Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
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Dr Antonio Giangrande
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ARTICOLI PER TEMA
Di Antonio Giangrande
INDICE
La Perequazione Finanziaria
Ipocrisia ed Olocausti
La Perequazione Finanziaria
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
Il commento del dr. Antonio Giangrande, che sul tema ha scritto dei saggi: “Legopoli. La Lega da Legare”; “Italia Razzista”; “L’Invasione Barbarica Sabauda del Mezzogiorno d’Italia”.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews – Milano 06 settembre 2017). “La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un’immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d’Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi”. Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE – “Con il termine residuo fiscale – spiega la Nota – s’intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c’è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l’Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari”.
I DATI PER REGIONE – “Dopo la Lombardia – appunta il teso – si colloca l’Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d’Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)”.
IL DATO PRO CAPITE – Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d’Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d’Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)”, spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l’assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare…
Quindi, viva il referendum…
Ipocrisia ed Olocausti.
IPOCRITI. IL GIORNO DELLA MEMORIA? NON DIMENTICARE TUTTE LE VITTIME DEGLI OLOCAUSTI.
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime dell’Olocausto perpetrato dai nazisti tedeschi. In Italia di questo evento ne parlano tutti abbastanza, a volte anche a sproposito. Giusto per essere diverso io parlo degli altri olocausti.
Bisognerebbe andare a vedere ogni volta se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. E di questo parlarne con i leghisti e con chi nel profondo del suo cuore è razzista.
Parliamo delle foibe e la cultura rosso sangue della sinistra comunista.
La senatrice di Bergamo (Bergamo, non Trieste, sic!) Alessandra Gallone chiede che non si nasconda più la verità sulle foibe ed è firmataria con altri della richiesta di una commissione d’inchiesta sulle stragi del ’43. «Oggi celebriamo un ricordo: il ricordo delle foibe, quell’immane tragedia che toccò il nostro popolo dell’Est, gli italiani di Trieste, di Quarnaro, dell’Istria, della Dalmazia, di Fiume e di tutti i luoghi ceduti. Significò per loro l’abbandono della propria terra – terra italiana, finita nel territorio della ex Iugoslavia – ma soprattutto sopruso, devastazione, morte. In quelle fosse comuni c’è un pezzo d’Italia e uno dei pezzi d’Italia cui più dobbiamo rispetto. Furono oltre 10.000 gli italiani che trovarono una morte orribile in quelle orribili fosse per mano dei partigiani nazionalisti comunisti iugoslavi, italiani colpevoli di essere italiani, mentre gli altri venivano strappati via dalle loro case e dalle loro terre, costretti a fuggire per scampare alle persecuzioni, eppure restando determinati nella volontà di rimanere italiani. Il genocidio di questi italiani – perché di una vera pulizia etnica si trattò – fu condotto senza distinzioni politiche, di censo, di sesso, di religione o di età. Furono arrestati cattolici ed ebrei, dipendenti privati ed industriali, agricoltori, pescatori, vecchi, bambini e soprattutto carabinieri, poliziotti e finanzieri servitori dello Stato. Gli eccidi del ’43 e del dopoguerra compiuti contro migliaia di inermi ed innocenti al confine orientale dell’Italia furono un vero crimine contro l’umanità, al pari di altri stermini compiuti e che ancora oggi vengono perpetrati in altre parti del mondo. Fu una guerra civile; e il furore ideologico e le vendette personali diedero vita alla pagina più triste della storia italiana. In questo quadro vanno inserite le vicende degli esuli, che hanno vissuto un duplice dramma: l’essere costretti ad abbandonare la propria casa vedendo trucidare i loro parenti e, subito dopo, l’essere accolti con indifferenza e in molti casi con ostilità da quella stessa Italia dalla quale avevano sperato di ricevere un abbraccio solidale. Per sentirci vicini a quanti hanno sofferto lo sradicamento, il minimo che possiamo fare è cercare di porre rimedio attraverso una obiettiva ricognizione storica e una valorizzazione di identità culturali di lingua e di tradizioni che non possono essere cancellate. Ma ciò che ancora mi sorprende è che nonostante sia trascorso così tanto tempo, il tempo necessario per ristabilire l’oggettività storica, il racconto di quei tragici avvenimenti non si trovi per nulla, o quanto meno non sia sufficientemente riportato nei libri di scuola dei nostri figli. Perché? Cosa dobbiamo ancora nascondere?»
Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile.
Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l’ex leader comunista, in un’intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant’anni di ritardo.
C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento.
E quello che è successo nel risorgimento e dell’unificazione dell’Italia di cui ha festeggiato i primi centocinquant’anni di vita nel 2011, chi ne parla?
Ma è stato sempre così. Le future generazioni non devono dimenticare. Tutti noi non dobbiamo dimenticare. PER NON DIMENTICARE: L’INGIUSTIZIA VIENE DA LONTANO.
La legge Pica del 1863, ovvero la “licenza di uccidere i meridionali”, scrive Giovanni Pecora. Secondo il re sabaudo Vittorio Emanuele II dall’Italia meridionale si “alzava un grido di dolore” che lui, notoriamente di buon cuore e generoso, non poteva non ascoltare. E così mandò avanti Garibaldi con i suoi Mille improbabili liberatori che, a suo avviso, sarebbero bastati per accendere il fuoco della ribellione al tiranno Borbone. Ed in effetti all’inizio fu così, e molti cittadini di idee liberali accolsero Garibaldi come un angelo liberatore, mentre molti ufficiali dell’esercito borbonico, precedentemente comprati dall’opera di intelligence posta in essere segretamente da Cavour, facevano in modo che i soldati di re Francesco II non ostacolassero in alcun modo l’invasione e gli insorti. Bastarono poche settimane per far comprendere ai liberali ed al popolo meridionale che Garibaldi non veniva a portare la libertà, ma semplicemente a sostituire un re con un altro re. Ma ormai era troppo tardi, perchè a consolidare la conquista del Regno delle Due Sicilie erano già arrivati i bersaglieri ed i fanti dell’esercito piemontese, che prima sparavano e poi controllavano chi avessero davanti, fossero anche donne, bambini o vecchi inermi. Per la retorica risorgimentale i “fratelli d’Italia” ci abbracciavano per liberarci dal medioevo borbonico. Francamente già posta in questi termini sembrerebbe più un’amara barzelletta che altro, visto che per mille versi il Regno delle Due Sicilie era almeno vent’anni avanti rispetto al resto d’Italia, Piemonte compreso. E questo era ed è sotto gli occhi di tutti. Basta guardare le pubblicazioni del tempo ed i documenti originali, e non i libri falsificati dalla retorica risorgimentale.
Ma a volte, proprio per evitare che appaia un racconto di parte, è addirittura sufficiente mostrare I FATTI, oppure ciò che scrivono e dicono testi che non possono certamente essere definiti “filo-meridionalisti”.
I FATTI. Nel 1863, dopo già ben due anni erano passati di presunti “baci ed abbracci” con i meridionali liberati, il clima era talmente “idilliaco” qui al Sud che il governo neo-italiano ha dovuto far promulgare al re sabaudo lo stato d’assedio per le regioni meridionali, autorizzando così la sospensione delle leggi civili ed il passaggio al codice penale di guerra. Si promulga così la cosiddetta “Legge Pica“, dal nome del deputato abruzzese che la formulò, che per oltre due anni trasformò le regioni meridionali in un immenso campo di combattimento, o meglio ancora in un enorme lager dentro il quale i soldati del re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa della lotta al brigantaggio uccisero, stuprarono, squartarono, sgozzarono, misero a ferro e fuoco interi paesi causando migliaia e migliaia di morti innocenti.
E ci vollero ben ancora almeno sette anni per piegare definitivamente tutte le sacche di resistenza dei partigiani lealisti al re Borbone sulle montagne abruzzesi, lucane, campane, pugliesi, calabresi, e siciliane. Basterebbe questo per capire l’enorme montagna di menzogne che ha accompagnato per 150 anni la storia del risorgimento italiano. Altro che “fratelli d’Italia”… Poi ci testimonianze – involontarie – che veramente sono al di sopra di ogni sospetto, come ad esempio quelle tratte dal sito dell’Arma dei Carabinieri, “fedelissima” per definizione al re Savoia. Ecco cosa si legge nel sito ufficiale dell’Arma: “La legge Pica permise la repressione senza limiti di qualunque resistenza: si trattava, in pratica, dell’applicazione dello stato d’assedio interno. Senza bisogno di un processo si potevano mettere per un anno agli arresti domiciliari i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti fiancheggiatori di camorristi e briganti. Nelle province dichiarate infestate da briganti ogni banda armata di più di tre persone, complici inclusi, poteva essere giudicata da una corte marziale. Naturalmente alla sospensione dei diritti costituzionali (il concetto di diritti umani di fatto ancora non esisteva) si accompagnarono misure come la punizione collettiva per i delitti dei singoli e le rappresaglie contro i villaggi“. Non c’è bisogno di alcun commento, mi pare. Vediamo allora cosa invece scrive Wikipedia, l’enciclopedia online, a proposito della legge Pica: “La legge 1409 del 1863, nota come legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica, fu approvata dal parlamento della Destra storica e fu promulgata da Vittorio Emanuele II, il 15 agosto di quell’anno. Presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, la legge fu più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Sua finalità primaria era porre rimedio al brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno, attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza.
Contesto preesistente. Il provvedimento legislativo seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d’assedio nelle province meridionali, avvenuta nell’estate del 1862. Con lo stato d’assedio si era voluto concentrare il potere nelle mani dell’autorità militare al fine di reprimere l’attività di resistenza armata: coloro i quali venivano catturati con l’accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall’esercito, senza formalità di alcun genere. Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi». Per contro, coloro che riuscivano ad evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice penale piemontese, non prevedeva più l’applicazione della pena di morte per i reati politici. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino, aveva l’obiettivo di colmare questo “vuoto”, sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli militari.
Brigantaggio e camorrismo. La legge Pica, il cui titolo era Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette, si attesta come la prima disposizione normativa dello stato unitario in cui viene contemplato il reato di camorrismo. Oltre ad introdurre il reato di brigantaggio, infatti, la legge 1409/1863, disciplinò in tema di ordine pubblico riferendosi anche alle azioni delittuose commesse della nascente criminalità organizzata. Inoltre, la legge Pica introdusse, per la prima volta, la pena del domicilio coatto, ponendosi, per questi due aspetti, come antesignana dell’ampia produzione normativa connessa ai reati di mafia che caratterizzerà il XX secolo. Legiferando, però, su proto-mafie e brigantaggio attraverso un’unica norma, il parlamento italiano accostava impropriamente il mero banditismo all’attività di brigantaggio politico propria della resistenza partigiana antiunitaria e legittimista.
Le disposizioni normative. In applicazione della legge Pica, dunque, venivano istituiti sul territorio delle province definite come “infestate dal brigantaggio” (individuate dal Regio decreto del 20 agosto 1863) i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio. Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Le pene comminate ai condannati andavano dall’incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all’arresto, mentre coloro che non si opponevano all’arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con la detenzione (concorrendo circostanze attenuanti). Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio. La legge prevedeva, inoltre, la condanna al domicilio coatto per i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti manutengoli, camorristi e fiancheggiatori, fino ad un anno di reclusione. Nelle province definite “infette”, venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d’arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l’iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d’accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base ad esso, però, chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche senza fondamento, anche per consumare una vendetta privata. La legge, inoltre, aveva effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa. Attraverso le successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, pur essendo assente sull’isola il grande brigantaggio legittimista che caratterizzava le province napoletane. In particolare, l’obiettivo del governo era combattere il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero, infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro concittadini (attraverso l’occupazione militare di città e paesi). Alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di “responsabilità collettiva”.
Contesto sociale e politico. Già durante la fase di discussione, fu avanzata l’ipotesi che la proposta del Pica avrebbe potuto dare adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l’annessione delle Due Sicilie al Regno d’Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì investire nell’impiego delle forze armate. In generale, infatti, la lotta al Brigantaggio, impegnò un significativo “contingente di pacificazione”: inizialmente esso constava di centoventimila unità, quasi la metà dell’allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila. Dunque, nonostante le criticità del provvedimento legislativo fossero state apertamente denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito. In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra briganti, assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti. A tal proposito, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva: «Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti». La legge Pica, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali: per effetto della legge 1409/1863 e del complesso normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria. Nonostante tale rigore, la legge Pica non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi: l’attività insurrezionale e il brigantaggio, infatti, perdurarono negli anni successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.
CONCLUSIONE.
“L’agosto 1863 un proclama di Vittorio Emanuele venne affisso in tutte le città, paesi, borgate del Mezzogiorno. Era la legge Pica contro il “brigantaggio”. Praticamente l’autorità militare assumeva il governo delle province meridionali. La repressione diventava, a questo punto, ancora più acre e feroce di quanto non fosse stata fin allora. La legge Pica rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. Fu presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” e, dall’opposizione parlamentare di sinistra valutata e combattuta come una violazione dell’art. 71 dello Statuto del Regno poiché il cittadino “veniva distolto dai suoi giudici naturali” per essere sottoposto alla giurisdizione dei Tribunali Militari e alle procedure del Codice Penale Militare. La legge passò comunque a larga maggioranza. La ribellione doveva essere stroncata “col ferro e col fuoco!”. Per effetto della legge Pica, a tutto il 31 dicembre 1865, furono 12.000 gli arrestati e deportati, 2.218 i condannati. Nel solo 1865 le condanne a morte furono 55, ai lavori forzati a vita 83, ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi 576, alla reclusione ordinaria 306. Le carceri erano piene, fitte, zeppe fino all’inverosimile“. (Ludovico Greco,”Piemontisi, Briganti e Maccaroni” – Guida Editore, Napoli, 1975).