volta che accade in Sicilia.
Gli “inchini” della Chiesa ai boss? Cosa volete, sono le superstizioni dei poveri meridionali sottosviluppati. Su Repubblica il commento di Augias al video della processione palermitana con presunto omaggio mafioso diventa un affondo devastante sulla fede del Sud Italia, scrive “Tempi”. Nella rubrica delle lettere di Repubblica tale Plinio Garbujo chiede oggi a Corrado Augias un commento sul caso – sollevato un paio di giorni fa dalla stessa Repubblica – del «video shock» in cui si vede una scena che il lettore, sulla base della ricostruzione offerta dal quotidiano, sintetizzata così: «Durante la processione della Madonna del Carmine, la statua con il baldacchino si è fermata davanti all’agenzia funebre del boss D’Ambrogio, luogo simbolo di Cosa Nostra, per rendergli onore, mentre lui è in carcere a Novara». «Sembrerebbero notizie del lontano Medio Evo, anche se il fatto è accaduto domenica scorsa», osserva Garbujo, scandalizzato perfino dal fatto che «i genitori che partecipano a tale processione si affrettano a far salire i loro bambini sul baldacchino (…) per poter baciare la Madonna». Insomma, rimprovera il lettore di Repubblica, «siamo nel 2014 dopo Cristo. Di quanto tempo ha ancora bisogno il Sud per potersi liberare di queste tradizioni e di queste manifestazioni in cui chi comanda non è la parrocchia – e a quanto pare nemmeno il Papa – ma il boss locale?». Bene. A parte l’avventatezza del giudizio di Garbujo (è ancora tutta da verificare la tesi secondo la quale la tappa della processione filmata da Repubblica fosse in effetti un “inchino al boss”), quello che stupisce davvero – si fa per dire – è la risposta di Augias, il quale anziché restituire il giusto spazio al dubbio sulla vicenda, come ci si aspetterebbe da un intellettuale laico quale egli dice di essere, decide di approfittarne per buttare là valutazioni anche più spinte. «Gli abitanti di quelle città riusciranno mai a rendersi conto che siamo cittadini d’Europa dove si rispettano le regole, si pagano le tasse, si protegge il territorio e non ci si nasconde dietro all’omertà e al servilismo interessato per qualche favore clientelare?», domanda indignato il lettore in coda alla missiva. «Non lo so», replica Augias. «Temo che non lo sappia nessuno, del resto». Però c’è una cosa cha Augias ritiene di sapere con sorprendente certezza: «Avergli reso omaggio (al boss mafioso, ndr) facendo sostare la statua della Madonna davanti alla sua agenzia di pompe funebri è un insulto sia religioso sia civile» che «contraddice lo stesso indirizzo che la Chiesa cattolica si è data di recente grazie al papa Francesco». Ma l’intellettuale non si ferma all’aspetto “legale” della vicenda. Come gli capita spesso si sente in dovere di giudicare anche l’aspetto religioso della faccenda. In questo modo: «Le processioni – scrive – sono retaggio di una religiosità tipicamente mediterranea», infatti, all’epoca, quando «i nostri emigranti meridionali» tentarono di riprodurle in America secondo Augias «suscitarono la riprovazione degli irlandesi, cattolici anche loro ma di una fede meno idolatrica». Con la diffusione del cristianesimo, insiste il commentatore di Repubblica, «il culto dei santi e della Madonna sostituì i cortei dedicati alle varie divinità o a momenti dell’anno agricolo o al culto della fecondità con la famose “falloforie”. Si tratta di manifestazioni sconosciute all’ebraismo, alle confessioni protestanti e allo stesso cattolicesimo nordeuropeo. Sopravvivono nel Mezzogiorno dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni, sfiducia, speranza, complicità, un semiconsapevole bisogno di assistenza celeste». La rubrica è finita, andate in pace. Anzi no: «Gli inchini ai capi criminali sono solo l’appendice di tutto questo. Non sarà facile venirne a capo». Amen.
“Inchino” a Palermo, parla il priore: «Escludo che ci siano stati omaggi alla mafia. Sono strumentalizzazioni per chiuderci dentro le chiese», scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista a padre Leta, superiore dei carmelitani organizzatori della processione a Ballarò finita nel “video shock” di Repubblica: «Il diavolo si annida tra i mafiosi. Ma anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». «Sono certo che il diavolo si annida dentro i mafiosi. Ma a volte anche tra i giornalisti che inseguono lo scoop ad ogni costo». Padre Pietro Leta è il priore dei frati carmelitani del Carmine maggiore di Palermo, gli organizzatori della processione della “vara” della Madonna che domenica 27 luglio ha attraversato il quartiere di Ballarò, intorno alla quale si sono scatenate violente polemiche mediatiche a causa di un video di Repubblica che documenterebbe il presunto omaggio della Vergine al boss Alessandro D’Ambrogio, provato – secondo il quotidiano – dalla fermata del corteo per il cosiddetto “inchino” davanti all’agenzia funebre di proprietà del mafioso.
«Escludiamo categoricamente che a Ballarò ci sia stato alcun omaggio, inchino o gesto di compiacenza alla mafia» scandisce invece padre Leta a tempi.it.
Padre, cos’è successo allora domenica scorsa? Nel mirino dei media è finita la confraternita di Maria Santissima del Monte Carmelo, che nel momento della fermata portava la statua della Madonna. Ma voi avete svolto indagini per vostro conto.
«Occorre inquadrare la festa nel suo insieme innanzitutto. La statua della Madonna è molto grande, la cosiddetta “vara”, su cui è poggiata la statua, ha una base mastodontica, tanto che dev’essere spinta da numerosi confrati, i quali si devono dare addirittura dei turni. Nel percorso la processione incontra sempre alcuni ostacoli, e deve tener conto di alcune tradizioni. Gli ostacoli sono ad esempio i cavi elettrici lungo le strade, che possono essere pericolosi, perciò la statua, e di conseguenza la processione, è costretta spesso a fermarsi per consentire un passaggio non rischioso. Una delle tradizioni di cui tenere conto, invece, è quella che vuole che durante la processione i genitori, come gesto di “dono” e domanda di benedizione alla Madonna, chiedono alla vara di fermarsi e porgono i loro bambini ai confrati perché li avvicinino alla statua. A questi due fatti, se ne aggiunge un terzo: attorno alla vara, oltre ai membri della confraternita che indossano un abito ufficiale, si affiancano diversi uomini che non hanno nulla a che fare con i confrati e che indossano uno scapolare fatto in casa, usato da diverse generazioni e passato di padre in figlio. Domenica, durante il percorso ufficiale della processione, sono state fatte almeno una quarantina di fermate della statua e del corteo, alcune per evitare il pericolo dei cavi elettrici, altre per potere avvicinare alla statua alcuni neonati».
Nell’occhio del ciclone è finita però una particolare fermata. Perché proprio lì?
«La fermata vicino all’agenzia di D’Ambrogio in realtà non ha nulla – ripeto: nulla – a che vedere con l’inchino ai boss. Abbiamo approfondito e posso assicurare che la fermata c’è stata per i pochi minuti necessari a consentire a una giovane coppia di avvicinare il proprio bambino alla statua. Una cosa naturale, tanto è vero che poco dopo la statua è ripartita e si è fermata nuovamente a pochi metri di distanza, perché una signora africana che aveva assistito alla scena precedente ci ha chiesto a sua volta di poter issare la sua neonata vicino alla statua. Dunque tutto quello che si è ipotizzato sui giornali è autentica strumentalizzazione. Il cronista di Repubblica ha “zoomato” la sua attenzione e il suo video esclusivamente sulla fermata davanti all’agenzia, tagliando tutti gli elementi che avrebbero fatto capire cosa aveva portato a farla. La strumentalizzazione è consistita nel collegare quella fermata a un fatto che risale a due anni fa: all’epoca un mafioso aveva preso parte al gruppo dei portatori. Poi il mafioso è stato arrestato. Ma attenzione: noi escludiamo categoricamente che quel boss facesse parte della confraternita del Monte Carmelo. Lo escludo nel modo più assoluto».
Perché secondo lei c’è stata questa strumentalizzazione?
«La strumentalizzazione del giornalista Palazzolo si è giocata nel collegamento tra la fermata e il vocabolo “inchino”, che è rimasto cristallizzato nella mente dell’opinione pubblica a causa della processione di Oppido Mamertina e per le parole di giusta condanna del Papa nei confronti dei mafiosi. Solo che qui a Ballarò invece non c’è stato alcun inchino, né nessun altro gesto di compiacenza verso la mafia. Lei mi insegna che il cronista vuole fare lo scoop, ed è questo quello che persegue. Palazzolo ci è riuscito creando questo collegamento, e in effetti tutti i lettori sono stati portati a pensare che “ancora una volta succede quello che è accaduto in Calabria”. Questo non è giornalismo, bensì spregiudicatezza nell’uso dell’opinione pubblica. Il diavolo certo si annida tra i mafiosi, ma anche tra i giornalisti che vogliono fare scoop. La chiave di quello che è accaduto è che un cronista ha ottenuto quello che voleva. La sua notizia si è guadagnata la prima pagina e poi è stata ripresa dai principali media, cavalcando l’onda dell’indignazione provocata dai fatti calabresi (che tra l’altro personalmente condivido) attraverso tre parole evocative: inchino, processione e Madonna. Ma nel modo più categorico io dico: la Madonna non si inchina ai mafiosi, sono i mafiosi al contrario che si devono piegare e inginocchiare davanti a Lei. Le anticipo inoltre una notizia: la confraternita ha presentato un esposto al procuratore della Repubblica contro il giornalista per diffamazione».
Sempre su Repubblica Corrado Augias ha scritto che le processioni sopravvivono ormai solo nel Mezzogiorno «dove una blanda fede si mescola ad antiche superstizioni». Lei che ne dice?
«Augias fa il suo lavoro, e pure lui come il collega unisce le parole processione e superstizione. In realtà dal Concilio Vaticano II c’è stato nella Chiesa un lungo cammino di purificazione della tradizione popolare nelle celebrazioni religiose. È chiaro che c’è un retaggio antico nelle tradizioni, ma la richiesta di fede si esprime anche attraverso le tradizioni. Bisogna chiedersi quali grandi ruoli hanno esercitato le confraternite religiose, non solo al Sud, ma anche al Nord. Le “Misericordie”, ad esempio, che hanno svolto a partire dalla Toscana un lavoro di assistenza e carità».
Nelle feste religiose a cui partecipano migliaia di persone diventa difficile separare i mafiosi dal resto dei fedeli. Cosa è possibile fare allora secondo lei?
«Non si può separare i “buoni” dai “cattivi”, né possiamo esigere per ogni bambino che viene presentato alla Madonna i nomi del padre e della madre, o la loro fedina penale. È chiaro che una persona conosciuta da tutti come mafiosa la allontaniamo. Ma è anche vero che Gesù ha chiesto la conversione del peccatore e ha inveito contro il peccato: nella parabola della zizzania ha detto di lasciare crescere il grano con la zizzania, perché c’è il rischio che togliendo la zizzania si distrugga anche il grano buono. Questo significa che anche al mafioso, come a ogni peccatore, è data la possibilità di convertirsi: noi possiamo solo continuare a lavorare per isolare la mafia».
Ma papa Francesco ha scomunicato i mafiosi.
«E chi non è d’accordo con il Papa su questo? Noi lo siamo pienamente. In Sicilia, tanto più a Palermo, viviamo queste cose sulla pelle. Noi vogliamo testimoniare la nostra fede insieme a padre Pino Puglisi che è stato martire della mafia».
Secondo lei andrebbero eliminate queste processioni a rischio “infiltrazione”?
«Va chiarita una cosa. Non si arriva a una processione come quella del 27 luglio da un giorno all’altro, ma dopo un cammino di un anno. La confraternita è seguita nel suo cammino di formazione spirituale con incontri mensili, il programma della festa viene predisposto da confraternita e religiosi molti mesi prima, sin da marzo, e tutta la comunità, religiosi e laici, si prepara alla processione con un itinerario spirituale ben articolato. A chi partecipa alla processione “dall’esterno”, infine, possiamo solo dare una testimonianza della nostra fede, pregando e cantando. Ci sono alcuni gesti poi che non si possono sradicare: non si può fare una processione dentro la chiesa, ma nel territorio. E non vogliamo smettere di farla lì, perché il territorio è uno spazio importante, mentre i falsi benpensanti, con le polemiche di questi giorni, mirano proprio a tagliare il nostro legame con il territorio, chiudendo la fede dentro le chiese. Non a caso con queste polemiche chiedono indirettamente anche di eliminare le confraternite, che sono segno invece di una lunga tradizione di rapporto tra la Chiesa e la comunità locale. Le confraternite vanno continuamente educate alla fede, questo sì. Ma eliminate no».
In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
Lo scandalo del giorno, un inchino inventato, scrive Giovanni Alvaro. Eccoli di nuovo all’attacco. Schierati come un sol uomo, sorretti da un unico obiettivo, determinati, senza alcuna soluzione di continuità e pronti a massacrare senza possibilità di appello. Dalle Alpi alle Piramidi si ode, quindi, un solo grido: giustiziamo sulla pubblica piazza il sacerdote della chiesa di Oppido Mamertina, responsabile della processione e del cerimoniale che ne consegue. Uniti in una santa alleanza si ritrovano, quindi, mass media nazionali, scritti e parlati (salvo qualche eccezione), a cui non sembra vero poter denigrare un pezzo di Calabria, una sua provincia e la stessa intera regione presentati come perduti nelle spire ‘ndranghitiste; professionisti dell’antimafia pronti a cavalcare il conseguente giustizialismo che è la loro stessa ragion d’essere, ma che stanno con l’occhio attento ai propri interessi economici e politici. Oltre a pubblici ministeri votati a missioni salvifiche, interessati a non perdere la centralità mediatica conquistata (trampolino di lancio per futuri incarichi). E poi, con loro, alleati occasionali: gli stessi carabinieri che si accorgono dopo trent’anni di ipotetici inchini. Dulcis in fundo, politici di mezza tacca pronti a dire la propria. Nessuno di costoro si è chiesto se fosse vero o meno quanto rimbalzato sulle agenzie di stampa. Anzi, per la verità, molti di costoro non si son posti alcuna domanda, dato che per loro è essenziale essere presenti al debutto di un avvenimento, infischiandosene di come potrebbe andare a finire. E allora, avanti con la mazurka. Alfano: “Deplorevoli e ributtanti rituali cerimoniosi”; Rosy Bindi: “Quanto è avvenuto nel corso della processione sconcerta”; Enzo Ciconte: “Il gesto dell’inchino è stato un atto di sfida, di forza e tracotanza”; Cafiero de Raho: “Fermare un corteo religioso per ossequiare il vertice della cosca locale è sovvertire le regole sociali, religiose e di legalità”; Nicola Gratteri: “Ora la ‘ndrangheta ha sfidato ufficialmente il Papa”. È solo un assaggio delle dichiarazioni demenziali sentite in questi giorni. Demenziali perché costruite su un falso, un vero e proprio falso, se è vero come è vero che la processione a Oppido prevede, da molti decenni, cinque fermate a incroci prestabiliti per far girare l’immagine della Madonna verso quella parte di paese dove non è previsto il passaggio della processione stessa. Vuole il caso che in una di queste traverse (non dinanzi all’abitazione dove da dieci anni il mafioso sconta per motivi di salute, gli arresti domiciliari, ma nella traversa incrociata) abiti l’82enne ergastolano. inchino al boss, in vergognosa sottomissione al malavitoso? Chi ha spinto per montare il casus belli che ha riacceso la polemica della procura reggina contro la Chiesa? Chi ha tirato le fila riattizzando il razzismo ormai non più latente, del Nord nei confronti del Mezzogiorno? Dalle risposte a queste domande si potrà capire quanto strumentale possa essere l’antimafia da convegno e come essa venga usata per fini diversi dalla lotta al crimine. “Non riescono a battere la mafia e se la prendono con la Chiesa” ha dichiarato l’Arcivescovo di Reggio in un’intervista a “Il Garantista” di Piero Sansonetti e ha continuato: “Chissà se un giorno si decideranno ad affrontare le cause vere del fenomeno ‘ndranghetista”. Di sicuro il non riuscire a battere la mafia nasce anche dalle “distrazioni” che i ruoli dell’antimafia offrono per sentirsi pienamente appagati. E la grancassa continua con l’applauso della ‘ndrangheta.
Guai però a schierarti contro il conformismo.
Cafiero De Raho contro i giornalisti del Garantista. Il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho: «esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare.»
Così muore la democrazia. «Cafiero de Raho (procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, ndr) è convinto di essere alla testa di un esercito di magistrati, politici, giornalisti, preti, professionisti e popolo, il cui compito è la lotta militare e poliziesca all’illegalità e alle cosche. Non è così. I magistrati devono indagare, i poliziotti arrestare, i preti predicare, i politici riformare la società, i giornalisti raccontare e anche esprimere pareri. Il giorno in cui i giornalisti dovessero diventare – e in gran parte, purtroppo, già lo sono diventati – soldati della Procura, in Italia sarebbe finita la democrazia. Forse la lotta alla mafia avrebbe dei buoni risultati – li ebbe anche durante il fascismo – ma noi perderemmo la libertà. Mi dispiace, signor procuratore, ma il prezzo è troppo alto. Preferiamo non arruolarci». Piero Sansonetti, Il Garantista, 17 luglio 2014.
«Caro procuratore De Raho, ho letto la sua dichiarazione. Faccio uno sforzo per capire le sue ragioni ma voglio anche porle alcuni problemi che lei non può ignorare. So qual è la sua bussola e il suo obiettivo: fare delle indagini, farle bene, ottenere dei risultati. Giusto. Però non è questa l’unica garanzia del funzionamento di una società moderna e democratica. Talvolta gli interessi degli inquirenti possono entrare in conflitto con altre spinte che sono essenziali a garantire un regime di libertà. Per esempio i diritti degli imputati, o delle persone sospette, o i diritti dei testimoni, oppure – questo oggi mi interessa, soprattutto – i diritti dell’informazione e della stampa. Quando il buon funzionamento dell’attività giudiziaria confligge con il diritto all’informazione, come si stabilisce il confine da non oltrepassare? E’ un buon tema di discussione, mi sembra, e mi piacerebbe affrontarlo con lei e con altri settori della magistratura. Non è stata mai fatta questa discussione, nel nostro Paese, perché la lotta senza quartiere tra magistratura, giornalismo e politica si è svolta solo sulla base delle convenienze di gruppi, lobby, partiti, schieramenti, e mai sui grandi principi e sulle idealità. Voglio essere ancora più chiaro, rivolgendole questa domanda: secondo lei, le esigenze degli inquirenti possono “sospendere” quel comma dell’articolo 21 della Costituzione che dice: “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”? Caro Procuratore, secondo me voi, con i sequestri e le perquisizioni compiuti l’altra sera nella nostra redazione di Reggio, e con l’avviso di garanzia consegnato al nostro cronista giudiziario Consolato Minniti, avete violato quel comma della Costituzione. Sono convinto del fatto che non volevate compiere una azione di intimidazione. E tuttavia, caro Procuratore, oggettivamente l’intimidazione c’è stata, noi l’abbiamo vissuta come tale e per noi, da oggi, sarà più difficile lavorare a Reggio. E’ un problema o no? E’ un vantaggio o no per la città? E anche per la magistratura reggina, questa “dimostrazione di potere”, questa prova di forza, giova? O invece danneggia la vostra immagine? Caro Procuratore, a me sembra enorme ipotizzare che la pubblicazione di notizie relative all’azione della DNA possa essere un atto di aiuto alla mafia. Ma scusi, come dobbiamo intendere la lotta alla mafia, come un atto militare, nel quale anche i giornalisti – sul modello della guerra in Iraq – devono essere embedded? Non credo che sia la sua opinione, ammetterà però che l’attacco dell’altra sera al nostro giornale abbia dato questa impressione. Lei dice: «Ma era un obbligo quell’azione, perché c’era stato il reato». Sarà anche vero, ma io so che lo stesso reato è stato commesso negli ultimi anni centinaia di volte da altri giornali. Perché non si è mai intervenuti? Ci sono quotidiani che, se non violassero il segreto istruttorio, sarebbero costretti ad uscire massimo un giorno alla settimana! Lei questo lo sa. E allora: siamo uguali tutti, davanti alla legge, o forse no? E lei capirà benissimo come il dubbio che il segreto si possa violare se si è testata molto amica dei giudici, e invece non si possa violare se – come nel nostro caso – si è spesso critici verso la magistratura, sia un sospetto del tutto legittimo.
Mi piacerebbe poterla incontrare, per spiegarle meglio queste mie idee. Se vorrà, sono a disposizione. Per il resto, le assicuro, il nostro giornale continuerà a fare il suo lavoro con tenacia, a criticare i giudici e i politici quando gli sembrerà giusto, a combattere la mafia, ad essere totalmente indipendente e un po’ corsaro. E forse, anche, qualche volta, a violare di nuovo il segreto d’ufficio… Con Stima. Piero Sansonetti».
Ed ancora……Gratteri contro i giornalisti del Garantista: «Bisogna stanarli, vi fanno ammazzare». Ma questo giornale non cambia linea, scrive Piero Sansonetti. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria – che è stato anche candidato a fare il ministro della Giustizia – l’altro giorno, partecipando a una pubblica manifestazione, ha lanciato un attacco furibondo contro i giornali calabresi che criticano la magistratura. Gratteri non ha fatto nomi, però noi siamo sicuri che ce l’avesse con “Il Garantista”, perché non esistono in Calabria molti giornali critici con la magistratura, e non ne esiste nessuno – tranne “Il Garantista”- critico con Gratteri. (La certezza che ce l’avesse con noi è venuta dopo una telefonata con lo stesso Gratteri che vi raccontiamo tra qualche riga). La frase pronunciata da Gratteri è agghiacciante, perché, nella sostanza, accusa i giornalisti critici verso la magistratura di essere assassini, o almeno istigatori all’assassinio. Per questo chiediamo l’intervento delle autorità, in particolare del ministero della Giustizia (oltre che della federazione della stampa e della stessa Procura di Reggio) a difesa dei giornalisti calabresi critici verso la magistratura e in particolare a difesa del nostro giornale. Ci domandiamo se si ritiene normale, in un regime di democrazia, che un procuratore aggiunto si scagli contro giornalisti e giornali e li accusi di istigazione all’omicidio, e se questo non possa essere considerato un atto illegale di attacco alla libertà di stampa e ai diritti costituzionali, oltreché una offesa e una diffamazione. Per essere più chiari, vi trascrivo qui il testo delle dichiarazioni rilasciate da Gratteri e poi vi riferisco della telefonata che ho avuto con lui ieri pomeriggio. Ha detto Gratteri, rivolto ai vertici della federazione della stampa: «Bisogna stanare certo giornalismo calabrese che sguazza negli interstizi che lasciate. Dovete essere severi, feroci. In Calabria vi sono giornali e giornalisti che, per partito preso, per motivi ideologici, sono sempre contro qualcuno, scrivono cose non vere, fanno disinformazione». Poi Gratteri si è riferito a coloro che attaccano la magistratura e ha detto: «Non li denuncio perché darei loro pubblicità. Ma il punto di partenza per tutelare i giornalisti come Albanese è stanare chi non ha a che fare col giornalismo. Vi sovrespongono, vi fanno ammazzare». Vi confesso che quando ho letto queste frasi ho pensato a un equivoco. E ho fatto la cosa più semplice, per verificare: ho preso il telefono e ho telefonato a Gratteri. Mi ha risposto. Quando ha sentito il mio nome è diventato gelido. Gli ho chiesto se ce l’aveva con noi. Mi ha risposto, sempre più gelido: «Stia tranquillo, io non ce l’ho con lei, io non ce l’ho con nessuno». Ho insistito, gli ho detto se allora per favore mi diceva con quali giornali ce l’aveva, visto che in Calabria non ci sono moltissimi giornali. Mi ha risposto: «Io con lei non parlo, dovrei denunciarla, querelarla, per le cose che lei ha scritto su di me. Non lo faccio per non farle pubblicità. Lei deve imparare che non si possono lanciare accuse senza avere le prove». Io gli ho fatto notare che non lo avevo mai accusato di niente, tranne che di essere poco esperto di diritto. Ma questa è una mia opinione e non bisogna avere le prove. Dopodichè, siccome era impossibile proseguire il dialogo, lo ho salutato e ho messo giù il telefono. Però la frase che mi ha detto è uguale a quella che ha pronunciato la sera prima in pubblico (dovrei denunciarla ma non le farò pubblicità…). Dunque, indirettamente – ma non tanto – Gratteri ha confermato che ce l’aveva con me e con noi del “Garantista”. E dunque anche il seguito della frase pronunciata in pubblico (fino al: «Vi fanno ammazzare!») era riferita a noi. Posso garantire ai lettori del “Garantista” che nonostante una intimidazione così pesante e smaccata da parte di una delle più alte autorità giudiziarie, il nostro giornale non cambierà linea rispetto alla magistratura. Continuerà a criticarla e anche – come sapete – a darle la parola, perché ci piace discutere e non ci piace dare dell’assassino a chi non è d’accordo con noi. Vorremmo sapere dal ministro Orlando se possiamo contare su qualche protezione da parte dello Stato democratico, o se dobbiamo pensare che questa battaglia per la democrazia ci tocca combatterla in assoluta solitudine.
Gli strali della stampa ossequiosa e conformista, nonostante, o forse proprio per l’oscuramento del loro sito web, non si sono fatto attendere. Di tutti se ne riporta uno. La posizione del direttore Luciano Regolo de “L’Ora della Calabria”. L’attacco di Sansonetti a Cafiero De Raho: opportunismo garantito? Angela Napoli: “Così si rischia di isolare i magistrati”. «Debbo confessare che non leggo e non ho mai aperto dalla sua fondazione il nuovo quotidiano di Sansonetti. Oggi, però, sollecitato dai colleghi e amici di Cosenza che stanno collaborando con me al progetto del nostro giornale, ho visto, inviatomi per e-mail, l’editoriale odierno del direttore de “Il Garantista”: un attacco duro al procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Cafiero De Raho. Che cosa avrebbe fatto il magistrato per meritarsi l’invettiva (copiosa) di Sansonetti? Ha semplicemente dichiarato, riguardo alla vicenda della processione con l’inchino al boss di Oppido Mamertina, che esistono giornalisti coraggiosi i quali denunciano episodi del genere, e altri che invece coprono la verità e che bisogna decidere da che parte stare. Tanto basta al direttore romano, andato via dalla Calabria scrivendo di esserne rimasto profondamente deluso, per poi tornare a stringervi intese editoriali dopo pochi mesi, per dedurne che Cafiero De Raho avesse voluto attaccare lui o il suo giornale. Troppo astuto lo scrivente perché si pensi a un’excusatio non petita (visto che il magistrato non nomina alcuna testata). Molto più verosimile l’ipotesi che Sansonetti cerchi di fare pubblicità al suo prodotto giocando il ruolo della voce controcorrente, l’intellettuale fuori le riga “de noantri”, come si direbbe nel suo (a)dorato e salottiero contesto capitolino. Ognuno, sia chiaro, può fare il “gioco” che vuole e soprattutto professare ogni opinione. Ma la libertà di pensiero non può esimere dal rispetto verso chi effettivamente conduce, con rischi pesanti e impegno costante, una durissima lotta contro la criminalità organizzata e le sue oscure aderenze nei poteri costituiti della Calabria. Screditare, Cafiero De Raho, ipotizzare che voglia una stampa prona a lui, come avviene in regimi dittatoriali, oltre che grottesco è a mio avviso estremamente pericoloso. Io ho visto soltanto una volta il procuratore, lo incontrai per pochi minuti nel tribunale di Reggio, quando fui ascoltato dalla Commissione Antimafia dopo l’oscuramento del sito e la sospensione delle pubblicazioni dell’Ora della Calabria. Ma ho imparato ad apprezzarne il rigore e il piglio, quando, poco dopo il mio arrivo, in un intervento sul nostro giornale a proposito del commissariamento dei Comuni sciolti per mafia spiegò che sarebbe necessario prolungarlo non soltanto durante le elezioni ma anche per un certo periodo successivo all’insediamento della nuova amministrazione perché solo così si potrebbe veramente spezzare l’influenza delle cosche. Poi ne ho ascoltato la relazione in occasione della “Gerbera Gialla” in cui illustrò in termini molto chiari in quanti e quali modi si estendano i tentacoli della ‘ndrangheta sul territorio calabrese, spesso favoriti da lobby oscure e infedeli di Stato. Non mi sembra affatto uno che fa crociate, che vuole schieramenti o che cerca ribalta mediatica, come lascia intendere Sansonetti. Il direttore de “Il Garantista” aggiunge che Cafiero De Raho sarebbe contro la Chiesa ma è un assurdo, perché le esternazioni di papa Francesco e del presidente della Conferenza episcopale calabrese (oggi riunita per parlare proprio di quello che l’Osservatore Romano dopo il caso di Oppido Mamertina ha definito “pervertimento religioso”), monsignor Salvatore Nunnari, vanno nella medesima direzione del magistrato. Bergoglio ha detto con estrema chiarezza a Scalfari che ci sono tanti sacerdoti che sottovalutano l’influenza della mafia e non si levano abbastanza e tutti lo abbiamo letto e sentito. Ma la superficialità è diffusa, a volte è ingenua, altre no. Può nascere da interessi precisi o dalla semplice vanagloria, oppure essere conseguenza della paura delle ritorsioni. Io credo che correttamente Cafiero De Raho abbia voluto semplicemente richiamare l’intera comunità calabrese, giornalisti e non, a non sottovalutare i mezzi (come le incursioni in pratiche religiose di lunga tradizione) con cui la ‘ndrangheta tende a legittimare la propria supremazia territoriale. Sottovalutare questo aspetto come ha scritto il procuratore significa sul serio favorirne l’azione, consapevolmente o meno. Io l’ho sostenuto più volte, ma non sono nella squadra dei magistrati come sostiene, non senza alterigia, Sansonetti. Né credo lo siano Pollichieni, Musolino, Inserra, tanti altri giornalisti calabresi che sono intervenuti sulla questione di Oppido Mamertina stigmatizzando quell’inaccettabile inchino. Fra questi anche il vicesegretario nazionale e segretario regionale della Federazione nazionale della Stampa, Carlo Parisi, che ha di recente, dopo i sospetti insorti anche sulla processione di San Procopio, ricordato con veemenza quanto siano assurdi gli attacchi ai colleghi che rivelano queste realtà scomode, miranti a farli passare come dei denigratori della Calabria o degli smaniosi di protagonismo. Anche il sindacato dei giornalisti, secondo Sansonetti, scrive sotto… dittatura della magistratura? Perché il direttore è convinto che solo lui sia immune da questa influenza, così com’era convinto quando lasciò l’Ora della Calabria di essere diventato immune dall’influenze delle famiglie potenti della nostra regione e lo annunciò nell’editoriale di congedo, sparando accuse contro il suo ex editore e amico conviviale, Piero Citrigno, che poi invece è andato a salutare prima di lanciare la sua nuova creatura “Il Garantista”. L’essere concentrati troppo su stessi, sulle proprie idee o sui propri business, a volte distrae da problemi molto seri in una regione come la Calabria. Mentre spiegavo alla Commissione Antimafia dei rapporti insoliti, non rientranti nelle consuete dinamiche delle aziende editoriali, tra Citrigno e De Rose, il nostro stampatore protagonista della telefonata del cinghiale, l’onorevole Dorina Bianchi mi domandò come mai il mio predecessore (Sansonetti, ndr) in tre anni di direzione non avesse ravvisato nulla d’insolito. Risposi che dovevano domandarlo a lui, perché non lo sapevo. Non so se gliel’abbiano mai domandato. Ma so che l’onorevole Bruno Bossio, grande estimatrice di Sansonetti, presentatasi all’audizione nonostante i duri attacchi che mi aveva rivolto (su Facebook e in una lettera inviatami al giornale, in cui cercava di farmi passare come uno che voleva ottenere da lei documenti giudiziari secretati), cercava per tutto il tempo di minimizzare la vicenda che riguarda noi dell’Ora, sostenendo che la sospensione delle pubblicazione fosse unicamente dovuta all’indisponibilità finanziaria dell’editore e non aveva alcuna relazione con il caso Gentile-De Rose. Questo nonostante ci fosse stato oscurato anche il sito, proprio il giorno in cui in un editoriale denunciavo la manovra di far finire la proprietà del giornale nelle mani di De Rose. Per la cronaca il legale di Bilotta, il nostro liquidatore, è quello stesso avvocato Celestino, che difese Adamo, il marito della Bruno Bossio nell’inchiesta “Why not”, e assiste anche i Citrigno: io lo conobbi nel suo studio, accompagnato lì da Alfredo Citrigno, pochi giorni dopo l’Oragate, quando lo stampatore che non aveva mai sollecitato i suoi pagamenti non riscossi, improvvisamente con una lettera che noi pubblicammo chiedeva tutto subito o avrebbe fatto fallire l’azienda. Forse la drammaticità di quanto i colleghi dell’Ora e io abbiamo vissuto e stiamo vivendo, potrebbe rendermi troppo emotivamente coinvolto. Per questo, riguardo all’attacco sferrato da Sansonetti contro De Raho, ho pensato di chiedere un parere ad Angela Napoli, ex presidente della Commissione Antimafia e tuttora impegnata in prima linea contro le influenze delle ‘ndrine. Ecco la sua valutazione: «Alcuni giorni fa evidenziavo sulla mia pagina Facebook lo stato di preoccupazione che sto vivendo alla luce sia di alcune sentenze giudiziarie sia di alcune cronache giornalistiche, a mio parere, eccessivamente garantiste e, sempre a mio parere, non utili a debellare il fenomeno mafioso ed i suoi collaterali. Oggi sono più che mai convinta che la preoccupazione ha ragione di permanere, ritenendo che sia in atto una “strategia” tendente ad isolare quei pezzi della Magistratura, delle Forze dell’Ordine, delle Istituzioni e della politica che realmente lavorano con coraggio non solo per reprimere la ‘ndrangheta ma anche per aiutare a sradicare quella sub-cultura mafiosa che per anni ha invaso alcuni cittadini calabresi. Ho parlato di “strategia” di isolamento: l’attacco al dottor Gratteri, apparso la scorsa settimana su “Il Garantista” e quello odierno al Procuratore Cafiero De Raho, sempre sullo stesso quotidiano, e che recano la firma del suo direttore responsabile, non possono che apparire, almeno ai miei occhi, ma sicuramente anche a quelli del comune lettore, proprio come tendenti a raggiungere l’obiettivo dell’isolamento. Sono convinta che tale obiettivo non verrà conseguito perché con piacere incomincio a registrare una voglia di riscatto nel cittadino calabrese. Questa voglia non potrà che portare alla rivolta nei confronti di tutti coloro che, dopo aver affossato, in supporto alla ‘ndrangheta, la nostra Calabria, oggi tentano ancora di mantenere a galla il “sistema malato” che sovrasta questa Regione. Ormai la stragrande maggioranza dei cittadini calabresi e’ in grado ed ha la volontà di saper distinguere il “bene” dal “male” e di saper anche quale “autobus” prendere per percorrere la strada della piena legalità».»
Piero Sansonetti: “l’Ora, fallimento di un’esperienza”. Lascio la direzione di questo giornale, per via di alcuni dissensi con la proprietà. Mi era stato chiesto di preparare un piano di ristrutturazione che prevedesse un fortissimo taglio del personale e io mi sono rifiutato. Ho messo a punto un piano alternativo, che consentiva risparmi molto forti senza sacrificare il personale. Il mio piano è stato approvato all’unanimità dall’assemblea ma all’editore non è piaciuto. Non lo ha considerato sufficiente. E così, dopo travagliate discussioni e tentativi di trovare vie d’uscita, l’altra sera siamo arrivati alla decisione dell’editore di respingere il mio piano, procedere al mio licenziamento e nominare un nuovo direttore. Il motivo per il quale mi sono opposto ai tagli del personale non credo di doverlo spiegare a voi. Se in questi tre anni avete letto qualche mio articolo conoscete la mia posizione si questi problemi. La lotta contro i licenziamenti, contro il dilagare del lavoro precario, contro lo sfruttamento, è stata sempre una mia idea fissa. Tra qualche riga proverò a dirlo meglio, ma già lo ho scritto spesso: considero l’assenza di “Diritto nel lavoro” il problema principale di questa regione. Penso che è lì che avvengono le sopraffazioni maggiori. E addirittura penso che l’assenza del diritto sia un male più grande ancora della ’ndrangheta e della criminalità organizzata. Me ne vado da qui, e torno a Roma, con una grande amarezza e con la convinzione di avere fallito. Sia chiaro: non do la colpa a nessuno. E’ una vecchia abitudine, quando si va a sbattere contro un muro e ci si fa male, quella di strepitare: “è colpa sua, è colpa sua”. E’ semplice: se sono andato a sbattere vuol dire che guidavo male. Volevo fare un giornale che desse una scossa vera all’intellettualità e alla classe dirigente calabrese. E che fosse un giornale davvero popolare, cioè vicino al popolo, ai suoi bisogni, capace di difenderlo senza assecondare le pulsioni populiste e qualunquiste. So benissimo di non esserci riuscito. E di avere dato poco a questa regione della quale – questo ve lo giuro – in questi anni mi sono perdutamente innamorato. Per questo sento l’angoscia di essere cacciato dalla Calabria. Quando si prende atto di un fallimento – netto, chiaro, indiscutibile, come è stato il mio – bisognerebbe avere la lucidità per capirne le cause, e dirle. Purtroppo non ho questa lucidità, o ancora non la ho. So di avere accettato troppi compromessi, perché pensavo di essere così forte e bravo da potere guidare io i compromessi, e di poterli utilizzare, e di sapere ricondurre tutto al mio disegno. Che sciocchezza! Non ci sono riuscito mai. E quando ho deciso di non fare più compromessi, ed ero ancora convinto di essere così forte da poter sconfiggere qualsiasi nemico, mi hanno stritolato in un tempo brevissimo. Ma siccome la presunzione è una malattia inguaribile, resto presuntuoso, e prima di andarmene voglio dirvi cosa credo di avere capito di questa regione. Di solito, se si parla della Calabria, si dice che il suo problema è l’illegalità. Io non ho mai creduto al valore della legalità, anzi, disprezzo la legalità. Credo a un principio molto diverso: quello del Diritto e dei Diritti. La legalità può essere ingiusta, può essere oppressiva, può essere conformista, bigotta, vetusta, persecutoria, conservatrice – anzi: è sempre conservatrice – e non è affatto detto che sia garanzia dei diritti. La legalità è il contrario della ribellione. Non mi è mai piaciuta. Il Diritto è un’altra cosa: il diritto – e i diritti – sono quei grandi valori della civiltà, in continua evoluzione, che si oppongono alla sopraffazione, al dominio, e tendono ad affermare l’uguaglianza delle donne e degli uomini e la primazia della loro dignità rispetto agli interessi dell’economia e del potere. Il Diritto tende all’uguaglianza. Ed è il contrario del Potere. Quando si dice che il problema della Calabria è la legalità si cerca di irrobustire quel vecchio pregiudizio del Nord, secondo il quale la questione meridionale è una questione criminale. E così è facile trovare la soluzione: più polizia, più giudici, più manette, un po’ di esercito e un po’ di razzismo sano e moderno, alimentato dalla buona stampa nazionale. Io invece penso che il problema all’ordine del giorno sia il Diritto, soprattutto il Diritto della Calabria nei confronti del Nord. E’ il Nord che da decenni viola i diritti fondamentali della Calabria. Prima di tutto il diritto del popolo calabrese ad essere popolo calabrese. Quello che solitamente viene chiamato il fenomeno dell’emigrazione – ma che io preferisco chiamare “la deportazione” – e cioè il trasferimento al Nord di milioni di calabresi, sottomessi e spinti a lavorare per il miracolo economico lombardo, o piemontese, o ligure o romano – è uno dei più grandi atti di sopraffazione di massa compiuti sotto l’occhio benevolo della Repubblica italiana. E’ un delitto. E non ha trovato opposizione. Neppure la sinistra, nel dopoguerra, si è mai fatta carico di questa gigantesca ingiustizia. Perché? Perché purtroppo, in Italia, anche la sinistra è settentrionale. La Calabria – nonostante grandi personaggi politici isolati, come Sullo, o Mancini, o Misasi – non ha mai avuto una sinistra. Così come tutto il Mezzogiorno d’Italia. Nasce da qui, esattamente da qui, la consuetudine di cancellare il Diritto della Calabria, e in particolare il Diritto del lavoro. Mi piacerebbe raccontare qualcosa di scandaloso ai miei amici e compagni di Roma e del Nord, compresa Susanna Camusso, il capo del sindacato che recentemente è scesa qui da noi e ha anche detto cose sagge, perché sicuramente è una persona seria. Cara Camusso, lo sai quanto paga la ’ndrangheta un picciotto? Mille euro al mese. E sai quanto guadagna un coetaneo del picciotto che lavora legalmente a tempo pieno in un call center, o in campagna, o anche in ufficio e persino in un giornale, come giornalista? E’ facile che guadagni meno della metà. Qui ho imparato che un trentenne con uno stipendio di sette o ottocento euro si considera fortunato. Camusso, pensi che in queste condizioni ci sia da stupirsi se la ’ndrangheta prospera? E pensi che aumentando il numero dei poliziotti e dei giudici – ottime e spesso eroiche persone – le cose possano migliorare? Mi piacerebbe davvero, Camusso, conoscere la tua risposta, perché non sono domande retoriche, né polemiche, però sento che sono domande drammatiche e penso che sia giusto porle. Quando sono sceso a Cosenza, da Roma, e ho preso la direzione di Calabria Ora, ho scritto un editoriale nel quale dicevo essenzialmente una cosa: qui manca la classe dirigente. La Calabria ha bisogno di una classe dirigente che sappia rappresentare il popolo, sbattere i pugni sul tavolo a Roma e assumersi finalmente la responsabilità dell’affermazione dei diritti. Dopo tre anni confermo quelle cose, con l’angoscia di chi sa di non essere riuscito a smuovere nemmeno uno stecchetto di paglia per cambiarle. Vedete, io penso che la Calabria soffra dell’assenza delle classi sociali che hanno costruito l’Italia: la borghesia e la classe operaia. Qui non c’è borghesia: c’è il padronato. E non c’è classe operaia: c’è un popolo sconfitto, sfregiato, deportato, oppresso, e che non riesce ad uscire dalla rassegnazione. Sì: il “padronato”, proprio con quell’accezione assolutamente negativa della parola che usavamo noi ragazzi degli anni settanta. Un padronato che considera il proprio borsellino come un Dio, e tratta gli esseri umani come cose, accidenti, strumenti, “rifiuti”. Già lo ha detto il papa, ha usato, indignato questa parola: “rifiuti”. Per una volta fatelo scrivere anche a me, ateo e anticlericale: viva il papa. Prima di tornarmene a Roma devo dire qualcosa sui giudici. Perché in questi anni sono stati un mio bersaglio fisso. In realtà ho grande stima per quasi tutti gli investigatori calabresi, credo però che il compito di un giornale sia quello di mettere sempre sotto controllo e sotto accusa il potere. E io sono persuaso che oggi in Italia – ma soprattutto in Calabria – il potere dei magistrati sia – insieme al potere economico e padronale – di gran lunga il potere più forte. Per questo io considero il garantismo un valore assoluto, da difendere coi denti, come caposaldo della civiltà. Oggi il garantismo è pesantemente messo in discussione – anzi sconfitto – dal dilagare, nell’opinione pubblica, di un feroce giustizialismo. Talvolta ispirato dai più tradizionali principi reazionari, talvolta da forti spinte etiche. Recentemente ne ho discusso, in un dibattito a Gerace, in Aspromonte, col Procuratore di Reggio, Federico Cafiero De Raho. Lui, a un certo punto della discussione, ha sostenuto che la giustizia serve ai deboli, perché i forti non ne hanno bisogno. Io gli ho risposto che apprezzo la sua spinta etica, ma che giustizia ed etica non devono mai coincidere, perché il male dei mali è lo Stato etico, che può essere solo autoritario e fondamentalista. Come fu lo stato fascista, come furono gli stati comunisti. Devo dire, onestamente, che lui – Cafiero – poi ha precisato meglio il suo parere, e che io ho apprezzato moltissimo la sua capacità di discutere – e ci siamo detti che avremmo proseguito la discussione in altra sede, e invece, con dispiacere, dovrò disdire l’appuntamento – ma in me resta questo grande timore: per i giudici – capaci, onesti – che pensano di svolgere una missione. Non è così, fare il magistrato è un mestiere, non una missione assegnata da Dio! E il prevalere di una concezione giudiziaria della vita pubblica non può che nuocere alla Calabria, ne sono convintissimo.
La Mafia degli Ausiliari Giudiziari
PARLIAMO DELLA MAFIA DEGLI AUSILIARI GIUDIZIARI.
A quanto ammonteranno i compensi per i custodi giudiziari dell’ILVA?
I custodi giudiziari spesso si spacciano anche per amministratori giudiziari, per poter pretendere con l’avvallo dei magistrati compensi raddoppiati e non dovuti.
«Essendo i consulenti tecnici, i periti, gli interpreti ed i custodi/amministratori giudiziari i principali ausiliari dei magistrati, come a questi ci si pretende di porre in loro una fiducia incondizionata. Spesso, però ci si accorge che tale fiducia è mal riposta, sia nei collaboratori, che nei magistrati stessi. Ma a ciò bisogna far buon viso a cattivo gioco (giudiziario), se no succede quello che succede a me – spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” http://www.controtuttelemafie.it , e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “Malagiustiziopoli” nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare – Io sono inviso dalla classe forense e giudiziaria, in quanto rendo pubbliche le magagne che si annidano presso gli uffici giudiziari. Il giornalista che va per la maggiore non vuole o non può pubblicare certe notizie, perché non ha il coraggio o, pur saccente, non ha la perizia giuridica per affrontare tematiche processuali, che solo scaltri avvocati riescono a scalfire. Per esempio, pragmaticamente, su sollecitazione di molti avvocati di Taranto vicini all’Associazione Contro Tutte le Mafie, prendiamo il caso concreto della decisione del Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli. Già abbiamo affrontato il caso di quel consulente tecnico che non ha risposto alle domande postegli dal giudice delegante ed anzi andò in antitesi alla consulenza tecnica della parte convenuta e ben oltre la richiesta della consulenza tecnica della parte attrice. In quel caso il Pm archiviò a carico del CTU la denuncia per falso, ma, ciò nonostante, il dr Antonio Morelli estromise tale CTU dall’apposito elenco e per gli effetti quel consulente non fu più chiamato. L’archiviazione dette modo al consulente estromesso di rivalersi contro il denunciante per calunnia. Il denunciante a sua volta denunciò, inopinatamente il sottoscritto che lo difendeva in giudizio, per diffamazione a mezzo stampa per aver svolto un’inchiesta giornalistica sul funzionamento della giustizia a Taranto. Una golosa occasione per i magistrati di Taranto per tacitarmi, così come spesso hanno fatto, non riuscendoci. Ma arriviamo al caso di specie. Trattiamo della nomina e della remunerazione dei custodi/amministratori giudiziari. In questo caso trattasi di custodia dei beni sequestrati in procedimenti per usura. Il custode ha pensato bene di chiedere il conto alle parti processande, ben prima dell’inizio del processo di I grado ed in solido a tutti i chiamati in causa in improponibili connessioni nel reato, sia oggettive che soggettive. Chiamati a pagare erano anche a coloro a cui nulla era stato sequestrato e che poi, bontà loro, la loro posizione era stata stralciata. Questo custode ha pensato bene di chiedere ed ottenere, con l’avallo del Giudice dell’Udienza Preliminare di Taranto, ben 72.000,00 euro (settantaduemila) per l’attività, a suo dire, di custode/amministratore. Sostanzialmente il GUP, per pervenire artatamente all’applicazione delle tariffe professionali dei commercialisti, in modo da maggiorare il compenso del custode, ha ritenuto che la qualifica spettante al suo ausiliario non fosse di custode i beni sequestrati (art. 321 cpp, primo comma), ma quella di amministratore di beni sequestrati (art. 321 cpp, secondo comma, in relazione all’art. 12 sexies comma 4 bis del BL 306/1992 che applica gli artt. 2 quater e da 2 sezies a 2 duodecies L. 575/1965). Il presidente Antonio Morelli ha riconosciuto, invece, liquidandola in decreto, solo la somma di euro 30.000,00 (trentamila). A parte il fatto che non tutti possono permettersi di opporsi ad un decreto di liquidazione del GUP, è inconcepibile l’enorme differenza tra il liquidato dal GUP e quanto effettivamente riconosciuto dal Presidente del Tribunale di Taranto. Questa differenza fa sorgere qualche dubbio circa la bontà legale dei presupposti, a fondamento della richiesta, e la susseguente decisione di accoglimento della stessa. Va da sé che i giudicanti sono ingiudicati e poi si sa che su tutto si trova una giustificazione. E’ da scuola la lezione, però, data dal presidente del Tribunale, Antonio Morelli, al suo collega Giudice dell’Udienza Preliminare. Morelli ha spiegato che è sbagliato considerare il custode giudiziario tour cour come amministratore e per gli effetti liquidare un compenso maggiore. Per due ordini di motivi: il primo è che non è ancora intervenuto il DPR previsto dal DLgs 14/2010 (istituzione dell’albo degli amministratori giudiziari); il secondo è che l’attività ed i compiti del custode, che danno diritto all’indennità prevista dall’art. 58 del DPR 1157/2002, sono infatti quelli di custodire e conservare la cosa custodita. “Né la figura dell’amministratore giudiziario, inserita dal legislatore nell’ampio contesto normativo di contrasto alle associazioni mafiose ed alle forme di criminalità similari, ha soppiantato la figura del custode, ma soprattutto non ha abolito, pur nell’ambito della sua qualifica, le attività tipiche di quello e cioè la custodia e la conservazione del bene sequestrato. E’ sufficiente, oltre che alla logica ed ai principi generali, fare riferimento al comma 8 dell’art. 2 sexies della legge 575/1965 che attribuisce all’amministratore il compito di provvedere alla custodia, alla conservazione ed alla amministrazione dei beni sequestrati anche al fine di incrementare, se possibile, la redditività dei beni medesimi. Il senso del ragionamento – spiega Morelli – è che in concreto, tenuto conto della natura dei beni sequestrati, l’amministratore può svolgere attività tipiche del custode (custodire e conservare la cosa custodita), indipendentemente dal criterio nominalistico che lo definisce. Se si ragionasse diversamente si dovrebbe ritenere diverso dal custode colui che, nominato amministratore in procedimento per reati che prevedono tale figura, in concreto fosse chiamato a svolgere compiti di mera custodia o di conservazione del bene nel senso sopra definito. Nel caso di specie i beni “amministrati” erano semplici immobili ad uso abitativo e le attività svolte non possono che considerarsi appropriata alla figura del custode e più in particolare al suo compito di sovrintendere alla conservazione del bene. Le argomentazioni di cui sopra conducono ad una conclusione di notevole rilievo in ordine ai criteri per determinare il compenso in maniera proporzionata alla natura e alla consistenza dei beni e delle attività svolta dal custode/amministratore. È infatti noto che ai sensi degli artt. 58 e 59 del DPR 115/2002 le tariffe relative alle indennità di custodia sono devolute a un decreto ministeriale e in mancanza agli usi locali. È noto, altresì, che il decreto ministeriale 256/2006 unico a provvedere un tariffario, contempla soltanto alcuni beni (motocarri, autoveicoli, motoveicoli e natanti) e che per gli immobili di cui al sequestro in questione, non vi sono usi locali che determinano le indennità di custodia. Non può allora che farsi ricorso ad un criterio di liquidazione secondo equità che, a parere del giudicante, deve prescindere dalle tariffe stabilite dagli ordini professionali, in quanto tutta la normativa in tema di custodia, così come di perizia e di consulenza tecnica, si scosta notevolmente dalle tariffe professionali, stante la diversità ontologica tra i compensi per attività chieste liberamente da privati e i compensi per attività costituenti un incarico di carattere pubblicistico. Prova di tale conclusione sta proprio nella necessità che il legislatore ha sentito di devolvere ad un decreto, non ancora emesso, un tariffario che, se avesse voluto, avrebbe potuto identificare con quello della categoria professionale. Alla stregua di tale considerazione, considerato il tempo della custodia, nonché la diligenza e la puntualità con la quale la stessa è stata espletata, ma anche la natura e la consistenza del patrimonio amministrato e la relativa semplicità degli interventi gestionali spiegati, si stima equo determinare l’indennità in euro 30.000,00” e non 72.000,00!!
Tutto ciò sta a dimostrare che spesso e volentieri vi è una certa complicità tra magistrati ed ausiliari a speculare sulle disgrazie di chi, poi spesso, è prosciolto dalle accuse. Caso limite e quello di Giuseppe Marabotto. Come racconta “La Stampa” ed altri organi d’informazione, Giuseppe Marabotto era scampato a un primo processo per un serio reato (aveva rivelato a un indagato che il suo telefono era sotto controllo). Chiacchierato da molti anni e divenuto procuratore di Pinerolo, ha costruito in una tranquilla periferia giudiziaria un regno personale e il malaffare perfetto per chi, come lui, si sentiva impunito stando dalla parte della legge: 11 milioni di euro sottratti allo Stato sotto forma di consulenze fiscali seriali ed inutili ai fini di azioni giudiziarie. Si sapeva dal 2005. Si sa anche che i commercialisti e consulenti della procura restituivano a un suo collettore il 30 per cento. «Ci sono spese da sostenere» veniva detto loro. In tre hanno confessato. Pesanti le accuse: corruzione, associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato. Per questo motivo anche a Taranto si augura lunga vita professionale al Presidente del Tribunale di Taranto, Antonio Morelli, anche perché il pensiero corre ai custodi giudiziari nominati per lo spegnimento degli impianti ILVA. Si pensi un po’, prendendo spunto da quanto suddetto ed adottando i criteri di liquidazione del GUP, quanto a questi sarà riconosciuto come compenso?»