Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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IL VENETO
DI ANTONIO GIANGRANDE
TUTTO SUL VENETO
I VENETI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI?!?
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
Quello che i Veneti non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Veneti non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IGNORANTI PIU’ CHE RAZZISTI.
PARLIAMO DEL VENETO.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
UNA REPUBBLICA FONDATA SULLA TRATTATIVA.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
LA FORZA VIOLENTA DELLA LEGGE.....
LE DONNE DEI POTENTI: CLAUDIA MINUTILLO E LE ALTRE.
IL SUD TARTASSATO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.
IL VENETO DEI GATTOPARDI.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
CHI SONO I VENETI.
FRATELLI COLTELLI.
ITALIA. NAZIONE DI LADRI E DI IMBROGLIONI.
SECESSIONE. REATO DI FARSA IN SALSA VENETA.
L’ARMATA BRANCALEON.
VENETO RAZZISTA E SECESSIONISTA.
GIORNALISTI. COSA NON SI FA PER SPUTTANARE? PAGARE…..LE FONTI.
GENTE VENETA. P(L)ADRONI A CASA NOSTRA? CHI SI E' E DA DOVE SI GIUNGE.
VENETI DIVERSI DAGLI ALTRI?
VENETO MAFIOSO.
TANGENTOPOLI VENETA.
LA CUPOLA DEGLI APPALTI.
COSA SUCCEDE A BELLUNO.
QUANDO GLI "ONESTI" TRADISCONO. SINDACI ARRESTATI.
COSA SUCCEDE A PADOVA.
PADOVA EX CITTA' GIOIELLO.
GENITORI IN GUERRA, FIGLI CONTESI ED AFFIDAMENTO FORZOSO. RAPIMENTO DI STATO.
SANITA’ DA PADRE IN FIGLIO.
MUSICA. DA PADRE IN FIGLIA.
COSA SUCCEDE A ROVIGO.
DI CHI FIDARSI?
ROVIGO MAFIOSA.
PUBBLICA SICUREZZA.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
MAGISTROPOLI.
COSA SUCCEDE A TREVISO.
VIAGGIO TRA I TRIBUNALI PIU’ CORROTTI D’ITALIA.
DICI TREVISO. DICI BENETTON.
COSA SUCCEDE A VENEZIA.
RAFFAELLO ACCORDI. STORIA DI ORDINARIA INGIUSTIZIA.
VENEZIA MAFIOSA.
RACCONTI DI MALAGIUSTIZIA.
PARENTOPOLI IN VENETO.
SPRECHI. L’UFFICIO GIUDIZIARIO PIU’ COSTOSO AL MONDO.
COSA SUCCEDE A VERONA.
IN PROCURA FAN QUEL CAZZO GLI PARE.
VERONA MAFIOSA.
DA ROMA LADRONA A VERONA LADRONA, PER FINIRE A VENEZIA LADRONA.
SPRECHI.
MALA AMMINISTRAZIONE.
CASI DI INGIUSTIZIA. CASO TOMMASOLI E CARBONE.
SCUOLOPOLI.
SANITOPOLI.
MULTE TRUCCATE.
COSA SUCCEDE A VICENZA.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
VICENZA MASSONE.
VICENZA MAFIOSA.
CORRUZIONE ED EVASIONE FISCALE.
SANZIONI AMMINISTRATIVE TRUCCATE.
MAGISTROPOLI. MAGISTRATI: ONESTI O FURBACCHIONI?
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
IGNORANTI PIU’ CHE RAZZISTI.
L’ignoranza d’Italia tutta nella domenica del pallone, scrive il 23 novembre 2015 Angelo Forgione. Verona-Napoli la portano a casa gli azzurri. Una partita in cui si è specchiato un Paese che nel proprio campionato impone la bandiera francese in bella mostra e l’ascolto de “la Marsigliese”, in segno di solidarietà per le morti di Parigi. Giusto e sacrosanto commemorare delle vittime innocenti, ma quando ciò avviene solo in ricordo di un popolo e non di tutti quelli coinvolti in luttuosi eventi si finisce per esprimere un messaggio politico. Avremmo preferito la bandiera multicolore della pace e l’esecuzione di Imagine di John Lennon, ma evidentemente il cocchiere guida il carrozzone in una strada a senso unico. A Verona, poi, non per colpa degli innocenti ragazzini deputati a mostrarla, è venuto fuori persino un tricolore francese ribaltato (che nei paesi del Commonwealth significa arrendevolezza) e nessuno dei commissari di Lega ha pensato di far rettificare il senso. Sugli spalti, appena terminata l’ultima nota dell’inno di Francia sono ripresi i cori razzisti contro Napoli, e tutti a sdegnarsi, a partire da Paolo Condò su Sky, la cui denuncia veniva condivisa da Ilaria D’Amico. Ma ci vogliamo forse stupire per l’ipocrisia nazionale e per l’incoerenza dei tifosi del Verona, da sempre eccessivamente animosi nei confronti dei napoletani? Non un comportamento diverso dal solito, e certamente non peggiore di quello avuto dai bolognesi il 31 maggio 2013, durante Italia – San Marino, partita dedicata alla lotta al razzismo, quando intonarono a sproposito “stonati” cori contro il popolo partenopeo. Sul campo del Bentegodi, il più bersagliato è stato, neanche a dirlo, il napoletanissimo Lorenzo Insigne. E proprio lui ha infilato il primo pertugio aperto nella difesa gialloblu, ha baciato più volte la maglia azzurra all’altezza dello stemma, è corso ad abbracciare il napoletano-toscano Sarri ed è stato travolto dai napoletani dello staff, a partire dal medico sociale De Nicola, passando per il massaggiatore Di Lullo, per finire con il magazziniere Tommaso Starace, lo stesso di trent’anni fa, quando fu Maradona a fargli giustizia sullo stesso campo. Lorenzo ha dedicato il goal alla sua città e la sua rivalsa da scudetto è finita in copertina, con più risalto di quanto non ne ebbe lui stesso due stagioni fa e, in Serie B, l’ex compagno di squadra a Pescara Ciro Immobile, che le offese dei veronesi se la legò al dito, così come l’altro conterraneo Aniello Cutolo, che restituì i ceffoni al Bentegodi con tutto Mandorlini. La domenica calcistica è finita come era iniziata. Nello stesso stadio in cui, nel 2007, fu sonoramente fischiato l’inno di Francia, a dieci minuti dal termine di Inter-Frosinone, con i padroni di casa in gloria, i tifosi nerazzurri si sono proiettati allo scontro al vertice di lunedì 30 al San Paolo e hanno pensato bene di vomitare il loro repertorio razzista all’indirizzo dei napoletani. Tanto per non farsi mancare nulla. Bandiere rovesciate, ipocrisie e scontri territoriali; questo è lo spettacolo che va in scena sui palcoscenici della Serie A. Non c’è affatto da meravigliarsi. Lo faccia chi non sa che l’Italia è un paese profondamente ignorante – tra i primi al mondo per odio razziale – che ignora la reale connotazione dei fenomeni immigratori e li rende negativi anche quando non lo sono. Insomma, Italia regno dei pregiudizi. C’è qualcuno – la Ipsos Mori in Gran Bretagna – che qualche tempo fa si è preoccupato di certificare il dato con una ricerca in 14 paesi del mondo con cui si evince che gli italiani hanno la più scarsa conoscenza di temi di pubblico interesse ed esprimono giudizi e sentimenti dalle deboli fondamenta. Insomma, italiani tutt’altro che brava gente. E allora non stupiamoci del razzismo negli stadi e nemmeno degli inciampi del presidente della FIGC Carlo Tavecchio. Ce lo meritiamo.
Verona-Napoli: prima la Marsigliese, poi i cori razzisti, infine Insigne. Dov'è finito il vero tifo? Scrive Giuseppe Annarumma su “Napoli Sport” il 23 novembre 2015. Ogni qualvolta che il Napoli affronta una trasferta a Verona è vittima dei cori razzisti dei tifosi avversari che inneggiano il Vesuvio e offendono i partenopei. Il problema è che oggi questi episodi non accadono solo al Bentegodi, ma anche a Milano, a Torino, a Bologna, a Bergamo, a Roma, a Firenze e chi più ne ha più ne metta. Nel match di ieri gli spalti dello stadio di Verona si sono colorati di vergogna e di incoerenza, visto che prima della partita tutti i presenti hanno espresso solidarietà nei confronti delle vittime di Parigi applaudendo la Marsigliese che ha accompagnato i calciatori prima del fischio iniziale, ma poi durante la gara i tifosi scaligeri non hanno risparmiato al Napoli i classici cori razzisti. L’anno scorso al Bentegodi Lorenzo Insigne pianse a fine partita, deluso dalla sconfitta e dalle offese ricevute, ancora una volta, e ieri ha ben pensato di reagire ai cori con il gol che ha portato gli azzurri in vantaggio, spianando la strada verso la vittoria finale. Cosa c’è di meglio per un napoletano doc come Lorenzo di segnare, interrompere le offese zittendo il pubblico di casa e regalare tre punti importantissimi al Napoli? Così dopo la rete lo ‘scugnizzo’ ha prima baciato la maglia azzurra, poi ha abbracciato colui che sta permettendo all’ambiente partenopeo di sognare lo Scudetto, Maurizio Sarri. La squadra risponde così ad ogni futile insulto razziale, secondo posto in classifica e lunedì, in caso di vittoria nel big match contro l’Inter, il Napoli potrebbe ritrovarsi a guidare la classifica del campionato italiano in solitaria. Già una volta un napoletano doc aveva zittito il Bentegodi, toccò ad Aniello Cutolo, il 16 settembre del 2011. L’attaccante partenopeo vestiva la maglia del Padova e i tifosi del Verona non gli risparmiarono i cori razzisti che in molti riservano ai calciatori napoletani. Al 29′ minuto del primo tempo, col Verona in vantaggio, Cutolo si inventa un gol fantastico e esulta correndo verso la curva dei padroni di casa con le mani dietro le orecchie, classico gesto per stizzire il pubblico avversario, zittendo anche Mandorlini con un gesto clamoroso verso l’allenatore. Un’esultanza polemica che gli valse il cartellino giallo ma che scaturì dagli insulti e dalla conseguente rabbia verso i tifosi veronesi, tra l’altro ex pubblico di Cutolo, visto che il giocatore aveva vestito la maglia scaligera in passato. Insomma di episodi di razzismo se ne contano tanti ma ciò che fa rabbia è che questi non vengono puniti, lasciando sempre correre, quando invece dovremmo soffermarci di più su questo aspetto vergognoso del tifo italiano.
Condò: “Perché a Verona cantano Marsigliese e poi Vesuvio lavali?” Scrive Alessandra La Farina il 22 novembre 2015 su “Calcio Mercato”. “Perché a Verona cantano Marsigliese e poi Vesuvio lavali?”, è la domanda che si pone il giornalista Sky Paolo Condò al termine di Verona-Napoli 0-2. Se da un lato allo stadio Bentegodi, prima del fischio d’inizio del match, i tifosi dell’Hellas cantavano la Marsigliese in ricordo delle vittime degli attentati in Francia, il coro “Vesuvio lavali” contro i napoletani (oggi loro avversari sul campo) cozza un po’ con quello che doveva essere il significato della “Marsigliese” a inizio di ogni partita di Serie A in questa tredicesima giornata. A sottolineare il totale controsenso dei tifosi veronesi è per l’appunto il giornalista di Sky Paolo Condò che, conclusa la partita, ha voluto accendere i riflettori su quanto accaduto sugli spalti nel corso dei novanta minuti. “È incoerente” grida il giornalista. E come dargli torto? I cori contro i napoletani, divenuti ormai scontati quanto fuori da ogni logica, appaiono oggi più che mai fuori luogo. Ricordare le vittime francesi per poi inneggiare la morte: qual è il senso logico? Un altro episodio di razzismo, l’ennesimo. Il “terrorismo” degli ultras.
"Napoli colera", siamo alle solite a San Siro: cori razzisti si levano dalla Curva Nord dell'Inter. Non solo Verona. Il cattivo gusto si è spostato anche allo stadio San Siro di Milano. Al minuto 82 di Inter-Frosinone si sono sentiti i soliti cori razzisti e discriminatori nei confronti della città partenopea: "Napoli merda, Napoli colera". L'atto vergognoso è partito dalla Curva Nord, già sanzionata in passato con pesanti ammende. Chissà cosa s'inventerà questa volta il giudice sportivo Tosel? E' giunto il momento di prendere provvedimenti drastici.
Napoli. Mandorlini e quell'insulto a Sarri: «Veste solo in nero e porta male», scrive Angelo Rossi. Non si sono mai presi. Ma si sono incrociati più volte. Nelle varie categorie e sempre a debita distanza, ognuno seduto sulla propria panchina. Salvo poi quando uno s'intromise nei fatti dell'altro. Storia di Mandorlini e di Sarri, semplici colleghi, non amici. Un feeling per niente sbocciato, colpa della lingua biforcuta del primo. «Sarri non porta bene», per intenderci lo etichettò come jettatore. Uscita inopportuna, sgradevole, di cattivo gusto. Un fatto che risale a oltre quattro anni fa, giugno 2011. Erano i giorni caldi dei playoff di Lega Pro. Il Verona fece sua la semifinale contro il Sorrento, la Salernitana la spuntò contro l'Alessandria, allora allenata da Sarri. Il quale si lamentò degli arbitraggi contro la propria squadra: quattro espulsioni in due gare. «Vogliono avvantaggiare formazioni più blasonate» fu il concetto espresso dal toscano per affermare che la finale era già scritta: Verona-Salernitana. E infatti andò così. Mandorlini sulla faccenda entrò a gamba tesa. Come quella volta nel novembre dell'85. Un intervento violento e fuori tempo. Si giocava Inter-Napoli (poi finita 1-1), Bruscolotti espulso per essere venuto alle mani con Altobelli, Garella colpito da una bottiglietta e partita sospesa, il solito ambiente ostile all'interno del quale l'entrata di Mandorlini a centrocampo fece la sua bella figura. Il centrocampista azzurro Ruben Buriani ci rimise tibia e perone, il suono sinistro del crac salì fin sulle tribune di San Siro. La carriera del centrocampista napoletano finì quel pomeriggio, Mandorlini si scusò in maniera gelida. «Non volevo fargli male», rispose a Maradona che chiedeva conto di quel comportamento. A parole quattro anni fa non è stato meno inopportuno riferendosi a Sarri nel 2011. «A me non piace parlar male di allenatori ma so che Sarri è uno che veste di nero e non porta proprio bene. Vede le cose negative»: uno schiaffo alla carriera di un collega fatta di sacrifici e costruita sulla passione. Dichiarazioni intempestive perché quella sterile polemica riguardava il tecnico toscano, gli arbitri e l'Alessandria. L'allenatore del Napoli sorrise senza replicare. Ha le sue scaramanzie, tra queste c'è quella di indossare spesso il nero. Alternandolo al blu. Insomma gli piace vestire scuro, un look che ha fatto suo da quando ha intrapreso la carriera in panchina. Ma quella non fu l'unica uscita infelice di Mandorlini. Il suo Verona giocò e vinse quella finale playoff contro la Salernitana, conquistando la serie B. Nel dopo partita si lasciò andare a frasi poco carine (Ti amo terrone…), che scatenarono una disgustosa rissa in sala stampa. E quando Agroppi, opinionista Rai, lo bacchettò in televisione invitandolo a chiedere scusa per aver offeso il Sud, replicò in modo beffardo: «Tu sei fuori dal mondo». Mandorlini, ravennate di nascita, ha giocato in sei squadre, Ascoli quella più a Sud. E allenato dodici club, più giù di Bologna non è mai sceso. Spesso comportamenti e dichiarazioni sono state tipiche del leghista, il suo capolavoro resta la festa promozione in B, ottenuta contro la Salernitana. Saltellava e ballava con i tifosi gialloblù cantando «Ti amo terrone»: festival del razzismo puro. Travolto da critiche e polemiche, fece spallucce. Qualche mese più tardi ci pensò un napoletano, Aniello Cutolo, a rispondergli per le rime a nome di tutti i terroni: giocava con il Padova, derby veneto a Verona, gol pazzesco del partenopeo da venticinque metri e di corsa ad esultare in faccia a Mandorlini: «Ti amo coglione».
E Ilaria D’Amico strizza l’occhio ai razzisti legittimandoli, scrive il 22 novembre 2015 su “Soldato innamorato”. “Ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo”. Ve lo ricordate quel coro di Mandorlini? Beh di certo in pochi lo avranno dimenticato. Per questo ieri ne abbiamo scritto. E’ il simbolo di questo Paese dove in uno stadio si canta la Marsigliese per ricordare le vittime degli attentati di Parigi, poi un minuto dopo in quello stesso stadio si consente a quegli stessi tifosi di inneggiare il solito coretto “Vesuvio lavali col fuoco”. E la colpa è di chi, pur avendo responsabilità per il ruolo che ricopre, anche mediaticamente, soffia sul fuoco invece che cercare di educare i tifosi ai valori dello sport. Per carità nello sport conta pure vincere, oggi noi napoletani ci saremmo inquietati non poco se gli azzurri non fossero riusciti a scardinare la difesa veronese. Però, prima di tutto, ci sono dei criteri di civiltà che non possono essere dimenticati. I napoletani vanno in tutti gli stadi del nord a beccarsi questo genere di razzismo. Ormai è diventata una moda. E’ vero pure che ingigantire questo fenomeno è sbagliato: pure io allo stadio canto Roma o Milano in fiamme, poi ho tra i miei amici sia romani che milanesi e mai mi sognerei di augurargli il male. Ma il razzismo verso i napoletani dura da troppi anni e non si può derubricare a semplice “coro da stadio”. Resiste in troppe città italiane questo pregiudizio nei confronti dei meridionali, altrimenti non si spiegherebbe nemmeno il motivo per cui in Italia esista ancora un partito denominato Lega Nord che basa la sua politica proprio con l’odio verso chi viene dal sud. Tutto questo sentimento insopportabile alimenta (anche in me, non lo nascondo) un sentimento di anti-italianità da parte dei napoletani. E pensare che l’Unità d’Italia è avvenuta oltre 150 anni fa. E sorvoliamo sulle modalità di questa annessione perché altrimenti non la finiremmo più. Se però questo razzismo continua è anche grazie ai vertici del nostro sport che mostrano una totale incapacità nel punire certi comportamenti. Oggi a Sky, dopo che Condò ha fatto notare i soliti cori contro i napoletani, Ilaria D’Amico non ha potuto dire o biascicare nulla di più intelligente di “Vabbé succede anche a Napoli in particolare più volte”. Il tutto per strizzare l’occhio, in nome del Dio Denaro, a quella parte di pubblico (E SONO TANTI) che proprio non sopporta i napoletani. Qui a Napoli, anche attraverso il nostro sito con diversi articoli, non lodiamo i comportamenti beceri dei nostri ultrà quando commettono gesti incivili o intonano cori disdicevoli. Però questo lavoro va fatto ovunque, altrimenti la vinceranno sempre questi buzzurri che con lo sport non hanno nulla a che fare. I media, gli addetti ai lavori, la politica. Certo, se poi un allenatore del Verona, che lavora in una città ad alto tasso di razzismo, soffia sul fuoco anziché cercare di educare la propria tifoseria, allora la battaglia è proprio persa. “Ti amo terrone”, “Lavali col fuoco”, “Napoli colera”. Per quanto tempo ancora vogliamo andare avanti in questo modo? Fatecelo sapere. Lo capiremo quando anche stavolta, l’ennesima, non arriverà nessuna sanzione realmente incisiva verso chi canta queste schifezze insopportabili.
Cori, sfottò e insulti: Verona-Napoli, la storia infinita che vale uno striscione, scrive Verona-Napoli con cui riprenderà il campionato a tinte azzurre, domenica alle ore 12:30, può essere definita una partita che vale uno striscione. Quanti ce ne sono stati, da quanti anni, al di là delle scaramucce che ci sono tra le due tifoserie che proprio non si amano e che, forse, mai lo faranno. Si parte nel 1983 quando Dirceu si trasferì dall'Hellas Verona al Napoli e fu accolto da un: “Ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel continente nero”. Poi ci fu la prima di Maradona, letteralmente massacrato al Bentegodi da Briegel, con i padroni di casa che vinsero per 3-1 e, a fine stagione, conquistarono lo scudetto. Ma gli striscioni orribili sono all'ordine del giorno a Verona, dal: “Vesuvio lavali col fuoco”, passando per“Napoli colera, la vergogna dell’Italia intera”, o ancora “Napoletani, stessa fine degli ebrei”: vero e proprio razzismo allo stato puro. Aggiungiamo a questi un “Benvenuti in Italia”, che fece scattare la grande magia delle menti napoletane, quello striscione della curva B, quel famoso, esilarante, divertentissimo striscione passato alla storia: “Giulietta è ‘na zoccola”. Finito qui? Per niente ci fu il seguito con 'offesa' shakespeariana: “Romeo è cornuto”. Anno 2001, gennaio: «Acqua e saon par el teron», tradotto: acqua e sapone, il resto è noia, recitava una canzone di diversi anni fa. Anno 1992, il Verona retrocede in B, a Napoli si festeggia: «Coloro che vogliono festeggiare si trovino oggi alle 19,30 in piazza del Plebiscito». Come in un vecchio film di Woody Allen, «Amore e Guerra», togliamo l’amore ed ecco cosa vi rimane: la storia di una fiamma belligerante mai spenta. «Facciamo il gemellaggio?», qualcuno dalla parte partenopea, ancora oggi, ci prova sui social network. Sì, certo, come no, ma bisogna cambiare sesso: ci vogliono le donne, quando a Verona, prima del match tra il Bardolino e il Napoli Carpisa Yamamay, al fischio finale ci furono applausi, brindisi e strette di mano con zero scherni in tribuna. Un gesto molto bello, portato avanti, nemmeno a farlo apposta dalla gialloblù Melania Gabbiadini (la sorella di Manolo, attaccante del Napoli). Un messaggio per tutti...
La testa è altrove, a ciò che è accaduto a Parigi e a ciò che sta accadendo in giro per l'Europa. Sarebbe superfluo parlare di altro, ma si cerca di andare avanti e farlo nel rispetto di chi in questo momento non c'è più, che ha perso la vita per colpa di alcuni sciagurati. Ma gira e rigira,Verona-Napoli storica sfida tra striscioni e razzismo: da Dirceu all'offesa shakespeariana, su "Il Mattino del 16 novembre 2015. Gira e rigira, Verona-Napoli con cui riprenderà il campionato degli azzurri (domenica alle 12,30) è una partita che vale uno striscione. La prima stoccata è del 1983 quando Dirceu, il delizioso brasiliano di Curitiba, si trasferì dal Verona al Napoli. Lo striscione scaligero che accolse Dirceu in azzurro recitò: “Ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel continente nero”. L’anno dopo andammo in paranza al Bentegodi perché il campionato cominciava con la prima partita di Maradona in maglia azzurra. Il pibe fu massacrato da Briegel, il Verona vinse 3-1 e, a fine stagione, conquistò lo scudetto. Al Bentegodi si sprecavano gli striscioni orribili. “Vesuvio lavali col fuoco”. “Napoli colera, la vergogna dell’Italia intera”. “Napoletani, stessa fine degli ebrei”. Razzismo puro. L’ennesimo striscione del Bentegodi, “Benvenuti in Italia”, provocò l’immediata reazione, una genialata tutta partenopea dei ragazzi della Curva B del San Paolo presenti sugli spalti veronesi. Essi srotolarono il più famoso, spiritoso e incisivo striscione mai apparso in uno stadio: “Giulietta è ‘na zoccola”. Le partite fra Verona e Napoli sono questo. Fino alle ventimila banane di cartone giallo esposte al San Paolo in curva B, il giallo col blu è il colore delle maglie veronesi, accompagnate da una ulteriore “offesa” shakespeariana: “Romeo è cornuto”.
VERONA-NAPOLI, COME È NATO L’ODIO TOTALE. Era il nulla, per i tifosi partenopei: una squadretta del Nord. Con una tifoseria che però proprio per questo si rivelò più provinciale e razzista delle altre. E così, dopo gli striscioni “Benvenuti in Italia” e “Lavatevi”, cambiò tutto, scrive Errico Novi il 10 gennaio 2014 su “Extranapoli”. Perché proprio con il Verona? Cos’hanno di speciale gli scaligeri per suscitare un odio così viscerale? A poche ore dal ritorno di una partita che manca da 7 anni (in serie A addirittura da 13) qualcosa in proposito va detta. Innanzitutto che ai napoletani non gliene importava un tubo, del Verona e dei veronesi. I nemici erano altri: Juve, Inter, Milan (seppure ci fosse stato un timido tentativo di gemellaggio tra Blue Lions e Brigate nei primi anni Ottanta), al limite la Lazio. Ma il Verona, cosa significava per i partenopei? Niente. E in realtà fu proprio l’effetto sorpresa di quel 16 settembre 1984, prima partita di Maradona in serie A, a cambiare le cose.
Il primo conato gialloblù. Negli anni Settanta il Bentegodi è terra di conquista. I napoletani ci arrivano a frotte e occupano tutti i settori dello stadio. L’impianto è piuttosto capiente per una squadra di provincia, oltre 40mila posti (quanti ne fa oggi lo Juventus stadium), ma i supporters locali non riescono a riempirlo mai. Tra l’82 e l’84 però il club partenopeo conosce una grave crisi di risultati, ne risente anche il seguito che gli azzurri hanno in trasferta. E per partite come quella di Verona si muovono molti meno napoletani che in passato. Finisce così in secondo piano un primo conato fortemente razzista della curva sud del Bentegodi: che dopo il passaggio di Dirceu in azzurro dedica al campione brasiliano lo striscione “ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel continente nero”. Se ne accorgono in pochi. Passa meno di un anno ed ecco la scena madre. La prima di campionato 84-85 è Verona-Napoli. È arrivato Diego, ha appena segnato in Coppa Italia alcuni dei suoi gol più incredibili, a cominciare dalla rovesciata di Pescara. Il Napoli è incompleto, schiera a centrocampo un metodista ormai avanti con gli anni come Walter De Vecchi, ma i tifosi azzurri hanno occhi solo per Lui. Nell’impianto scaligero sono almeno 15mila. I veronesi prendono male l’invasione. Il Veneto dei primi anni Ottanta non è il Nordest di oggi. È una provincia chiusa e povera rispetto alle ricche Milano e Torino, dove i meridionali sono entrati a far parte ormai anche della classe dirigente. Brigate e inferni gialloblù vari scaricano contro i tifosi partenopei cori xenofobi che neppure a San Siro o al Comunale di Torino si sentono: “Terremotati”, “benvenuti in Italia”, “quanto puzzate”. La tensione è accresciuta dalla vittoria per 3-1 che l’Hellas riporta sul campo. Molti supporters azzurri tornano a casa e raccontano la sconcertante accoglienza. Ma la delusione per il risultato anche stavolta oscura almeno in parte l’accaduto.
I cori razzisti in sovraimpressione sulla Rai. Un effetto in realtà c’è: l’anno dopo, è il 23 febbraio dell’86, a Verona non ci sono i gruppi ultras del San Paolo. Arrivano circa tremila tifosi azzurri da varie parti del Nord. Ma l’atteggiamento dei veronesi non cambia. Riecco gli insulti razzisti sugli striscioni: “Benvenuti in Italia” e “Lavatevi”. Stavolta la cosa non sfugge alle telecamere Rai. E così il servizio su Verona-Napoli 2-2 messo in onda alle 20 da Domenica sprint mostra non solo i drappi ma fa ascoltare ben bene anche i cori. E non solo: perché mentre va in onda sulle note di Guantanamera la canzoncina delle Brigate gialloblù Quanto puzzate, terroni quanto puzzate, la tivù di Stato mette addirittura le parole in sovraimpressione. Finalmente scoppia il putiferio. Non si parla d’altro per una settimana. E così la successiva partita in casa, Napoli-Torino, viene preceduta da quasi mezz’ora di cori di protesta scanditi dalle due curve del San Paolo.
Verona diventa il nemico. Solo a questo punto i napoletani, che l'anno dopo avrebbero festeggiato il primo scudetto, cominciano a mettere i veronesi in cima alla lista dei nemici. Prima di milanisti e juventini. Il prepartita di quel Napoli-Torino è una specie di rivelazione collettiva. In curva A compare uno striscione di risposta che non conquisterà la fama del ben più tardivo “Giulietta è ’na zoccola” (1996). Il drappo ideato dai Blue Lions di Tony Faiella, scritta rossa su fondo bianco, recita “Veronesi, torneremo per farci lavare le palle”. Violento, volgare, senza dubbio. Ma a noi quasi quasi piace più di quell’altro.
VERONA-NAPOLI, STORIE DI ODIO E DI ULTRAS. La rivalità con gli scaligeri, acquisita tra le più irriducibili d’Italia, passa anche per l’affronto dei tifosi azzurri che invadono il campo e corrono a far gestacci sotto la curva sud. Fino al famoso epitaffio a Giulietta, continua Errico Novi. Nella saga di Verona-Napoli si intromettono citazioni di ogni tipo: non c’è opinionista sportivo che manchi di ricordare lo striscione su Giulietta, ma spesso si confondono le date e i contesti. Sta di fatto che la rivalità viene annoverata ormai tra quelle storiche del calcio italiano. Con qualche buona ragione, evidentemente.
Il campo del Verona violato dagli ultras azzurri. Resta memorabile per esempio un’altra trasferta dei partenopei al Bentegodi, quella del 10 settembre 1989. Siamo a inizio campionato e gli azzurri si presentano privi di Diego (che alla fine della stagione precedente ha chiesto inutilmente di essere ceduto al Marsiglia). Il seguito di tifosi è massiccio ma ora prevalgono i gruppi ultras, rispetto all’eterogenea massa di aficionados che aveva invaso Verona nell’84. Una parte della tifoseria napoletana si sistema nell’anello inferiore della curva nord. Alla fine della partita, vinta per 2-1 dal Napoli, decine di ultras partenopei scavalcano le barriere e invadono il campo: non vanno a caccia di magliette e souvenir feticisti, e infatti Careca, Mauro e gli altri azzurri tornano abbastanza tranquillamente negli spogliatoi. I supporters napoletani vanno dritti verso la curva sud trascinati da un orgasmo adrenalinico a fare ogni genere di gestacci sotto il naso dei veronesi. E le immagini che postiamo sotto questo articolo mostrano come i butei impazziscano di rabbia con inutili invettive sacramentali all’indirizzo dei nemici. L’onta del terreno di gioco violato entra negli annali.
Le ventimila banane e i veronesi invisibili. C’è da dire che a Napoli non viene quasi nessuno in trasferta. Nell’anno del nostro primo scudetto, per esempio, si ricordano solo i romanisti da tempo gemellati (che si sistemano infatti a piccoli gruppi in vari settori del San Paolo, confusi senza problemi tra i tifosi del Napoli), i davvero eroici atalantini, che seppure in poche decine si appostano coraggiosamente nell’anello inferiore della curva A, e i viola che assistono alla festa tricolore del 10 maggio 1987. Veronesi non pervenuti neppure il 21 gennaio del 1990, quando la curva B accoglie i gialloblù con ventimila banane di cartone e il coro “veronese ciuccia la banana”. Ad apprezzare lo spettacolo sono appunto solo i giocatori di Osvaldo Bagnoli: di tifosi scaligeri non ce n’è manco mezzo. Le cose cambiano dopo i Mondiali del ’90. Strane coincidenze spianano la strada alla pay-tv con un’impressionante militarizzazione degli stadi. Da una parte seguire la propria squadra fuori casa inizia a richiedere la disponibilità ad essere sequestrati dalla polizia nel settore ospiti per almeno un paio d’ore oltre il 90°. D’altra parte tifoserie che si sentivano troppo esposte in determinati campi prendono coraggio proprio per il rafforzamento delle scorte ordinato dal Viminale. Succede anche ai veronesi, che si presentano al San Paolo in genere in un paio di centinaia.
Vengono giù dai monti del Tirolo. Di sicuro il campionario dei cori veronesi è tutto particolare. È sempre stato così, almeno da quando esiste il fenomeno ultras. La curva sud scaligera spedisce avanguardie a osservare le gesta delle firms d’Oltremanica e poi importa il repertorio al Bentegodi. Sono i primi a cantare l’inno inglese, per esempio. E quando tutte le curve d’Italia ancora adottano l’ecumenico “Alé-oò”, loro rivisitano il coro per farne esclusivamente un inno a un loro giocatore, Domenico Volpati. Negli anni questa ricercatezza si complica. In una delle prime apparizioni a Fuorigrotta, siamo nel settembre del ’91, i gialloblù esibiscono bandiere austriache e si lasciano scappare un “veniamo giù dai monti/ dai monti del Tirolo”. Se qualche napoletano si avvicina al divisorio del settore, loro gli cantano “facci la pizza/ terrone facci la pizza”. Una fantasia dark, diciamo. Quella partenopea è decisamente più lineare e divertita.
E venne il giorno di Giulietta. E così nella sfida che si gioca a Fuorigrotta a inizio dicembre del ’96 la curva B ripropone la coreografia delle banane ed espone l’ormai celebre striscione: “La storia ha voluto: Giulietta zoccola e Romeo cornuto”. Simboli apotropaici e citazioni shakespeariane portano bene: il Napoli vince quella partita per 1-0 con una bomba di Mauro Milanese a pochi minuti dalla fine. Balza al secondo posto in classifica: una specie di miracolo ad opera del serafico Gigi Simoni. Ma l’Italia s’accorge soprattutto dello sfottò su Giulietta e legittimamente ride. Gioco, partita e incontro, si direbbe. Eppure no, la storia va avanti. Dopo qualche anno infatti i gialloblù saranno i primi a cantarci Oj vita oj vita mia in segno di scherno.
’O surdato ’nnammurato in veronese. Ferlaino caccia Simoni pochi mesi dopo quell’1-0 contro gli scaligeri. Sì, il rendimento degli azzurri se n’è sceso, la zona Uefa scappa via, ma in un’indimenticabile notte di febbraio gli azzurri conquistano la finale di coppa Italia, con una vittoria ai calci di rigore contro l’Inter. Il presidente del Napoli accusa però l’allenatore di essere troppo distratto dall’accordo che lo porterà ad accasarsi a fine stagione proprio con i nerazzurri. E lo esonera. È l’inizio del nostro travaglio. Che conosce uno dei passaggi più dolorosi nel torneo 2000-2001, l’ultimo in serie A prima dell’avvento di De Laurentiis. Mondonico sembra aver risvegliato la squadra ma l’illusione si spegne proprio al Bentegodi, il 14 gennaio 2001. Azzurri in vantaggio a un quarto d’ora dalla fine con un capolavoro di Bellucci da 25 metri, poi frana tutto e il Verona rimonta: 2-1 finale e i gialloblù travolti dall’emozione intonano a squarciagola Oj vita oj vita mia. La cantano in ventimila, il coro rimbomba come un incubo nella testa dei cinquemila partenopei. Ma di lì a poco avremo ben altro di cui preoccuparci. E lo stesso Verona tornerà opportunamente in serie B.
La farsa del volantino. Ottobre 2002, Verona-Napoli è di scena nel campionato cadetto. Una settimana prima si gioca Napoli-Sampdoria al San Paolo, e gli ultras della curva A espongono uno striscione: “Tutti a Verona”. Diffondono pure un volantino con il testo di un coro, che non è molto conosciuto se non dai direttivi dei gruppi. Il motivetto è quello di “Sarà perché ti amo” dei Ricchi e poveri, adattato così: “Passamontagna/ bastone nella mano/ È il momento/ che noi aspettavamo/ E col Verona/ c’è un odio che non muore/ Non ce ne frega/ di andare in prigione…”. Sì, pesante, ma l’idea è semplicemente quella di far cantare a tutti una canzoncina metricamente ben riuscita ed eccitare i dubbiosi sulla trasferta della domenica dopo. La Digos invece trova che il coro non suoni bene e individua nel volantino non uno spartito ma un dispaccio militare con invito ad armarsi di passamontagna e bastone. Vengono arrestati alcuni capitifosi azzurri. Al Bentegodi comunque si presenteranno quattromila partenopei, in gran parte partiti in treno da Napoli: un record di presenze per una trasferta così lontana e per una squadra che galleggia a metà classifica in serie B. Segno che l’obiettivo del volantino era semplicemente la mobilitazione di un numero più alto possibile di tifosi.
Bye bye Verona. Ci vogliono altri cinque anni per incontrarsi di nuovo. E sarà una goduria per noi indimenticabile. La fine di anni di sofferenze sportive, culminate nel fallimento del club e nella discesa in serie C. Il 26 maggio 2007 il Napoli va a prendersi a Verona 3 punti decisivi per il ritorno in A, e prefigura agli scaligeri la loro retrocessione in terza serie. Lì l’Hellas resterà per tre stagioni. L’1-3 del Napoli al Bentegodi è contrappuntato però anche dalle violente intimidazioni che alcuni telecronisti napoletani ricevono da esagitati scaligeri in tribuna numerata. Vecchi reduci delle Brigate che trovano doveroso accomodarsi nelle poltrone centrali, lontani dalle gradinate di un tempo. Carlo Alvino e altri colleghi vedono messa a rischio la loro incolumità. Ma in modo del tutto volontario la mette in pericolo anche l’attore veronese-partenopeo Francesco Brandi. Anche lui è in tribuna, in mezzo ai gialloblù. Al gol dell’1-3 di Dalla Bona, restituisce in versi tutte le maleparole udite in anni di becerume. E, come potete leggere nel suo splendido racconto pubblicato su #chevisietepersi del nostro Boris Sollazzo, comincia a correre per la felicità.
Verona-Napoli, la storia della lunga sfida tra razzismo e risposte geniali. E quelle parole di Maradona…Tra le due tifoserie c'è sempre stata ostilità, i napoletani hanno spesso risposto in maniera geniale, scrive il 15/03/15 “IamNaples”. La trasferta di Verona storicamente è sempre stata insidiosa per i colori del Napoli, sia dal punto di vista prettamente sportivo che da quello ambientale. In ogni trasferta, i partenopei sono stati sempre accolti nella città scaligera con un clima molto ostile tanto da attirare l’attenzione dei media anche a fatti extracalcistici. Nel tempo la sfida è diventata molto sentita da entrambe le tifoserie tanto da beccarsi reciprocamente con cori e striscioni molto offensivi. Anche dal punto di vista dell’inventiva, però, i napoletani hanno avuto la meglio con risposte su striscioni che hanno fatto il giro del mondo tanto da meritare una propria frase un titolo ad un libro sul mondo delle tifoserie. Andiamo con ordine. La fantasia prettamente napoletana si è spesso trasferita ed ha avuto una voce alquanto potente sugli striscioni esposti specialmente al San Paolo, soprattutto per rispondere a “messaggi” troppo spesso offensivi esposti dai sostenitori delle squadre avversarie, spesso striscioni ispirati al razzismo rivolti alla nostra amata terra. Intendiamo riferirci ai tifosi di Bergamo, Como, Brescia, Milano, Roma e Verona su tutti. Clima che molto spesso può far degenerare in scontri non solo verbali, ma il tifo napoletano cerca spesso di rispondere con ironia al torto subito, condannato soprattutto ora da quasi tutte le tifoserie europee. Verona spesso ha fatto registrare striscioni con su esposte le scritte: “Lavatevi”, “Vesuvio lavali col fuoco”, “Benvenuti in Italia”, “Vesuvio pensaci tu”, “Forza Vesuvio”. In occasione proprio della gara di andata della stagione 1988-1989 Verona – Napoli comparve questo striscione e dipinto sull’autostrada alle porte di Verona, con l’auspicio di un’eruzione distruttrice. Per la cronaca la sfida venne disputata l’11 dicembre 1988, diretta dall’arbitro Baldas. Il primo tempo finì a reti inviolate. Scocca il 53’: punizione dalla lunga distanza calciata da Renica che colpisce il palo e sul rimbalzo arriva in tuffo Crippa che ribatte di testa spedendo in fondo al sacco il gol partita. La gara però degenera non solo sugli spalti ma anche in campo. Al 78’ Crippa viene espulso per fallo da rigore su Galderisi che lo stesso tira. Giuliano, l’ex di turno, si supera deviando il calcio di rigore in corner. Nel finale viene espulso per gioco violento il tedesco Berthold. A fine gara Maradona si esprime così: “Abbiamo vinto meritatamente perché il Napoli è stata una squadra intelligente in campo. Vale molto questa vittoria perché l’anno scorso abbiamo perso lo scudetto proprio perdendo in questo campo”. Nella gara di ritorno, in una giornata piovosa, avviene la risposta dei tifosi partenopei che così accolgono gli scaligeri: curva B tutta “colorata di banane gialle” ed uno striscione inequivocabile che fa andare su tutte le furie il popolo gialloblu: “La storia ha voluto: Giulietta è ‘na zoccola e Romeo cornuto”. Per la cronaca la sfida venne giocata alla vigilia della finale di Coppa Uefa con lo Stoccarda, ossia il 10 aprile 1989 con il Napoli che vinse con il minimo scarto con una rete di Alemao. La sfida sugli spalti però non si conclude così ed i veronesi meditano ad una risposta su “pezza” per cercare di vendicare il loro onore e quello di “Sheakespeare”. La frase “Giulietta è na zoccola”, risposta geniale ed irridente nei confronti anche della letteratura, ha fatto il giro del mondo tanto da essere considerato lo striscione più divertente mai apparso al mondo sugli stadi. Qualche anno più tardi i veronesi si vogliono vendicare dell’affronto subito ed espongono un altro striscione ma fanno un autogol clamoroso senza meritare una risposta su pezza da parte del tifo partenopeo: “Siete tutti figli di Giulietta”. L’intento dei supporters scaligeri era quello di offendere il popolo napoletano, ma il fatto stesso ammette implicitamente l’ammissione originale dello striscione dei tifosi napoletani. La genialità dei napoletani continua qualche anno dopo. Il 5 maggio 1997 in Verona – Napoli segna per gli scaligeri De Vitis e dalle tribune compare lo striscione “Terroni, terroni”. La risposta non tarda a venire. I partenopei si vendicano il 17 gennaio 1999. Al San Paolo i tifosi azzurri rispondono così: “Giulietta, t’avevo lasciata zoccola e ti ritrovo puttana”. Per completare la storia delle sfide al Bentegodi vogliamo lasciare due ricordi. Uno riguarda Maradona che qualche anno dopo il suo esordio con la maglia azzurra in campionato proprio a Verona mette in evidenza la diffusa abitudine malsana del tifo becero di molti stadi italiani, il secondo riguarda uno dei tanti doppi ex che ci ha lasciati prematuramente, ossia Giuliani. Diego Armando Maradona esordisce con la casacca del Napoli nel 1984 proprio a Verona perdendo per 3-1. Di quella gara, dopo qualche anno, fece queste considerazioni: “Nel 1984, il mio primo campionato italiano, debuttammo a settembre in trasferta contro il Verona. Ce ne fecero tre. Loro avevano il danese Elkjaer Larsen e il tedesco Briegel. Il tedesco mi diceva “taci!”, e mi buttava a terra o fuori del campo. Ci ricevettero con uno striscione che mi aiutò a capire di colpo che la battaglia del Napoli non era solo calcistica: “Benvenuti in Italia” diceva. Era il Nord contro il Sud, i razzisti contro i poveri. Chiaro il messaggio. Loro finirono vincendo il campionato e noi ci salvammo nel girone di ritorno. Ma quello striscione di Verona che mi aveva colpito nella mia prima partita della carriera in Italia, non lo avevo dimenticato. Per quel “Benvenuti in Italia” indirizzato ai napoletani arrivò però subito il momento della rivincita, la vendetta. Accadde nel febbraio del 1986, il campionato successivo. Tutta la curva del “Bentegodi” gridava “Lavatevi! Lavatevi!”. Ci stavano battendo per 2 a 0, i napoletani erano offesi ed indignati. Ad un certo momento, nella ripresa, ci meritammo un rigore ed io spiazzai Giuliani e segnai. Poi a pochi minuti dalla fine, toccai io la palla, pim!, un difensore sbagliò, ancora un mio gol ed ecco il 2-2. Festeggiammo come se avessimo vinto la Coppa dei Campioni. E aggiungo che tutti quelli del Napoli che stavano in panchina, invece di venire ad abbracciare noi, andarono a mettersi sotto la curva che più di tutti aveva gridato “Lavatevi! Lavatevi!”. Eravamo così, così era la squadra e così era la città dove giocavamo e vivevamo”. Giuliano Giuliani nasce a Roma il 29 settembre 1958. E’ stato il portiere del Napoli dello scudetto 1989-1990 e sempre con il Napoli ha conquistato una Coppa UEFA nella stagione 1988-1989. Giuliani è stato un buon portiere, un pararigori, il primo con la maglia dei scaligeri fu parato proprio a Maradona la stagione precedente prima di passare al Napoli. Proprio con gli azzurri difende il successo della stagione 1988-89, parando il rigore a Galderisi, facendo rimanere il risultato di 0-1 con gol di Crippa. Cresciuto nell’Arezzo, ha esordito in Serie A nella stagione 1980-1981 con la maglia del Como. Nel 1985 è passato al Verona e nel 1988 al Napoli. Prima di passare al Napoli, quando ancora giocava con il Verona venne battuto da un pallonetto da centrocampo proprio di Maradona vedendo morire la sfera tra le maglie di una rete. Da centrocampo, infatti, vede la palla che vola sulle teste, supera anche la sua, tocca il palo e fa scendere il cielo. Nella vita privata sposò la showgirl televisiva Raffaella Del Rosario, divenuta poi conduttrice di programmi sportivi. Nel 1993 si ritirò dall’attività sportiva, ma nel frattempo si ammalò di AIDS e dopo una lunga malattia è morto a Bologna il 14 novembre 1996. In una sfida di calcio femminile tra la Bardolino Verona ed il Napoli Carpisa Yamamay è successo che al fischio finale venne effettuato il “terzo tempo” nello stile tipico del rugby. Applausi per tutti, brindisi e strette di mano fra calciatrici e dirigenti, zero scherni in tribuna. “Un gesto molto bello”, disse il sindaco Flavio Tosi prima di consegnare un premio alla gialloblù Melania Gabbiadini (la sorella di Manolo, attuale attaccante del Napoli) e alla collega napoletana Valentina Giacinti. Tosi, sempre lui, aggiunse: “È normale che tra due piazze importanti ci sia rivalità, ma è fondamentale che non si degeneri: l’iniziativa servirà a diffondere questo messaggio”.
Ultras Verona, non solo Lampedusa: trent’anni di striscioni e razzismo, scrive il 7 ottobre Antonio Sansonetti su “Blitz Quotidiano”. Il minuto di silenzio per le vittime di Lampedusa violato all’inizio di Bologna-Verona 1-4 non è la prima discutibile provocazione degli ultras dell’Hellas Verona, curva da sempre di estrema destra. È una storia lunga, i cui primi passi salienti documentati sono negli anni 80. Sono anni indimenticabili per il calcio a Verona. Nel 1985 la squadra allenata da Osvaldo Bagnoli vince lo scudetto, a sorpresa, davanti al Torino, all’Inter, alla Sampdoria e al Milan. Resterà un’impresa ineguagliata del calcio di provincia: mai una società di una città non capoluogo di regione ha vinto lo scudetto. A Verona c’è una tifoseria molto calorosa. Veronesi tutti matti, si dice in Veneto. Dal 1971 è attivo un gruppo ultras: sono le Brigate Gialloblù. Inizialmente apolitiche, si spostano sempre di più a destra a partire dalla seconda metà degli anni 70. Nel decennio successivo lo slittamento a destra è definitivo e i supporter gialloblù si caratterizzano per la loro rivalità con le tifoserie meridionali, Napoli su tutte. Ma ci sono scontri pesanti anche con quelle del Nord: Brescia, Atalanta, Vicenza, Bologna, Juventus, Genoa, Milan, Torino. Nel 1983 il calciatore brasiliano Dirceu (un numero 10 che giocò 3 mondiali e 3 olimpiadi con la Seleçao) passa dal Verona al Napoli. I veronesi lo salutano così: “Dirceu ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel Continente Nero”. La rivalità con il Napoli è fonte d’ispirazione per la goliardia razzista dei veronesi, che sono stati i primi a cantare (poi purtroppo imitati da troppe tifoserie italiane) “Vesuvio bruciali tutti“, o “Vesuvio lavali col fuoco”, esponendo striscioni come “Forza Vesuvio” o “Vesuvio pensaci tu”: I napoletani sono stati accolti con un “Benvenuti in Italia” o “Lavatevi”: Provocazioni alle quali i napoletani hanno risposto con il celeberrimo striscione che attacca uno dei simboli di Verona, il dramma shakespeariano di Romeo e Giulietta: “Così la storia ha voluto: Giulietta è ‘na zoccola e Romeo cornuto“. Un botta e risposta fra veronesi e napoletani c’è anche quando i gialloblù iniziano ad esporre lo striscione “Noi odiamo tutti”: Striscione al quale i napoletani replicano con “Noi amiamo tutti”. Il discorso si fa più pesante quando gli ultras veronesi, che comunque non hanno mai rinunciato ad esporre svastiche e croci celtiche nella loro curva, contestano a modo loro l’acquisto di Maickel Ferrier. È la primavera del 1996 e l’Hellas sta per comprare Ferrier, giovane olandese di origini africane, che sarebbe il primo nero a vestire la maglia gialloblù. In curva compare un manichino di un giocatore nero con la maglia del Verona: è impiccato, sorretto da due tizi “goliardicamente” mascherati coi cappucci a punta del Ku Klux Klan. Ferrier finirà alla Salernitana senza passare dal Bentegodi, se non da avversario. A volte gli ultras Verona sono stati presi di mira in maniera eccessiva, come quando si è visto del razzismo anche nel coro “Ti amo terrone“, che in realtà è una canzone per niente razzista degli Skiantos, storico gruppo punk bolognese. Anche l’allenatore Andrea Mandorlini finì alla gogna perché cantava “ti amo terrone”. Spesso i veronesi scandalizzano non solo il grande pubblico ma anche gli altri ultrà: è successo quando hanno deciso di aderire in massa alla tessera del tifoso, infischiandosene della battaglia contro quella tessera che stanno facendo la stragrande maggioranza delle curve. Dimostrando così una certa astuzia, una certa duttilità tipica di una città di mercanti (lo erano gli Scaligeri, il cui stemma è lo stemma di Verona, lo erano sia i Montecchi che i Capuleti). È l’adesione alla tessera che dà ai veronesi la possibilità di spostarsi ancora in massa in trasferta, come a poche tifoserie è consentito fare. “Guerra al calcio moderno? Scusate non abbiamo tempo”. I veronesi son così: quasi sempre “Soli contro tutti”, spesso sono goliardi come questo ultrà che ha assistito nudo allo spareggio per la B fra Salernitana e Verona. Ma oltre a non rispettare le differenze di razza e di religione, oltre ad essere fascisti e solidali coi neonazisti greci di Alba Dorata gli ultras del Verona passano ogni limite quando non rispettano i morti. Era già successo con Piermario Morosini, il calciatore del Livorno morto in campo, durante Pescara-Livorno, per arresto cardiaco. La curva gialloblù, in trasferta a Livorno cantò “Morosini figlio di p…”. È successo di nuovo con i migranti morti al largo di Lampedusa. Gli ultras veronesi non si sono limitati a violare il minuto di silenzio, per farlo hanno deciso addirittura di cantare un coro funebre: “Io credo, risorgerò, questo mio corpo vedrà il Salvator”: L’allenatore del Verona Mandorlini ha detto che quel coro va interpretato alla lettera: un canto funebre per i poveri morti. Anche se, qualche giorno prima, il 4 ottobre, chi amministra la pagina facebook “Siamo l’armata del Verona” (oltre 5.000 fan) ha commentato così la notizia del disastro al largo delle coste siciliane: “SONO FINITE LE GITE A LAMPEDUSA”. Più di 250 “mi piace” e una dozzina di commenti che apprezzavano la battuta. Difficile interpretarla come solidarietà alle quasi 200 (per ora) vittime del naufragio.
«Che importa che muoia: tanto è un terrone!», scrive Concetta Centonze. Storie di razzismo antimeridionale. Una testimonianza di una meridionale trapiantata in Veneto. AVEVO anagraficamente ventisette anni, ma scarsa esperienza della realtà: avevo sempre studiato. Per questo, quando sono entrata, proveniente da Lecce, in una scuola superiore di San Donà di Piave ho impiegato un po’ di tempo a capire. Io tenevo le mie lezioni di lettere, ero stimata dai miei alunni e dai loro genitori, ma quando mi recavo a supplire in classi diverse dalle mie, in cui non avevo “l’arma” del voto facevo fatica a farmi ascoltare. Non era soltanto questo: le mie entrate e le mie uscite erano accompagnate da risatine. Non mi pareva di essere ridicola: certo non ero alta, portavo gli occhiali, ma sapevo il fatto mio. Ero aliena da ogni pregiudizio giacché, a causa dell’asma della mia sorellina, fin dagli anni cinquanta, la mia famiglia aveva sempre frequentato le Dolomiti: Faé di Longarone, Laggio, Auronzo. Avevamo molto sofferto per la tragedia del Vajont in cui avevamo perduto amici e conoscenti. Bambina ero venuta da turista nel Veneto e, conseguita la laurea, tornavo per lavorarci: mi sembrava logico e normale. Non ero forse italiana tra italiani? Probabilmente a causa di questa buona fede impiegai un po’ di tempo a capire le risatine. Lo capii quando, passando per il corridoio, durante un intervallo, sentii un “Concettina, ah Concettina” pronunciato con un accento che voleva scimmiottare quello di un immaginario meridione. Restai molto colpita dalla scoperta di essere una terrona e di essere oggetto di scherno. Mi tornò in mente di quando un mio cuginetto, colpito a sei anni da un tumore al cervello- erano gli anni 50- era stato portato a Milano per essere curato; era stato poi ricondotto a casa dove morì implacabilmente per il brutto male. Ricordo che i genitori, nonostante il dolore della perdita atroce, raccontavano a noi famigliari che un medico di quell’ospedale di Milano aveva detto ad un collega, riferendosi al loro piccolo e alla sua incurabile malattia: “Che importa che muoia: tanto è un terrone!” Nel corso della mia permanenza nel Veneto, dove ho messo su famiglia, ci sono stati presidi che mi hanno elogiata dicendomi che ero di “sangue buono” nonostante le origini. Altri che hanno affermato nei collegi dei docenti che da Roma in giù regna l’ignoranza più completa. Ho appreso tanti luoghi comuni sul Meridione che hanno piano piano costruito questa leggenda nera di cui io ero parte: sono stata intimamente umiliata. Il massimo della vicinanza umana l’ho percepita in frasi come: “Tu, però, sei diversa! E poi oramai sei Veneta!” Poi è venuta la Lega e la situazione è peggiorata ulteriormente: il pregiudizio strisciante è diventato aperto insulto e razzismo. Le trasmissioni delle radio o delle televisioni locali, i siti di queste organizzazioni sono spaventose per il nazileghismo di cui grondano. Ora ho sessant’anni, sono andata in pensione, osservo con minore sofferenza questo fenomeno doloroso. Da questo nasce il mio desiderio di dire agli italiani attenzione: là dove voi credete di votare per un dirigente liberista come Berlusconi o per un politico conservatore come Fini, in realtà date forza ad una formazione ed una mentalità- il leghismo- che vorrebbe epurare il sud e, per ora, lo riempie di insulti e di minacce di morte. Pensate bene quando voterete: questa destra non è la destra di nazioni come la Francia o la Germania. E’ una destra che vomita odio e per la quale il concetto di identità è sempre più circoscritto. Non c’è verso di far comprendere che il sud non è rappresentato soltanto da Mastella e Cuffaro. Concetta Centonze Martedì, 19 febbraio 2008 San Donà di Piave (VE)
“Africa! Terroni di merda”, foggiani cacciati dalla tribuna del Verona. “Mandati via con frasi oscene”, scrive “L’Immediato” il 16 agosto 2015. “Ieri sera abbiamo assistito alla partita del Foggia allo stadio Bentegodi. Dopo il gol del vantaggio rossonero, io e mio fratello abbiamo esultato e gioito ma in modo contenuto. Dopo qualche minuto, un addetto ci ha chiesto di allontanarci. Premetto che eravamo in tribuna est poltronissime. Da quel momento in poi non abbiamo potuto più vedere la partita. Vi chiedo di dare spazio a questo episodio intollerante, noi lo abbiamo fatto presente alle autorità allo stadio ma nessuno ha mosso un dito”. A scrivere questa segnalazione a l’Immediato è Michele Cocca, originario di Apricena. Lui e suo fratello Graziano, titolari del ristorante “Villa Cocca” a Gavirate in provincia di Varese, sono ancora allibiti dal trattamento ricevuto a Verona. Tre i biglietti acquistati, con loro c’era un bambino. Ma dopo la rete rossonera, uno steward ha preferito allontanarli noncurante del ticket in loro possesso. “Lo steward ci ha mandati via dalla tribuna mentre i presenti inveivano frasi oscene come “Africa” e “terroni di merda” – ci ha aggiunto Michele Cocca -. Abbiamo finito di vedere la partita in fondo alla tribuna est dove non ci si poteva nemmeno sedere. Saremo costretti a presentare denuncia”.
L'astrofisica Margherita Hack: ignoranti, non esiste il Regno di Padania, scrive A. Z. l'8 aprile 2011 su “Il Corriere del Veneto”. Margherita Hack, astrofisica di rinomanza internazionale e donna dichiaratamente impegnata a sinistra, viaggia a vele spiegate verso il traguardo dei novant’anni (li farà l’anno prossimo) ma non ha perso un briciolo della sua grinta. E del suo accento fiorentino, nonostante viva a Trieste praticamente da mezzo secolo: «O che si vuole, tornare all’eta dei ’omuni?», dice al telefono, con un tono a metà tra il beffardo e l’indignato. Perché la professoressa Hack è indignata per davvero. E la scelta degli aggettivi, riferiti ai leghisti trevigiani che si sono inventati la lista fiancheggiatrice con il marchio Razza Piave, è illuminante in tal senso: «Sono dei cafoni, ignoranti e buffoni». Così, tanto per rimanere sul generico. Signora Hack, cosa la disturba nella scelta della Lega di Treviso di denominare «Razza Piave» la lista d’appoggio alle elezioni provinciali? «Quel riferimento alla razza mi disturba parecchio. Ma di che razza parliamo? Mi è tornato alla mente Albert Einstein, costretto a fuggire dal suo Paese perché ebreo, che venne fermato alla frontiera dove i funzionari americani gli chiesero: "lei di che razza è?". E lui rispose: "l’unica razza che conosco è quella umana". Risposta perfetta. Abbiamo tutti lo stesso Dna, le differenze esteriori sono dovute all’adattamento al clima e all’ambiente, sono mutazioni superficiali. La base è uguale per tutti, Piave o non Piave». Le sembra una forma di razzismo elettorale, una lista con quel nome? «È una forma di razzismo, eccome. Questi leghisti, con la loro Padania, il loro Nord, vogliono tornare all’epoca dei Comuni? Oltre che razzisti, sono ignoranti e buffoni: non c’è il Regno di Padania, caso mai esiste la Val Padana». L’espressione, però, ha anche un significato nobile nella storia di queste terre: «razza Piave» erano quelli che, sul fiume trevigiano, difesero l’Italia dall’invasione austro-ungarica nella Grande Guerra. «Ma quelli erano soldati che si sono battuti eroicamente, era gente che veniva da tutta Italia per difendere il proprio Paese. L’esatto contrario di quello che vorrebbe significare il "razza Piave" della lista leghista». Lei conosce il presidente della Regione Luca Zaia? Lui, geograficamente parlando, è un «razza Piave» doc. «No, non lo conosco». È un fatto, comunque, che nella geografia trevigiana il Piave è l’elemento distintivo: da sempre si distingue tra Destra e Sinistra Piave, addirittura il dialetto cambia radicalmente di qua e di là. «Questa del dialetto ’un la sapevo. Sulla connotazione geografica nulla di dire, siamo d’accordo, e il dialetto va benissimo, è una ricchezza, anche a me fa piacere quando sento parlare un fiorentino. Ma questo non vuol dire essere razzisti. E quello dei padani è il razzismo più rozzo che ci sia».
La Lombardia è la regione più razzista, omofoba e misogina d’Italia. Un vasto studio ha analizzato la geografia dei tweet contro il “diverso”, attestando la Lombardia come l’area più degradata d’Italia. Ma perché? Si chiede Michela Dell’Amico su “Wired” il 29 gennaio 2015. Da quando vivo a Milano mi è capitato spesso di difendere la mia città d’adozione, bistrattata come la regione che la ospita: Milano e la Lombardia sono considerate brutte e cattive, abitate da gente scortese, scontrosa e chiusa, mentre la nebbia ti nasconde l’orizzonte e tu – emigrato – ti senti solo e non voluto. Invece per quanto mi riguarda ho solo esperienze positive da raccontare, di gente gioviale, che ama bere, mangiare e divertirsi, e di angoli meravigliosi. E invece. Analizzando per 8 mesi quasi 2 milioni di tweet oltraggiosi verso donne, stranieri, portatori di handicap e omosessuali, un’analisi dell’Osservatorio Vox sui diritti ha stabilito che questi messaggi di odio si concentrano in Lombardia sia per quanto riguarda la misoginia (seguono Friuli, Campania, Puglia) che per l’omofobia e il razzismo (seguono Friuli e Basilicata). Anche i tweet contro i disabili sono più frequenti in Lombardia, Campania, Abruzzo e Puglia. Lo studio è stato condotto dall’Università degli studi di Milano, la Sapienza di Roma e l’Università di Bari, che ha messo a disposizione un software per analizzare il social network, capace anche di tenere in considerazione l’uso di Twitter – certamente minore nelle frazioni rispetto alle città – in relazione al numero di messaggi violenti. “Evidentemente la Lombardia è la regione che esprime di più questa intolleranza comunque molto diffusa”, mi dice Marilisa D’Amico, docente di Diritto Costituzionale all’Università di Milano, fondatrice di Vox, esperta di pari opportunità e discriminazioni, “si vede anche a livello politico e istituzionale. Qui si è fatto meno rispetto ad altre regioni, come ad esempio il Piemonte, la Toscana o l’Emilia, che da tempo attuano politiche culturali e buone prassi contro la discriminazione”. “Qui manca la cultura della tolleranza: si vede anche dai recenti fatti riguardo l’approvazione di una “legge anti-moschee”, discutibile e con problemi di costituzionalità. Si vede dalle polemiche seguite al convegno sulla famiglia. È probabilmente la regione in cui c’è meno attenzione a queste cose. C’è una forte ideologia che spesso porta a enormi contraddizioni. Prendiamo le donne: la Lombardia è molto avanti per numero di donne che si laureano, che lavorano e che ricoprono ruoli di prestigio. Allo stesso tempo però ci sono casi di violenza elevatissimi, e questi risultati che abbiamo visto nel nostro studio. Purtroppo è l’ulteriore conferma che questo genere di ignoranza prescinde dalle classi sociali e dall’evoluzione delle conquiste. E’ una contraddizione enorme e difficile da spiegare: le donne vanno avanti e indietro contemporaneamente”. La mia domanda resta insoddisfatta: sono i lombardi il problema, che con il loro voto scelgono una politica che parla alla loro parte peggiore? Dipende forse dal ruolo particolarmente rilevante che ha qui la religione, rispetto ad altre regioni del Nord? “Quando ho lavorato nel consiglio comunale di Milano – ricorda D’Amico –Pisapia aveva appena stravinto. Abbiamo provato a lavorare a favore della tolleranza, ma ci siamo scontrati contro altri rappresentati, comunque certo specchio della società civile, che erano invece convinti del contrario. Diciamo che ho visto cose che oggi non mi fanno più stupire sul perché, ad esempio, l’Italia non riesca a lavorare a favore delle unioni civili. E questo anche a dispetto del voto dei cittadini”. Che fare? “Come madre posso dire che è importante insistere sull’autostima delle bambine e delle ragazze, è fondamentale stare vicini e far parlare i bambini e i ragazzi vittime di bullismo, e – d’altro canto – far capire loro che le parole non si usano a caso. Quel che serve da parte dei genitori e della scuola è un’educazione mirata all’uso dei social network, evitando magari, come alcuni genitori fanno, di controllare direttamente i figli sui social. Parlare è la risposta, e tenere le antenne alte, sempre. Mia figlia ha frequentato il liceo Parini, forse il più famoso e prestigioso liceo di Milano, ma ha vissuto casi di omofobia e bullismo talmente gravi che ho dovuto ritirarla”.
La teoria razziale dell'inferiorità del mezzogiorno. Il razzismo è una evidentissima defezione da ogni criterio di materialismo storico! Il razzista oggi sostituisce alla parola razza la parola cultura. Per Gramsci, il partito socialista ha anche commesso il gravissimo errore di aver consentito ad un diffuso pregiudizio contro i meridionali tra la stessa classe operaia del Nord. «E' noto - scriveva Gramsci - quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo dell'Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia altra causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna con l'esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie palme in un arido e sterile deserto. Il Partito socialista fu in gran parte il veicolo di questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale; il Partito socialista diede tutto il suo crisma a tutta la struttura "meridionalista" della cricca di scrittori della cosiddetta scuola positiva, come i Ferri, i Sergi, i Niceforo, gli Orano, e i minori seguaci... ancora una volta la "scienza" era rivolta a schiacciare i miseri e gli sfruttati, ma questa volta si ammantava dei colori socialisti, pretendeva di essere la scienza del proletariato.» A.Gramsci - Quaderni vol. III A.Gramsci - Alcuni temi della questione meridionale.
Altrove Gramsci ebbe a dire: "Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti". Ordine Nuovo" 1920 Antonio Gramsci Il Risorgimento Editore Riuniti 1979 pag.98/99
Un altro elemento per saggiare la portata reale della politica unitaria ossessionata di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi nel Settentrione per riguardo al Mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era «inspiegabile» storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano dell’Alta Italia pensava invece che, se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto piú che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologhi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.), assumendo la forza di «verità scientifica» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe cosí una polemica Nord-Sud sulle razze e sulla superiorità e inferiorità del Nord e del Sud (confrontare i libri di N. Colajanni in difesa del Mezzogiorno da questo punto di vista, e la collezione della «Rivista popolare»). Intanto rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una «palla di piombo» per l’Italia, la persuasione che piú grandi progressi la civiltà industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto senza questa «palla di piombo», ecc. Nei principii del secolo si inizia una forte reazione meridionale anche su questo terreno. SALVEMINI[ ... ] Ogni giorno che passa diventa sempre più vivo in me il dubbio, se non sia il caso di solennizzare il cinquantennio [dell'Unità] lanciando nel Mezzogiorno la formula della separazione politica. A che scopo continuare con questa unità in cui siamo destinati a funzionare da colonia d'America per le industrie del Nord, e a fornire collegi elettorali ai Chiaraviglio del Nord; e in cui non possiamo attenderci nessun aiuto serio né dai partiti conservatori, né dalla democrazia del Nord, nel nostro penoso lavoro di resurrezione, anzi tutti lavorano a deprimerci più e a render più difficile il nostro lavoro? Perché non facciamo due stati distinti? Una buona barriera doganale al Tronto e al Carigliano. Voi si consumate le vostre cotonate sul luogo. Noi vendiamo i nostri prodotti agricoli agli inglesi, e comperiamo i loro prodotti industriali a metà prezzo. In cinquant'anni, abbandonati a noi, diventiamo un altro popolo. E se non siamo capaci di governarci da noi, ci daremo in colonia agli inglesi, i quali è sperabile ci amministrino almeno come amministrano l'Egitto, e certo ci tratteranno meglio che non ci abbiano trattato nei cinquant'anni passati i partiti conservatori, che non si dispongano a trattarci nei prossimi cinquant'anni i cosiddetti democratici». Cfr. Lettera di G. Salvemini ad A. Schiavi, Pisa 16 marzo 1911, in C. Salvemini, Carteggi, I. 1895-1911, cit., pp. 478-81. Lucchese, Salvatore, Federalismo, socialismo e questione meridionale in Gaetano Salvemini. Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita, 2
E con l’Unità d’Italia nacque il razzismo antimeridionale, scrive Ignazio Coppola il 05 luglio 2012. La questione dei meridionali come razza inferiore e la questione meridionale come questione economica. Terminologie, sinonimi e similitudini che attengono e sono alla base, ancora oggi, di una mai realizzata e metabolizzata Unità d’Italia e che significativamente ed opportunamente avrebbe dovuto essere al centro del dibattito delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia: Ma così purtroppo non è stato. Hanno vinto ancora una volta l’ipocrisia e le verità nascoste di un risorgimento edulcorato da bugie e falsità che si continuano a propinare, senza soluzione di continuità, dalle storiografie ufficiali e scolastiche. Si continua ad ignorare che alla base di una mala unità d’Italia vi fu, come del resto continua ad esserci retaggio di quel passato, una ignobile componente razzistica antimeridionale conclamata e documentata da quei politici e da quei militari che erano venuti a “liberare e civilizzare” il Sud e la Sicilia. Infatti che non grande considerazione dei meridionali avevano, all’alba dell’Unità d’Italia, alcuni politici e militari del Nord che tale Unità con arroganza rivendicavano di avere contribuito a compiere, ne esistono incontrovertibili testimonianze. In una lettera inviata il 17 ottobre del 1860 a Diomede Pantaloni e contenuta in un carteggio inedito del 1888, il piemontese marchese Massimo D’Azeglio che fu presidente del consiglio del Regno di Sardegna ed esponente della corrente liberal-moderata tra l’altro così scriveva: “In tutti i modi la fusione con i napoletani mi fa paura è come mettersi a letto con un vaioloso”. Più o meno quello che esattamente 150 dopo canterà in coro con altri leghisti ad una festa del suo partito l’eurodeputato e capogruppo al comune di Milano Matteo Salvini: “Senti che puzza scappano anche i cani, sono tornati i napoletani, sono colerosi e terremotati, con il sapone non si sono mai lavati”. Sembra di risentire il D’Azeglio di 150 anni prima. D’allora niente è cambiato se non in peggio. Nino Bixio il paranoico massacratore di Bronte in una lettera inviata alla moglie tra l’altro così scriveva: “Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a “farsi civili”. Ma ancora, sulla stessa lunghezza d’onda del colonnello garibaldino, il generale Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II inviato a Napoli nell’agosto del 1861 con poteri eccezionali per combattere il “brigantaggio” a proposito dei territori in cui si trovò a operare in una lettera inviata a Cavour così si esprimeva. “Questa è Africa! Altro che Italia. I beduini a confronto di questi cafoni sono latte e miele”. Enrico Cialdini era lo stesso che alcuni mesi prima, nel febbraio del 1861 durante l’assedio di Gaeta, bombardando l’eroica città, non si fece scrupolo di indirizzare il tiro dei suoi cannoni rigati a lunga gittata e di grande precisione deliberatamente sugli ospedali per terrorizzare gli occupanti e fiaccarne la resistenza. E, a chi gli faceva osservare il suo inumano comportamento non rispettoso dei codici d’onore e militari, rispondeva sprezzatamene. “Le palle dei miei cannoni non hanno occhi”. Cialdini si rese poi protagonista degli eccidi e della distruzione, in provincia di Benevento, dei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, esecrabili e orrendi al pari di quelli compiuti dai nazisti molti anni dopo e con minor numero di vittime a Marzabotto e a Sant’Angelo di Stazzema, in cui furono massacrati senza pietà uomini, donne e bambini. Negli ordini scritti ai suoi sottoposti, era solito raccomandare di “non usare misericordia ad alcuno, uccidere, senza fare prigionieri, tutti quanti se ne avessero tra le mani”. E dire che del nome di questo criminale, spacciato per eroe, la toponomastica delle nostre città ne ha fatto incetta. E che dire poi del generale Giuseppe Covone mandato anch’esso a reprimere il brigantaggio in Sicilia che, per snidare i renitenti di leva, non si fece scrupolo, avendone piena facoltà che gli derivava dalle leggi speciali, di porre in stato d’assedio intere città, di fucilare sul posto, di torturare, arrestare e deportare, intere famiglie e compiere abusi e crimini inenarrabili? Ebbene, anche il Covone, per non essere da meno dei suoi conterranei predecessori e per difendere e giustificare il suo criminale operato dell’uso di metodi di costrizione di stampo medievale nei confronti dei siciliani, anch’egli, non trovò di meglio, in un rigurgito razzista, di affermare in pieno parlamento che: “Nessun metodo poteva aver successo in un paese come la Sicilia che non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”. Ed infine per completare questo “bestiario” di aberrante avversione razziale nei confronti dei meridionali val bene ricordare le parole tratte dal diario dell’aiutante in campo di Vittorio Emanuele II, il generale Paolo Solaroli: “la popolazione meridionale è la più brutta e selvaggia che io abbia potuto vedere in Europa” e poi quanto scrisse Carlo Nievo, ufficiale dell’armata piemontese in Campania al più celebre fratello Ippolito ufficiale e amministratore della spedizione garibaldina in Sicilia: “Ho bisogno di fermarmi in una città che ne meriti un poco il nome poiché sinora nel napoletano non vidi che paesi da far vomitare al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti, che razza di briganti, passando i nostri generali ed anche il re ne fecero fucilare qualcheduno, ma ci vuole ben altro”. Questi i documentati pregiudizi razziali di quei “liberatori” che fecero a spese del sud depredandolo, saccheggiandolo uccidendo e massacrando i suoi abitanti, l’Unità d’Italia. Su questi pregiudizi nati per giustificare la politica coloniale e civilizzatrice piemontese che poi furono elaborate le teorie razziali dell’inferiorità della razza meridionale propugnate da Cesare Lombroso, Alfredo Niceforo, Enrico Ferri, Giuseppe Sergi, Paolo Orano e Raffaele Garofalo che si affrettarono a dare una impostazione scientifica ai pregiudizi diffusi ad arte dagli invasori per giustificare politiche di rapine, di spoliazioni e di saccheggi a danno del meridione. Sui fondamenti antropologici e storici della crisi dell’identità italiana e sulla mancanza di comunicazione interculturale tra nord e sud ne fa una lucida analisi Antonio Gramsci nei quaderni quando sostiene che: “La miseria del Mezzogiorno era storicamente inspiegabile per le masse popolari del nord. Queste non capivano - afferma Gramsci - che l’unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord era una piovra che si arricchiva a spese del sud e che l’incremento industriale era dipendente dall’impoverimento dell’agricoltura meridionale”. L’impoverimento del meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza ma la ragione stessa dell’Unità d’Italia. In buona sostanza con l’Unità d’Italia ebbe il sopravvento il disegno e la strategia egemonica dell’imprenditoria e della finanza settentrionale che conquistando e colonizzando il sud ostacolandone in ogni modo la crescita prevaricò ogni ipotesi di sviluppo della nascente economia meridionale. Significativo in questo senso fu quanto ebbe a dire il genovese Carlo Bombrini prima dell’Unità d’Italia già direttore della banca nazionale degli stati Sardi e amico personale di Cavour e successivamente governatore della Banca Nazionale del Regno d’Italia dal 1861 al 1882: “Il mezzogiorno non deve essere messo più in condizione di intraprendere e produrre”. E negli anni in cui fu a capo della Banca Nazionale tenendo fede a questo sua spiccata vocazione antimeridionalista fu artefice di numerose operazioni finanziarie finalizzate allo sviluppo dell’economia del nord soprattutto nella costruzione delle reti ferroviarie settentrionali per le quali ottenne numerose concessioni a detrimento di quelle meridionali. Ma riprendendo l’analisi di Gramsci si può in buona sostanza affermare che la origine della questione dei meridionali bollati come razza inferiore nasce dal fatto, a detta dall’illustre intellettuale sardo, che il rapporto nord-sud dopo l’Unità d’Italia fu un tipico rapporto di tipo coloniale che vide le popolazioni del sud defraudate della loro storia, della loro identità culturale e occupate militarmente: Scriveva il filosofo ceco Milan Kundera protagonista della primavera di Praga nel suo “Il libro del riso e dell’oblio” un pensiero che è assolutamente calzante con quanto avvenne alle popolazioni meridionali e ai siciliani subito dopo l’Unità d’Italia: “Per liquidare i popoli si comincia con il privarli della memoria, si distruggono i loro libri, le loro culture e la loro storia, e qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di altre culture e inventa per loro un'altra storia. Dopo di che il popolo incomincia a dimenticare quello che è stato”. Ed è proprio quello che è capitato alle popolazioni del mezzogiorno d’Italia nel corso di 150 anni di un forzato e mal digerito processo unitario che ha alle sue origini come abbiamo visto aberranti radici antropologiche, xenofobe, razziste e coloniali. Una colonizzazione ed una occupazione militare del mezzogiorno che al di là delle frasi di aberrante e vomitevole razzismo nei confronti dei meridionali che abbiamo abbondantemente e documentalmente riportato da parte di “liberatori” quali Bixio, Cialdini, Covone, D’Azeglio, Nievo, Bombrini e tanti altri, doveva trovare per questo una giustificazione ed una sua legittimazione ideologica, culturale ed anche scientifica tendente a dimostrare la inferiorità della razza meridionale ed alla gratitudine che si doveva ai settentrionali di esserci venuti a liberare ma soprattutto a civilizzare. E questo fu lo sporco compito assolto con lodevole perizia, in questa direzione, dalla scuola positivista del socialista Cesare Lombroso che assieme ad altri antropologi e criminologi Alfredo Neciforo, Ferri, Sergi, Orano e Garofalo propugnatori del razzismo scientifico e dell’eugenetica misero a frutto i diffusi pregiudizi antimeridionali teorizzando l’inferiorità della razza meridionale. Cesare Lombroso antropologo e criminologo, fu nel periodo immediatamente successivo all’Unità d’Italia che elaborò le sue teorie sulla inferiorità etnica dei meridionali effettuando misurazioni sui crani dei briganti uccisi allo scopo di dimostrare e di ottenere la prova scientifica sulla inferiorità genetica dei meridionali. Lombroso, sfatando il mito di una omogenea razza italica, teorizzò l’esistenza di due tipi di italiani. I settentrionali come razza superiore e i meridionali di stirpe negroide africana razza inferiore. Più avanti, un altro antropologo di scuola lombrosiana Alfredo Niceforo, propugnatore del razzismo scientifico, come il suo maestro, teorizzò l’esistenza in Italia di almeno due razze. Quella eurasiatica (ariana) al Nord e quella eurafricana (negroide) al sud e di conseguenza la superiorità razziale degli italiani del Nord su quelli del Sud. Con un particolare, di non poco conto, che l’illustre antropologo, tutto preso dalla elaborazione delle sue folli teorie, vittima della sindrome di Stoccolma, si era dimenticato di essere nato nel gennaio del 1876 a Castiglione di Sicilia e quindi di appartenere ad una razza inferiore! Niceforo in un suo libro del 1898 “L’Italia barbara contemporanea” descriveva il Sud come una grande colonia, una volta conquistata e sottomessa, da “civilizzare”. Questa ideologia della superiorità della razza nordica, al fine di giustificare le rapine e le spoliazioni nei confronti del Sud, fu diffusa - sostiene ancora Gramsci - in forma capillare dai propagandisti della borghesia nella masse del Settentrione. Il mezzogiorno è la palla al piede - si disse allora come si ripete pedissequamente oggi – che impedisce lo sviluppo dell’Italia. I meridionali sono - secondo la teoria del Lombroso e dei suoi seguaci - biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi per destino naturale e se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del sistema capitalistico o di altra causa storica ma del fatto che i meridionali sono di per se incapaci, poltroni, criminali e barbari. Queste teorie portarono poi nel corso degli anni alla discriminazione razziale nei confronti dei meridionali come quando nelle città del nord si era soliti leggere cartelli come questi “vietato l’ingresso ai cani e ai meridionali” e ancora “non si affittano case ai meridionali”. Era questa la conseguenza della campagna xenofoba e razzista avviata con l’unità d’Italia e che dura ancora ai nostri giorni. Come si può alla luce di tutto questo parlare a tutt’oggi di Unità d’Italia o di memoria condivisa tra Nord e Sud quando dalla storiografia ufficiale ai meridionali è stata sempre negata una verità storica che li relega nel ghetto dell’essere cittadini residuali di questo paese? E certamente ancor più non ci si può indignare da parte di insigni rappresentanti delle istituzioni se oggi i meridionali, in occasioni di recenti manifestazioni sportive, si ritrovano a fischiare l’inno di Mameli. Questi insigni rappresentanti delle istituzioni farebbero bene ad indignarsi per il fatto che a Torino il 26 novembre 2009 è stato inaugurato e riaperto al pubblico il nuovo museo Lombroso ricco di reperti, di fotografie di pezzi anatomici, di crani, di teste mozzate, di documenti e di reperti utilizzati dal criminologo ed antropologo veronese e dai suoi seguaci tendenti a teorizzare la inferiorità della razza meridionale ed a sancire che ancora ai nostri giorni esistono due Italie. Quella del Nord civile e progredita. Quella del Sud barbara e arretrata. Questo in un paese civile sarebbe il minimo per indignarsi e far chiudere da parte di istituzioni responsabili questo deprecabile museo degli orrori e delle menzogne. In Italia purtroppo basta perdere quattro a zero con la Spagna per essere, come sostengono Napoletano e Monti, orgogliosi di una nazionale che unisce gli italiani. Contenti loro.
PARLIAMO DEL VENETO.
Negare, negare, sempre negare, scrive Alessia Pacini su “La Repubblica” il 12 giugno 2017. Alessia Pacini - Blogger e co-direttrice dell'associazione Cosa Vostra. L’esistenza della mafia in Veneto è negata dal momento stesso in cui l’organizzazione criminale vi mette piede. Succede a Venezia, a Verona, a Padova ma anche e soprattutto in provincia, dove la longa manus del crimine organizzato trova terreno fertile. È il caso di Caorle, città del litorale veneziano, che nel 2014 è al centro delle cronache per la denuncia nei confronti del sindaco Striuli, indagato dall’antimafia per falsa testimonianza con l’accusa di non voler rivelare di aver ricevuto minacce di morte, che causa la sospensione del comune dall’associazione antimafia Avviso Pubblico. Le intimidazioni arrivano in seguito alla decisione della giunta di modificare un intervento urbanistico contestato, frutto dell’accordo tra il sindaco precedente e Claudio Casella, imprenditore e immobiliarista. (La Nuova Venezia - 12 Novembre 2016). Nell’attesa che i polveroni si acquietino, fare spallucce sembra essere il modo migliore per negare che qualcosa stia succedendo sotto il cielo delle terre dei dogi. Eppure in Veneto le mafie agiscono. A parlare sono i fatti: a partire dagli Anni Ottanta sono molti gli arresti di boss mafiosi e altrettanti i collaboratori di giustizia che permettono di iniziare a sciogliere i nodi della rete di rapporti e malaffari tra imprenditori, politici e mafiosi, richiamati dal turismo e dal settore terziario in cui investire denaro riciclato. Una situazione ben nota alla Commissione parlamentare antimafia, la quale nel 1994 afferma che il turismo veneziano è parte di uno dei principali sistemi di riciclaggio. Eppure Giancarlo Galan, governatore del Veneto per 10 anni, dopo il blitz antimafia di Chioggia nel 2008 per la costruzione di uno scalo crocieristico, sostiene che la mafia in Veneto non esiste e accusa i giornalisti veneti di aver scritto articoli eccessivamente enfatizzanti. Pochi chilometri più distante, la situazione non cambia: siamo a Verona e Flavio Tosi, sindaco e candidato governatore della regione, accusa la commissione Antimafia di voler indirizzare il voto verso Zaia in seguito alla richiesta di Rosy Bindi, presidente dell'Antimafia, di poter accedere agli atti del Comune (Il Fatto Quotidiano, 1 Aprile 2015). Tosi che, un anno prima, è protagonista di un’inchiesta di Report che sottolinea i rapporti tra il sindaco e alcuni calabresi indagati per ‘ndrangheta. Tosi è accusato di gestione indebita di appalti, il vice-sindaco Casali è arrestato e le parole di Borghesi, presidente della Provincia di Verona, non potrebbero essere più chiare: «Invito tutti i veronesi ad avere il coraggio di conoscere quanto da anni vedono: legami tra precise realtà imprenditoriali e il potere amministrativo». Da anni, sottolinea Borghesi. Negli Anni Novanta il sindaco di San Pietro di Rosà rivela che molto tempo prima i camorristi Agizza agirono negli appalti pubblici. Erano già latitanti, ma lui non lo sapeva ancora: a segnalarglieli fu l’ex ministro degli interni Enzo Scotti (Narcomafie n.03/2006). Una mafia che si muove silenziosa, quella del Nord-Est, grazie ad istituzioni spesso acquiescenti e disposte a negare. «Pensando alla nostra realtà, a Padova e nel Veneto, il problema della corruzione non è una priorità», afferma Massimo Pavin, presidente di Confindustria Padova fino al 2015 (Il Mattino di Padova, 15 dicembre 2011). «Siamo sicuri che i nostri controlli funzionano e non c’è nessun sentore di mafia nella nostra città”, parola di Ivo Rossi, già sindaco reggente e candidato sindaco del centrosinistra nel 2014 (Il Mattino di Padova, 5 dicembre 2012). La mafia in Veneto non esiste.
DI VENEZIA… MASSOMAFIA A VENEZIA. SOTTRAZIONE DI FASCICOLI RISERVATI. LA DENUNCIA DI CARLO PALERMO. I FILONI VENETI DI INDAGINE RIMASTI INESPLORATI SULLE MASSOMAFIE. Scrive "Avvocati senza Frontiere". Dato il vivo dibattito sull’argomento e l’interesse che riveste per il raggiungimento delle verità nascoste pubblichiamo in calce il testo dell’emblematica lettera inviata al Ministro di Grazia e Giustizia, dall’ ex Giudice Istruttore Carlo Palermo. La missiva risale al 1996, ma è tuttora attuale, grave, nitida: un atto di accusa contro i vertici del sistema giudiziario veneziano e dello Stato, che non richiede commenti e mette in luce come la «massomafia», possa agire indisturbatamente dalla Sicilia al Veneto, facendo sparire addirittura interi fascicoli contenenti atti «top secret» dagli archivi riservati della Procura dello storico capoluogo veneto, dove tra acqua, terra e cielo, governa nei secoli l’illuminismo massonico, oscurato dalle sue stesse ombre, dalle collusioni politico-finanziarie, dalla sete di potere o, per usare un eufemismo, dalle contaminazioni con il “mondo profano”. Negli anni ’80, Carlo Palermo, quale Giudice Istruttore, partendo dalla Procura di Trento, condusse la grande inchiesta sul traffico di armi, droga, riciclaggio e finanziamenti illeciti, che i successivi eventi e stragi che hanno insanguinato importanti città anche del Nord e centro Italia, hanno messo in evidenza essere di decisiva importanza per dipanare quello che lo stesso Carlo Palermo definì come “quarto livello” [cioè il rapporto mafia, politica, affari, massoneria, servizi segreti], e che poi costò la vita a chi, dopo di lui, ne seguì coraggiosamente le orme, dal Sostituto Procuratore Rosario Livatino sino ai giudici Falcone e Borsellino. L’azione di Carlo Palermo fu bloccata infatti da martellanti ingerenze e persecuzioni politico-giudiziarie, durante il governo Craxi, sino all’attentato stragista di Pizzolungo, nel 1985, da cui si salvò a stento, riportando lesioni permanenti, ma che provocò la morte di Barbara Rizzo Asta e dei suoi due figli gemelli Giuseppe e Salvatore. In un intervista, pubblicata su Antimafia 2000, a riguardo, Carlo Palermo, ebbe a dichiarare: “Nell’85, scelsi di venire a Trapani per proseguire un’attività avviata 5 anni prima a Trento. L’attentato ritengo sia da inquadrare in un progetto preventivo”. In altre parole bisognava fermare con ogni mezzo quelle indagini scomode ai poteri occulti per cui prima di lui erano già stati trucidati dalla «massomafia» una serie di altri incorruttibili magistrati e funzionari dello Stato, tra cui Ciaccio Montaldo, del quale proseguì le indagini sul rapporto mafia-politica e i traffici internazionali di armi droga, con la regia di faccendieri e piduisti e la copertura di servizi segreti deviati. Sull’anomalo svolgimento delle indagini ed epilogo del caso, Carlo Palermo rimarcò la “contraddizione” legata al fatto che il processo a carico dei presunti esecutori materiali, svoltosi a poca distanza dai fatti, “sfociò nelle assoluzioni”, e che “la condanna dei presunti mandanti avvenne molti anni dopo e solo per le dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, questi ultimi neppure ascoltati organicamente”. Carlo Palermo ha poi ricordato che, all’epoca, “nonostante la chiedessi in continuazione, non vi era alcuna vigilanza sulla mia abitazione (una villetta al Villaggio Solare, in territorio di Valderice), né fu mai eseguita un’attività di bonifica lungo il percorso che facevo ogni mattina”. Per l’ex magistrato, “l’assenza di un controllo preventivo ha concorso in quest’attentato”. “Auspico che in un futuro prossimo – ha detto Carlo Palermo - maturino i tempi e le condizioni per una ricostruzione storica”. “E’ da 23 anni che inseguo determinate piste”. Come afferma Peppe Sini del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo, a proposito della missiva dell’ex magistrato al Ministro di Giustizia, rimasta priva di risposte concrete: «l’effetto su chi legge la lettera è folgorante: in queste poche righe si rivelano più cose sull’Italia e sul potere che in tanti ponderosi trattati». Per questo anche noi crediamo utile diffonderla ulteriormente: «come atto di solidarietà, come protesta contro l’ingiustizia, come impegno per la memoria e per la verità, come contributo alla lotta contro i poteri criminali ed i loro complici». Ecco il testo della lettera di Carlo Palermo pubblicata alla fine del suo libro “Il giudice”. (Reverdito Edizioni, Trento 1997). “Egregio Signor Ministro, il 30 ottobre scorso, su richiesta del Sostituto Procuratore Paolo Fortuna di Torre Annunziata, ho collaborato, a Venezia, alla ricerca di alcuni atti processuali facenti parte del fascicolo relativo al procedimento penale da me istruito a Trento in qualità di giudice istruttore negli anni 1980-84, e successivamente definito con sentenza dal Tribunale di Venezia. Nell’occasione – presente era un sottufficiale dei Carabinieri di Torre Annunziata, e (all’inizio) il Sost. Proc. di Venezia dott. Foiadelli, che ci ha condotto sul posto -, è stato possibile constatare che quel fascicolo, che in origine era di circa 300.000 pagine processuali tutte chiuse in faldoni catalogati, si trovava invece, di fatto (all’interno di uno scantinato contenente altri archivi processuali) letteralmente sfasciato, sventrato, mancante di almeno 2/3 dell’originale. Le carte residue si trovavano ammucchiate per terra e in scatoloni aperti, con evidenti specifiche mancanze di atti originali. Il dottor Foiadelli precisava che, tra questi atti, un’agenda del 1980 (da me sequestrata al direttore del Sismi, il generale Giuseppe Santovito), era stata legittimamente prelevata dal giudice istruttore di Roma Rosario Priore in connessione all’indagine da lui oggi condotta sulla strage di Ustica. Al di là di questo specifico rinvenimento, rimane il dato di fatto, constatabile ictu oculi, che il fascicolo in questione non esiste più: esistono solo poche e ormai inutilizzabili “carte” scompaginate, abbandonate e lasciate in luogo e modalità quasi incredibili, trattandosi pur sempre di atti processuali da custodire secondo modalità disciplinate dalla legge e suscettibili comunque di essere consultate a vari scopi. A parte l’amarezza personale per lo stato di questi incartamenti, che costituirono il prodotto di quattro anni di lavoro di magistratura e di organi di polizia giudiziaria, non ritengo di essere personalmente in grado di valutare quali iniziative forse dovrebbero essere attivate, se non altro, per recuperare quel che rimane di quel fascicolo, che probabilmente racchiudeva la chiave dell’attentato che subii a Trapani e che ancor oggi continua a offrire spunti utili ad indagini attuali della magistratura. Quanto sopra segnalo alla S. V. per quanto riterrà del caso. Un cordiale saluto. Trento 10 novembre 1996 Carlo Palermo
Venezia, tangenti per non pagare le tasse: 16 arresti. Coinvolti anche due ufficiali della guardia di finanza: uno è il comandante del Nucleo di polizia tributaria di Siracusa. Denaro e doni in cambio di sconti nelle sanzioni per evasioni fiscali. Sospesi due dipendenti dell'Agenzia Entrate, scrive il 16 giugno 2017 "La Repubblica". Quattordici persone in carcere e due ai domiciliari: è questo il risultato di un'indagine del nucleo di polizia tributaria di Venezia, che riguarda sei imprenditori, tre funzionari dell'Agenzia delle Entrate (uno dei quali in pensione), due commercialisti, due ufficiali della Guardia di finanza, un appartenente alla Commissione Tributaria Regionale per il Veneto e due dirigenti di un'azienda assicuratrice, coinvolti, "con diversi ruoli, in fatti di corruzione commessi al fine di sgonfiare gli importi delle imposte da pagare da parte di imprese già sottoposte a verifiche fiscali". Tra gli arrestati anche il comandante del Nucleo di polizia tributaria di Siracusa (dove comanda dall'agosto 2016), il tenente colonnello Massimo Nicchiniello. L'ufficiale è accusato di reati commessi quando era in servizio a Udine. L'indagine ha avuto origine da un filone collaterale dell'inchiesta sul Mose nella quale erano emersi comportamenti sospetti, tenuti da un dirigente dell'amministrazione finanziaria. Dalle indagini, fa sapere la guardia di finanza, sono emersi diversi episodi di corruzione. Nel primo caso, secondo la Gdf di Venezia, "è emerso un patto tra un imprenditore jesolano e un dirigente dell'Agenzie delle Entrate che, trasferito in un'altra regione, si è poi avvalso di un collega in servizio a Venezia". Secondo i finanzieri, le tangenti pagate ammontano a 140.000 euro, pagati in varie tranches tra il settembre 2016 ed il maggio 2017. "In cambio - spiega la Gdf - i due funzionari si sono adoperati per ridurre di circa l'80% le imposte dovute da tre società, con sede in provincia di Venezia, riconducibili all'imprenditore, che erano state sottoposte a verifica fiscale da altri funzionari della stessa Agenzia fiscale, passando così da 41 milioni di euro dell'originaria pretesa di gettito, a poco più di 8 milioni di euro effettivamente pagati". Un altro caso emerso dalle indagini, è quello di "due funzionari", riferisce la guardia di finanza, che si "sono accordati con un commercialista di Chioggia, per ricevere 50.000 euro, in cambio della promessa di 'accomodare' un accertamento tributario relativo ad un'impresa del posto". Nel corso della indagini, sono emerse le tracce di un secondo episodio corruttivo, il cui scopo era di ridimensionare l'esito di verifiche eseguite regolarmente, dal Nucleo di polizia tributaria di Venezia, nei confronti di una società immobiliare ed un'azienda di trasporti di Venezia. Sospesi dipendenti Agenzia Entrate. L'Agenzia delle Entrate, che sta coadiuvando l'autorità giudiziaria, ha comunicato di aver sospeso i dipendenti coinvolti nella vicenda. "Pur nella speranza che possano dimostrare la propria innocenza, l'Agenzia delle Entrate ha provveduto all'immediata sospensione dei dipendenti coinvolti nell'inchiesta ancora in servizio. - si legge -. Al fine di tutelare la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori che operano onestamente e scrupolosamente, nonché al fine di garantire l'immagine dell'Agenzia delle entrate e l'indispensabile rapporto di fiducia che i contribuenti devono poter avere con essa, saranno avviate tutte le misure sanzionatorie e risarcitorie".
Sequestrato il tesoro di Felice Maniero, l'ex boss della mala del Brenta. Nel mirino della dda della procura di Venezia e della Polizia valutaria della Gdf due persone che hanno gestito il patrimonio accumulato da "faccia d'angelo". E' stato lo stesso Maniero a rivelarlo ai magistrati perché da un anno non riceveva più soldi dai suoi ex compari, scrive Fabio Tonacci il 17 gennaio 2017 su "La Repubblica". Il tesoro nascosto di “faccia d’angelo” era in Toscana. Ville, 27 macchine di lusso tra cui una Bentley Gt Cabrio, conti correnti intestati a prestanome. Il denaro che l’ex boss della Mala del Brenta Felice Maniero ha accumulato tra la fine degli anni Ottanta e il 1994 con il traffico di droga, le rapine e gli altri reati commessi da quella che una sentenza ha definito “un’associazione a delinquere di stampo mafioso” – sono circa 33 miliardi di vecchie lire - sono stati rintracciati dai pm di Venezia Paola Tonini e Giovanni Zorzi, che hanno chiesto e ottenuto il sequestro di un patrimonio pari a 17 milioni di euro. Le indagini sono nate grazie alle rivelazioni che lo stesso Maniero ha fatto ai magistrati, e hanno portato all’arresto di due toscani di Fucecchio: Riccardo di Cicco (61 anni), marito della sorella di Maniero, Noretta; Michele Brotini (49 anni), il promotore finanziario accusato di essere l’uomo che ha occultato i soldi dell’ex capo della malavita del Nord Est, riuscendo a trasferire contante in Svizzera sottoforma di investimenti finanziari. Felice Maniero in persona ha indicato agli inquirenti quali erano i beni acquistati con il suo denaro, perché temeva che Di Ciccio, dopo la separazione da Noretta, volesse tenersi tutto per sé. Il sistema, per come è stato ricostruito dai finanzieri della Polizia Valutaria e dai magistrati della Dda di Venezia, tutto sommato era assai semplice: Felice Maniero (è tornato in libertà il 23 agosto 2010 con una nuova identità e adesso lavora con il figlio in un’azienda che si occupa di depurazione di acque, come ha rivelato la trasmissione Report) ha passato i suoi 33 miliardi ai familiari e a Di Ciccio, i quali poi hanno “retrocesso” a Maniero almeno 6 miliardi in contanti. Una prassi durata, secondo l’accusa, almeno fino all’estate 2015. E dunque, il tesoro. I soldi della Mala del Brenta sono serviti a comprare un cavallo di razza, tre ville, una a Santa Croce sull’Arno, una Marina di Pietrasanta, una a Fucecchio (la residenza attuale di Riccardo Di Cicco). Ma è soprattutto la lista delle macchine a impressionare, perché gli investigatori sono risaliti a 27 vetture, quasi tutte di fascia alta: 8 Mercedes, una Bentley Gt cabrio, due Porsche Cayenne e una Porsche Carrera 911, due Bmw, e altre vetture. Infine, i conti correnti in Svizzera. Scrive il gip Alberto Scaramuzza, che ha firmato l’ordinanza di arresto: “Avevano acquistato strumenti finanziari di investimento allo stato non precisati, all’inizio allocati in istituti di credito della Repubblica Svizzera e, attualmente, afferenti a conti correnti riconducibili a Di Cicco”.
L’ultimo colpo di Maniero: «Ecco dov’è il mio tesoro e chi ha cercato di rubarlo». Sequestrati 17 milioni di beni. Arrestati l’ex cognato Di Cicco e un promotore finanziario. I verbali dell’ex boss della mafia del Brenta: «Di Cicco si è tenuto 25 miliardi di lire». Che ha investito in ville, Bentley e depositi. Le intercettazioni: «Incastriamo Felice», scrive il 17 gennaio 2017 Andrea Pasqualetto su "Il Corriere della Sera". L’ha rivelato lui stesso all’Antimafia di Venezia. Era il 12 marzo scorso e l’ex boss della mafia del Brenta Felice Maniero, oggi in libertà, iniziò a parlare davanti ai pm lagunari: «Voglio raccontare del denaro che ho guadagnato con i miei traffici illeciti e del suo successivo riciclaggio». Una bomba. Perché fino ad allora Faccia d’Angelo aveva sempre taciuto del tesoro nascosto. Certo, aveva incastrato i complici di vent’anni di rapine, sequestri, traffici illeciti di ogni ordine e grado. Ma del patrimonio mai una parola. Oggi fa due nomi: Riccardo Di Cicco, dentista fiorentino di Fucecchio ed ex marito della sorella Noretta, e Michele Brotini, promotore finanziario di Pisa, arrestati entrambi con l’accusa di riciclaggio. Sarebbe stato Di Cicco a gestire l’ingente patrimonio accumulato da Maniero negli anni della mala: circa 33 miliardi di lire dell’epoca. Attraverso mamma Lucia e la sorella Noretta, ora indagate, «devo avergli dato complessivamente 22 miliardi in tutto, fino al 1994», ha calcolato Maniero. Dopo il 1994, cioè dopo la sua evasione dal carcere di Padova e il definitivo arresto di Torino di cinque mesi dopo, gli fece avere «altri 11 miliardi», questi consegnati da uno dei suoi uomini più fidati, Giuliano Materazzo, e sempre da mamma Lucia direttamente nella mani di Di Cicco nella sua casa di Santa Croce sull’Arno. Sorpresa: mentre spostava il patrimonio collaborava con gli inquirenti, naturalmente senza mai dire alcunché. «Non l’ho fatto perché sarei rimasto al verde». Domanda: perché Maniero ha deciso di «cantare»? «Di Cicco mi ha restituito, dal 1995 e fino a 7-8 mesi fa, circa 5-6 miliardi... Improvvisamente mio cognato ha cominciato a dichiarare di non avere più la liquidità necessaria e alla fine ha rinunciato a vedermi. Nonostante i miei tentativi non sono più riuscito a contattarlo per avere indietro il denaro». E dunque è tutto chiaro: l’ex cognato non versava più e lui gliel’ha fatta pagare. Non avendo nulla da perdere, ha cioè denunciato colui che si è arricchito con i proventi della sua creatura criminale: la mala del Brenta. «Avendomi restituito circa 5-6 miliardi — ha aggiunto — ora ne gestisce sicuramente almeno 25-26. Tenuto conto anche delle perdite che ci sono state con la crisi del 2008». L’ex boss, accusato di autoriciclaggio, parla da finanziere: investimenti, depositi, milioni versati e restituiti e di scorrettezze. Come se fossero i suoi legittimi guadagni: era il grande bottino della banda del Brenta. Fin qui la sorprendente denuncia, corroborata da altri tre interrogatori, l’ultimo del 30 settembre scorso, nei quali aggiunge dettagli, come le borse di soldi che seppelliva in giardino. Gli uomini del Nucleo speciale di polizia valutaria di Roma hanno fatto il resto, scoprendo dove sono finiti i miliardi di lire nel corso degli anni: una villa a Lucca, una casa Fucecchio, un’altra a Pisa, sei Mercedes, tre Porsche, una Bentley, una Range Rover e poi 16 conti correnti (molti al Montepaschi), quattro cassette di sicurezza, 11 depositi e titoli, azioni, fondi. Tutti intestati a vari familiari e tutti sequestrati. Quanto a Brotini, per l’accusa e per il gip Alberto Scaramuzza è colui che ha partecipato a nascondere buona parte del patrimonio. Mentre la sorella Noretta sembrava tramare con l’ex marito contro lo stesso Maniero: «Incastrare! Lo vogliamo incastrare o no?», si scalda al telefono Di Cicco, intercettato. «Ah sì, certo», dice lei. Infine la madre, che l’ex boss aveva di recente convinto a confessare. Ma Noretta ha detto no, intimandole di tacere. Faccia d’angelo non l’ha digerita: «Guarda che se la mamma fa un’ora di carcere vengo giù e ti spacco la testa».
DI PADOVA… Preti a luci rosse a Padova. Don Andrea Conti e don Roberto Cavanazza: ecco cosa facevano, scrive "Blitz Quotidiano" il 30 gennaio 2017. Una canonica a luci rosse quella di don Andrea Contin nella parrocchia San Lazzaro di Padova. Giochi erotici, rapporti intimi in canonica, parrocchiane trattate come schiave sottomesse e preti come don Roberto Cavanazza che partecipavano ai festini organizzati. Don Contin è stato indagato per violenza privata e favoreggiamento della prostituzione, grazie al racconto della sua ex amante e alle prove trovate nella canonica, mentre don Cavanazza, padre spirituale di Belen Rodriguez, non ha avuto ripercussioni giudiziarie. Se il vescovo Cipolla ha detto di vergognarsi di loro, i fedeli restano sbigottiti nello scoprire i dettagli della vicenda. “Facevano ottime prediche”, questo il commento che risuona fuori dalla parrocchia. Alberto Mattioli sul quotidiano La Stampa ripercorre lo scandalo a luci rosse che ha colpito la Chiesa di Padova, dove l’insospettabile prete ha dato vita ad una canonica all’insegna della perdizione. Tutto inizia quando una delle parrocchiane denuncia don Andrea Contin accusandolo di averla picchiata e costretta a prostituirsi: “Don Contin nega le botte e la prostituzione, ma confessa la relazione con la signora e altre cinque donne. La perquisizione in canonica porta alla scoperta di un’attrezzatura pochissimo sacra: vibratori allineati in ordine di grandezza, fruste, catene, insomma un campionario di oggettistica fetish degno di un pornoshop (molto commentato in città un clamoroso stivalone bianco con tacco a spillo), più tanti video con acrobazie sessuali, anche, come dire?, di produzione propria. Coperti da etichette con nomi di Papi, compreso un «Luciani II» che lascia particolarmente perplessi. L’inchiesta sembra la sceneggiatura di un film porno. Don Contin avrebbe organizzato orge con trans, avrebbe messo annunci sui siti di incontri, avrebbe regalato alla sua amante-vittima un guinzaglio e una ciotola da animali, l’avrebbe costretta ad adescare i ragazzi dell’oratorio. E ci si limita solo ai dettagli riferibili”. Diversi i preti coinvolti, tra cui don Cavazzana, guida spirituale della showgirl argentina, che ammette di aver partecipato ma non è indagato. Lo scandalo monta e le donne coinvolte aumentano, oltre al numero di sacerdoti. Il vescovo Claudio Cipolla attacca i giornali, ma ai fedeli legge una lettera in cui si chiede perdono e ammette “mi vergogno”: “«Mi vergogno, e vorrei chiedere io stesso perdono per quelli che hanno attentato alla credibilità del nostro predicare». Poi ordina ai suoi preti di tacere e di «verificare» i loro comportamenti «soprattutto nel campo della vita affettiva, sessuale e della gestione dei soldi»”. Ma come hanno reagito i fedeli allo scandalo a luci rosse? C’è chi è divertito dalla vicenda e chi invece si dice scandalizzato e indignato: “Davanti a San Lazzaro, chiesona di periferia fra dignitose villette e orride sopraelevate, un’anziana parrocchiana è indignata: «Tutte calunnie di voi giornalisti, don Contin è una bravissima persona, ci metterei la mano sul fuoco». L’aspirante Giovanna d’Arco sarà un po’ ottimista, ma al bar accanto confermano che il reverendo era popolare e benvoluto: «Molto colto, molto intelligente, faceva delle ottime prediche». Ancora più plebiscitario il consenso per Cavazzana. Il sindaco di Rovolon, Maria Elena Sinigaglia, dichiara al «Corriere del Veneto» che «don Roberto ha ben operato e i cittadini hanno manifestato soddisfazione e affetto nei suoi confronti». Qualche cittadina, ancora di più. “Quanto a Casa Michelino, l’addetto chiude la porta in faccia ai giornalisti. E al telefono una cortese segretaria promette che certo, sì, farà richiamare «ma, capirà, siamo tutti molto provati da questa storia». Al Pedrocchi un’elegante signora attovagliata per il tè è più filosofa: «Cosa vòle che sia, l’hanno sempre fatto. Ma senza dirlo». Eh, già. Viene in mente un vecchio adagio di una Chiesa forse più ipocrita ma certamente più prudente: nisi caste, saltem caute. Se non casto, almeno cauto”.
Don Andrea, le sette amanti nella canonica degli scandali. Padova, il parroco precedente allontanato perché aveva un figlio, scrive il 4 gennaio 2017 Andrea Pasqualetto su "Il Corriere della Sera". Passi per la condanna di don Sante Sguotti, protagonista di una truffa alla Regione e dell’abbandono della tonaca dopo aver confessato di aver avuto un figlio da una parrocchiana; passi anche per il patteggiamento di don Lucio Sinigaglia che si sarebbe appropriato indebitamente dell’eredità di un farmacista destinata alla Caritas; ma quel che sta succedendo a San Lazzaro supera tutto e tutti e per molti fedeli non può passare, considerando poi che siamo nella Città del Santo, una delle mete planetarie della cristianità. Su questa parrocchia popolare di 1.500 anime, dove nel 2005 fu allontanato don Paolo Spoladore per un fatto di paternità, si sta infatti abbattendo uno scandalo sessuale senza precedenti. Al centro della vicenda il quarantanovenne parroco succeduto a Spoladore, don Andrea Contin, un ex avvocato approdato in tarda età al sacerdozio e accusato ora dalla Procura di Padova di tre reati non proprio leggeri: violenza privata, favoreggiamento-sfruttamento della prostituzione e pure porto abusivo d’armi. Tutto nasce dalla denuncia di una madre di famiglia di 49 anni che lo scorso 6 dicembre si è sfogata così davanti al maresciallo dei carabinieri: «Ho una storia d’amore con lui dal 2012, ma è diventata così violenta che sono finita all’ospedale». E il referto lo dimostrerebbe. Ha raccontato di rapporti sessuali anomali in canonica, di incontri con altri uomini organizzati da lui anche all’estero, in Croazia, nel villaggio francese di Cap d’Adge, luogo di scambisti, di aver avuto la brutta sensazione di essere entrata in un giro di prostituzione anche perché uno di questi partner occasionali le offriva del denaro; e poi le minacce subite: con un coltello, con la pistola e la ritorsione di un filmino hard da far vedere se solo avesse detto qualcosa. «Io non stavo cercando uomini o relazioni, ero impegnata in parrocchia con il volontariato». Si dirà: esagerazioni. Può essere, ma di certo quel che hanno scoperto durante una perquisizione gli investigatori, coordinati dal procuratore Matteo Stuccilli e dal pm Roberto Piccione, è sorprendente. In una stanzetta chiusa a chiave all’ultimo piano della canonica, un campionario da sexy shop: stivali di gomma col tacco, collari, bustini, manette, corsetti e sex toys. Il tutto accanto a un crocefisso riverso. Il profano più estremo e il sacro svilito. Ma la cosa più importante dal punto di vista investigativo è stata un’altra: l’agenda cartacea di don Andrea. Perché lì dentro ci sono i nomi di molte donne. Contattate subito dai carabinieri, ne esce un quadro del tutto inatteso: sei di loro, inconsapevoli delle altre, hanno confessato di aver avuto rapporti con il prete. Consenzienti. In un solo caso poco desiderati. Ma le audizioni delle signore sono in corso e dunque i numeri potrebbero cambiare. Emerge un tratto comune alle varie storie: tutte le amanti dicono che il primo approccio con il sacerdote è avvenuto in un momento di crisi coniugale o di debolezza. Ragione per cui San Lazzaro è diventata per don Andrea un terreno minato. «Penso che i mariti siano molto nervosi», traduce la ragazza del panificio «da Ivone», di fronte alla chiesa. Nel frattempo l’indagato ha prudentemente deciso di levare le ancore. Gliel’ha chiesto il vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla, al quale ha dato le dimissioni. «Non voglio fare alcun commento», ha tagliato corto l’avvocato Michele Godina, suo difensore. La Curia di Padova era al corrente della situazione. «In seguito ad alcune segnalazioni avevamo avviato un’indagine “previa”, come dicono i canoni 1717 e 1718 del diritto canonico», ha spiegato la Diocesi che però ha rifiutato di consegnare al pm il fascicolo. Invoca i Patti Lateranensi, cioè gli accordi fra Stato e Chiesa che prevedono la trasmissione degli atti solo con il consenso delle persone coinvolte. E la parrocchiana coinvolta non ci sta a uscire allo scoperto: «Per me era una storia d’amore».
Padova, la canonica maledetta: Don Andrea Contin non è l'unico prete ad aver dato scandalo, scrive “Libero Quotidiano" il 5 gennaio 2017. Sembra che la canonica di Padova dove, fino a poco tempo fa, esercitava la sua missione don Andrea Contin, il prete sporcaccione, sia stata segnata dall'esercizio di altri sacerdoti "discutibili". Il suo predecessore, Don Sante Sguotti, per esempio, è stato colpevole di una truffa ai danni della Regione e ha abbandonato la tonaca dopo aver confessato di aver avuto un figlio da una parrocchiana. Don Lucio Sinigaglia invece si sarebbe appropriato indebitamente dell'eredità di un farmacista destinato alla Caritas e ancora, don Paolo Spoladore fu allontanato per una attribuita paternità. Quest'ultimo scandalo, a sfondo sessuale, sembra proprio essere la cima di una serie di scandali che hanno visto come protagonista proprio la canonica di San Lazzaro, la Città del Santo, una delle mete più visitate dalla cristianità. L'ultima vicenda, forse la più grave, vede il parroco Andrea Contin, un ex avvocato che ha abbracciato tardi la vocazione sacerdotale, accusato di violenza privata, favoreggiamento-sfruttamento della prostituzione e porto abusivo di armi. Si è fatta luce sulle illecite abitudini del parroco quando è arrivata ai carabinieri, il 6 dicembre, la denuncia di una madre di famiglia di 49 anni, che aveva intrecciato un relazione d'amore con il suddetto sacerdote, trasformatasi poi in un rapporto talmente violento, da farla finire in ospedale. E non solo, la donna ha raccontato anche di strani rapporti sessuali in canonica, insieme ad altri uomini, incontrati poi anche all'estero, in Croazia, nel villaggio francese di Cap d'Adge e in luoghi di scambisti dove aveva avuto la brutta sensazione di essere scambiata per una prostituta, dato che uno di questi partner occasionali gli aveva offerto volentieri dei soldi. Ai rapporti sessuali poi si sono aggiunte anche le minacce: con un coltello, con una pistola e infine la ritorsione di un film hard per indurla al silenzio. La storia raccontata dalla donna ha avuto poi conferma quando gli investigatori, durante una perquisizione, hanno scoperto "la stanza dei giochi" del prete in cui, chiusi sotto chiavi, erano ben conservata oggettistica varia degna di un sexy shop (stivali di gomma col tacco, collari, bustini, manette, corsetti), accanto ad sacrilego crocifisso rovesciato. L'agenda di don Contin infine non ha fatto altro che aggiungere altri particolari alla vergognosa vicenda: una lista con i nomi di molte donne, sei di loro, interrogate dalle forze dell'ordine, hanno ammesso di aver avuto rapporti con il prete, consenzienti, in un solo caso poco voluti. Una costante sembra accomunare le donne sedotte dal prete, tutte affermano infatti che il primo approccio è avvenuto in un momento di crisi coniugale. Per questo motivo, il prete indagato, che nel frattempo ha lasciato la tonaca, ha abbandonato in fretta e furia anche il paese, sicuramente terrorizzato dall'idea subire qualche ripercussione dai mariti, traditi e arrabbiati. Alla curia di Padova non erano nuove le accuse mosse al sacerdote, come scrive il Corriere, la Diocesi ha spiegato che "in seguito ad alcune segnalazioni avevamo avviato un’indagine “previa”, come dicono i canoni 1717 e 1718 del diritto canonico". Il fascicolo però rimane blindato, la Diocesi, invocando i Patti Lateranensi, si è rifiutata di consegnare il fascicolo al pm.
Appuntamenti hot e numeri telefonici. Spunta l’agenda segreta di don Andrea. L’ex parroco di San Lazzaro si segnava tutto: l’harem composto da una ventina di donne, scrive il 6 gennaio 2017 Nicola Munaro su "Il Corriere della Sera". Don Andrea si segnava ogni cosa: nomi, numeri di telefono, appuntamenti. Tutto scritto a penna, in modo meticoloso, nero su bianco, in un’agenda personale che dal 21 dicembre è in mano ai carabinieri della stazione di Padova principale e al sostituto procuratore Roberto Piccione. Potrebbe essere proprio quell’agenda il bandolo dell’intera matassa, il faro che gli inquirenti sono destinati a seguire per districarsi nell’inchiesta aperta su don Andrea Contin, 48 anni, ex parroco di San Lazzaro, con le accuse di violenza privata e favoreggiamento della prostituzione. Perché in quelle pagine ci sono nomi e cognomi delle donne (circa un ventina) che costituivano l’harem del sacerdote, perquisito in canonica a quattro giorni da Natale e ora in una comunità protetta dopo aver rimesso il mandato nella mani del vescovo Claudio e aver passato alcuni giorni all’estero, lontano da tutto. Che quell’agendina sia fondamentale per le indagini lo hanno pensato anche i militari del maresciallo Alberto di Cunzolo: è da lì che i carabinieri – con delega del pm – sono partiti per sentire come persone informate sui fatti sette donne, tutte parrocchiane di San Lazzaro e tutte accomunate dall’aver avuto una relazione sessuale con l’ex parroco, arrivato alla guida della comunità di Padova Est una decina d’anni fa per allontanare il clamore provocato dall’ex parroco, don Paolo Spoladore (un figlio mai riconosciuto e una casa editrice da molti zeri). Invece il destino sembra aver messo don Andrea su binari molto simili a quelli del predecessore. Gli interrogatori che i carabinieri stanno portando avanti in questi giorni infatti arrivano tutti a un’identica conclusione. Ciascuna delle sette parrocchiane sentite ha ammesso il sesso con il prete e le orge che lui proponeva loro, senza però mai obbligarle a partecipare, come aveva raccontato già a metà dicembre una quarantasettenne che, confessando la liaison con il sacerdote, aveva detto di aver interrotto il rapporto quando lui le aveva chiesto di partecipare ad un sesso di gruppo in canonica. Chi invece era stata obbligata a prendere parte agli incontri e venduta per soldi (a suo dire) è la quarantanovenne che il 6 dicembre scorso si è fatta forza e ai carabinieri ha presentato una denuncia di otto pagine contro don Andrea accusandolo – lei, che di lui si era innamorata - di averla messa in vendita ad altri uomini per soldi e di averla minacciata con un coltello da cucina e di mettere sul web le sue foto nuda, se lei l’avesse lasciato. In allegato alla denuncia anche due referti medici da 21 giorni di prognosi per lesioni compatibili con pugni, costrizioni da catene e sesso violento, decine di messaggi via WhatsApp in cui don Andrea le si rivolgeva con un linguaggio triviale e a sfondo erotico. Ed è da quell’accusa di averla venduta per soldi ad altri uomini che nasce l’altro corno dell’indagine, quello che i carabinieri stanno portando avanti setacciando i siti per adulti (Scambiomoglie.it, Annunci69.it e Bakeka.it) dove don Andrea, usando uno pseudonimo, avrebbe offerto la quarantanovenne ad altri uomini. I militari stanno controllando gli annunci per scoprire chi ha risposto, risalire alle loro identità e poi interrogarli. Una sola la domanda fondamentale: don Andrea chiedeva soldi per gli incontri al primo piano della canonica di San Lazzaro? Dove dietro una porta chiusa a chiave si celava una stanza degna di un set da film porno con catene, manette, stivali in gomma e tacco a spillo, falli di diverse dimensioni. Il sospetto è che il giro di denaro ci fosse, eccome. Per questo anche i conti dell’ex parroco sono sotto indagine.
DI…VICENZA. Il giudice berico imbottito di droga e altre facezie della Vicenza "giudiziaria", scrive martedì 8 agosto 2017 Marco Milioni. Chi sarà mai il giudice delle immagini preliminari, ovvero il gip, di Vicenza che anni fa fu pizzicato imbottito di droga e in qualche modo salvato dagli artigli della legge? A chi si riferisce il giornalista Angelo Di Natale nell'articolo che firma oggi per Alganews? Per caso questo magistrato è ancora oggi in servizio a Vicenza? Per caso in questi mesi avrà avuto a che fare con eclatanti inchieste penali tuttora in corso? Per caso si tratta d'un magistrato le cui sorti, anche personalmente, hanno incrociato quelle di qualche big o ex big del mondo bancario veneto? Per caso le carte sanitarie che lo riguardano sono custodite presso gli archivi di qualche Ulss vicentina e magari sono transitate in forma di copia nelle casseforti di qualche politico o di qualche altro potentissimo big locale? E chi saranno mai i notabili veneti, di cui si parla nel servizio, che possono aver usato queste informazioni scottanti in modo da distorcere l'ordinario corso della giustizia? E ancora, quanti giornaloni della carta stampata veneta riprenderanno a breve la notizia?
VICENZA, SCEMPIO EDILIZIO E AFFARI PRIVATI ALL’OMBRA DEL NUOVO TRIBUNALE, MA VIENE PERSEGUITO CHI OSA PARLARE DI ABUSI, scrive l'8 agosto 2017 Angelo Di Natale, su "Alga News". Non lo chiameremo abuso edilizio perché se le autorità preposte hanno rilasciato le concessioni previste, abuso non è. Lo chiameremo semplicemente “scempio”, stupro del territorio con tanto di bollo del Comune e nel dispregio di tutte le norme – costituzionali, ordinarie, di settore, regionali, tecniche e amministrative – che avrebbero dovuto condurre l’istituzione competente a fare tutt’altro e ben altro. Parliamo dell’affaire-Cotorossi a Vicenza, ovvero il nuovo tribunale (non si dica “abusivo”, per carità!) edificato su una colossale speculazione affaristica in danno del bene pubblico, della città resa bella ed elegante dal Palladio, della sicurezza del territorio (l’edificio sorge laddove non potrebbe, tra due fiumi a rischio esondazione), a vantaggio esclusivo degli interessi di potenti gruppi privati che da quelle parti fanno da decenni il bello e il cattivo tempo, nella distrazione e forse grazie alla contiguità con organismi di controllo, vigilanza e garanzia. Il caso è trattato in questi giorni da diversi organi d’informazione ma preferiamo richiamare innanzitutto qualche precedente lontano, noto all’esperienza diretta di chi scrive, per coglierne meglio il senso e focalizzarne la portata. Negli anni 2003 e 2004 denunciai in diversi servizi, per l’emittente All-news del Triveneto Canale 68, lo scandalo del “Cotorossi”, un colossale sacco edilizio in favore di privati (tra i quali società berlusconiane e la Maltauro, di recente coinvolta nelle tangenti Expo e uscitane con il patteggiamento del suo responsabile) in danno della città di Vicenza per diverse centinaia di milioni di euro e con gravissimi rischi, come segnalato, per la sicurezza idrogeologica. Allora i lavori non erano iniziati ed era possibile bloccare tutto. Ma il problema non era solo il sindaco di Vicenza, berlusconiano fervente, al punto da avere ricevuto l’onore dall’allora “Cavaliere” di essere suo testimone nelle nozze celebrate con l’architetta Lorella Bressanello. In effetti la sposa in qualità di architetto lavorava per uno dei più grossi cementificatori della zona quando riesce ad “agganciare” il primo cittadino, vedovo per la morte prematura della moglie, e lo porta, riuscendo ad ottenere dal sindaco-consorte un ribaltone radicale di posizione politico-amministrativa, sulla linea degli interessi di quell’imprenditore del cemento. Interessi che al costruttore erano stati serviti su un piatto d’argento dalla precedente amministrazione la cui maggioranza però era andata in crisi e perduto le successive elezioni, passando all’opposizione, mentre l’amministrazione succeduta nel 1998 e guidata, per dieci anni, da quel sindaco, in precedenza quando era minoranza, aveva assunto una posizione totalmente contraria. Ma gli affari di cuore e i fiori d’arancio, ma ancor prima la frequentazione e il “fidanzamento”, furono più forti di ogni remora politica: per l’architetta che da lì a poco sarebbe diventata il vero dominus dell’urbanistica comunale, missione pienamente riuscita! Il problema era anche, e forse soprattutto, la Procura, perfettamente integrata nel circuito di interessi e affari privati che a Vicenza riuniva, come in un corpo solo, politica dominante, burocrazia, economia, finanza, banche, editoria, magistratura. Allora i lavori non erano iniziati, ma non c’era alcuna possibilità – eppure nel 1998 il centrodestra subentra al centrosinistra nel governo del Comune e nel 2008 succede il contrario – che ciò non accadesse. Mi sembrò stupefacente come gli stessi partiti e gruppi politici, dall’opposizione dicessero una cosa e, divenuti maggioranza, facessero tutt’altro: in ogni caso, sempre e comunque, gli interessi privatissimi dei signori del cemento. Ricordo pochissimi consiglieri comunali sempre coerenti e dalla parte della città: l’unico nome che mi sovviene è quello di Franca Equizi, eletta nelle file della Lega e poi espulsa per le sue posizioni indipendenti e l’indisponibilità ad inchinarsi agli interessi privati dei signori del cemento. A maggio 2004 lasciai Vicenza per impegni professionali altrove, con la consapevolezza che non ci sarebbe stato niente da fare fino a quando non si fosse messo mano seriamente in quel verminaio che erano la Procura ed altri settori non secondari degli uffici giudiziari del Tribunale. Tra le altre cose avevo raccontato il caso incredibile di un gip sorpreso con una grande quantità di droga in auto, salvato e messo sotto tutela dai manovratori di quegli interessi, pronti ad usarlo all’occorrenza. E ho visto bene più volte come l’abbiano usato! Di recente, a scandalo “Popolare di Vicenza” deflagrato, le cronache hanno svelato la storia, non meno incredibile, di un altro giudice, in questo caso un gip per bene che ebbi modo di conoscere direttamente, Cecilia Carreri, fatta fuori perché, nel 2005, dodici anni fa (io ero già andato via) si era opposta con solidissime motivazioni all’archiviazione di un procedimento penale contro la Banca Popolare di Vicenza del “pregiudicato” Zonin: si, già allora e da tempo, l’imprenditore era tecnicamente un cittadino pregiudicato per frode commerciale commessa nella produzione dei vini, ma in tutto il tempo di lavoro in Veneto ero stato il solo a scriverlo e a dirlo, mentre tutti lo ossequiavano! Se a Cecilia Carreri non avessero impedito – vessandola in tutti i modi fin quasi alla morte fisica e psicologica – di fare il suo dovere, dieci anni prima Zonin sarebbe stato smascherato e fermato in tempo, prima che la sua gestione depredasse centinaia di migliaia di famiglie di oltre dieci miliardi di euro e i contribuenti italiani del doppio. E invece tutto ciò è avvenuto anche per la complicità di una rete di affaristi e manovratori all’interno perfino delle più alte istituzioni di garanzia come settori della magistratura, sicché oggi quel banchiere, intestati i suoi beni ai familiari, con le loro carte di credito può circolare libero a Milano e fare shopping in via Montenapoleone. E dire che egli ha prodotto un danno economico e sociale infinitamente superiore a quello di cui in un’intera vita sarebbero contemporaneamente e complessivamente capaci tutti i ladri, i rapinatori e gli scippatori di strada in azione nel nostro Paese! Questa è l’Italia, bellezza, e tu – cittadino per bene – non puoi farci niente! La vicenda torna in questi giorni d’attualità perché alcuni ambientalisti sono stati trascinati in tribunale con richieste di risarcimento milionarie. Da vittime a carnefici – come scrive “la repubblica” il 5 agosto – in un batter d’occhio per aver denunciato una speculazione che ha pochi eguali in Italia. E con una procura che, in buona sostanza, sta indagando su se stessa o meglio sull’edificio che la ospita. È una storia lunga 15 anni quella dell’operazione Borgo Berga, a poche centinaia di metri da Villa Rotonda del Palladio, patrimonio dell’Unesco. Una vicenda che porta in sé più di un paradosso, di cui si trova traccia già nei primi anni del 2000 degli atti dell’amministrazione di centrodestra guidata da Enrico Hullweck. A suo tempo l’area era occupata dallo stabilimento ormai dismesso della famiglia Rossi. Una fabbrica storica poi acquisita da una delle società della galassia berlusconiana e successivamente ceduta a una cordata guidata dalla Maltauro (società di costruzioni nota ai pm di Milano per alcune vicende legate all’Expo). In quell’area il Comune di Vicenza decide di realizzare il nuovo Tribunale e in cambio i privati ottengono le autorizzazioni ad edificare su oltre centomila metri quadrati di terreno, con volumi e altezze imponenti, la cessione di aree pubbliche per una superficie doppia di quella ricevuta dal comune e un bel finanziamento per le opere di urbanizzazione. Nel 2006 – ricostruisce ancora “la repubblica” – i lavori partono con la demolizione del vecchio stabilimento, nonostante le prescrizioni della Soprintendenza. Arrivano le prime denunce da parte di Legambiente, Italia Nostra e del Comitato contro gli abusi edilizi. E arriva la prima inchiesta archiviata in tempi record. Strano, visto che gli edifici di Tribunale, attività commerciali e palazzoni di appartamenti vengono tirati su a ridosso di due fiumi, Retrone e Bacchiglione (nell’area storicamente sorgeva il porto fluviale). Nel 2008 cambia l’amministrazione, e nonostante da consigliere regionale avesse tuonato contro il Tribunale (definendolo “un mostro”), il nuovo sindaco Achille Variati del Pd fa approvare una variante urbanistica che di fatto conferma il vecchio piano. Nel 2013 arrivano nuove denunce degli ambientalisti e la magistratura è costretta a indagare nuovamente su casa propria. Fino al 2014 tutto tace e l’inchiesta resta a carico di ignoti, l’anno dopo viene indagato solo l’ex dirigente all’urbanista del Comune. Pochi mesi e si registra un sequestro preventivo chiesto dal pm Antonio Cappelleri e accolto dal Gip Massimo Gerace. Viene contestato il reato di lottizzazione abusiva dell’intera area, ma il sequestro riguarda soltanto uno dei lotti. Il giudice scrive nero su bianco che “sussiste l’illegittimità del piano di lottizzazione e dunque dei permessi a costruire rilasciati e da rilasciare”. Mancano “gli elaborati sulle zone sismiche, manca il rispetto delle prescrizioni della sovrintendenza, mancano valutazioni ambientali” e altro ancora. Qualcosa sembra muoversi. Sembra, perché in realtà non vengono sequestrati gli edifici realizzati o in via di realizzazione, ma solo un lotto completamente libero. Dunque si continua a costruire, a completare, a vendere o affittare unità immobiliari. Il tutto perché il giudice ritiene “i volumi in essere costitutivi di fatti compiuti non più modificabili”. Insomma, ormai l’abuso è fatto. La procura indaga, e si va avanti. Gli ambientalisti scrivono che i permessi a costruire sono scaduti, e si va comunque avanti. Arriva anche l’Anticorruzione di Raffaele Cantone e un’indagine della Corte dei Conti, e si continua a lavorare. Anzi di più. I mezzi di cantiere, che operano nelle aree libere, vengono autorizzati dalla magistratura ad attraversare il lotto sequestrato. L’Enac mette in discussione gli accordi tra Comune e privati che conterrebbero uno squilibrio nei profitti del privato a danno dell’amministrazione, quantificato in una decina di milioni di euro. Inoltre, le opere di urbanizzazione si sarebbero dovute effettuare con una gara pubblica e non, com’è accaduto senza bando. La Corte dei Conti apre un fascicolo per danno erariale, ma nulla sembra fermare l’operazione. Intanto la Procura chiede il sequestro dell’intera area, ma questa volta il gip dice di no. Al Riesame – si legge ancora su “la repubblica” – il pm si concentra sui danni economici, molto meno sulle relazioni dei consulenti e degli investigatori relative al danno ambientale, e il ricorso viene respinto. Ora si attende la decisione della Cassazione. Intanto gli ambientalisti si rivolgono alla Corte d’Appello chiedendo la revoca dell’indagine e al Csm con un esposto per chiedere conto del lavoro di Cappellieri. Nessuna risposta. Tutto tace e i lavori vanno avanti. O meglio quasi tutto tace. Perché se dell’indagine non si ha più notizia, sono già arrivate le citazioni in giudizio per i denuncianti da parte della “Cotorossi” che chiede in sede civile 3 milioni per danni e diffamazione. In questo caso l’udienza è fissata per dicembre. Da vittime a carnefici per averlo chiamato “abuso”.
“Guai giudiziari per Falcone, Salvarani, Scarpellini e Tolettini”, scrive Marco Milioni su “la Sberla”, l'11 marzo 2209. “Una raffica di denunce e un ponderoso esposto indirizzato alla procura della repubblica di Trento contro alcuni big della magistratura e delle forze dell’ordine del Vicentino. A redigere il tutto Angelo Di Natale, ex collaboratore di Canale 68 Veneto, oggi tra i giornalisti di punta della Rai siciliana. La vicenda cui fa riferimento Di Natale è collegata in modo indiretto ad una serie di scoop che lo stesso giornalista firmò per Canale 68 nel 2004. Reportage nei quali si parlava di abusi commessi a danno di minori ad opera di sacerdoti in una parrocchia di Thiene, nel vicentino. Direttamente la vicenda è collegata invece al libro Mani D’Angelo che Marco Milioni (estensore de LaSberla.net) pubblicò nel 2006. Nel libro si facevano le chiose al comportamento degli inquirenti seguito agli scoop di Canale 68. Per quel libro Di Natale e Milioni sono stati querelati per diffamazione da Giorgio Falcone (attuale pm presso la procura berica) e da Giovanni Scarpellini, all’epoca dei fatti comandante dei carabinieri di Thiene e ora comandante dei vigili urbani del medesimo comune. Il processo a carico dei due ha appurato che le indagini furono insabbiate, tanto che Di Natale dopo l’assoluzione definitiva è partito al contrattacco. Ieri sono stati denunciati infatti tra gli altri: il sostituto procuratore Falcone per il reato di calunnia; il procuratore Ivano Nelson Salvarani per i reati di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale e di rifiuto di atti d’ufficio; l’ex capitano dei carabinieri Scarpellini per i reati di calunnia, di falsa testimonianza e di subornazione; il sovrintendente di polizia Flavio Bellossi per il reato di falsa testimonianza; il giornalista Ivano Tolettini de Il Giornale di Vicenza per il reato di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio. A dare la notizia è stato lo stesso Di Natale (nella foto) il quale in merito alla vicenda ha diramato oggi una nota breve e una più articolata unitamente all’intero testo dell’esposto.
Il tribunale di Vicenza, nuovo porto delle nebbie. Prima non si è occupata del caso BpVi, ora dichiara la sua incompetenza territoriale e spedisce gli atti a Milano, che a sua volta ha passato le carte alla Cassazione, scrive Paolo Madron su "Lettera 43" l'8 giugno 2017. La giustizia italiana ha un nuovo porto delle nebbie. No, non è più il tribunale di Roma, in passato famoso per la sua propensione a insabbiare. È quello di Vicenza che, di fronte al disastro della locale Popolare (siccome bisogna essere trasparenti con i lettori, azionista minore di questo giornale) ha girato la testa dall’altra parte. E quando qualcuno dei suoi magistrati pensò invece di non girarla, il tracollo era di là da venire ma già se ne intuiva qualche indizio, si pensò bene di risolvere il problema alla radice trasferendo l’impicciona, visto che era anche una discreta alpinista, nella ridente Cortina. Sto parlando del gip Cecilia Carreri, che nel 2002 respinse la richiesta di archiviazione delle indagini nei confronti di Gianni Zonin, per oltre vent’anni incontrastato dominus della banca. Da allora nel tribunale della città del Palladio (il nuovo è un obbrobrio urban paesaggistico che non ha eguali) quello della Popolare di Vicenza è diventato un non luogo a procedere. Fino a due anni fa, quando la Bce squarciò il velo mostrando tutto il marcio che allignava in un istituto che tutti credevano sano e al riparo dai rovesci della crisi. Fu solo allora che, di fronte alla protesta di migliaia di risparmiatori ridotti sul lastrico e all’irrompere del caso Vicenza sul palcoscenico nazionale, la Procura si mosse accusando i vertici dell’istituto di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza. Ma, come quasi sempre avviene, al suo risveglio i buoi erano già scappati e il danno consumato. Il gip di Vicenza, dopo essersi tenuta per mesi il fascicolo sula scrivania, ha pensato bene di dichiarare la sua incompetenza territoriale spedendo gli atti a Milano. Zonin aveva trasferito per tempo tutti i suoi beni a figli e parenti, e sui suoi sodali complici del misfatto non si registra esserci stata una particolare lena nell’indagarli. Almeno fino a quando due sostituti della Procura, meglio tardi che mai, hanno deciso di mettere sotto sequestro 106 milioni di euro chiedendo sei mesi fa al gip di convalidarla. Non a tutti, però, visto che tra coloro oggetto del provvedimento guarda caso non compare incredibilmente il presidente Zonin, ma solo l’ex direttore generale dell’istituto e il suo vice. Ma al danno ora i aggiunge la beffa. Il gip di Vicenza, dopo essersi tenuta per mesi il fascicolo sula scrivania, ha pensato bene di dichiarare la sua incompetenza territoriale spedendo gli atti a Milano dove, fino a prova contraria, hanno sede molte importanti istituzioni ma non la Consob e nemmeno la Banca d’Italia. Ovviamente ai colleghi di Milano è bastata una rapida occhiata alle carte per dichiarare a loro volta l’incompetenza. Toccherà quindi alla Cassazione, non si sa bene quando, risolvere l’arcano. Un pasticcio che anche nel porto delle nebbie vicentino deve essere sembrato troppo, visto che il procuratore capo ha pubblicamente denunciato come abnorme la decisione del gip. Piccola nota conclusiva giusto per capire come gira da noi il mondo. Ricorda oggi Repubblica che le indagini aperte sul cda della Vicenza, quando ancora era additata come un modello di banca, per la mancata iscrizione a bilancio di alcuni milioni di minusvalenza furono repentinamente archiviate dall’allora procuratore capo Antonio Fojadelli. Il cui nome, una volta dimessosi dalla magistratura nel 2011, compare tra i consiglieri d’amministrazione della Nordest Merchant, società interamente controllata dalla Popolare di Vicenza.
L’ex magistrato: «Banche venete, i pm non vollero indagare su Bpvi. Così il “sistema” protesse Zonin». L’anticipazione del libro di Cecilia Carreri: «Ecco come mi hanno fermata», scrive il 21 giugno 2017 il "Corriere del Veneto". Ci sono delle volte in cui la vita prende i ritmi di una regata in barca a vela. E la decisione di cambiar rotta, una strambata improvvisa, muta per sempre il corso degli eventi. È capitato a Cecilia Carreri, fino al 2009 giudice in servizio al tribunale di Vicenza. La ribattezzarono «Ciclone Carreri» per come era riuscita a portare in aula uno dei pochissimi casi di Tangentopoli a Vicenza. Poi l’onta di vedersi processare da Csm: trasferita e sanzionata perché, nonostante il mal di schiena e gravi problemi familiari, aveva svolto delle attività sportive in mare. Per tutti divenne «il giudice skipper» e così forse sarebbe stata ricordata, se nel frattempo non fosse intervenuto il crollo della Banca Popolare di Vicenza. Perché, ripercorrendo a ritroso la storia giudiziaria dell’istituto, venne fuori che proprio lei fu l’unico magistrato a tentare di smascherare la (presunta) malagestione di Gianni Zonin, all’epoca potentissimo presidente di BpVi. E se le avessero dato retta, forse, le cose sarebbe andate diversamente. Oggi migliaia di risparmiatori vedono in Cecilia Carreri l’eroina che, sola contro un sistema inerte, cercò di mettere sotto inchiesta i manager della banca. Fallì. E ora quella vicenda è diventata un libro scritto proprio dall’ex magistrato (ha dato le dimissioni) che uscirà nelle librerie il 29 giugno per i tipi di Mare Verticale. Si intitola Non c’è spazio per quel giudice – Il crack della Banca Popolare di Vicenza e sono 350 pagine durissime, dove compaiono decine di nomi e cognomi di imprenditori, politici, giornalisti e (tanti) magistrati che all’istituto di credito erano collegati da una rete di affari, regali, parentopoli, posti di lavoro…
«Fojadelli mi prese di mira» «Quando nel 1997 arrivò Antonio Fojadelli come nuovo procuratore di Vicenza - scrive l’ex gip - iniziò subito a prendermi di mira. S’intrometteva di continuo nell’organizzazione dell’Ufficio indagini preliminari (…). Ma il motivo di maggiore tensione era dovuto al fatto che Fojadelli tratteneva per sé le indagini che riguardavano i personaggi più importanti della città, gli apparati politici e imprenditoriali e, spesso, il fascicolo di quelle indagini era trasmesso al nostro ufficio con una richiesta di archiviazione (...) che mi accusava di respingere troppo spesso.». Nel 2001 la procura di Vicenza aprì un fascicolo a carico di Zonin e altri, scaturito da alcune segnalazioni e da un’ispezione di Bankitalia. Le accuse andavano dal falso in bilancio alla truffa. «Da quelle ispezioni, perizie e memoriali – si legge nel libro – emergevano fatti molto gravi, operazioni e finanziamenti decisi da Gianni Zonin in palese conflitto di interesse tra le sue aziende private e la Banca usata come cassaforte personale. Balzava evidente l’assoluta mancanza di controlli istituzionali su quella gestione: un collegio sindacale completamente asservito, un Cda che non faceva che recepire le decisioni di quell’imprenditore, padrone incontrastato della banca. Nessuno si opponeva a Zonin, nessuno osava avanzare critiche, contestazioni». Come andò, è cosa nota: la procura chiese al gip Carreri di archiviare tutto. E nel libro, l’ex giudice racconta il «dietro le quinte» di quell’indagine finita nel nulla. Descrive le «voci» stando alle quali almeno due pm volevano quel fascicolo, perché «gestirlo era evidentemente molto importante». E lei che, intanto, lavorava «con un sottile senso di angoscia (…) guardavo fuori dalle finestre di casa per vedere se c’erano auto sospette che mi sorvegliavano». Arrivò una lettera anonima con una foto che ritraeva Zonin e Fojadelli seduti vicini, a un evento. Il corvo denunciava legami tra i pm e la banca, e riportava un lungo elenco di personalità (politici, giornalisti, carabinieri, prefetti) alle quali il presidente dell’istituto aveva inviato regali di Natale. «Certo, l’elenco conteneva solo amicizie e conoscenze di lavoro, destinatari di innocui regali, non dimostrava alcun reato. Però, anni dopo, avrei ritrovato alcuni di quei personaggi in rapporti di lavoro con Zonin o il suo Gruppo bancario». Nel libro sostiene di aver inviato la lettera alla procura generale di Ennio Fortuna ma che «sparì nel nulla».
«I reati erano evidenti» «Si capiva perfettamente, leggendo gli atti, che il procuratore (di Vicenza, ndr) non aveva voluto approfondire. Avrebbe dovuto procedere con intercettazioni, sequestri, verifiche bancarie, rogatorie, ordini di cattura. Il materiale poteva consentire indagini di alto livello. I reati balzavano agli occhi». Carreri ricostruisce alcuni episodi sospetti: dall’acquisto effettuato da Silvano Zonin - fratello di Gianni - di un palazzo a Venezia subito affittato a caro prezzo proprio a BpVi; ad alcune anomalie «che rappresentavano come Zonin usasse la banca come una delle sue tante aziende: un viaggio a Parigi a spese della banca, l’uso della carta di credito dell’Istituto per una vacanza personale, la elargizione di denaro della banca a sindacalisti e parrocchie del Veronese, l’uso personale di un aereo della banca…». Dettagli di cui custodisce le prove, e nel libro racconta di «vecchi scatoloni in cui conservo ancora oggi atti e documenti...». Ma la procura, si sa, la vedeva diversamente e chiese l’archiviazione. Nelle scorse settimane, Fojadelli ha difeso il suo operato: «La magistratura fece il suo dovere. Semplicemente, all’epoca non furono evidenziati comportamenti illegali». Cecilia Carreri scrive che «dopo giorni di lavoro ininterrotto, in completa solitudine, nel caldo opprimente dell’estate, avevo respinto quell’archiviazione e chiesto l’imputazione coatta. Avevo tentato così di salvare quel fascicolo disponendo che fosse celebrata subito l’udienza preliminare in cui discutere il rinvio a giudizio di Zonin e degli altri indagati». Cosa accadde in seguito? Per l’udienza preliminare «non si era riusciti a trovare un magistrato: quasi tutti avevano rapporti con quella banca per conti correnti, investimenti, mutui anche per importi molto rilevanti (…) Il gup che alla fine aveva celebrato l’udienza, Stefano Furlani, anziché limitarsi a valutare se disporre il rinvio a giudizio, aveva subito prosciolto Gianni Zonin e il consigliere delegato Glauco Zaniolo…». Decisione impugnata dalla procura generale, secondo la quale «il gup Furlani ha palesemente travalicato i limiti delle sue funzioni appropriandosi in modo non consentito del ruolo e dei compiti del giudice del dibattimento». Ma non cambiò nulla e Zonin alla fine ne uscì «pulito». Nel 2005 un nuovo rivolo dell’indagine finì in Corte d’appello «dove all’epoca vi erano diverse conoscenze, come il famoso pg Ennio Fortuna, Gian Nico Rodighiero, quello che mi aveva giurato vendetta e che si diceva andasse a caccia con Gianni Zonin, e Manuela Romei Pasetti, diventata presidente della Corte e che nel 2012 sarebbe stata cooptata nel Cda della siciliana Banca Nuova del Gruppo Popolare di Vicenza». Insomma, le inchieste non portarono alcun sviluppo investigativo nei confronti di «quella banca che già allora appariva come una centrale di affari che elargiva denaro a cascata. C’era stato un fuoco di sbarramento perché quegli atti non arrivassero neppure a un processo dibattimentale».
«Zonin era dappertutto» Gli anni successivi sono i più bui: il processo al suo mal di schiena, fino alla decisione di dimettersi. E oggi Carreri avanza la tesi di essere stata vittima di un complotto: «I fatti erano chiari: in un modo o nell’altro ero fuori dalla magistratura. Se volevano eliminarmi, ci erano riusciti facendo in modo che fossi io, disperata, a dare le dimissioni. Il linciaggio mediatico mi aveva dato il colpo di grazia e poteva aver avuto una regia occulta». L’ex gip che per primo si occupò di PopVicenza ricostruisce anche il successivo percorso professionale di alcuni dei protagonisti. «Oltre all’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, nel 2013 Zonin aveva assunto anche Giannandrea Falchi - capo della segreteria di Mario Draghi - che aveva diretto una delle ispezioni su BpVi (…) Zonin aveva piazzato l’ex prefetto di Vicenza Sergio Porena, gia probiviro della banca…». La lista è lunga (e comprende il figlio del pm Paolo Pecori «diventato uno degli avvocati della banca») anche perché «sembrava che Zonin fosse dappertutto». Infine, l’ultima stoccata è per i magistrati di Vicenza che attualmente indagano sul crollo dell’istituto. A colpirla, è «la clamorosa mancanza, da parte della procura, di sequestri di beni e patrimoni a garanzia delle parti lese, di ordinanze cautelari di arresto e carcerazione». Tutti gli indagati sono rimasti «a piede libero e hanno potuto tranquillamente inquinare le prove o fuggire all’estero, far sparire il loro patrimonio personale. Mai vista una cosa simile».
Ispettori, magistrati e Gdf ecco la rete di protezione della Popolare Vicenza. Tutti i segnali del crac ignorati da Bankitalia e pm con l'aiuto anche di diplomatici e prefetti. Gli esposti sono rimasti inascoltati e oggi 118 mila risparmiatori chiedono giustizia, scrive Franco Vanni il 4 giugno 2016 su "La Repubblica". Li chiamavano "i pretoriani". E anche se nessuno lo ha mai esplicitato, nei corridoio della Popolare di Vicenza tutti intuivano quale fosse la loro missione: controllare i controllori. Adesso dicono che questa è sempre stata l'idea fissa di Gianni Zonin, presidente della banca dal 1996 allo scorso 23 novembre. E' stato lui, già celebre come re dei vini, a segnare l'ascesa e la caduta di questo istituto, che dal Veneto si è esteso in tutta Italia con 5 mila dipendenti e 482 filiali. Un castello di carte ridotto in cenere, bruciando in pochi mesi 6,2 miliardi di euro e lasciando sul lastrico 118 mila soci che avevano investito i loro risparmi in azioni passate dal valore di 62,5 euro a dieci centesimi. Il 2 giugno le vittime del crac hanno manifestato davanti alla villa di Zonin, chiedendo alla magistratura di sequestrarla. Ma ufficialmente non è più sua, perché si è liberato di ogni proprietà, forse pronto a trascorrere la vecchiaia nei suoi possedimenti esteri. Il crollo è stato rapidissimo mentre le indagini dei pm che lo hanno scalzato dal vertice dell'istituto sono lente, tanto da non prevedere sviluppi prima dell'autunno. Eppure nel corso degli anni i campanelli di allarme sulla solidità della banca, che sponsorizzava squadre sportive e finanziava film da Oscar come la "Grande Bellezza", non sono mancati: dal 2001 al 2014 ci sono stati esposti, ispezioni di Bankitalia e due inchieste della procura che avrebbero dovuto approfondire proprio gli elementi poi rivelatisi determinanti nello sgretolamento del forziere vicentino. Ad esempio, secondo quanto accertato dalla Bce negli anni passati, la crescita di BpVi che nel ventennio di Zonin ha portato all'acquisizione di Banca Nuova e Cari Prato è stata sostenuta imponendo ai soci l'acquisto di azioni della stessa banca come condizione necessaria per la concessione di prestiti. Una pratica denunciata da gruppi di piccoli risparmiatori già agli esordi della presidenza di Gianni Zonin. "Sin dall'inizio il suo intento era mettere al riparo la Popolare di Vicenza da verifiche e guai giudiziari - dice Renato Bertelle, avvocato di Malo, presidente dell'associazione nazionale azionisti BpVi -. Come lo ha fatto? Con nomine e assunzioni. Ha creato una rete di protezione, per evitare che franasse tutto. Ha cercato di mettere a libro paga quelli che potevano dargli fastidio, o i loro capi. E in molti casi ce l'ha fatta". Non è un caso che fra le prime iniziative del nuovo amministratore delegato Francesco Iorio ci sia stata la sostituzione dei "pretoriani", arruolati ai vertici delle istituzioni che avrebbero dovuto tenere sotto controllo la banca. Porte girevoli che hanno permesso di passare dai ranghi della magistratura, delle Fiamme Gialle, di Bankitalia a quelli della Popolare.
Le crepe e i guadagni. Le inchieste avviate dalla procura di Vicenza sulla gestione di BpVi fino a oggi sonostate affossate da archiviazioni, prescrizione dei reati e sentenze di non luogo a procedere, arrivate dopo anni dall'apertura dei fascicoli. Un ventennio di occasioni sprecate. "La cosa che fa più male, vedendo i soci che hanno perso tutto, è che già nel 2001 le crepe erano visibili - sottolinea Antonio Tanza, avvocato e vice presidente dell'associazione Adusbef, che prima del 2008 aveva presentato 19 esposti contro gli amministratori vicentini - . E sono quelle stesse crepe che si sono allargate fino a provocare il crac". L'epilogo è stato il salvataggio da parte di Fondo Atlante, costretto a rastrellare per 1,5 miliardi tutte le azioni della banca, dopo il flop della sottoscrizione di capitale. "È assurdo che si sia arrivati a tanto. Le premesse del disastro erano chiare quindici anni fa", conclude Tanza.
L'ispezione di Bankitalia. Nel 2001 Bankitalia dispone un'ispezione sulla Popolare di Vicenza, la prima da quando Zonin è presidente. Al centro degli accertamenti, i criteri con cui la Popolare ha valutato le azioni. Gli ispettori, al lavoro da febbraio a luglio, concludono che il valore di 85.196 lire (44 euro) era "poco oggettivo". E che la banca, nonostante si fosse all'inizio della presidenza Zonin, era già caratterizzata da un "modello gestionale verticistico che limita l'attività del cda". Unico oppositore di Zonin in consiglio di amministrazione è l'avvocato Gianfranco Rigon, che nel 1999 lascia la vicepresidenza. A suo dire, "il ruolo presupponeva sudditanza alla autoritaria e autocratica gestione di Zonin ". Già allora c'è un episodio illuminante, sottolineato dall'avvocato Bertelle: "La storia sembra incredibile, ma è agli atti dell'inchiesta milanese su Antonveneta. Nicola Stabile, che nel 2001 era nel team ispettivo di Bankitalia, riferì di avere ricevuto un invito da Zonin a trascorrere le vacanze in una sua tenuta nel Chianti". Non solo. Luigi Amore, funzionario della Vigilanza di via Nazionale che ha firmato quella verifica, sarà poi chiamato alla Popolare come responsabile dell'Audit. Allo stesso modo Andrea Monorchio, dopo tredici anni come Ragioniere generale dello Stato, sarà nominato nel cda di BpVi fino a divenirne vicepresidente nel 2014. L'uomo che ha arbitrato i bilanci del Paese diventa una sorta di ambasciatore di Zonin nei palazzi romani del potere.
Affari di famiglia. Le segnalazioni che hanno dato il via all'ispezione della Banca d'Italia finiscono sui tavoli della procura di Vicenza, che nello stesso 2001 apre un'inchiesta. Zonin viene indagato per falso in bilancio. Secondo gli esposti, gli amministratori avrebbero fatto sparire dal rendiconto del 1998 quasi 58 miliardi di lire di minusvalenze, frutto dell'acquisto di derivati. All'attenzione dei pm vicentini vengono portate anche alcune operazioni immobiliari intraprese dalla banca nel 1999 con la società Querciola Srl diretta da Silvano Zonin, fratello di Gianni. L'istituto avrebbe pagato affitti per un valore eccessivo, con danno per i soci. L'allora procuratore capo, Antonio Fojadelli, avoca a sé il fascicolo. Esperto in criminalità organizzata - aveva guidato le inchieste sulla mala del Brenta - chiede l'archiviazione. Il gip Cecilia Carreri respinge la richiesta e ordina l'imputazione coatta per Zonin. Ma nel 2005 la giudice viene travolta da uno scandalo dai contorni oscuri, nato dalla pubblicazione di una sua foto sul giornale locale. Per Zonin la vicenda si chiude con una sentenza di non luogo a procedere. Fojadelli nel 2011 lascia la magistratura e tre anni dopo Zonin lo chiama nel cda della Nord Est Merchant, detenuta da BpVi. Direttamente dalla guardia di finanza arriva invece Giuseppe Ferrante, ex capo del nucleo di polizia Tributaria di Vicenza, già dal 2006 responsabile della direzione Antiriciclaggio della banca. Anche l'avvocato Massimo Pecori, figlio di uno dei pm di punta della procura cittadina, ottiene incarichi per l'istituto. Ma, come spiega lui stesso, la Popolare "ha centinaia di legali sotto contratto". L'istituto di Zonin infatti è il simbolo stesso della ricchezza in un NordEst che all'epoca non conosce crisi.
Gli esposti del 2008. Adusbef il 18 marzo 2008 segnala a Bankitalia e alla procura di Vicenza "il ricorso illegittimo da parte della Popolare al prestito obbligazionario subordinato per reperire 220 milioni dei complessivi 950 di rafforzamento patrimoniale" e denuncia "il valore inverosimile della quotazione azionaria". Per la prima volta, si fa riferimento a "metodi estorsivi per diventare azionisti, pena la mancata concessione di prestiti, mutui, fidi", ipotesi alla base delle attuali inchieste aperte dopo il crollo. Nel 2008 il procuratore di Vicenza è Ivano Nelson Salvarani. L'inchiesta viene affidata al pm Angela Barbaglio, che il 15 aprile 2009 chiede archiviazione, "non ravvisando credibili ipotesi di reato". Il 21 aprile l'ufficio del gip di Vicenza chiude il fascicolo senza nemmeno comunicarlo ad Adusbef. Intanto, Zonin rafforza la fortezza attorno alla banca, continuando ad arruolare magistrati e uomini di vertice delle istituzioni bancarie. Già alla fine del 2008 arriva Mario Sommella, assunto come addetto della Segreteria generale dell'istituto, lo stesso ruolo che aveva ricoperto in Banca d'Italia.
Le porte girevoli. Luigi Amore e Mario Sommella non sono gli unici uomini di vertice di Bankitalia ad approdare a Vicenza. Nel 2013 Zonin ingaggia alle relazioni istituzionali di BpVi Gianandrea Falchi. Già membro della segreteria quando governatore era Mario Draghi, aveva condotto una seconda ispezione sulla Popolare di Vicenza, i cui risultati costituiscono la spina dorsale dell'attuale inchiesta della procura di Vicenza sulla gestione Zonin. Nel dicembre 2012 la verifica si conclude con un verdetto "parzialmente sfavorevole" e senza sanzioni. Come "ambiti di sofferenza" viene indicata la valutazione dei cespiti ricevuti a garanzia dei crediti. Quello che la verifica non mette in luce fino in fondo è il cuore del problema: il meccanismo della concessione di finanziamenti in cambio dell'acquisto di azioni della banca, che sarà reso esplicito solo quindici mesi dopo dall'intervento della Bce, con i conti ormai irrimediabilmente compromessi. Nel 2012 Zonin appare ancora forte, come il gruppo che guida. Da un anno il prezzo delle azioni è fissato a 62,5 euro e il numero dei soci (che nel 2008 erano 60mila) lievita. È in quei mesi che il cda di Banca Nuova istituto con 100 sportelli in Sicilia, creato nel 2000 a Palermo da BpVi - nomina come consigliere indipendente Manuela Romei Pasetti, già presidente della Corte d'Appello di Venezia, competente sul territorio di Vicenza. "Zonin, come sempre nella sua vita, ha fatto le cose in grande anche quando si è trattato di comporre i cda di fondazioni e controllate - dice l'avvocato Bertelle - verso la fine della sua avventura in banca, aveva così tanto potere da portarsi in casa prefetti e diplomatici". Il prefetto è Sergio Porena, rappresentante degli Interni a Vicenza fra il 1989 e il 1991, e già probiviro di BpVi. Zonin gli apre le porte del cda della Fondazione Roi, di cui lui stesso è presidente. Il diplomatico è Sergio Vento, già ambasciatore a Parigi, ingaggiato da Zonin come vice presidente di Nord Est Merchant Due, società di risparmio gestito di BpVi. Nulla di straordinario. In centri di provincia come Vicenza, Arezzo, Treviso, Chieti, Ancona, Ferrara gli istituti locali erano il cuore della ricchezza e del potere, elargivano finanziamenti, incarichi e offrivano prestigiose poltrone. In ogni città si è ripetuto un copione simile, con controllori incapaci di riconoscere i segnali del crollo. E adesso il prezzo di quella grande illusione lo pagano migliaia di risparmiatori. Senza che nessuno si ponga il problema di cambiare le regole e creare meccanismi più efficaci di vigilanza. Una settimana fa, durante la visita di Sergio Mattarella ad Asiago, un gruppo di azionisti della Popolare di Vicenza, una rappresentanza dei tanti che hanno visto il valore dei loro investimenti passare da 62,5 euro ad azione a soli dieci centesimi, gli ha consegnato un appello: "Siamo stati educati a rimboccarci le maniche e lavorare ancora di più per ricostruire quanto abbiamo perduto, ma non vogliamo sentire denigrare o irridere la nostra operosità. Vogliamo giustizia, vogliamo che i responsabili di questo tracollo siano messi di fronte alle proprie responsabilità ".
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
UNA REPUBBLICA FONDATA SULLA TRATTATIVA.
Una Repubblica fondata sulla trattativa. Gli accordi tra Stato e criminalità vanno avanti da due secoli. Così i padrini si sono visti riconoscere la loro forza. Che ora si è spostata nell’economia, scrive Giancarlo De Cataldo su "L'Espresso". Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di proteggerlo, ora di conquistarlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei”. Così scriveva, nel 1838, don Pietro Ulloa, Procuratore borbonico di Trapani. E Leonardo Sciascia poteva annotare, sconsolato, oltre cent’anni dopo: “Leggeremo mai negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa?”. Se il popolo sia “venuto a convenzione coi rei”, e per mezzo di alcuni dei suoi più alti rappresentanti, lo stabiliranno i giudici di Palermo, chiamati ad accertare se vi fu, fra il ’92 e il ’93, una “trattativa” fra mafia e Stato, e se furono commessi dei reati. Ma la verità giudiziaria è un conto, quella storica un altro, e non sempre le due verità coincidono. I giudici sono obbligati ad attenersi agli atti, gli storici non conoscono questo limite. La Storia è una grande risorsa, non foss’altro perché quasi sempre, per comprendere il presente, è doveroso guardare al passato. E il passato - a partire da don Pietro Ulloa - ci insegna che, sin dagli albori dello Stato unitario fra settori dei pubblici poteri e organizzazioni criminali si instaurarono accordi occulti e inconfessabili. “Patti scellerati”, li definisce lo storico francese Jacques de Saint Victor. Non ne furono immuni i sovrani assolutisti prima dell’Unità, i governanti che succedettero a Cavour, appartenessero alla Destra o alla Sinistra storiche, e nemmeno qualche rivoluzionario. Si avvalsero della “collaborazione” delle mafie coloro che intendevano mantenere l’ordine e quanti auspicavano il cambiamento. E sempre, costantemente, si potrebbe dire ossessivamente, costoro furono combattuti, troppo spesso senza successo, da leali servitori dello Stato che, oltre a fronteggiare il nemico dichiarato, dovevano guardarsi le spalle da quello interno. Il termine mafia compare per la prima volta in un documento ufficiale nella relazione redatta nel 1865 dal prefetto (orvietano) di Palermo, Filippo Antonio Gualterio. “I liberali del 1848, i Borboni nella restaurazione, i garibaldini nel 1860, ebbero tutti la necessità medesima, si macchiarono tutti della istessa colpa”. Si legarono alla trista associazione malandrinesca, determinando un legame indissolubile fra mafia e potere (o contro-potere) politico. Gualterio lascia intendere che, infine, le cose dovranno cambiare, grazie al nuovo governo: del quale egli, ovviamente, fa parte. Per Gualterio, “mafioso” è chi si oppone al nuovo ordine, sia egli garibaldino, repubblicano, nostalgico dei Borboni o autenticamente criminale. E le sue parole, per un verso nobilmente allarmate, per un altro ambigue, sono l’ennesima rappresentazione di un’altra costante del rapporto fra mafie e poteri in Italia: ciò che potremmo definire “il buon uso della mafia”. È una partita che Gualterio ha giocato in prima persona quand’era patriota, con la stessa spregiudicatezza di tutti gli altri attori. Le bande di bonache e picciotti che scortano Garibaldi nella trionfale impresa dei Mille sono, a un tempo, squadre a protezione dei latifondisti improvvisamente convertiti al nuovo che avanza, aggregazioni para-mafiose ma anche espressione di un sogno sociale di riscatto, quasi rivoluzionario, che presto le fucilazioni sommarie di Nino Bixio e dei piemontesi trasformeranno in incubo. Negli stessi giorni, a Napoli, mentre il regime borbonico si sfarina, il ministro liberale Liborio Romano promuove la camorra a Guardia Civica: per evitare disordini, dirà lui, e c’è da credergli. Ma sta di fatto che Garibaldi, a Napoli, è accolto da una folla festante in cui si mescolano allegramente democratici e tagliagole. La mossa di Romano sancisce, ancora una volta, il ruolo “politico” del crimine organizzato e la necessità, da parte dei pubblici poteri, di trovare un accordo. A proposito dei rapporti fra politica e mafie nell’Italia postunitaria, c’è un paragrafo impressionante nella “Storia della Mafia” di Salvatore Lupo: “Il partito governativo non escludeva il delitto politico e il ricorso ad una sorta di strategia della tensione (...) con la finalità di favorire la divisione della sinistra criminalizzandone l’ala estrema e conquistando a una collaborazione subalterna il gruppo che privilegiava la difesa delle conquiste risorgimentali dai pericoli reazionari”. E per conseguire questo obbiettivo si agita lo spettro di congiure inesistenti, oppure se ne impiantano di autentiche grazie al ricorso a spregiudicati agenti provocatori. Si dà per scontato che, a fini politici, ci si possa avvalere di metodi criminali in accordo con un sistema che di per sé è già criminale. Sembra delinearsi, insomma, un copione che ricorrerà più volte: con i pubblici poteri che cambiano e le mafie che restano sempre se stesse. Viene da pensare alla repressione del movimento dei Fasci a fine Ottocento, alla collaborazione dei mafiosi allo sbarco anglo-americano del ’43, agli ancora oscuri risvolti della Strage di Portella della Ginestra del 1947, all’esecuzione taroccata del bandito Giuliano, alle morti per avvelenamento di Pisciotta e Sindona, all’ascesa cruenta dei Corleonesi, ai delitti eccellenti degli anni Ottanta, giù giù sino alle stragi del ’92-’93. Tutti esempi di “buon uso della mafia” o ci si può spingere oltre, e usarla, questa benedetta parola: trattativa? Nessuno, pure, la pronuncia mai in sede ufficiale. Ma qualcosa di simile, grazie a un evidente sinonimo, “transazione”, pure affiora, a scavare nel passato. È il 1875 quando il deputato (ex-magistrato) calabrese Diego Tajani, durante un infocato dibattito parlamentare, così definisce la situazione dell’ordine pubblico in Sicilia: “Là il reato non è che una transazione continua, si fa il biglietto di ricatto e si dice: potrei bruciare le vostre messi, le vostre vigne, non le brucio ma datemi un tanto che corrisponda alle vostre sostanze. Si sequestra e si fa lo stesso: non vi uccido, ma datemi un tanto e voi resterete incolume. Si vedono dei capoccia della mafia che si mettono al centro di taluna proprietà e vi dicono: vi garantisco che furti non ne avverranno, ma datemi un tanto per cento dei vostri raccolti”. Transazione: come quella fra prefetti e comandanti militari e banditi, ai quali, talora, si concedeva un salvacondotto perché ripulissero il territorio. Da altri banditi. Transazione. Con le mafie si possono fare affari, si può servirsene per l’ordine (o, alternativamente, per il disordine), e la cosa è sotto gli occhi di tutti. Impensabile che i vecchi malandrini non si siano resi conto, col tempo, di essere assurti, essi stessi, da compagnia di raccogliticci accoliti a “forza politica”. E la stessa sensazione di essere “potere”, o comunque di giocare un ruolo determinante negli assetti strategici della nazione, magari a colpi di esplosivo, traspare da più di un verbale degli odierni collaboratori di giustizia. Da qualche anno a questa parte, le mafie sparano di meno, e quindi, verrebbe da dire, sono più forti. L’accumulazione del capitale che garantiscono i proventi delle attività illecite è un fattore di potente condizionamento del gioco economico. Le “transazioni” sembrano essersi spostate dal piano dei rapporti con gli Stati a quello dei mercati finanziari. Il governatore della Banca d’Italia ha denunciato l’enorme danno arrecato dal fattore criminale agli investimenti stranieri in Italia. Ma le mafie sono da tempo un fenomeno transnazionale, globalizzate più rapidamente, e con esiti spesso più soddisfacenti, dell’economia “legale”. Bisognerebbe girare il monito a quei santuari del denaro che periodicamente patteggiano ingenti penali per aver chiuso un occhio (e a volte tutti e due) sui movimenti sospetti di capitali. A quanto pare, non disdegnano di “venire a convenzione coi rei”. Le mafie sono partite dalle campagne o dalle periferie, ma hanno risalito il mondo, scalandolo con estrema facilità. Eppure, restano sempre mafie. Quelle descritte da don Pietro Ulloa nel lontano 1838. È ancora Sciascia a rivendicare l’ultima parola: “Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo di delinquenza organizzata, l’Ulloa li aveva individuati. Questi elementi si possono riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l’inflitrazione dell’occulto potere di un’associazione, che promuove il bene dei propri associati contro il bene dell’intero organismo sociale, nel potere statale”.
Kings of Crime, Felice Maniero intervistato da Saviano: "In carcere preferivo i terroristi ai mafiosi". Riparte su la Nove la serie ideata, scritta e condotta da Roberto Saviano "Kings of crime". Mercoledì 14 novembre alle 21.15 Felice Maniero, il bandito soprannominato “Faccia d’angelo”, si racconta per la prima volta in una lunga ed esclusiva intervista televisiva, in cui ripercorre tutta la sua vita. Tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’90 nessun criminale poteva entrare in Veneto senza il beneplacito di Maniero, che trattava da pari a pari con i boss più potenti di Cosa Nostra, camorra e ‘ndrangheta. Evaso da due carceri di massima sicurezza, condannato per associazione mafiosa e sette omicidi, era noto anche per la sua passione per la bella vita, trascorsa tra yacht e ville con piscina. Nel 1994 decise di diventare collaboratore di giustizia, rivelando i segreti della sua organizzazione e facendosi molti nemici. Oggi, dopo aver scontato la sua pena, vive da uomo libero con una nuova identità.
Kings of Crime, Felice Maniero intervistato da Saviano: "Questa vita mi ha tolto l'amore". "Se non ci fosse stata la legge sui pentiti io non mi sarei mai pentito". "Se potessi tornare indietro non lo rifarei, ma non so cos'altro avrei potuto fare. Sono uno che non regge 40 anni da operaio". "Questa vita mi ha tolto la possibilità di un amore vero". Così Felice Maniero intervistato da Roberto Saviano nella prima puntata di Kings of Crime in onda mercoledì 14 novembre. Nel 1994 decise di diventare collaboratore di giustizia, rivelando i segreti della sua organizzazione e facendosi molti nemici. Oggi, dopo aver scontato la sua pena, vive da uomo libero con una nuova identità. Felice Maniero: "Così trattai con gli uomini dello Stato. Ho rimorsi per un solo delitto".
Kings of Crime, Felice Maniero a Saviano: "Restituii i gioielli della Madonna e mi tolsero sorveglianza". L'ex bandito Felice Maniero detto "Faccia d'angelo" racconta a Roberto Saviano di quando fece rubare i gioielli di una Madonna Nicopedia nella basilica di San Marco a Venezia per chiedere un riscatto singolare: li fece restituire a patto che gli togliessero condizioni di sorveglianza "insopportabili". Rivelazioni fatte nella prima puntata di Fox Crime in onda mercoledì 14 novembre su la Nove.
Roberto Saviano intervista l'uomo che fu leader e fondatore della mafia nata in Veneto negli anni 70, ora collaboratore di giustizia. Da oggi, 14 novembre, ogni mercoledì alle 21.25 su Nove, torna "Kings of Crime", le interviste inedite dello scrittore ai protagonisti del crimine, scrive Roberto Saviano il 13 novembre 2018 su "La Repubblica". Quando intervisti un uomo che è stato un capo criminale, il primo obiettivo è capire cosa vuoi ottenere. Inchiodarlo alle sue responsabilità? Denunciare i suoi crimini più nascosti? Rintracciare il suo lato più umano? La mia ossessione è sempre la stessa: mostrare come i boss siano parte della nostra economia, siano capitalisti con mezzi diversi, farne emergere miserie e contraddizioni. E volevo, in questo caso, accendere un riflettore necessario sul nord Italia. Le mafie al Nord esistono da lunghissimo tempo. Per decenni si è negata la loro presenza e la loro esistenza, e questo è stato uno dei più dannosi tabù. Si cerca di relegarle a fenomeno locale, meridionale, di ridimensionarne la potenza economica, di negarne la presenza militare nelle regioni settentrionali o di attribuire tutto questo esclusivamente a gruppi di invasori che dal Sud "infettano" alcune zone del Nord. Non si tiene mai conto che le mafie si sono ramificate nel Nord Italia grazie a un'alleanza con l'imprenditoria e la politica settentrionale. Senza queste sinergie, le mafie non sarebbero mai riuscite a fare il salto di qualità. Il Nord è il motore del Paese e lo è stato anche per le organizzazioni criminali nate al Sud, che hanno investito in imprese e appalti, hanno venduto droga sulle migliori piazze, che hanno riciclato e moltiplicato nei circuiti finanziari i loro soldi sporchi. Ma è esistita una mafia - una sola ad oggi - che al Nord non è solo cresciuta, ma è anche nata. Si è strutturata in Veneto negli anni '70 e il suo fondatore e capo indiscusso è stato Felice Maniero. Ho incontrato Maniero, ora collaboratore di giustizia. Studiando e incontrando boss, killer e gregari di mafia, capisci che si possono dividere in due categorie: quelli che scelgono il crimine contro il mondo e quelli che scelgono il crimine per scalare il mondo. Non si sfugge a questa divisione. Ci sono boss per cui la vita è una guerra in cui ognuno si prende ciò che vuole in base al proprio coraggio, alla propria spietatezza: questi vedono lo Stato come un'altra organizzazione di banditi governata da persone tutto sommato interscambiabili, che si alternano al potere. Il loro guadagno sarà tanto più alto quanto più riusciranno a contrapporsi alle istituzioni, a sfidarle, a batterle. E ci sono boss che, invece, vogliono infiltrare lo Stato e utilizzare il crimine per avere un ruolo istituzionale: non guadagnano dalla alterità rispetto alle istituzioni, ma dall'identificazione con esse, mirano a diventare loro stessi le istituzioni. Il boss Felice Maniero apparteneva alla prima categoria, a quei boss di mafia che valutano l'essere giusto non in relazione al rispetto delle leggi, ma in relazione alla capacità di stare al mondo. Il giusto non è giusto perché indossa una divisa, ma perché risponde a valori che il mafioso stesso valuta come fondamentali, come l'essere feroce, magnanimo col debole, efficiente o sprezzante del pericolo. La filosofia morale criminale parte da un pilastro chiaro: potere, danaro, donne sono gli obiettivi di tutti: c'è chi è nato con maggiore possibilità di averli e chi deve invece trovare una strada per raggiungerli. Maniero ha una visione del mondo chiara, descrive se stesso come qualcuno che non voleva passare la vita in fabbrica, guadagnare due soldi, rimanere confinato alla provincia. Nato negli anni '50 in un Veneto in miseria, dove in molti avevano scelto la via dell'emigrazione in Sud America, Maniero cresce con il mito dei fuorilegge, che gli sembrano "esseri superiori". A 9 anni la prima pistola, a 12 anni i primi furti ai camion di caffè e formaggio, a 16 la prima rapina in una fabbrica. Dalle fabbriche di scarpe presto si passa ai laboratori di oro, e la vita di Felicetto cambia. Ferrari, viaggi all'estero, yacht: i soldi sono così tanti che non sa come spenderli. Tutti vogliono fare rapine con Felice Maniero, perché con lui si porta a casa la pelle e la grana. I colpi sono studiati da lui in modo meticolosissimo. "La prima cosa che valutavo era il piano di fuga, se non c'era possibilità di un piano di fuga, non veniva fatto niente", ma anche se qualcosa andava storto e si veniva arrestati, Maniero aveva escogitato un metodo efficace per uscire in fretta dai guai: usare le opere d'arte come merce di scambio con lo Stato. Qui Felice Maniero svela la dinamica di una trattativa:
All'alba del 23 febbraio del '79 alcuni uomini entrano nella Basilica di San Marco a Venezia.
"Sì".
Rubano una collana di diamanti e altre pietre preziose dal quadro di una Madonna...
"Nicopeia".
Esattamente. Valore stimato all'epoca: un miliardo di lire. Qualche settimana dopo, però, i gioielli vengono ritrovati, o meglio, fatti ritrovare. Perché avete deciso di rubare?
"Perché io avevo una pesante sorveglianza speciale, dovevo essere a casa alle 7 e venivo controllato tre volte al giorno... non ce la facevo più! E allora ho fatto fare il furto e poi ho contrattato..."
Quindi era una forma di riscatto, di sequestro con riscatto?
"Eh".
Lo Stato nega, ma in realtà c'è stato un meccanismo di questo tipo...
"Sì. M'hanno tolto la sorveglianza speciale e recuperato i gioielli".
Quindi, il furto delle opere d'arte, in genere, viene usato come forma di ricatto? [...] E con chi avveniva la trattativa? I Servizi? Le polizie?
"Ah, guardi, a me a casa ne arrivavano tre o quattro ogni giorno di potentati".
Cioè uomini dello Stato?
"Sì"
Forze dell'Ordine, Servizi...?
"Sì, sì".
Tra l'inizio degli anni '80 e la metà degli anni '90 l'organizzazione di Maniero gestisce il gioco d'azzardo in Veneto, a Modena e in Jugoslavia. Le bische devono dargli dal 40% al 50% dei guadagni. Ma Maniero riesce a guadagnare anche dal Casinò di Venezia, perché impone il pizzo ai cambisti, cioè coloro che prestano soldi a interessi altissimi ai giocatori che hanno perso tutto ma vogliono continuare a giocare. Il 10 ottobre 1980, in quella che è conosciuta come "la notte dei cambisti", gli uomini della Mala del Brenta arrivano al Casinò di Venezia, cacciano i cambisti fuori a calci e gli intimano di non farsi più vedere prima di aver trattato un accordo con loro. Per quel raid "abbiamo fatto anche due mesi di carcere" ricorda Maniero "ma ne è valsa la pena perché poi mi hanno pagato per quindici anni 2 milioni al giorno. Arrivavano circa 60 milioni di lire ogni mese in contanti, senza fare niente". A quel punto il suo potere sul Nord-Est è tale che sono le mafie a bussare alla porta del bandito Maniero. Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, i Bono e Francis Turatello, che condivide con Maniero lo stesso soprannome: Faccia d'angelo. Ma anche i Misso di Napoli chiedono di fare rapine con lui. La sua ormai consolidata fama criminale riesce ad azzerare i pregiudizi e le diffidenze dei mafiosi verso il boss del Nord. Dai più potenti boss di Cosa Nostra, camorra e 'ndrangheta Maniero era rispettato e temuto, tanto che nessun criminale poteva entrare in Veneto senza il suo sì. Al boss del Brenta non si rivolgono solo per le rapine, ma anche per la droga. A Maniero la coca arriva direttamente dalla Colombia; da lui si riforniscono per il mercato settentrionale anche camorra e 'ndrangheta. Le stesse mafie che vendevano droga in tutta Italia, sul Veneto devono fare un passo indietro, perché lì c'è Maniero. Non appena aveva visto la droga, infatti, il boss del Brenta aveva intuito non solo il grande business che avrebbe potuto ricavarci, ma anche la necessità di occupare quel mercato. Maniero si appella alla solita logica: anche se non vorresti fare soldi con la droga, se non la gestisci tu, chi la gestirà ti eliminerà.
Quando iniziate a fare traffico di droga?
"Negli anni '80 quando sono arrivati siciliani, camorristi e 'ndranghetisti a venderla".
Quindi arrivano le mafie storiche a commercializzarla, e lì capite che...
"Che non era possibile non farlo noi altrimenti avrebbero preso il mercato, e li avremmo avuti in casa!"
È vero che inizialmente lei era contrario al traffico di droga?
"Sì".
Anche perché, tra l'altro, dopo che iniziate a farlo, cominciano ad esserci in Veneto molti morti per droga...
"Eh certo..."
Quindi all'inizio c'era questa contrarietà morale quasi...
"Sì, anche perché noi, non usandola, la criticavamo. Chi prendeva droga non poteva entrare..."
Però di fronte al business non vi fermate...
"Di fronte al business e all'invasione di mafie esterne".
Quanto si ricavava dal traffico di droga?
"Molto. Guardi, il traffico di droga oggi è l'unica fonte di reddito - a parte il racket, che io non credo sia molto importante - delle mafie".
Se ci fosse stata la legalizzazione, i suoi affari ci sarebbero stati lo stesso o sarebbero stati fermati?
"I miei affari ci sarebbero stati lo stesso, perché io poco prima di collaborare ho fatto una rapina di quattro quintali di lingotti d'oro, quattro quintali e mezzo, in una banca che serviva gli orafi nel Vicentino. Però per le altre organizzazioni la legalizzazione sarebbe la ghigliottina. Mi chiedo come mai ancora non lo abbiano fatto. Beh, un narcotraffico però controllato, non è che uno va a prendersi un chilo! Deve tirar fuori i documenti, codice fiscale e tutto. E poi se uno Stato acquista la cocaina o l'eroina da un altro Stato, con 50 euro può comprarne 2 chili credo, perché non costa niente... e la può vendere anche a 100 euro, 200, tanto per dire, senza porcherie dentro. E io vorrei sapere la stragrande maggioranza degli italiani dove va ad acquistarla: se va a pagare 200-300 euro per un grammo - dipende dalla qualità - o 5 euro. Il prezzo crolla! Crolla il mercato! E quelli le rapine non le sanno fare, non sanno fare neanche i furti! Per cui vorrei vederli che si ammazzano per una... cassa di pomodoro! Ovvio che bisogna fare una cosa che è molto delicata, però visto che sono 50 anni che imperversa in tutto il mondo e in tutta Italia soprattutto - perché l'Italia è uno dei principali Paesi - perché non provano qua?"
Per cui, per un narcotrafficante, il nemico principale è la legalizzazione?
"Io ne sono certo. Mi metto nei miei panni di una volta eh..."
Quindi lei da narcotrafficante avrebbe combattuto la legalizzazione...
"Oh! Guardi che hanno il terrore della legalizzazione eh! Tutti, non solo io!"
Ma lei sta ragionando sulla possibilità di legalizzare tutte le droghe, sia leggere che pesanti?
"No, io sto ragionando su come distruggere le mafie. A un prezzo che si pagherà ovviamente..."
Da un ex trafficante non si accettano, certo, lezioni, né indicazioni politiche, ma la testimonianza in questo caso è particolarmente significativa, perché Maniero ammette che per gli affari delle mafie - soprattutto per quelli delle mafie del Sud - la legalizzazione sarebbe stata la fine. La droga della Mala del Brenta devastò una intera generazione e collocò le province venete in cima alle classifiche delle morti per droga. Rapine, furti, sequestri, droga: era in queste forme che si palesava la Mala del Brenta ai veneti, che solo molti anni più tardi, dopo il pentimento di Maniero, ne avrebbero conosciuto davvero le dimensioni e la pericolosità. Volevo capire come ha fatto un uomo del Nord, veneto ad avere il rispetto militare delle organizzazioni militari meridionali che storicamente considerano i settentrionali criminalmente incapaci di vera ferocia, deboli e al massimo in grado di evadere le tasse e far qualche rapina. La risposta la dà Francesco Saverio Pavone, giudice istruttore del maxiprocesso alla Mala del Brenta: durante un processo a Gaetano Fidanzati per traffico di droga, "mentre con altre persone che avevano reso dichiarazioni contro di lui Fidanzati ha inveito dalle gabbie, minacciandoli, bestemmiando, quando ha parlato Felice Maniero, che lo ha sempre guardato negli occhi, non ha mai detto una parola, quasi che ne temesse lo sguardo. Le dichiarazioni più pesanti contro Fidanzati sul traffico di droga sono state proprio di Maniero, e Fidanzati non ha detto neanche una parola..." Maniero fissa negli occhi i boss meridionali, lo sguardo è territorio, conosce le regole, le apprende e le mantiene. Anche sulle condanne a morte agisce come i capi di cui aveva maggior rispetto criminale, come Antonio Bardellino, gli omicidi erano circoscritti ai regolamenti di conti all'interno della banda: "Doveva essere punito o uno che ci voleva uccidere o uno che aveva tradito ed era dannoso. Se non era dannoso, veniva allontanato e non ce ne fregava niente, un divorzio totale. Invece la mafia siciliana, la camorra... ammazzano anche per soldi, ammazzano il miglior amico per convenienza", ci tiene a sottolineare il boss del Brenta, che è stato condannato per 7 omicidi. Per nessuno di questi ha provato rimorso:
È cambiato qualcosa in lei quando ha fatto l'esecuzione o in fondo non ha pesato questo gesto?
"Non mi ha fatto niente perché queste erano le nostre regole".
Dopo un omicidio non è mai successo che abbia avuto un tormento?
"No".
Solo per una morte Maniero dice di provare rimorsi: quella di Cristina Pavesi, la studentessa di 22 anni rimasta uccisa durante la rapina della Mala al vagone postale del treno Venezia-Milano il 13 dicembre 1990. Maniero pronuncia ufficialmente le sue scuse alla famiglia di Cristina, sapendo bene che le scuse non potranno riportarla indietro e che, molto probabilmente, non potranno nemmeno essere accettate. Dopo due evasioni da due diverse carceri di massima sicurezza e latitanze vissute tra lussi di ogni tipo, il capo della Mala del Brenta venne catturato l'ultima volta il 12 novembre del 1994 e sei giorni dopo decise di diventare collaboratore di giustizia. Le sue rivelazioni hanno portato alla condanna di quasi cinquecento persone e alla fine della Mala del Brenta. Maniero, con la sua perenne aria di sfida, è un uomo che - come ha descritto il giudice Pavone - ha gettato il patrimonio della sua intelligenza in imprese criminali. Imprese criminali che hanno generato un dolore esponenziale. Ecco, il dolore: tra tutte le domande che gli ho posto in questa lunga intervista, quella sul dolore è l'unica su cui l'ho sentito vacillare.
Monica Zornetta, "La resa". Tutta la verità su Felice Maniero, Faccia d’angelo. Di Valeria Merlini su “Panorama”. Il crimine piace, le sue facce intrigano, tanto che film, serie tv e fiction impazzano. Se poi il criminale in questione è soprannominato Faccia d'angelo...L'occasione per vederne le immagini è quella della fiction dedicata alla Mala del Brenta con Elio Germano, in onda su Sky cinema 1. L'occasione per leggerne è invece data dal libro La resa. Ascesa, declino e «pentimento» di Felice Maniero di Monica Zornetta. La resa (Dalai editore ) si occupa specificatamente della storia personale e giudiziaria di Faccia d'angelo, il boss della Mala del Brenta, all'anagrafe Felice Maniero. L'autrice, Monica Zornetta, non è la prima volta che si cimenta con la criminalità situata nel Nord est, perché ha già firmato precedentemente due saggi: A casa nostra. Cinquant'anni di mafia e criminalità in Veneto, con Danilo Guerretta sul fenomeno del banditismo dal dopoguerra, e Terrore a nordest con Giovanni Fasanella. Spinta dalla curiosità sul territorio in cui vive attraverso lo sguardo della criminalità, la Zornetta ha scritto il libro il giorno dopo la fine della sorveglianza speciale per Felice Maniero, quindi l'agosto del 2010. Ne è uscito un libro pieno di curiosità e di situazioni inedite, interessante e godibile. Per la sua stesura si è rifatta a sentenze, atti giudiziari, informative di polizia, e poi alle interviste, quelle fatte sul campo, a persone in carcere, a chi ha conosciuto lo stesso Felice Maniero. Un Felice Maniero giovanissimo e noncurante di trovarsi in un luogo di detenzione come quello di Fossombrone, lo hanno messo in contatto con mafiosi del calibro di Luciano Liggio piuttosto che di Bagarella e di Gaetano Fidanzati, con i quali è riuscito a crearsi un rapporto non di sudditanza, ma di collaborazione e dai quali ha appreso come organizzare una struttura concentrata sul traffico della droga. Grazie però alla sua spiccata intelligenza e al suo carisma criminale ha riunito i banditelli locali e li ha organizzati. La Mala del Brenta era mafia, come sostiene l'autrice, ed è stata l'unica associazione di stampo mafioso nata e cresciuta in territori non tradizionalmente interessati dalla mafia, cioè lontano dalla Calabria, dalla Campania, dalla Sicilia e, se vogliamo, dalla Puglia, insomma al di fuori della Mafia, della ‘Ndrangheta e della Camorra. Ciò è stato riconosciuto in tutti e tre i gradi di giudizio e Felice Maniero non è un banale criminale, ma un vero e proprio boss mafioso. L'iconografia che sta dietro alla figura di Felice Maniero, data dalle macchine veloci, dal denaro, dalle belle donne, insomma dalla dolce vita, ne ha accresciuto senz'altro il prestigio. Non si può quindi parlare di una sua caduta vera e propria anche se ovviamente la resa di Maniero allo Stato non è stata una resa da vincente, quanto piuttosto un patto. Quando agli inizi degli anni Novanta Maniero si è reso conto che qualche suo sodale voleva prendere il suo posto, ecco la resa pattuita con lo Stato, in cui Maniero consegna la sua organizzazione, ma chiede e ottiene in cambio che lo Stato gli conceda di lasciar fuori dalle indagini i suoi familiari, le persone più care e vicine, e di concedergli un patrimonio personale quantificato in 250-300 miliardi di vecchie lire. Libero dopo 17 anni, il boss della mala del Brenta ha cambiato vita. Ma qual è la verità sul boss dal caschetto, che amava l'arte e ha tenuto in scacco il nordest per vent'anni? Le ultime immagini di lui lo ritraevano sorridente e con le manette, circondato da poliziotti e giornalisti, e con il suo inconfondibile caschetto. Da allora per Felice Maniero, l'ex boss della Mala del Brenta sono trascorsi 17 anni. Anni contraddistinti da una fruttuosa collaborazione con lo Stato che gli ha consentito di tenere fuori dai processi madre e fidanzata, e di conservare al sicuro i tanti miliardi accumulati durante il suo regno criminale. Anni caratterizzati da silenzi profondi, e dalla tragica fine della primogenita Elena. Oggi, Felice Maniero è un uomo libero e un indaffarato imprenditore. Ha scontato i 17 anni di carcere e può girare senza più alcun vincolo per l'Europa, può fare affari dove più gli pare, anche in quella Croazia dove negli anni d'oro era di casa, vantando un'amicizia particolare con il figlio dell'allora presidente nazionalista Franjo Tudjman. Ha cambiato identità, ma il volto, anche se un po' più invecchiato, è sempre quello di «faccia d'angelo», del boss che ancora giovanissimo faceva affari con i più importanti «uomini d'onore» di Cosa nostra al Nord come Gaetano Fidanzati, Salvatore Enea (l'uomo ponte tra la mafia siciliana e la Banca Rasini di Milano), Alfredo Bono, che ha contribuito a esportare la mafia a Milano e, infine, con Mario Plinio D'Agnolo, il braccio destro di Francis Turatello. Con un'organizzazione di diverse centinaia di uomini, Felice Maniero ha tenuto in scacco il nordest per vent'anni con rapine miliardarie, evasioni spettacolari, sequestri di persona, omicidi, traffici di droga e di armi. Tanto controversa è stata la sua carriera criminale (come mai ha potuto delinquere per tutto quel tempo? È stato coperto da qualcuno?) quanto chiacchierata la sua scelta di collaborare con lo Stato. Oggi dice di essere tranquillo, di sapere di aver pagato poco per quello che ha fatto. Sa che sono in molti a volerlo morto. Ma con la solita sfrontatezza, dice: «Mi vogliono uccidere? Avranno l'acquolina in bocca ma non temo la morte».
Villa e viaggi nella nuova vita di Felice Maniero. È lui. È Felice Maniero, il capo della mala del Brenta. Lo abbiamo incontrato per caso in una via centrale di una città del Veneto. Lo abbiamo seguito, fotografato. Ascoltato. Perché Felicetto parla a voce alta. Scherza e sorride. Gli anni sono stati clementi con lui, è ancora bello e affascinante come un tempo. Non ci sono più i capelli a caschetto, ma la faccia d’angelo, che gli è valsa il soprannome, è rimasta. L’ex boss è tornato libero dall’agosto del 2010, con in tasca un nome e un cognome nuovi. Libero, quindi, di circolare senza vincoli in Europa, eppure è rimasto in Italia, al nord, in una delle città da dove per anni ha gestito i suoi affari. E dove oggi vive sotto protezione, dopo aver tradito tutti i suoi “uomini”. Anche quelli più fidati, come il suo braccio destro Salvatore Trosa, condannato all’ergastolo, e i “mestrini” Gilberto Boatto, Marietto Pandolfo, Silvano Maritan. Centotrenta le manette che Felicetto ha fatto scattare. Oggi, dunque, sono in tanti quelli che hanno un conto aperto con lui e che lo vorrebbero “eliminare” ed è per questo, per tutelarlo, che oggi in queste pagine non possiamo mostrare la sua faccia. Abbiamo il dovere di proteggere un ex boss che gode di una tutela riservata solo ai grandi pentiti, perché, oltre ai documenti di copertura, Felicetto adesso ha uomini delle forze dell’ordine che sorvegliano il suo nuovo domicilio, una villetta dove si è da poco trasferito, libero di dedicarsi alle sue passioni, mostre d’arte e viaggi, spettacoli teatrali e cinema. Maniero ha però rinunciato allo stipendio regolare del collaboratore. Non ne ha bisogno. Allo Stato ha restituito “solo” 30 miliardi di vecchie lire. Quasi nulla rispetto al patrimonio accumulato in meno di due decenni di malavita e di colpi miliardari, come quello al Casinò di Venezia o all’Hotel des Bains del Lido. Perché l’uomo che abbiamo seguito per giorni è stato il capo della Mala del Brenta, l’unica banda del Nord Italia che sia mai stata condannata per associazione a delinquere di stampo mafioso. La gang che ha spadroneggiato nel Nordest tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’90 contava nel periodo d’oro più di 500 “soldati”. E a comandare era lui, Faccia d’Angelo, un uomo che da solo ha trasformato una banda di ladri di polli in una holding del crimine organizzato. Quella di Felice Maniero, infatti, è stata una società del crimine che controllava il mercato dell’eroina e della cocaina, che metteva a segno rapine e sequestri di persona. «Era in affari anche con il figlio di Franjo Tudjman, il presidente della Croazia», ci dice Giuseppe Pastore, 54 anni, ex braccio destro di Faccia d’angelo. Dei suoi quattro figli, ognuno avuto da una donna diversa, l’unica a portare il cognome dell’ex boss era Elena, la figlia di Agostina Rigato. L’unica a pagare con la vita le scelte del padre. «Felice la chiamava principessa», dice ancora Giuseppe Pastore, «volò giù dalla finestra di una mansarda a Pescara, nel febbraio del 2006». Non aveva neanche trent’anni. Faceva la modella e viveva fra Cortina e Venezia. I suoi amici la conoscevano come Eva Mariani. Un altro nome per proteggersi dal cognome del padre. Il suo corpo fu ritrovato a diversi metri dal muro del palazzo, come se fosse stata gettata dalla finestra da due o più persone per un volo di 15 metri. Solo una settimana prima di quello “strano” suicidio avevano cercato di far saltare in aria Maniero con una carica esplosiva, nei pressi dell’aula bunker di Mestre. «Avevo incontrato Elena pochi giorni prima del suo suicidio», ricorda Giuseppe Pastore, «a cena, in un ristorante di Pescara. Era tranquilla. E c’era anche Felice, suo padre». Perché l’ex boss dalla figlia non si era mai separato. Viveva a pochi chilometri da lei, a Spoltore (Pescara). I funerali si svolsero in una località segreta, nella stessa cittadina dove la bella Elena è stata sepolta, col suo vero nome. Un piccolo cimitero di campagna, ancora una volta a pochi chilometri dalla casa dell’ex boss. Perché lui dalla sua principessa non vuole allontanarsi. Un’altra figlia, di 13 anni, ce l’ha da Marta, che lui considera la donna della sua vita e vive ancora con Maniero: con lei era stato sorpreso e arrestato a bordo dello yacht Lucy, a Capri, nell’agosto 1993. Riuscì a evadere, fu riacciuffato. Tre mesi dopo l’ultimo arresto, alla fine del 1994, Felice Maniero si pente, fa i nomi dei complici, fa ritrovare i corpi dei suoi nemici, uccisi e sepolti sugli argini del Brenta. Sette gli omicidi di cui si accusa, 17 gli anni di carcere che fu condannato a scontare. Da collaboratore, per cui fu presto messo ai domiciliari in una villetta alle porte di Treviso. Perché Maniero trattò con lo Stato. E raggiunse un accordo che servì a tutelare la madre, la sorella e il cugino. Ma soprattutto se stesso e i suoi soldi. «Si era già preparato al pentimento», racconta Giuseppe Pastore, «aveva già previsto tutto, perché Felice è sempre stato un freddo calcolatore». Quel Maniero che oggi ha cambiato vita, ha un’azienda di distributori d’acqua e un solo socio, se stesso. Micaela Landi per Visto, 7 marzo 2014, ripreso su “Il fronte del blog".
Report torna anche sugli indirizzi fittizi dati dai comuni ai senza fissa dimora, dove si era scoperto che solo a Roma ci avevano piazzato la sede 2500 fra aziende e amministratori di società, diventando di fatto irreperibili al fisco e alla giustizia. Oggi Report scopre che in un piccolo paesino del Veneto, in uno di questo indirizzi per i senza tetto, ha messo la residenza il boss della mala del Brenta: Felice Maniero. Che utilizzando anche una falsa identità è anche il rappresentate legale di una società che fa affari con la pubblica amministrazione fregiandosi di marchi ministeriali. E finora nessuno si accorto di nulla!
Felice Maniero ora fa l'imprenditore: "Mi arricchisco grazie allo Stato". Nella puntata di Report del 7 giugno 2015 l’ inchiesta sull'ex boss della "mala del Brenta", condannato a 33 anni per vari reati, evaso due volte e poi divenuto collaboratore di giustizia, scrive Luca Romano su “Il Giornale”. Ricordate Felice Maniero, l'ex boss della "mala del Brenta"? Soprannominato "faccia d'angelo" (gli hanno dedicato anche una fiction) nella sua lunga carriera criminale ha commesso rapine, assalti a portavalori, colpi in banche e uffici postali, ed è stato accusato di omicidi, traffico d'armi, droga e associazione mafiosa. Arrestato nel 1980, evase due volte. Condannato a 33 anni, la pena gli venne ridotta a 20 anni e quattro mesi. Nel febbraio del 1995 decise di collaborare con la giustizia e, da lì in avanti, per lui iniziò una nuova vita. Dal luglio 2010 è in regime di semilibertà, con una nuova identità. Si torna oggi a parlare di lui perché Report ha scoperto alcune cose interessanti su di lui. Vediamo di cosa si tratta. L'ex "faccia d'angelo" ha la residenza in un paesino del Veneto, Campolongo Maggiore (Venezia). Ufficialmente il suo indirizzo corrisponde a quello di un rifugio per senza tetto. Ma la cosa più sorprendente è che, attraverso una finta identità (Luca Mori), è il rappresentate legale di una società che opera nel settore delle acque depurate e, ovviamente, fa affari con la pubblica amministrazione, utilizzando anche "marchi ministeriali". Un bel cambiamento per un uomo che, nella sua prima vita, è stato un vero e proprio simbolo vivente della criminalità. A chi lo accusa di millantare il "patrocinio dello Stato" lui replica con fermezza: "Nessun sotterfugio, non c'è niente... Si immagini se io vado a fare sotterfugi o robe non legali". A quanto pare l'azienda gode del patrocinio del Ministero delle politiche agricole. Di fronte alla smentita, un po' imbarazzata, che arriva da Roma, Maniero precisa: "Non sono un bugiardo, il ministero è un furbacchione. Io ex, ex di tutto, di bande armate... sono sincero, il ministero è proprio un pinocchio lungo quanto una casa".
Report scova Maniero: è residente a Campolongo e si occupa di acqua. «Non cercatemi, sono in pericolo», scrive “Il Gazzettino”. Si chiama Luca Mori e abita in via della casa comunale 7 (una via inesistente, istituita dal Comune per i senzatetto) a Campolongo ed è un imprenditore nel settore delle acque depurate, con in tasca un paio di brevetti sul sistema di filtraggio. Neppure il sindaco Alessandro Campalto dice di conoscerlo ma Luca Mori non è altri che Felice Maniero, l'ex boss della Mala del Brenta. A scoprirlo i giornalisti di Report, Giulio Valesini in particolare (la puntata andrà in onda stasera), che sono anche riusciti a parlare con lui: Maniero conferma, è lui ad avere in mano il business delle casette delle acque che vediamo in moltissime città venete, è lui a chiudere i contratti con tante amministrazioni pubbliche in tutta Italia anche grazie al patrocinio del Ministero delle politiche agricole. Maniero nell'anteprima della puntata risponde al giornalista: «Il patrocinio l'ha chiesto mio figlio e gliel'hanno dato due anni fa». In realtà pare che il ministero non abbia mai dato alcuna autorizzazione all'azienda di Maniero. Riguardo invece un'intervista apparsa oggi su un quotidiano nazionale, circa il medesimo business delle casette dell'acqua, l'ex boss della mala del Brenta ha voluto replicare con una nota all'Ansa: «Prego vivamente i giornalisti italiani - sostiene - quando decidono di pubblicare articoli in merito al sottoscritto di non andare oltre al Felice Maniero, ulteriori dati riguardanti nomi, citare i figli, luoghi, ecc. rischiano di mettere a repentaglio la sicurezza, già molto fragile, della mia famiglia. Da circa vent'anni non abbiamo alcuna protezione. Anche le mie fotografie pubblicate - conclude Maniero - sono un pericolo reale per noi, la mia fisionomia purtroppo non è molto cambiata».
Felice Maniero: "Sì, ora mi arricchisco grazie allo Stato". Boss e pentito ma adesso anche imprenditore. Il cervello della mafia del Brenta dice la sua verità: "Non c'è nessun sotterfugio, figuriamoci se faccio robe illegali". L'inchiesta di Report su Rai Tre, scrive Enrico Bellavia su "La Repubblica". Felice Maniero risponde tranquillo, perfino spavaldo, come è nel personaggio. E impiega meno di cinque secondi a dire candidamente che sì, Luca Mori è lui, Felice Maniero. Eccolo "Faccia d'angelo", l'ex boss del Veneto, il cervello della mafia del Brenta, uno dei più sorprendenti misteri della storia criminale di questo Paese. Nella sua vita spericolata per ogni impresa c'è sempre l'ombra di una mano amica, di un patto o di un ricatto, di un accordo o di un'alleanza inconfessabile. Da boss e da "pentito" non ha mai smentito la fama di uno dalle aderenze impensabili. E quell'aura di impunità non lo abbandona. La terza vita di Maniero, l'ex boss della mafia del Brenta. Felice, il bandito col volto da bambino, che ha fatto di quel Nord Est, raccontato tra gli altri da Massimo Carlotto, scandagliato da Ilvo Diamanti, investigato da Monica Zornetta, il polo più decentrato della mafia, non si è mai mosso da lì. Con un occhio alla "tradizione" siciliana e la mente aperta ai traffici di una terra di confine dalle mille opportunità. Neanche adesso che ha 60 anni ed è da un pezzo nella sua terza vita. Fa l'imprenditore nel settore delle acque depurate, ha in tasca un paio di brevetti sul sistema di filtraggio. E, naturalmente, fa ottimi affari con le amministrazioni pubbliche. Dall'Emilia alla Puglia. Ci riesce vantando il patrocinio, proprio così, del Ministero delle politiche agricole che in teoria non dovrebbe concedere patrocini ad aziende con fini di lucro, e il bollo di quello dello Sviluppo Economico. Adesso, naturalmente, al vertice dei ministeri negano di avergli mai concesso alcunché. Come non risulta la certificazione sanitaria che pure la sua azienda vanta, sostenendo di essere accreditata anche presso il ministero della Salute. Così, come è sempre stato, Felice Maniero può raccontare la sua verità: "Il patrocinio l'ha chiesto mio figlio e gliel'hanno dato due anni fa". Non c'è niente di strano, a sentire lui: "Non c'è sotterfugi, non c'è niente... Si immagini se io vado a fare sotterfugi o robe non legali". Precisa puntiglioso, del resto, che la dizione del ministero è quella di "Politiche agricole e alimentari", poi, di fronte alla smentita di Roma ribatte: "Io non sono un bugiardo, il ministero è un furbacchione. Io ex, ex di tutto, di bande armate... sono sincero, il ministero è proprio un pinocchio lungo quanto una casa". Parla Maniero, ma senza concedersi una parola in più del necessario. Lo fa con il giornalista di Report, Giulio Valesini, che lo ha scovato, pedinato e filmato a distanza per proteggerlo, fino a intervistarlo a pochi metri di distanza - il servizio va in onda questa sera - con l'unica misura di sicurezza che l'ex boss si è concesso: il telefono. Per dire e non dire, alla sua maniera. Perché Felice è un uomo libero, fuori dal programma di protezione per i collaboratori di giustizia, nel quale è entrato al tramonto della sua invenzione criminale: la mafia del Brenta, 500 uomini, tra affiliati, gregari e fiancheggiatori, sul modello delle cosche dei Badalamenti e dei Fidanzati. Ha tradito nemici e amici, ha consegnato 30 miliardi di vecchie lire del suo patrimonio, ha rinunciato alla sua villa ma non si è mai allontanato troppo dal suo territorio. È lì che il suo astro è cresciuto, da nipote di ladro nelle paludi di una regione povera, accompagnando il boom che ha segnato anche la sua ascesa: rapine, estorsioni, sequestri, droga e armi. Soprattutto queste con la vicina ex Jugoslavia. E accordi, tanti, con pezzi dello Stato, non solo italiano. In qualche modo, prima di Riina e dell'attacco al patrimonio artistico, fu Felice Maniero a escogitare un sistema per costringere le istituzioni a trattare con lui. Nell'ottobre del 1991, rubò perfino la reliquia del mento di Sant'Antonio a Padova, per restituirle 71 giorni dopo, incassando un dividendo che nessuno ha mai veramente svelato. Per riciclare, lui cultore della pittura, si era buttato sull'arte: dipinti di De Chirico e Renoir, furono ritrovati in una banca di Lugano. Di protezione ha goduto a tutti i livelli. Lasciando insalutato ospite le prigioni di Fossombrone e Padova. Latitante, poi a rischio ergastolo, quindi "pentito", gradasso e spendaccione, al punto da farsi scaricare dallo Stato, per poi rientrare sotto protezione, testimoniare contro i suoi complici e tornare a godere di sconti di pena e impunità riservati a chi collabora. Ma se lo si può immaginare nascosto chissà dove a camuffare il suo aspetto e a vivere del poco che gli è rimasto, ecco Felicetto "faccia d'angelo" pronto a sorprendere. Dicono che gran parte del frutto della sua collaborazione sia l'immenso patrimonio accumulato e messo al sicuro, dopo la consegna degli spiccioli. Ma anche così la storia è incompleta. Perché quel che l'inchiesta di Report racconta è che Maniero non si è affatto nascosto. Anche la sua terza maschera, quella di Mori ha una sua residenza ufficiale quanto bizzarra: Mori risiede a Campolongo Maggiore, dove Maniero è nato, cresciuto e si è allargato. Una procedura anomala, visto che nel documento c'è scritto che abita in via della Casa Comunale 7, ovvero, all'indirizzo fittizio che l'amministrazione riserva ai senzatetto. "A me - dice lui - il comune di Campolongo me l'ha spostata lì (la residenza, ndr) ma non so neanche che posto è. Vada al Comune e gli dica come mai è residente a via Della Casa Comunale che non esiste?". Al Comune, che pure prova a scrollarsi di dosso il fardello di una notorietà imbarazzante, nessuno sa nulla e nessuno si è chiesto chi fosse davvero Luca Mori, né tantomeno l'ex braccio destro di Maniero, Fausto Donà, stesso indirizzo fittizio del boss. E a ben vedere non lo ha fatto neppure chi gli ha omologato i brevetti e chi, stando a quanto dice lui, ha accreditato la sua azienda, avviata in società con il figlio, presso i ministeri delle Politiche agricole e dello Sviluppo economico, dove pure qualche veneto di successo è passato. Così Felice si è inventato una vita da imprenditore, un senzatetto con i brevetti, per lanciarsi all'assalto di un settore redditizio. I suoi box popolano i comuni di una fetta d'Italia e dai distributori scorre acqua che assicurano essere limpida e impalpabile. Proprio come lui.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
LA FORZA VIOLENTA DELLA LEGGE.....
"Per una notte sequestrato dalla polizia". La denuncia di un giornalista di Rovigo. Era andato con gli amici alla festa del Redentore di Venezia. Alle due di notte era seduto sul treno per tornare a casa. Ma un poliziotto, infastidito da una foto che lui aveva scattato, gli ha intimato di scendere. Insultato, strattonato, il braccio ritorto dietro la schiena, è stato trattenuto in cella di sicurezza fino alle cinque del mattino. «Ho avuto paura», racconta. Ma anche il coraggio di sporgere denuncia. E di raccontare quello che è successo. Perché non si ripeta, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Succede così. Che sabato 19 luglio 2014 Francesco Saccardin, un giornalista di Rovigo, va con gli amici alla festa del Redentore di Venezia. Fuochi d'artificio, balli, spettacoli. Succede che alle due di notte lui e i compagni tornano in stazione a Santa Lucia, per salire sul trenino speciale di cui avevano già comprato il biglietto. Salendo sul predellino, Francesco si ferma a scattare una fotografia alla folla accalcata sui binari e alla Polizia Ferroviaria che cerca di contenerla. Succede che un agente lo vede e gli fa gesto di non fotografare, lui sbuffa, entra, e si siede con gli amici. «Pochi secondi dopo il poliziotto è sul vagone, a un centimetro da me. Mi intima di scendere. Chiedo perché, rispondo, insiste, inizia ad alzare la voce, lo seguo». Succede che un minuto dopo è sul binario, il braccio sinistro ritorto dietro la schiena, circondato dopo poco da altri due agenti. Agli amici viene impedito di scendere dal vagone. Il treno parte. E Francesco resta solo con la polizia nella stazione completamente svuotata. «E lì sono iniziati gli insulti», racconta: «”Figlio di puttana”, “pezzo di merda”, “un braccio ci mettiamo poco a rompertelo”, “tanto al lavoro domani non ci vai”». A strattoni i tre agenti lo trascinano fino al posto di polizia della stazione. Lui cerca di spiegarsi, inizia a dire: «Sono un giornalista, lasciatemi stare». «Quando sono entrato ho iniziato a spaventarmi veramente», racconta: «Mi hanno fatto togliere le scarpe, buttato a terra il cellulare, il telefono, il tutto senza un verbale di perquisizione, niente. Ero in mano loro». Sempre stringendoli il braccio dietro la schiena. «Faceva male. Continuavano a dirmi: “stai tranquillo, ci mettiamo un attimo a romperlo”». Gli chiedono di dire scusa. Dice scusa. Ma lo mettono lo stesso in una cella di sicurezza, col piantone alla porta. «Ho perso la nozione del tempo», continua Francesco: «Ero seduto, senza acqua, nulla, l'unico bicchiere me l'ha portato un agente impietosito alle cinque del mattino». Già, perché su quella sedia, Francesco - braghette corte, maglietta, scarpe da ginnastica, come si conviene per andare a una festa di piazza – resta per più di due ore. «Quando mi hanno convocato per rilasciarmi mi hanno ridato il cellulare: c'erano 40 chiamate senza risposta ed erano le 5 del mattino». Davanti a lui un foglio: «Era la denuncia. Per “ubriachezza manifesta”, quando neanche mi avevano fatto un alcool test, e per “oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale”». Ma lui non firma: «Primo, per l'orario: c'era scritto che mi dimettevano alle 2.30/3. Erano le cinque». E poi per il contenuto: «Ubriaco? Claudicante? Con l'alito pesante? Ero stato tutto il pomeriggio con gli amici, stavo tornando a casa con loro, autonomamente. Sì, è vero, forse non mi ero lavato i denti...». Ma la cosa più grave è la denuncia penale per resistenza: «Quando sono stato tirato giù dal treno, insultato, strattonato, tenuto per ore in cella senza niente di scritto a mio carico». Il giorno dopo, al Pronto Soccorso («Ho pagato il ticket, 60 euro, non ho esenzioni»), gli danno tre giorni di prognosi per il braccio, “trauma distrattivo”, c'è scritto. Ma dopo tre giorni gli aumentano il riposo a 10: il trauma non è andato a posto. «Ancora mi fa male, non riesco a piegarlo», racconta: «Ma devo lavorare lo stesso, non mi posso permettere di star fermo». Con il referto medico, ha sporto denuncia ai carabinieri di Rovigo per quanto successo alla stazione di Venezia. «Anche se ho testimoni solo fino al momento di scendere dal treno. Poi solo la mia parola contro la loro, e la prognosi dell'ospedale», ricorda. Francesco Saccardin ha 38 anni. È un giornalista di cronaca nera, collabora con il quotidiano “ Rovigo Oggi ”, è stato per un anno portaborse di un deputato del Partito Democratico, Diego Crivellari. E da giovane, fra il '97 e il '99, ha fatto il servizio militare. Nel corpo della polizia celere. Insomma, conosce le istituzioni. Le rispetta. «Addirittura prima di ricominciare a lavorare mi sono presentato dai carabinieri, e in questura, per spiegare quello che era successo», racconta: «Perché non avrei voluto creare imbarazzi: col mio lavoro, la cronaca nera, sono sempre fra loro. Abbiamo un ottimo rapporto». L'esperienza di vent'anni fa nella celere non gli ha impedito però di avere paura, paura vera, per quelle ore nella cella di sicurezza, senza scarpe, senza documenti, senza testimoni, senza cellulare: «Sono stato in balia di qualcuno che avrebbe potuto farmi qualsiasi cosa in qualsiasi momento», prova a raccontare, tradendo ancora nella voce l'agitazione di quel momento, nonostante siano passate ormai due settimane: «Ho avuto paura sì». Tutto questo è successo a lui. Che è un giornalista professionista – il presidente dell'Ordine del Veneto avrebbe già detto che si costituirà parte civile nel processo – che ha conosciuto per esperienza “l'altra parte”, che non è “un rompiballe” come dice lui, che ha continuato a dire chi era, a chiedere ragioni, a provare a divincolarsi, ma non essendo “grosso”, come spiega, non ha potuto fare molto, che stava tornando a casa da una festa con gli amici. «In cella ha avuto modo di pensare ad Aldrovandi e Cucchi», scrivono i suoi colleghi su Rovigo Oggi. «Andrò avanti in questa storia», promette lui: «Per tutti quelli a cui potrebbe succedere. E andare peggio di come è andata a me».
Trascinato giù dal treno senza apparente motivo, insultato e minacciato, viene segregato in cella di sicurezza: alla fine si ritrova indagato per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, scrive “Rovigo Oggi”. Il fattaccio è accaduto la notte del Redentore alla stazione ferroviaria di Venezia. Il giornalista è pronto a rientrare a casa con il convoglio speciale quando viene intercettato e poi fermato dalla Polfer, che dopo averlo immobilizzato e trascinato, lo tratterrà per diverse ore senza specificarne il motivo. Indagato dalla Polizia, a sua volta il giornalista dopo il referto del Pronto soccorso, sporge querela ai Carabinieri. "Tirato giù a forza dal treno e trascinato, braccia dietro alla schiena, al posto di polizia ferroviaria dove sono stato trattenuto senza motivo per una notte intera". Un vero e proprio incubo che ricorderà a lungo quello vissuto da un giornalista polesano la notte del Redentore. Dopo una giornata a Venezia ed aver assistito con alcuni amici al celebre spettacolo pirotecnico nel bacino di San Marco, arriva alla fine il rientro in stazione, a S. Lucia, per prendere il treno. Qui, però, accade un episodio che mai si sarebbe aspettato: senza motivi apparenti, se non quello di aver scattato una foto con il cellulare alle centinaia di persone presenti che a frotte prendono d'assalto i convogli, il giornalista viene puntato da un poliziotto impegnato nel cordone di filtraggio della folla verso i treni. Sono le due del mattino, il giornalista sale su un vagone e viene seguito dall'agente che si precipita sul mezzo a chiedergli i documenti. "In pochi istanti vengo trascinato a forza giù dalla carrozza sulla quale sono salito regolarmente munito di biglietto, - racconta il giornalista - vengo bloccato con il braccio torto dietro la schiena, e sono accerchiato da quattro poliziotti che cominciano a insultarmi e a minacciarmi pesantemente, vengo trascinato a forza e senza nessun motivo verso il posto di polizia mentre il treno, ormai perso, prende la via di Adria". Questa dinamica è riportata anche nella denuncia che il giovane sporge qualche giorno dopo ai carabinieri. "La situazione già di per sé paradossale, degenera del tutto all'interno dell'ufficio - continua il racconto - sempre col braccio bloccato dietro la schiena mi rovesciano le tasche, mi buttano il portafogli a terra, mi fanno togliere le scarpe come se fossi stato un delinquente e soprattutto dopo altri insulti e altre minacce e mi mettono in cella di sicurezza dove pretendono le mie scuse nei confronti della polizia". "Ad un tratto, la follia degli agenti pare placarsi" racconta il giovane che in cella di sicurezza ha modo di pensare ai casi Aldovrandi e Cucchi. "Rimango ancora scalzo, senza aver potuto avvisare nessuno e senza che nessuno mi abbia detto per quale motivo sono trattenuto contro la mia volontà". Senza un goccio d'acqua per lunghe ore, soltanto qualche minuto prima delle cinque del mattino, tre ore dopo il fermo, viene prodotta una documentazione che il giornalista si rifiuta di firmare. "Al di la' degli orari sballati - nelle carte si legge che il rilascio avviene tra le 2.30 e le 3 - mi ritrovo sanzionato per ubriachezza manifesta senza essere stato sottoposto a nessun alcoltest ma soprattutto denunciato penalmente per resistenza o oltraggio a pubblico ufficiale". Per questa accusa sarà chiamato a difendersi in un'aula di tribunale. Tornato a casa il giornalista si è presentato al Pronto soccorso, dove gli è stato diagnosticato un trauma distrattivo al braccio sinistro con prognosi di tre giorni e non ha esitato a sporgere una contro querela ai danni degli agenti che lo hanno "sequestrato" per tre ore.
A Fabio Ballestriero, poliziotto e sindacalista del Sap, non è piaciuto il tono con cui i giornali hanno affrontato la vicenda del reporter polesano fermato a Venezia la notte del Rendentore, trattenuto in camera di sicurezza e “insultato e minacciato”, come ha prontamente denunciato ai carabinieri, dalla Polfer della stazione di Santa Lucia, scrive “Rovigo Oggi”. “Il caso suscita non poche perplessità e qualche interrogativo” commenta Ballestriero. Fabio Ballestriero del Sap di Rovigo nella sua carriera ha avuto spesso occasione di rapportarsi con i giornalisti, compreso il polesano che a Venezia, cercando di rincasare dalla festa del Redentore, ha vissuto una "notte particolare" in compagnia della Polizia. Sul caso, Ballestriero difende i colleghi sostenendo un eccessivo accanimento nei confronti delle Forze dell’ordine: “La vicenda del giornalista rodigino in forza alla testata Rovigooggi, trattenuto la notte del 20 luglio presso il Posto Polfer di Venezia e strillato sulla prima pagina di qualche giornale locale e nazionale come sequestrato dalla Polizia, suscita innanzitutto non poche perplessità e qualche interrogativo. Non dovrebbe forse essere improntata a maggior prudenza la pubblicazione di una notizia, significativamente delicata, dato che si tratta, allo stato attuale di una denuncia e non di un procedimento penale ancora instaurato, ove vi sono imputati e altro? Oppure, la forte pressione mediatica è il modo con cui si ritiene di poter condizionare l’attività giudiziaria?”. Il sindacalista della polizia rodigina non ritiene opportuno entrare nel merito della vicenda: “Nutro troppo rispetto innanzitutto per i miei colleghi di cui conosco la professionalità e scrupolosità, che mi consente di poter dire che se hanno contestato al giornalista l’ubriachezza manifesta ed il reato di resistenza ed oltraggio a pubblico ufficiale, reato per il quale vi è l’obbligo (assolto) di informare il magistrato di turno (che tra l’altro può disporre l’immediata liberazione dell’indagato, qualora ritenga non vi siano gli estremi), evidentemente ve ne erano le ragioni”. “Certamente non giova a tutti noi cittadini - sostiene Ballestriero - che su una questione così delicata, ancor prima che si parli almeno di ipotesi di reati commessi ed acclarati nelle previste sedi giudiziarie, si sbattano i “mostri” in prima pagina, in specie se appartenenti alle Forze di Polizia, pescando e rimescolando il torbido senso di insofferenza verso le Istituzioni che innatamente noi italiani ben sappiamo coltivare”.
LE DONNE DEI POTENTI: CLAUDIA MINUTILLO E LE ALTRE.
Le cose di giustizia al femminile, purtroppo, non sono una barzelletta. Anzi, oltre la gonna c'è di più.
La segretaria che accusa Galan (e comandava gli assessori). La «Dama nera», l’ex dattilografa di Giancarlo Galan, ha raccontato ai giudici che non si trattava di bustarelle sporadiche a Galan e Chisso ma di «un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano i soldi», scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Alza il culo e vieni qua!». Non avete mai immaginato una segretaria dare ordini così a un assessore regionale? Dovete leggere le carte dell’inchiesta sul Mose. Dove Claudia Minutillo tutto pare, tranne che la dattilografa di Giancarlo Galan. Non per altro, prima di confessare tutto assumendo il ruolo di «gola profonda », era chiamata la «Dama Nera». Nera, era nera senz’altro. Neri gli occhi, neri i capelli, neri i tailleur a tubino che indossava sempre come una divisa, neri i gioielli e nere talvolta le unghie laccate. Che fosse una «Dama» in senso stretto, piuttosto, è tutto da dimostrare. Anzi, per i modi spicci e la brutalità del linguaggio emerso dalle intercettazioni telefoniche e ambientali, linguaggio che potrebbe far arrossire un camallo sboccato, la protagonista della nostra storia potrebbe intonare l’inno della Berté: «Non sono una signora / ma una per cui la guerra / non è mai finita…». Sempre in guerra, la Minutillo. In guerra per arrivare più in alto, per avere più potere, più soldi, più appalti… Ma soprattutto in guerra prima per avvicinarsi il più possibile a Giancarlo Galan ai tempi in cui era non solo «el Governador » ma il Re Sole del Veneto azzurro e poi per allontanarsene più in fretta possibile nei giorni del precipizio. Da fedelissima tra i fedelissimi a «infedelissima » tra gli infedeli, decisa a cavarsela scaricando tutto sugli altri. Primo fra tutti, si capisce, l’uomo che l’aveva issata ai vertici del potere (quello vero, non quello formale) della Regione. Come fosse nella sua prima vita, dedicata al lustro del «Colosso di Godi», nomignolo guadagnato dall’ex presidente per l’amore godereccio per la vita, lo racconta Renzo Mazzaro nel libro «I padroni del Veneto», che anticipò molto di quanto è venuto a galla in questi giorni: «Galan riceveva gli ospiti stravaccato sul divano e si vedeva subito che non era uno stakanovista. Claudia Minutillo era sempre nel raggio di due metri, la sua ombra. La chiamavano la Dark Lady e non solo perché vestiva di nero: fisico asciuttissimo, elegante, di rado sorridente, teneva le chiavi di tutti gli accessi al presidente. Fino a diventare troppo ingombrante». Spiegherà ai magistrati Piergiorgio Baita, l’uomo forte dell’impresa di costruzioni «Mantovani» e del Consiglio Direttivo del Consorzio Venezia Nuova nonché generoso «bancomat» dei politici coinvolti, che la «Minu», come la chiamavano gli amici, «era l’assistente del Presidente Galan. Ma il mercato ovviamente la chiamava la vice Presidente, nel senso che era noto che qualunque richiesta, appuntamento, atto richiesto al Presidente Galan veniva veicolato attraverso la dottoressa Minutillo». Rileggiamo? «Il mercato»: questo era ciò che ruotava intorno ai vertici della Regione. Un mercato. Dove tutto o quasi tutto appariva in vendita. Con le regole della sana concorrenza sfalsate da pressioni, interferenze, «regali di Natale», bustarelle. Giancarlo Galan, che il collega calabrese Chiaravalloti definì un giorno «un simpaticissimo e valente pescatore d’altura che talora si dedica con pari successo alla politica», era il Dominus. L’uomo di fiducia del Cavaliere e in quanto tale il capo indiscusso del partito, della Regione e del Veneto. Ma la bricola cui dovevano tutti ormeggiare la barca, negli anni d’oro, era lei. La «Minu», che i nemici avevano ribattezzato per quella passione per il nero col soprannome di «Morticia ». La padrona di casa della famiglia Addams. Rideva allora il governatore, ammiccando agli amici: «Sono un liberale, libertario e libertino, nel senso settecentesco del termine». Certo è che la sua futura moglie ebbe a un certo punto il dubbio che il «libertinaggio» potesse essere equivocato. E così un bel giorno, racconta ancora Mazzaro, decise di liberarsi di quella donna troppo attaccata al marito: «Sandra Persegato pone il classico ultimatum: o lei o me. Giancarlo non ha scelta. Claudia Minutillo ci resta malissimo, ma nel cambio guadagnerà: comincia con la già ricordata Bmc Broker di San Marino, poi ingrana la quarta con Adria Infrastrutture, società lanciata oggi negli appalti stradali». Le chiederanno i magistrati: «Insomma, da quel momento lei passa dall’altra parte, nel senso che passa a lavorare per il Baita». «Esatto». La storia sarà ricostruita passo passo dall’Espresso sotto un titolo indimenticabile, «Claudia, la segretaria ne ha fatta di super strada». Trampolino di lancio, ovvio, quel ruolo di segretaria: «La signora sfoggiava modi spicci e un’aria vagamente manageriale, ma certo nessuno si aspettava di ritrovarla, a quattro anni di distanza, addirittura a capo di un piccolo gruppo finanziario-industriale. Costruzioni, immobili, editoria: un network di società, tutte targate Minutillo, nate e cresciute dopo che la collaboratrice di Galan ha lasciato il suo incarico in Regione». Certo è che, fosse o meno ancora la segretaria di Galan, la Minutillo è rimasta per «il mercato» la «vicepresidente». Basti leggere negli atti processuali il modo in cui trattava l’assessore alla Mobilità e alle Infrastrutture, Renato Chisso, il cui potere era destinato a crescere dopo lo stizzito addio del «Galan Grande» alla presidenza della Regione. Le serve che l’assessore metta una firma su un’autorizzazione? Prende il cellulare e gli intima: «Scusa, vai sempre a mangiar da Ugo, alza il culo e vieni qua». E il succubo Renato, «che era a mangiare in ristorante», scrivono i magistrati, si affrettò a passare dove gli era stato chiesto «rassicurando che non vi sarebbero stati problemi». Insomma, annotano gli inquirenti, «le modalità perentorie con cui la Minutillo dice a Chisso di venire subito sono più proprie del modus di riferirsi ad un dipendente subordinato che a un assessore regionale ». E non è un caso isolato. Un’altra volta, la donna «chiama a rapporto» l’assessore nel proprio ufficio di «Adria Infrastrutture », lo fa aspettare fuori dalla porta finché non finisce una telefonata e dopo averlo fatto accomodare gli «impartisce una serie di disposizioni» delle quali l’uomo forte di Forza Italia per le infrastrutture venete prende diligentemente nota dimostrando la sua «subordinazione totale» alla società Mantovani e a «Morticia». La quale un’altra volta ancora, impaziente per certe pratiche non ancora sbloccate, sbotta con la consueta signorilità: «Cazzo, cerca di lavorare! Sono tutti incazzati neri». Finché la sua seconda vita di imprenditrice e, come confesserà, prestanome di altri, non si conclude il 28 febbraio 2013, lo stesso giorno dell’arresto di Piergiorgio Baita, con le manette. Accompagnate da una serie di rivelazioni contenute nell’ordinanza di custodia. Come quella che all’indomani della visita dei finanzieri negli uffici del presidente della Mantovani, il riciclatore sanmarinese William Colombelli registra una telefonata in cui scandisce a Claudia: «Vi siete portati a casa la bellezza di 8 milioni di euro in sei anni, che io ti ho consegnato personalmente e che tu hai messo da qualche parte!». Ed è lì che la «Minu», cercando di togliersi dagli impicci, avvia la sua terza vita. Vuotando il sacco. Fino a raccontare ai giudici che non si trattava di bustarelle sporadiche a Galan e Chisso ma di «un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano dei soldi». Insomma, «pagamenti regolari». «Come uno stipendio?», chiede il magistrato. «Sì, di fatto». Quanti soldi? Tantissimi. Eppure, pareva non bastassero mai: «Baita a volte si lamentava di quanto veniva a costare Galan». Come nel caso, rivela «Morticia», dei lavori di ristrutturazione della villa sui colli Euganei: «Non so se avete mai visto la casa, ma i lavori di ristrutturazione di quella casa lì credo che abbiano comportato spese elevate, intorno a qualche milione intendo…». Giancarlo Galan nega, nega, nega. Disperatamente. Quando mai se lo sarebbe aspettato, di dover ballare il «cha-chacha della segretaria»?
“Le furono consegnati 300 mila euro per la campagna di Giancarlo, che però non li ebbe mai. Chiedeva una sorta di ticket a chi voleva incontrare il presidente”. La signora Galan all’attacco della Minutillo, uno dei tre supertestimoni dell’accusa. Altre due segretarie confermano...scrive Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera”. «Nella barca dell’imprenditore Andrea Mevorach venni a sapere che quest’ultimo aveva consegnato una grossa somma di denaro, 300 mila euro, alla Minutillo (Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan, ndr) per la campagna di Giancarlo, ma questo soldi non vennero dati a mio marito». A sostenerlo è la moglie di Giancarlo Galan, Sandra Persegato, che mette nero su bianco la sua testimonianza a favore del marito nell’ambito delle indagini difensive condotte dall’avvocato Antonio Franchini, legale di Galan. Il verbale è stato inserito in un corposo memoriale depositato al Tribunale del Riesame di Venezia che oggi deciderà sulla richiesta di scarcerazione dell’ex governatore del Veneto, arrestato per l’inchiesta sul Mose e attualmente detenuto nel carcere milanese di Opera. La signora Persegato parla molto di Claudia Minutillo, l’ex segretaria di Galan, uno dei tre supertestimoni dell’accusa. «Solo lei poteva organizzare e gestire gli incontri con il presidente e solo per le persone che lei riteneva», aggiunge. E racconta che «mi riferirono che per incontrare il presidente versavano alla Minutillo tra i 500 e i mille euro, come una sorta di ticket». Secondo gli investigatori si tratta di un chiaro tentativo di screditare la supertestimone «le cui dichiarazioni contro Galan, che deve rispondere di corruzione, sono state tutte verificate e riscontrate e confermate da almeno un paio di giudici. È quindi considerata attendibile». Nello stesso memoriale sono state inserite le testimonianze di altre due responsabili della segreteria di Galan, subentrate alla Minutillo dopo che l’allora governatore decise di allontanarla, nel 2005: Laura Lazzarin e Giorgia Pozza, invitate a confermare che i motivi del «siluramento» erano legati ai soldi. «Ritengo che nel corso della campagna elettorale del 2005 Galan avesse saputo che la Minutillo si appropriava di denari dei finanziatori e per questo aveva deciso di mandarla via... Mevorach (che ha smentito la dazione, ndr ) era incavolato per il mancato ringraziamento del contributo alla campagna elettorale...», ha dichiarato la prima che parla anche dell’alto tenore di vita di Minutillo ricordando «un cappotto di Hermes... passeggiando per il centro di Padova l’ho visto a 18 mila euro...». Anche Giorgia Pozza si sofferma sui «capi griffati che vestiva... aveva un tenore di vita molto più elevato delle sue possibilità economiche».
L’ex segretaria di Galan racconta: «Potevamo corrompere chiunque». Claudia Minutillo è stata per anni a fianco dell’ex governatore del Veneto. Le sue rivelazioni su fondi neri e tangenti. «Con me Galan più violento perché ho confessato», continua Andrea Pasqualetto “Il Corriere della Sera”. Quando lo incontrerà gli tirerà due ceffoni, se lui non l’avrà stesa prima. E garantisce che glielo dirà in faccia: «Per salvare te stesso e i tuoi soldi hai infamato una donna con falsità e cattiverie. Io i peccati li ho confessati, tu no». Oggi lo detesta almeno quanto lo sosteneva negli anni ruggenti, quando lavoravano fianco a fianco per intere giornate. Lei a gestire la fitta agenda del governatore, lui a dettarla. Era l’età della forte ascesa di Claudia Minutillo, formalmente la segretaria di Giancarlo Galan, di fatto vicepresidente della Regione Veneto. Il doge e la dogaressa oggi si trattano a pesci in faccia. È partita lei confessando fondi neri e denunciandolo. «Era lei a rubare», è insorto lui creando così le premesse di questa intervista indignata e fumantina. Abito elegante nero, la gonna due dita sopra il ginocchio, un filo di trucco, un filo di tacco, della battagliera Claudia Minutillo sorprende la fragilità che di tanto in tanto esce allo scoperto bagnandole gli occhi di commozione, quando ricorda suo padre, sua madre o alcune persone semplici nelle quali si scioglie. Ma quando si parla del doge torna inflessibile.
Galan sostiene che lei ha trattenuto i soldi di due contributi elettorali in nero, 500 mila euro, e che si faceva dare una sorta di ticket da chi chiedeva un appuntamento col governatore.
«Dico che io quei soldi non solo non li ho trattenuti ma neppure li ho ricevuti. Dei contributi cash destinati a lui non ho mai intascato nulla, pur vivendo in quella realtà corrotta e pur avendo confessato fondi neri. Figuriamoci poi se facevo pagare un ticket».
Lussi, case, macchine, il cappotto da 18 mila euro. Il vecchio capo punta il dito sul suo patrimonio che non sembra quello di una segretaria.
«Galan si difende attaccando chi lo accusa per cercare di salvarsi colpendo i testimoni: non ci sono solo io, anche Baita e Mazzacurati. Con me è particolarmente violento, forse perché sono stata la prima a confessare. Guardi, io le dico una cosa: giravano così tante tangenti che Galan faceva pure confusione fra questo o quell’imprenditore, questa è la verità. In ogni caso non ho mai avuto un cappotto da 18 mila euro».
Lei sta dicendo che è venuta a galla solo una parte di verità?
«Il sistema era quello. Molti nomi non usciranno mai perché ci vorrebbe un esercito di inquirenti per provare le accuse prima della prescrizione. Eravamo in grado di corrompere molte persone, politici, magistrati, generali, al punto che quando decisi di parlare temevo che qualcuno dei finanzieri potesse fare il doppio gioco. Quando sei dentro a un sistema malato pensi che tutto sia malato».
Poi ha cambiato idea?
«Pensi che a farmela cambiare sono stati proprio i miei accusatori, quei magistrati, Ancilotto, la Tonini, e il gruppetto di finanzieri della Tributaria di Venezia che hanno saputo lavorare in un ambiente difficilissimo, per il fatto che noi cercavamo di inquinarlo. Guadagnano quel che guadagnano ma nulla può tentarli. Mi hanno incastrato, certo, ma alla fine è come se mi avessero liberato».
Come cercavate di inquinare?
«Con Baita, Buson e Mazzacurati sono stati pagati milioni di euro per corrompere e per pagare investigatori privati che potessero in qualche modo controllare le indagini. Ricordo che una volta, quando ci fu la richiesta di ulteriori due milioni di euro, Buson che era il responsabile finanziario del gruppo Mantovani, mi disse: pazzesco, ma tu sai quanti dipendenti pagherei io con tutti questi soldi».
In quel mondo lei ci ha sguazzato a lungo, giusto?
«Sì ma non ne potevo più. Eravamo arrivati a un punto che non ci si fidava più di nessuno. Non sapevi più con chi parlare, dove, avevo sempre il sospetto di essere spiata, indagata. Era diventata una vita grama. Ho confessato anche per questo».
Dopo la confessione com’è cambiata la sua vita?
«Forse sono più sola di prima ma più in pace con me stessa. Ho dovuto fare i conti con varie minacce, anche a persone a me vicine. Ma alla fine è come se mi fossi tolta una grande peso».
Cosa fa ora dei suoi giorni?
«Mi sto dedicando a un nuovo progetto imprenditoriale che non ha nulla anche fare con la Pubblica amministrazione».
Come vede il suo futuro?
«Non lo vedo ancora ma sarà certamente migliore del mio passato. Il mio passato e il mio futuro sono divisi da un arresto che mi ha liberato».
Claudia Minutillo: la segretaria ne ha fatta di super strada. L'ex assistente del governatore Galan ha costruito un impero di società con base a San Marino. Che si danno molto da fare nei grandi appalti della regione, scrive Vittorio Malagutti su “L’Espresso”. Gli avversari politici del suo capo, senza grande sfoggio di fantasia, si erano inventati per lei il soprannome di "Dogessa". Maligni. A quei tempi, era il 2005, Claudia Minutillo faceva da segretaria a Giancarlo Galan, governatore, e quindi "Doge", del Veneto. La signora sfoggiava modi spicci e un'aria vagamente manageriale, ma certo nessuno si aspettava di ritrovarla, a quattro anni di distanza, addirittura a capo di una piccolo gruppo finanziario-industriale. Costruzioni, immobili, editoria: un network di società, tutte targate Minutillo, nate e cresciute dopo che la collaboratrice di Galan ha lasciato il suo incarico in Regione. Ovviamente si parte dal Veneto, per arrivare fino a San Marino, il paradiso fiscale in terra di Romagna. Da quelle parti Minutillo, 45 anni compiuti lo scorso autunno, amministra la Finanziaria infrastrutture. A che serve? Non si sa. Il nome suggerisce un qualche impegno nei grandi lavori, strade, ponti e così via. A ben guardare, però, la ditta con base sul Monte Titano non ha nessuna attività in Italia. Insomma, ha tutta l'aria di una scatola vuota, almeno per il momento. Non finisce qui, perché a San Marino ha sede anche la Bmc broker, un'altra società gestita dall'ex braccio destro di Galan. Nel 2006 questa sigla, sconosciuta ai più, si vide assegnare incarichi e parcelle dalla giunta di centrodestra. C'è da pubblicizzare il Sistema metropolitano regionale? Ci pensa la Bmc di San Marino. Cerimonia al porto di Venezia? La regia dell'evento è firmata Bmc. Cose piccole, tutto sommato, che però all'epoca sollevarono malumori e sospetti in consiglio regionale. Ma il bello arriva dopo, con il cemento. Sì, perché, a quanto pare, la segretaria diventata imprenditrice di successo ha sviluppato una gran passione per le opere pubbliche. Un cambio in corsa, il suo. Smessa la divisa da dipendente pubblico è tornata a bussare alle porte della Regione, ma questa volta a caccia di appalti. Dapprima, a sorpresa, il suo nome spunta tra gli amministratori della Pedemontana, la società a capitale privato (Autostrade, Impregilo, banche e altre imprese di costruzioni) chiamata a realizzare il progetto in discussione da decenni di una nuova strada tra Vicenza e Treviso. Questo primo incarico diventa un trampolino di lancio verso nuovi affari. In effetti il Veneto, da qualche tempo, è una miniera di occasioni. Passanti, bretelle, strade e autostrade. La torta vale miliardi. E in questa girandola di progetti si è ritagliata un ruolo anche la ex "Dogessa". Un posto al sole? Piuttosto uno strapuntino, ma su un treno che viaggia a tutta velocità. Lo guida Piergiorgio Baita , gran capo della Mantovani spa. Baita, 60 anni, veneziano, è un asso pigliatutto delle costruzioni. Da anni ormai la Mantovani, controllata dalla famiglia Chiarotto, fa incetta di appalti in tutto il Triveneto. Il giro d'affari cresce di conseguenza: 210 milioni nel 2005, 348 milioni l'esercizio successivo, e nel 2007, ultimo dato disponibile, 417 milioni con 13 milioni di profitti. Baita comanda, ma Minutillo si è messa in scia. Prendiamo l'azienda veneziana Adria infrastrutture. A prima vista sembra una sigla marginale, una delle tante che nuota nel gran mare dei lavori pubblici. Dalle carte societarie però spuntano nomi e affari importanti. L'azionista principale è il gruppo Mantovani, quello di Baita. Mentre al timone della società, con i gradi di consigliere delegato, c'è proprio lei, l'ex collaboratrice del governatore, che partecipa anche al capitale. La sua quota, il 5 per cento, risulta intestata a una società di Mestre, la Investimenti srl. Senza dare troppo nell'occhio, in questi ultimi anni Adria infrastrutture si è conquistata la sua fetta di lavori pubblici. Sono appalti regionali, assegnati con la regia dell'assessore veneto ai Trasporti, il forzista Renato Chisso, instancabile promoter di grandi opere dalla Laguna fino alle Dolomiti, in un diluvio di progetti, cemento e asfalto. Qualche esempio: Adria infrastrutture guiderà l'associazione di imprese chiamata a costruire la "Via del mare", la superstrada a pedaggio che dovrebbe collegare l'autostrada A4 con il litorale di Jesolo. In totale quasi 20 chilometri di tracciato con due viadotti, sette sottopassi, 6 caselli. Poi c'è il cosiddetto passante Alpe Adria, 85 chilometri di autostrada per unire Longarone a Tarvisio attraverso il Cadore e la valle del Tagliamento. Un primo tratto di 20 chilometri sarà realizzato in base al progetto presentato da Adria infrastrutture insieme a Mantovani e alla romana Fincosit. Non sempre fila tutto liscio. L'anno scorso, per esempio, la coppia Baita-Minutillo puntava su un'area messa in vendita dall'Autorità portuale a Marghera. All'asta però è risultata vincente l'offerta di una società immobiliare gestita dal finanziere Andrea De Vido. Risultato: la gara va ai supplementari, tra ricorsi e controricorsi al Tar, ma la rimonta a questo punto sembra difficile. Poco male, perché ormai la segretaria-manager è lanciatissima. E di recente, a quanto pare, si è buttata a capofitto anche nel gran business dell'editoria. La rampante Minutillo, infatti, ricopre il ruolo di consigliere delegato in sei società gemelle. Si chiamano "Il Venezia", "Il Verona", "Il Treviso", "Il Padova", e così via, con i nomi di tutti i capoluoghi di provincia veneti esclusa Rovigo e con l'aggiunta di Mestre. Questi marchi corrispondono ad altrettanti omonimi giornali pubblicati dal gruppo editoriale E Polis del finanziere Alberto Rigotti. Come funziona? Semplice, spiega Rigotti, «le società possiedono le testate e le affittano all'editore». Un modo come un altro, sostiene Rigotti, per stringere alleanze a livello locale. E in effetti tra i soci delle singole testate troviamo, oltre alla E Polis, anche la solita Adria infrastrutture del gruppo Mantovani insieme alla Pizzarotti. Quest'ultima è una grande impresa di costruzioni con sede a Parma, ma è sbarcata in Veneto per giocare da protagonista nella partita miliardaria dei lavori pubblici. L'estate scorsa, per dire, Mantovani e Pizzarotti si sono aggiudicate insieme la ricca commessa per realizzare la superstrada che unirà tra loro le tangenziali di Padova, Vicenza e Verona, una sorta di raddoppio dell'autostrada Serenissima. Insomma, il piatto forte dell'alleanza sono gli appalti, ma a fare da contorno c'è l'editoria, con i quotidiani veneti del gruppo E Polis. Sarà un caso, o forse no, ma a gestire il business dei giornali è stata nominata proprio la neo-manager Minutillo. Cioè l'ex segretaria di Galan, nonché buona amica di Chisso, i due politici che gestiscono incarichi e commesse.
Chiara Rizzo in Matacena, Lia Sartori, Claudia Minutillo: nuove facce e nuove protagoniste femminili del sequel via via sempre più ripetitivo, sempre più confuso e sempre più incomprensibile di quel film – la cui sceneggiatura appariva già scadente nel 1992, all’epoca di Tangentopoli e Mani pulite – intitolato “Politica e malaffare”. La grande giostra che mai smette di girare ci riporta incessantemente, come in un Monopoli impazzito, alla casella iniziale, scrive Nicoletta Tiliacos per "il Foglio". E anche ora, come nel ’92, “cherchez les femmes”: sono i visi di donna che compaiono nel trailer a infiammare la curiosità languente del pubblico e ad attirarlo al botteghino, proprio quando si pensava che ormai non se ne poteva più dalla noia. E sono sempre i personaggi femminili a dare il tono e il senso di come cambiano (o non cambiano affatto) i tempi. “Cherchez les femmes”, dunque. Senza dimenticare, tra l’altro, che l’Italia è una repubblica fondata anche sui malumori femminili. C’è una donna, per esempio, al centro delle vicende che hanno accompagnato il tormento di Silvio Berlusconi sulla scena politica italiana. E’ la ormai ex moglie del Cav., Veronica Lario (che fu anche azionista di questo giornale) ad aver giganteggiato – con le sue dichiarazioni, le sue lettere, le sue dissociazioni pubbliche dai comportamenti maritali, la sua delusione e la sua ira di sposa proclamate con sprezzo dei pettegolezzi – nella fine di un matrimonio che è stata anche l’anticipo, il presagio e un fattore decisivo, sostanziale e di immagine, della consumazione dell’èra berlusconiana. Basti pensare al potere deflagrante di quell’irrituale lettera spedita nel gennaio del 2007 al direttore di Repubblica, giornale non propriamente amico di Berlusconi: “Egregio direttore, con difficoltà vinco la riservatezza che ha contraddistinto il mio modo di essere nel corso dei 27 anni trascorsi accanto a un uomo pubblico, imprenditore prima e politico illustre poi, quale è mio marito”. Veronica Lario voleva reagire, come scrisse lei stessa, “alle affermazioni svolte da mio marito nel corso della cena di gala che ha seguito la consegna dei Telegatti dove, rivolgendosi ad alcune delle signore presenti, si è lasciato andare a considerazioni per me inaccettabili: ‘se non fossi già sposato la sposerei subito’, ‘con te andrei dovunque’. Sono affermazioni che interpreto come lesive della mia dignità, affermazioni che per l’età, il ruolo politico e sociale, il contesto familiare (due figli da un primo matrimonio e tre figli dal secondo) della persona da cui provengono, non possono essere ridotte a scherzose esternazioni”. Quello sfogo della moglie offesa era solo l’anticipo dei futuri conflitti – e di ulteriori, inaudite dichiarazioni – legati alle vicende tra il privato e il pubblico che videro protagonista il Cav., e che portano altri nomi femminili (Noemi Letizia, Karima El Mahroug detta Ruby, Patrizia D’Addario…). Vicende tanto difficili da metabolizzare – anche nell’immaginario nazionale – che ancora oggi se ne sente l’eco avvelenata nelle polemiche per le foto rubate della Lario e finite sul rotocalco Chi?, pubblicato da Mondadori. E comunque l’inappuntabile e risentita moglie di Cesare non ha salvato Cesare, anche se, almeno fino a un certo punto, lo avrebbe voluto. Tant’è. Uno stucchevole luogo comune pretende che ci sia, dietro a ogni uomo di successo, la presenza di una grande donna. Ma è pure un evidente dato di fatto che in Italia la bandierina del via a piccole o grandi storie di malaffare politico-finanziario viene agitata spesso, se non sempre, da mani femminili. Mani nervose di mogli tradite o mani solerti di segretarie (come Claudia Minutillo, per esempio, a lungo segretaria dell’ex governatore del Veneto, Giancarlo Galan) che, da vestali discrete ed efficienti si trasformano, costrette o incattivite dalle circostanze, in testimoni d’accusa. Mani amorevoli, ma talvolta distratte, di fidanzate o di consorti devote, perinde ac cadaver. Mani di ex amanti vendicative, dotate di memoria granitica e spietatamente mirata. E mani di dame in pericolo da salvare dal drago, come la fascinosa Chiara Rizzo, moglie del latitante Amedeo Matacena. Appena definita in un interrogatorio dall’ex ministro Claudio Scajola, accusato di aver favorito la fuga del consorte di lei, “donna sola, tribolatissima”, oltre che “indifesa, scossa, incasinata”. Scajola dice che voleva per lei “che facesse una vita normale, che non sfasciasse la famiglia e che arrivasse il marito”. Invece la Rizzo, ingrata di fronte a tanta sollecitudine, racconta dal carcere che l’ex ministro la tampinava ed era sempre più geloso della sua relazione con Francesco Bellavista Caltagirone: “Io avevo paura di lui (Scajola, ndr), io avevo paura perché questa cosa sembrava un’ossessione…”. A dar manforte alla signora Matacena, ci sarebbero anche le dichiarazioni della segretaria storica di Scajola, Roberta Sacco, da poco tornata in libertà dopo due settimane di domiciliari e sollevata da ogni accusa: “Dovevo verificare gli spostamenti della Rizzo”, ha raccontato la signora Sacco, descritta come fedele, scrupolosa e ineccepibile segretaria. Ora lei dice che “gli incontri con la Rizzo di cui ero a conoscenza e complice” le “creavano disagio” verso la moglie di Scajola “che conosco da anni”. Provò a dirlo al suo datore di lavoro, “ma la mia esternazione non produsse alcun effetto”. E a parlare di “pedinamenti” di Chiara Rizzo commissionati da un gelosissimo Scajola ci si è messa pure la segretaria di Amedeo Matacena, Maria Grazia Fiordelisi, un’altra fedelissima diventata fluviale testimone (pure lei in carcere) di comportamenti quantomeno bizzarri. L’unica consolazione, all’ex ministro, arriva dalla moglie, Maria Teresa Verda, che affida alla Stampa la sua dichiarazione di fiducia incrollabile nel consorte: “Mio marito? E’ un galantuomo, un uomo generoso, un puro. Anzi, le dirò di più: dopo questa vicenda lo vedo ancora più forte. La mia stima per lui è incondizionata. E badi: io sono ormai allenata a mettere a fuoco le cose anche attraverso la cortina di fumo che le rende opache e indistinguibili, proprio come sta succedendo in questi giorni”. Chapeau. “Cherchez les femmes”, dunque, nelle storie di mega tangenti, di mazzette di più modesto taglio, di conti corsari, di ruote unte e bisunte, di malversazioni vere o solo ipotizzate. E vedrete il luogo comune rovesciarsi subito nella constatazione che dietro a certi rumorosi e improvvisi collassi – di carriere politiche, di fortuna economica, di status, di reputazioni – c’è sempre, o quasi, un intervento femminile. Non si allude tanto allo stereotipo abusato della donna vampiro, della divoratrice di patrimoni che spolpa mariti e amanti e poi si dilegua per occuparsi della prossima vittima o per darsi finalmente al giardinaggio e alle opere benefiche. E non si pretende nemmeno di vagliare affari come quelli che affossarono la candidatura alla presidenza francese del socialista Dominique Strauss-Kahn (accusato di aggressione sessuale da una cameriera dell’albergo di New York a pochi giorni da quella che sembrava la sua certa designazione); oppure come quelli che segnarono la fine della carriera del ministro conservatore britannico John Profumo, costretto nel 1963 a dimettersi per certe frequentazioni pericolose, in odor di spionaggio, con quelle che oggi si chiamerebbero “escort”. No, qui si vuole riflettere su una particolare e moderna specializzazione della classica Erinni – intesa come agente consapevole o inconsapevole del fato – destinata a vivacizzare le cronache giudiziarie, soprattutto in Italia ma non solo. E anche a rinverdire l’idea (di suo già sempreverde) che “dove ti giri, è tutto un magna-magna”. E che per la casta (uffa, la casta) non valgono mai le stesse regole imposte al popolo turlupinato e oppresso. Va detto che c’è stato, nel tempo, qualche adeguamento legato all’accresciuta emancipazione femminile e allo sviluppo di nuovi orizzonti della scienza e della tecnica. Dove prima impazzava la documentazione cartacea, per dire, a guastare certe feste ora interviene piuttosto l’uso poco prudente di posta elettronica, di messaggini, di carte di credito, di telefonate al cellulare fatte come se non fossero mai state inventate le intercettazioni. E se fino a non troppo tempo fa le figure interessate erano di natura esclusivamente famigliare, sentimentale e/o ancillare, il progressivo incrinarsi del famoso “soffitto di cristallo” – quello che impedisce da un certo punto in poi l’avanzare delle carriere femminili – introduce nuove variabili: la socia in affari, la collega di partito (come l’ex europarlamentare di Forza Italia, Lia Sartori, recentemente coinvolta nell’affare Mose insieme con Galan), la manager, la segretaria. Ma anche la segretaria-manager che si dimostra goldonianamente (non per niente c’è di mezzo Venezia) sicura padrona del campo e della situazione. E’ il caso della citata Claudia Minutillo, che di Galan fu prima la segretaria onnipresente, e che poi, negli ultimi anni, si era messa in proprio come imprenditrice. E’ cronaca di questi giorni: le sue dichiarazioni, ammissioni, accuse sono alla base dell’inchiesta intestata al Mose e al Consorzio Venezia Nuova. Era lei, che tutti chiamavano la Dark lady per via delle chiome corvine, della predilezione per i vestiti di quel colore e anche del carattere ombroso, che dai suoi uffici di imprenditrice intimava all’assessore regionale alla Mobilità e alle Infrastrutture, Renato Chisso (come risulta dalle intercettazioni): “Alza il culo e vieni qua”. Si narra anche che fu la futura moglie di Galan, Sandra Persegato, a chiedergli di decidere, senza tergiversare oltre: “O lei o me”. Lui decise e liquidò la Minutillo. E si può facilmente immaginare quanto la sua ex collaboratrice abbia preso bene quell’addio, dopo tanti anni di dedizione professionale. Dall’appartata Laura Sala, moglie separata di Mario Chiesa e all’origine della “prima Tangentopoli”, alla volitiva Claudia Minutillo, vediamo dunque disegnarsi nell’arco di poco più di un ventennio una sorta di evoluzione della specie che però lascia intatta la sostanza: vittime o complici, ignare o consapevoli, incrollabili o friabili, ingenue o allumeuses, per capire certi intrecci, certi scherzi di destino, certe vicende inesplicabili, certi sgambetti della sorte, “il faut chercher les femmes”. La capostipite assoluta della categoria “Erinni per caso, ma neanche tanto” è comunque lei, l’ex consorte di Mario Chiesa, presidente del milanese Pio Albergo Trivulzio e proverbiale “mariuolo isolato” di craxiana memoria. Beccato nell’ormai remoto 1992 mentre cercava di far sparire una mazzetta di sette milioni di (compiante) lire nel water del bagno annesso al suo ufficio, incurante del bene comune così come dell’efficienza delle tubature. Tutti ricordiamo, perché è ormai storia patria quanto la breccia di Porta Pia o la battaglia del Piave, che alle rivelazioni della ex signora Chiesa si deve l’avvio della reazione a catena che portò alla fine della Prima repubblica e al dissolvimento dei partiti italiani (tranne uno) per come erano stati conosciuti fino a quel momento. In principio, dunque, ci furono una moglie delusa e un ex marito “arrogante”. Proprio così lo definisce l’avvocatessa Annamaria Bernardini de Pace, la quale difendeva gli interessi di Laura Sala nella causa per adeguare, a tre anni dalla separazione, l’assegno di mantenimento che veniva versato alla ex (anzi, che non le veniva più versato) da Chiesa, anche per un figlio adolescente. “Lei non si è mai voluta vendicare”, ha dichiarato solennemente l’avvocatessa in un’intervista al Giorno, rilasciata nel 2012, in occasione del ventennale di Mani pulite: “Lui non pagava l’assegno, la signora avviò le procedure del caso, allora Chiesa fece ricorso per far diminuire l’importo del mantenimento. Ma noi conoscevamo le sue capacità finanziarie, e lei mi portò copie di documenti che riguardavano certi conti correnti. Io le depositai davanti al collegio, ci fu una lunghissima discussione e chiesi che gli atti fossero trasmessi alla Procura. Finirono sulla scrivania del pm Di Pietro”. L’avvocatessa Bernardini de Pace – che da allora conquistò un’eccelsa e meritata posizione nell’empireo dei matrimonialisti italiani – riconosce modestamente di non essersi resa conto, ai tempi, del potenziale esplosivo di quelle carte. Tantomeno, pare, ne era consapevole la sua assistita. Piuttosto, specifica, “l’abbiamo capito insieme, lei ha capito sempre tutto. E’ una delle persone più intelligenti che abbia conosciuto. Una donna perbene, umile, di grande dignità”. Come Bisanzio assediata dagli ottomani e caduta perché, si narra, qualcuno lasciò aperta la “kerkoporta”, una porticina minuscola nelle mura invincibili, un intero mondo finì dunque per la vendetta di una moglie esacerbata? Macché, questa interpretazione è ingiusta e ingenerosa: “Laura Sala ha soltanto fatto valere i suoi diritti. E ha cercato fino all’ultimo di trovare un accordo. Avrebbe potuto chiedere tanto di più, ha voluto solo il minimo indispensabile per tutelare suo figlio. E quando io mi battevo per trasmettere gli atti al penale, lei era preoccupata. Si trattava pur sempre del padre di suo figlio”. Insomma, “Chiesa è stato così arrogante che se l’è cercata”. Uomini arroganti e, visti con il senno di poi, un po’ fessi. Uomini illusi che la moglie bistrattata si accontenti di elemosine elargite dopo umilianti anticamere, mentre certi estratti conto, quando già va illanguidendo quell’idea di amarsi e rispettarsi e vivere insieme “finché morte non vi separi”, continuano magari a rimanere abbandonati alla coniugale mercé, sulla scrivania nello studio di casa o nella cassetta delle lettere, tra una cartolina (almeno all’inizio degli anni Novanta si usavano ancora), un dépliant e una bolletta della luce. E se Mario Chiesa fu insopportabilmente arrogante, che cosa si deve pensare del francese Jérôme Cahuzac, ex ministro del Bilancio di François Hollande ?
Con tutto questo magna magna, perchè additare il Sud Italia come la fonte di tutte le nefandezze?
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
La Lega nel Veneto indipendente a metà, lontana da Roma ma comanda Milano. I sondaggi assegnano a Tosi una quota elettorale tra il 5 e il 10 per cento. Una soglia che non sarà in grado di bloccare la vittoria di Zaia, il candidato ufficiale del Carroccio, scrive Ilvo Diamanti il 9 marzo 2015 su “La Repubblica”. Nel Veneto si respira ancora una forte domanda di indipendenza. Coinvolge quasi 6 persone su 10. Per la precisione: il 57%. Poco più di quanto emergeva da un precedente sondaggio di Demos (55%), giusto un anno fa. Quando, peraltro, appariva chiaro come "indipendenza" non significasse "secessione", ma non-dipendenza. E, quindi, federalismo forte. Capacità di esercitare pressione nei confronti di Roma capitale. Per questo la Lega, in questa regione, ha ottenuto tanto successo. Più e prima che nel resto d'Italia. Vale la pena di rammentarlo una volta di più, in questi tempi di ri-salita leghista: la Liga Veneta è "la madre di tutte le Leghe". Come ebbe a definirla uno dei fondatori, Franco Rocchetta, in un'intervista del 1992 (a Marc Lazar). D'altronde, per prima fra le leghe, alle elezioni politiche del 1983, elesse due parlamentari. Da allora, fino ad oggi, ha sempre ottenuto risultati elettorali elevati. Alle ultime elezioni Europee ha superato il 15%. E, attualmente, i sondaggi (Demos) la stimano oltre il 25%. Insieme alla Lombardia, è, dunque, la regione più "leghista" d'Italia. Rispetto alla Lombardia, però, la Lega del Veneto ha sempre contato meno. Non solo nella Lega, ma anche in Veneto. Perché (come rileva Francesco Jori nei suoi testi) l'autonomismo veneto, nella Lega, si è sempre arreso di fronte al centralismo lombardo. Di fronte a Bossi, a Maroni. Oggi a Salvini. D'altronde, nel 1994, Rocchetta, fondatore e - all'epoca - Presidente della Liga Veneta, venne espulso dalla Lega Nord. Come il successore, Fabrizio Comencini, nel 1998. Entrambi "accusati" di aver rivendicato l'autonomia della Liga Veneta. Oggi, Flavio Tosi, sindaco di Verona e, dal 2012, segretario "nazionale" della Liga Veneta, sembra destinato a subire la medesima sanzione. L'espulsione dalla Lega Nord. Per l'intenzione, annunciata da tempo, di candidarsi alle prossime elezioni regionali del Veneto, che si svolgeranno in maggio, alla testa della sua Fondazione: "Ricostruiamo il Paese". In contrasto con la volontà del governatore, Luca Zaia, e di Matteo Salvini. Che ne temono l'influenza, anche se la lista di Tosi sostenesse Zaia. Le strade di Salvini e Tosi, d'altronde, sembrano, da tempo, divergere. Salvini, com'è noto, mira a costruire la Ligue Nationale. Una Lega lepenista, che marcia su Roma si spinge a Sud e non ha paura, per questo, di allearsi con i neo-fascisti di CasaPound. Tosi, invece, ha intrapreso la strada opposta. Anche se ha una biografia politica di Destra, oggi si è avvicinato all'NCD. Ha espresso, in diverse occasioni, l'intenzione di partecipare alle primarie di Centro-destra. Se, effettivamente, vi fossero. È sindaco di Verona, rieletto nel 2012. E oggi guarda a Venezia. D'altronde, non ha alternative né futuro, altrimenti. Nella Lega di Salvini non ha spazio. E il peso della Destra berlusconiana è in costante calo. Così cerca di farsi largo e di crearsi uno spazio politico specifico, approfittando delle prossime elezioni regionali. Si propone di condizionare la compagine leghista, in Regione, anche se non da Presidente. Luca Zaia, però, non ha alcuna intenzione di farsi affiancare da una figura scomoda come Tosi. Indisponibile ad accettare la leadership di altri "capi", almeno in Veneto. Zaia, d'altra parte, gode di consensi molto ampi. Anche per il suo stile di governo: "democristiano". Il governatore è, inoltre, molto presente sui media. E sul territorio. Non è un "decisionista". Ma, per questo, non disturba i complessi equilibri di potere, in una regione attraversata da molteplici interessi e localismi. Anche nella vicenda che attualmente divide e oppone Salvini e Tosi, Zaia si è guardato dall'intervenire in modo esplicito. Ha lasciato che si esponesse Salvini. In fondo, è lui il candidato naturale della Lega. Successore di se stesso. Zaia: è nato e cresciuto a Conegliano, in provincia di Treviso (di cui è stato anche presidente). Uno dei luoghi genetici della Liga. Che si è sviluppata nella pedemontana veneta, costellata di piccole e medie città. Di piccole e medie imprese. Una realtà politicamente, distinta e distante dalla tradizione di Sinistra. Comunista e post-comunista. Tanto che, finita la stagione democristiana, si è rivolta alla Liga. E alla Lega. Fino a quando, almeno, ha avuto bisogno di "gridare" contro Roma. Per poi "arrivare a Roma", insieme a Silvio Berlusconi e a Forza Italia. È la doppia radice dell'autonomismo veneto. In equilibrio fra opposizione e governo. Quel che Edmondo Berselli ha battezzato, con un neologismo tanto suggestivo quanto geniale, Forzaleghismo. Una "corrente" sempre e da sempre guidata da altri. La Lega di lotta: da Bossi. Oppure - perché no? - da Grillo, quando, nel 2013, i voti di protesta, dalla Lega sono confluiti nelle liste del M5S. La Lega di Governo: guidata da Berlusconi insieme a Bossi e Maroni. E oggi, che il Veneto è diviso, fra domanda di lotta e di governo, i consensi politici "nazionali" si dividono: fra la Ligue Nationale di Salvini e il PD di Renzi. Il primo leader di Sinistra che abbia sfondato in Veneto. Perché non è percepito di Sinistra. Estraneo alla tradizione comunista e post-comunista. Tuttavia, quando si tratta del governo della Regione, i veneti non hanno dubbi e si rivolgono a destra. Al forza-leghismo. Interpretato, oggi, da Zaia. Un post-democristiano indipendentista. Non a caso, dopo la consultazione lanciata dai "venetisti" un anno fa, il governatore ha a fatto approvare al Consiglio regionale del Veneto una legge per indire un referendum sull'indipendenza della regione. Anche se incostituzionale, si tratta di una iniziativa "popolare". Comunque vada, ne accrescerà il consenso personale. Per questo, oggi, gli spazi di iniziativa, per Tosi, sono stretti. Il suo peso, nella Lega, è limitato. E anche sul piano elettorale non sembra in grado di creare grandi problemi a Zaia. Se Tosi si presentasse autonomamente, come ha annunciato, otterrebbe, secondo alcuni sondaggi, fra il 5 e il 10% dei voti. Potrebbe, al più, ridimensionare i consensi di Zaia, ma molto difficilmente al punto da impedirne la rielezione. Così, la vicenda ripropone il singolare destino del leghismo veneto. Che, da un lato, proclama l'indipendenza da Roma, mentre, dall'altro, subisce la dipendenza da Milano. È il segno del forza-leghismo lombardo-veneto. Molto più Lombardo che Veneto.
Sei cose da sapere su Flavio Tosi. La passione per Verona e per la squadra di calcio, le amicizie nell’estrema destra, la lite con Bossi e la conversione all’italianità. E il tentativo di rifondare il centrodestra. Chi è il «ribelle» della Lega, scrive Massimo Rebotti su “Il Corriere della Sera”.
1. Il legame con Verona. È la città dell’anima. Non se n’è mai allontanato. Quando è in consiglio regionale a Venezia (il più votato di tutto il Veneto ) ogni sera torna a casa; in un bar della periferia tiene per anni un «ufficio» dove incontra i cittadini. In consiglio comunale a Verona ci arriva per la prima volta a 25 anni, con la fama da duro. Una volta si presenta con un cucciolo di tigre al guinzaglio. In molti sospettano un messaggio aggressivo, lui spiega: «E’ per pubblicizzare un circo padano». Nel 2013, per la promozione in serie A dell’Hellas Verona, si tuffa nella fontana in piazza Bra. Poi si autodenuncia e paga la contravvenzione, 50 euro.
2. Amicizie pericolose. In gioventù ha molti amici nell’estrema destra cittadina e nella curva del Verona (spesso le due cose coincidono). Da sindaco (nel 2007 viene eletto con il doppio dei voti del primo cittadino uscente) alcuni di quei vecchi rapporti ritornano. Il caso più scottante è quello di Andrea Miglioranzi, negli anni Novanta esponente di spicco degli skinheads veneti e cantante in una band nazi-rock. Il sindaco lo nomina all’Istituto storico della Resistenza. Proteste sbalordite e Tosi, un po’ a fatica, fa marcia indietro.
3. La lite con Bossi. Al Senatur quel primo cittadino così autonomo e ambizioso non piace. Nel 2011 gli impone di non uscire dal seminato: «Faccia il sindaco e non si occupi di politica». Poi, più prosaicamente, aggiunge: «È uno stronzo». Bossi manda a Verona come emissario Roberto Calderoli, vuole evitare che Tosi presenti per il secondo mandato una serie di liste civiche in suo sostegno (un po’ come Salvini oggi). Lui minaccia di andarsene e poi la spunta. Viene rieletto sindaco con il 57% dei voti.
4. Conversione «italiana». Il sindaco pensa in grande e incomincia a definire un profilo moderato e nazionale. Intanto rimette nel suo studio la foto del presidente della Repubblica Napolitano, che aveva tolto appena eletto. Poi, nel 2011, tra la perplessità dei leghisti, partecipa con fascia tricolore alle celebrazioni per il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia e si auto-definisce così: «Veronese, veneto, padano, italiano».
5. In televisione. Risposte brevi, concretezza, senza perdere mai la calma. In televisione Tosi se la cava bene. «L’ospite che mi ha messo più in difficoltà? È il sindaco di Verona, mi ha sotterrato» dirà Gad Lerner in un’intervista. Nel 2011 l’indagine «Monitor Città» lo incorona come il sindaco più amato d’Italia insieme a Matteo Renzi (un altro che in tv ci sa fare).
6. La fondazione. A fine 2013 Roberto Maroni riunisce nella sede della Regione Lombardia i due gemelli del gol della Lega, Tosi e Salvini. Sanciscono un patto: Salvini si prende il partito, Tosi si concentra sulla leadership del centrodestra. Il sindaco prende il compito seriamente: lancia la fondazione «Ricostruiamo il Paese» (decine di sedi in tutta Italia), chiede le primarie, si muove in sintonia con Giorgia Meloni per rappresentare il rinnovamento del dopo Berlusconi. Il boom di Salvini gli manda il progetto in frantumi. E ora chi (tra i leghisti) ha la tessera della fondazione, è fuori.
Il pm: «Veneti ubriaconi? Non è reato». Chiesta l’archiviazione per Toscani. «Quelle affermazioni sono solo un luogo comune», scrive Laura Tedesco su “Il Corriere della Sera”. «Veneti ubriaconi e alcolizzati atavici». Parole che fecero insorgere un’intera regione, quelle pronunciate dal fotografo Oliviero Toscani alla trasmissione La Zanzara di Radio 24. Poche ore dopo quell’infelice uscita, si scatenò immediata la bufera: dal web alla politica, inevitabilmente il caso è finito sul tavolo della magistratura. Ad appena venti giorni di distanza, è la procura di Verona a pronunciare il primo verdetto, chiudendo a tempo-record l’inchiesta per diffamazione che vedeva indagato Toscani con un’istanza d’archiviazione su cui l’ultima parola spetterà prossimamente al gip. Al di là della decisione di «assolvere» l’architetto per quelle sue provocatorie dichiarazioni che avevano fatto gridare i veneti all’«insulto», sono le motivazioni poste nero su bianco dal pubblico ministero Marco Zenatelli che sembrano destinate a far discutere: ad avviso del magistrato, dare ai veneti degli ubriaconi «non ha rilevanza penale». Non costituisce una diffamazione, ma soltanto un «luogo comune. E dire che, all’indomani delle frasi di Toscani, non aveva certo usato mezzi termini il governatore Luca Zaia chiedendogli di rettificare le sue parole o di chiedere scusa ai veneti: «Ho cose più importanti cui dedicarmi, tuttavia di fronte a frasi come “i veneti sono un popolo di ubriaconi e alcolizzati”, ma soprattutto davanti al riferimento a padri, madri e nonni, credo che il dovere di un presidente del Veneto che tutti rappresenta sia quello di fare chiarezza - aveva sottolineato Zaia - . Chiedo quindi al signor Toscani, che ben conosce la nostra terra dove ha avuto modo di lavorare credo con soddisfazione, o di rettificare eventuali cattive interpretazioni delle sue parole o di cogliere l’occasione per scusarsi immediatamente con 5 milioni di veneti. Per il futuro un consiglio, ripetere spesso un antico adagio veneziano che così recita: prima de parlar tasi! ». Ma tant’è: secondo il pm Zenatelli, «non vi sono sufficienti elementi per sostenere l’accusa in giudizio posto che lo stereotipo dei “veneti ubriaconi” utilizzato provocatoriamente dall’indagato, come la maggior parte dei luoghi comuni, non può ragionevolmente integrare il reato di diffamazione - si legge nella richiesta d’archiviazione -, anche perché rivolto a un numero indeterminato e indeterminabile di persone». Ancora: «Il reato di diffamazione - scrive il magistrato - è costituito dall’offesa della reputazione di una determinata persona e non può essere ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti a una categoria anche limitata se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili». Ma il provvedimento del pm di Verona non è ancora finito: «Nessun pregio - continua la richiesta d’archiviazione depositata per Toscani - ha il riferimento alla cosiddetta legge Mancino posto che tale fattispecie non può riferirsi ai fatti enunciati in querela». Da ultima, l’analisi conclusiva: «La manifestazione di pensiero utilizzata da Toscani - decreta il magistrato - va quindi confinata nell’ignoranza tipica dei luoghi comuni e non merita di assurgere a rilevanza penale». Chissà, adesso, come reagiranno i cinque veronesi («persone normali, ragazzi e pensionati », li aveva qualificati il loro avvocato Andrea Bacciga) che avevano presentato la denuncia- querela contro l’architetto originario di Milano facendo scattare l’inchiesta della procura scaligera. Lo stesso procuratore Mario Giulio Schinaia, del resto, annunciando l’apertura di un fascicolo contro Toscani aveva definito come «pesanti» le sue frasi sui veneti: «Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto - aveva detto Toscani in radio - . Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri. Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino ». Tanto da aver innescato un’interrogazione urgente firmata dal consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto: «Le dichiarazioni di Oliviero Toscani non possono rimanere impunite, la giunta deve chiedere l’applicazione della legge Mancino e un risarcimento danni. L’immagine che Toscani ha voluto dare dei Veneti è distorta e mirata a screditare un popolo». A modo suo, Toscani aveva poi cercato di recuperare: «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti mi dispiace. C’è qualche veneto che ci cade sempre». E la procura adesso gli ha dato ragione.
Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».
Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!
«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.
Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".
La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà la tratterà bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà anche gente che le vorrà bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?
Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.
«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.
"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli ebook scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre richieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».
Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?
«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».
È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?
«Vero. Spero che mi venga perdonato».
Com’è nata l’idea di Terroni?
«Avevo delle domande, cercavo delle risposte. Se davvero a fine Ottocento i meridionali erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».
Ha ricevuto offese o minacce?
«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».
Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.
«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».
Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?
«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».
Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?
«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».
Che cosa pensa dei Savoia?
«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».
Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.
«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».
E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?
«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo passato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».
E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?
«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».
La peggiore figura del Risorgimento?
«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».
Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?
«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».
Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.
«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».
Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?
«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».
Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?
«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».
Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?
«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».
Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.
«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».
In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.
«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Carignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».
Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?
«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».
Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?
«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».
S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.
«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».
Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.
«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».
Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.
«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’ingiusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».
Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meridionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».
«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».
Lei ha fatto il servizio militare?
«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».
Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?
«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».
Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?
«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».
Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?
«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».
Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?
«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».
Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?
«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».
Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?
«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».
Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?
«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».
La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.
«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».
C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.
«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».
Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?
«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».
Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.
«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».
Per chi vota?
«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».
Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.
«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».
Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.
«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».
A sfottere godiamo: siam settentrionali.
Ecco perché abbiamo assolto Calderoli anche se disse “orango” alla Kyenge». Alcuni Pd, con alfaniani e Forza Italia, hanno difeso Calderoli dall’accusa di aver offeso l’ex ministro: «è insindacabile esercizio del mandato». Dalla satira ai leghisti di colore: ecco come il Senato ha perdonato Calderoli, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. L’ex ministro per l’Integrazione del governo di Enrico Letta, Cecile Kyenge, non è certo contenta. La giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha assolto il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli dall’accusa di istigazione al razzismo, per aver detto, durante un comizio, «quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango». Per la giunta del Senato, il leghista scherzava, e soprattutto il suo pensiero è «insidacabile». Vale dunque l’articolo 68 della Costituzione, primo comma, sulle opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, che il senatore 5 stelle Vito Crimi aveva invece chiesto di non far valere. La decisione della giunta sarà sottoposta alla conferma dell’aula. Spiazzata si è però mostrata Cecile Kyenge, per questo primo voto: «Non stiamo valutando Calderoli come persona» ha detto a Repubblica , «Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta». La delusione di Kyenge viene dal fatto che anche alcuni suoi colleghi del Pd hanno preso le parti di Calderoli: «Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti» dice Kyenge. Non sembrerebbe però, stando a quanto i membri Pd della giunta del Senato hanno spiegato all’Espresso, e a quanto è scritto nei verbali della seduta. La difesa di Calderoli è stata sostenuta con diverse argomentazioni. Il senatore Pd Claudio Moscardelli ha ad esempio difeso Calderoli sostenendo che «le accuse relative alle incitazioni all'odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano anche diverse persone di colore». La Lega dunque non è razzista perché ha alcuni militanti e un paio di amministratori locali di colore, e quella di Calderoli era una normale obiezione politica. Sempre di normale contesa tra protagonisti della scena pubblica parla un altro senatore democratico, Giuseppe Cucca. Cucca aggiunge però un riferimento alla satira. Secondo il senatore - si legge nel resoconto sintetico della seduta - «le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell'ambito di un particolare contesto di critica politica, evidenziando altresì che spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose». La difesa, si può notare, è la stessa del senatore berlusconiano Lucio Malan secondo cui «il senatore Calderoli, nell'ambito di un comizio politico, ha svolto delle critiche rispetto agli indirizzi politici per le immigrazioni seguiti dal ministro Kyenge, effettuando altresì talune battute a scopo satirico». Al senatore 5 stelle Vito Crimi, dunque, il caso avrebbe dovuto ricordare molti passaggi dei comizi di Beppe Grillo. A difendere Calderoli, con il Pd, c’era anche l’alfaniano Carlo Giovanardi secondo cui «le opinioni espresse dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario». Anche Giovanardi, come molti dem, è partito dalla constatazione che sempre più spesso in politica si parla così, per battute e sfottò: «Nella storia politica italiana sono ravvisabili numerosi casi nei quali sono state espresse critiche, anche attraverso locuzioni aspre, rispetto ad avversari politici e ciò non ha mai determinato alcun risvolto sul piano processuale penale». Diversamente dai suoi colleghi la pensa invece la senatrice, sempre Pd, Doris Lo Moro che all’Espresso spiega di aver votato a favore della proposta di Vito Crimi: «Ho ritenuto» dice «che tutte le valutazioni offerte dai colleghi dovessero esser valutate da un giudice, che potrebbe anche decidere che è vero che la satira usa spesso espressioni colorite ma che, come a me sembra, in questo caso la satira c’entri assai poco». Lo Moro critica anche un altro punto della difesa di Calderoli: il fatto che Kyenge non abbia presentato querela. «Mi pare che Cecile abbia invece spiegato quanto si sia sentita offesa, e comunque io penso che da donna, e da donna di colore, io mi sarei offesa, e avrei chiesto, come ho fatto, di valutare il fatto specifico, senza soffermarmi sulla simpatia che si può avere per Roberto Calderoli». Perché questo è l’altro punto. Al Senato Calderoli è quasi un mito. Vi potrà sembrare strano ma quasi tutti, ad esempio, gli riconoscono di esser l più bravo a guidare l’aula durante le sedute.
Le scuse del razzista ridicolo. A tre giorni dagli insulti al ministro Kyenge, paragonato a un orango, Roberto Calderoli si scusa ma non si dimette. 'Ho commesso un errore grave, ho fatto una sciocchezza' ha detto a Palazzo Madama. Dopo aver cercato in tutti i modi di giustificare le sue parole buttandola sulla simpatia, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. "Il mio errore è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive. Ma non farò mai sconti a un governo che consente e quasi incoraggia l'ingresso illegale di stranieri nel nostro Paese, come sta avvenendo, e che ha consentito che una bambina e sua mamma fossero deportate consegnandole proprio nelle mani del tiranno da cui sono perseguitate". Così si è scusato Roberto Calderoli per le parole pronunciate il 13 luglio 2013 a Treviglio, dal palco della festa della Lega Nord con cui aveva paragonato il ministro Kyenge ad un "orango". Con "disagio e imbarazzo" oggi "mi scuso con il Senato" e "con il presidente Napolitano" ha detto. "Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula". Il giorno dopo, a scandalo esploso, era cominciata la girandola di "giustificazioni" di Calderoli. Della serie, suvvia, eravamo nei "termini della simpatia". "Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge penso subito alle sembianze di un orango".
A Radio Capital dichiara (14 luglio):
"Ma dai, è stata una battuta, una battuta nei termini della simpatia. Niente di particolarmente contro, solo mie impressioni: non l'ho paragonata ad un orango, ma ne ha i lineamenti. Ho anche detto che sarebbe un ottimo ministro, ma in Congo. Guardi, avrei rivolto le stesse critiche alla canoista".
Ok, e le dimissioni?
"Dimettermi? Ma da cosa? Ma stiamo scherzando?! Non ci penso proprio". "Io sono stato eletto dal popolo e nominato vicepresidente dal Senato. Forse chi parla delle mie dimissioni vuole aggirare un altro argomento, quello kazako".
All'Ansa, "i problemi sono altri" (14 luglio):
"Non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio: non vorrei che si chiedano le mie dimissioni per evitare di parlare di possibili dimissioni di qualche ministro per la vicenda kazaka. Una mia battuta non può essere paragonata ai danni che questo Governo sta facendo al Paese".
Era un "intervento politico più articolato":
"Ho parlato in un comizio, ho fatto una battuta, magari infelice, ma da comizio. Non volevo offendere e se il ministro Kyenge si è offesa me ne scuso, ma la mia battuta si è inserita in un ben più articolato e politico intervento di critica al ministro e alla sua politica".
E non accusatelo di razzismo:
"Per farmi perdonare dal ministro Kyenge la invito ufficialmente ad un dibattito alla Berghemfest nel mese di agosto, la tradizionale festa della Lega, ma sappia che non le farò sconti sulle critiche al suo modo di fare politica... E non voglio sentire accuse di razzismo da parte di politici che sono razzisti ogni giorno con i cittadini del nord".
Due giorni dopo, e siamo al 15 luglio, si parte con le interviste.
"Amo gli animali, e poi il mio era un giudizio estetico". Al Corriere della Sera dice che c'è pure "Letta l'airone", "Alfano la rana"...:
"Adesso non posso proprio. Scusi, ma inizia la MotoGp. Ci sentiamo più tardi... Ora si dibatte su una frase estrapolata dal contesto, ma al comizio ho fatto una premessa, cioè il mio amore per gli animali. Lì - sbagliando, lo ammetto - ho esplicitato un pensiero: citare l'orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista. Mi lasci spiegare. Io ho una mia forma mentis: quando conosco una persona, faccio paragoni estetici con un animale. Per tutti. Io vedo il presidente Letta un po' come un airone: le gambe lunghe, zampetta nella palude. Il vicepresidente Alfano? Forse un po' rana. Il ministro Cancellieri? Mi dà l'idea del San Bernardo, che è pacioso ma sa anche mordere. Fabrizio Saccomanni, dell'Economia, l'ho sempre visto come Paperon de' Paperoni che sotto le ali ha i miliardi. Il titolare degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi lo vedo pavone, con il riporto fa la coda. Per ciascuno ne ho una... Mi è spiaciuto che, di un intervento di 45 minuti tenuto davanti a 1.500 persone, tutto si sia ridotto alla questione dell'orango. Molto è montato ad arte.
A Repubblica conferma: "Vedo le persone come animali, ma non mi dimetto":
"Ho solo detto che le sembianze della Kyenge mi ricordano quelle di un orango. Fa parte del mio modo di essere. Sono abituato ad accostare le persone agli animali. Mi viene spontaneo fare questi accostamenti. Ma le dirò di più: a Napolitano ho regalato una bottiglia di Amarone, scrivendogli che lui è come questo vino, migliora con gli anni. Il presidente non si è offeso, mica ha pensato che volessi dargli dell’ubriacone, anzi mi ha ringraziato con una bellissima lettera. Comunque io non me ne vado, la battuta è stata decontestualizzata e amplificata ad arte. Se avessi detto che Alfano mi sembra un gorilla, nessuno avrebbe gridato al razzismo".
Insomma, "era solo un giudizio estetico, il vero razzismo è contro di noi". E al quotidiano La Stampa confida che c'è pure la "gallina ovaiola":
"C'è stata molta strumentalizzazione. Ho fatto una battuta, forse un po’ sopra le righe, ma non mi riferivo certo all’aspetto razziale. Era solo un riferimento estetico. Io ho un sacco di animali, sa? Alcuni molto strani, che non si potrebbero tenere. Li rispetto molto, per questo li paragono alle persone. Guardo Letta e penso a un airone, che con le zampe lunghe riesce a vivere nella palude... Vedo Alfano come una rana, che salta di foglia in foglia. La Cancellieri? Un San Bernardo, sì, sempre pacioso, ma quando vuole riesce a mordere. Poi c’è la De Girolamo, una gallina ovaiola".
Kyenge: “Calderoli assolto per avermi detto orango, triste il Pd che lo difende”. Per la giunta del Senato le parole del leghista sono “insindacabili” e non razziste. D’accordo tutti i partiti, tranne i 5Stelle, scrive Annalisa Cuzzocrea su “La Repubblica”. Cécile Kyenge ha vissuto con sorpresa il razzismo di cui è stata oggetto durante la sua esperienza di ministro. Ed è sorpresa e delusa ora che la politica ha deciso di lasciarla sola. Ora che - in giunta per le immunità al Senato - la maggioranza ha deciso che la frase "Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango", non è istigazione all'odio razziale. Non se lo dice il vicepresidente di Palazzo Madama Roberto Calderoli. Non per i deputati di Forza Italia, Ncd, Lega, Autonomie, Pd che in commissione hanno preso la parola per spiegare che Calderoli non è perseguibile, che le sue parole in quanto politico sono "insindacabili", che nel suo partito ci sono persone di colore e che poi è tanto bravo a presiedere l'aula. Gli unici a protestare sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Inascoltati.
Cos'ha pensato quando gliel'hanno detto?
"Sono stata sorpresa. Poi triste. Non per me. Vorrei uscire da questa logica perché non stiamo valutando Calderoli come persona. Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta ".
Anche alcuni senatori del Pd si sono espressi contro l'autorizzazione. Un'altra sorpresa?
"Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti. Se poi l'abbiano fatto con calcoli elettorali troverei la cosa ancora più grave. Ma io vado avanti, adesso dovrà esprimersi l'aula, spero che questo sia stato solo un incidente di percorso. Se una persona che rappresenta le istituzioni può insultare chiunque mi chiedo: chi protegge i deboli in questo Paese? Si sta creando un precedente molto pericoloso ".
Si aspettava tanti episodi di razzismo contro di lei quando è diventata ministro?
"Non fino a questo punto. La Lega lo faceva coscientemente, con un calcolo elettorale di strumentalizzazione della persona. E in questo modo l'odio e il razzismo sono aumentati. Com'è possibile che non ci si soffermi sui danni culturali di questi episodi? Mi sarei aspettata appoggio e sostegno da parte delle istituzioni".
Si sente abbandonata anche dal Pd?
"Sì, anche dal Pd. Ma è una questione trasversale, mi aspettavo di più da tutti. Ancora oggi ho una decina di cause che ho deciso di seguire personalmente. Devo ringraziare la magistratura, che è molto avanti. Un consigliere regionale leghista è stato condannato a una multa di 150mila euro per aver sostituito il mio volto con quello di un orango in una foto istituzionale. E sa perché posso dire che la Lega è un partito razzista? Perché sono stati loro a pagargli l'avvocato. Sono le azioni, non le parole, che la qualificano come tale. Sfruttano la crisi. Le persone hanno paura, cercano un colpevole, e il colpevole perfetto diventa quello che ti stanno offrendo. Molti partiti fanno coscientemente quest'operazione per dividere la società. Mi rammarica la mancanza di coraggio della classe politica e delle istituzioni".
A ben vedere, però, non è che questi settentrionali e leghisti, addirittura, siano diversi dagli altri.
L'inchiesta. 'Ndrangheta, quella maxi speculazione edilizia e i rapporti tra Flavio Tosi e l'amico del clan. L'indagine sulla mafia padana prosegue e spuntano nuove intercettazioni che chiamano in causa il sindaco di Verona per un terreno che interessava a Moreno Nicolis, l'imprenditore finito agli arresti. Un'area, da quanto risulta a “l'Espresso”, poi resa edificabile dalla giunta guidata dall'esponente leghista, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi«Per mangiare devi far mangiare». Si è sentito rispondere così il ministro delle finanze della cosca emiliana guidata dal padrino Nicolino Grande Aracri. E lui, Antonio Gualtieri, in fatto di gestione delle relazioni pubbliche non è da meno: «Questi "baluba"... non capiscono che senza politica... non si fa niente». Per questo Gualtieri ha stretto una forte amicizia con Moreno Nicolis, l'industriale del ferro di Verona, vicino all'amministrazione di Flavio Tosi. Un'aspetto quest'ultimo sottolineato anche dal giudice per le indagini preliminari di Bologna che ha firmato i mandati di cattura per 117 persone, tutte legate alla 'ndrangheta di stanza in Emilia. Ora Gualtieri e Nicolis sono entrambi indagati nell'inchiesta Aemilia. Il primo è in cella per associazione mafiosa, il secondo è agli arresti domiciliai per estorsione aggravata dal metodo mafioso. I detective dell'Arma per tre anni hanno messo sotto controllo capi, gregari, politici e colletti bianchi dei Grandi Aracri. E hanno così scoperto che Nicolis godeva di ottimi contatti con il sindaco Flavio Tosi e l'ex vice sindaco, con delega all'Urbanistica, Vito Giacino, condannato in primo grado a cinque anni per concussione. È lo stesso Antonio Gualtieri che racconta, come già rivelato da “l'Espresso” , del pranzo a casa dell'industriale veronese alla presenza di Tosi e Giacino: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Ma non c'è solo questo nelle informative dei Carabinieri. Gli indagati hanno in ballo diversi affari nella città di Romeo e Giulietta. Uno di questi è l'acquisizione dei beni del fallimento Rizzi, l'altro è una speculazione che sta a cuore a Nicolis. E proprio quest'ultima sarebbe andata in porto. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti ci sono una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l’informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta a “l'Espresso” la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e Giacino. Il “Piano degli interventi” varato proprio quando Giacino era nella giunta è uno strumento urbanistico che in pratica equivale al vecchio piano regolatore. Nel Piano dell'anno 2011-2012, a firma di Giacino e Tosi, compaiono proprio due varianti urbanistiche chiesta dalla Nicofer, la società di Nicolis: la prima riguarda la ristrutturazione della sua fabbrica; la seconda invece rende per la prima volta edificabili ben 16.500 metri quadri in un'area di 42 mila nella zona sud della città, in via Golino, vicino all'ospedale di Borgo Roma, proprio nei pressi della Glaxo, la stessa indicata nelle intercettazioni. Quel piano urbanistico approvato dai politici di Verona ha quindi autorizzato la Nicofer a realizzare un grande centro commerciale. Una volta ottenuta la variante, la società di Nicolis ha poi ceduto la proprietà a un gruppo della grande distribuzione, la Supermercati Tosano. Una manovra che ha trasformato quei terreni in zona edificabile, perciò la vendita è stata molto favorevole per le casse della società veronese. Ma gli interventi della giunta Tosi a favore di quell'affare tra privati non si fermano qui. Dopo l'arresto di Giacino, la Soprintendenza ha bloccato il centro commerciale perché troppo a ridosso del Forte Tomba, la fortezza costruita nell'Ottocento dagli austriaci. Un vincolo comunicato a Nicolis il 3 febbraio 2014. Nonostante ciò, poco dopo, l'area è stata venduta alla Supermercati Tosano. A novembre quest'utltima ha fatto ricorso al Tar contro la Soprintendenza. E in questa battaglia non sarà sola, perché l'amministrazione comunale si è schiarata al fianco dei privati: secondo la l'amministrazione Tosi, la società Tosano, ma anche il venditore, cioè l'amico Nicolis, avrebbero subito un danno ingiusto. Una vera e propria anomalia secondo l'opposizione. Nicolis sa rapportarsi con la politica della sua città. Lo scrivono gli investigatori antimafia, i quali precisano che questi rapporti gli garantiscono la possibilità di «manovrare degli affari e conoscere – in anticipo – eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Per questo Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo “capitale sociale”. E l'industriale veronese con la dote che si porta dietro conquista i cuori degli 'ndranghetisti. Per il capo clan è «l'amico degli amici». E poi è tra i pochi “padani” accettati al cospetto del padrino Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”. «Una grande persona», avrebbe detto di lui lo stesso “Manuzza”. Il manager del clan Gualtieri è convinto che con Nicolis il clan potrà puntare molto in alto: «Abbiamo un bellissimo rapporto... ma bello davvero... con quel signore che mi ha dato... la macchina... è uno dei primi industriali di Verona!... e che è lui che mi sta dando una mano politicamente per fare questo affare (riferito alla Rizzi Costruzioni ndr)». Non solo, sempre secondo il braccio imprenditoriale del padrino, Nicolis «c’ha la politica in mano.., lui, il sindaco e il vice sindaco mangiano in casa sua!!». Gli investigatori sono riusciti a ricostruire anche un incontro fondamentale per le indagini, che si è tenuto a Cutro, tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. Era il Natale del 2011. E il boss, il manager e l'industriale si ritrovano nel feudo calabrese per un summit. Dopo l'incontro, Gualtieri e Nicolis si scambiano qualche opinione sul grande capo. Le cimici piazzate nel Suv dell'emissario della 'ndrangheta intanto registrano. I due non lo sospettano e parlano. Nicolis non sembra affatto stupito dell'incontro con il boss, anzi all'inizio sembra deluso: «Non mi sembra tanto forte questo qua». Ma Gualtieri, che conosce meglio di lui l'autorità criminale, lo zittisce: «Morè, ascolta, lui è quella persona che comanda la Calabria... Senti a me, a un tuo fratello, che io ti voglio bene veramente … Morè, lui comanda». Dialoghi che secondo il giudice per le indagini preliminari che ha confermato i gravi indizi di colpevolezza e concesso gli arresti domiciliari all'incensurato Nicolis, dimostrano «il forte legame con l'associazione mafiosa, di fatto non ricollegato a comuni origini regionali né a vincoli parentali». Come dire, un rapporto allacciato per un proprio tornaconto personale. Insomma, questione di business. E di conoscenze politiche.
Emilia, la 'ndrangheta punta ai politici. Ecco l'inchiesta shock. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo del sindaco leghista Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi Il ciclone giudiziario che si è abbattuto sull'Emilia scuote la vicina Verona. Anche qui la 'ndrangheta emiliana dei Grande Aracri può contare su un piccolo nucleo. Ma soprattutto è terra santa per il business. Specie se a introdurre negli ambienti giusti il braccio destro del grande capo Nicolino detto “Manuzza” è un'industriale e di nome fa Moreno Nicolis. Un profilo impeccabile: imprenditore del ferro, ambizioso e con buone relazioni nell'amministrazione del sindaco leghista Flavio Tosi. E proprio quest'ultimo finisce ospite di Nicolis nella sua taverna. Un pranzo al quale, secondo gli investigatori dell'Arma, ha preso parte il primo cittadino, l'ex vicesindaco Vito Giacino, poi caduto per corruzione, e alcuni insospettabili manager della cosca emiliana. Uno di questi è Antonio Gualtieri, ritenuto la mente degli affari della 'ndrina e per questo è finito in cella con l'accusa di associazione mafiosa. «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferisce Gualtieri a un sodale. Una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma confermata anche da un altra indagata, un colletto bianco dell'organizzazione che ha avuto l'onore, come lei stessa ammette, di ospitare nel suo ufficio in pieno centro a Bologna il capo dei capi “Manuzza”. È solo uno degli elementi nuovi che stanno emergendo dall'inchiesta Aemilia che ha portato al fermo di 117 persone legate alla cellula mafiosa che dagli anni '80 ha messo radici tra Modena e Piacenza, e che negli ultimi anni si sta espandendo a Est, seguendo la direttrice dell'autostrada del Brennero. Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. L'avanzata prosegue. Così come l'indagine, che dura dalla fine del 2010. È di due anni fa invece il faccia a faccia tra Graziano Del Rio, ex sindaco di Reggio Emilia e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i pm che hanno condotto l'inchiesta di questi giorni. Il politico era stato sentito in qualità di persona informata dei fatti. Il pool era interessato alla sua versione sulla ormai famosa processione nel paesone di Cutro, fuedo calabrese del clan Grande Aracri. Lui si è sempre giustificato spiegando che era un atto dovuto visto che Reggio e Cutro sono gemellati. Con lui però a quella processione, oltre agli altri candidati sindaci, c'era anche Antonio Olivo che, secondo fonti de “l'Espresso, ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. Olivo non è indagato. Così come non lo è Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e moglie dell'attuale sindaco democratico Luca Vecchi. Di lei, che è stata sentita dai pm nello stesso periodo di Del Rio, alcuni rapporti di polizia parlano di presunti favoritismi verso imprenditori sospettati di vicinanza alla 'ndrina emiliana. Ombre decisamente più pesanti sulla politica reggiana sono quelle però che si sono addensate sul centro destra che conta i primi due politici indagati per concorso esterno: uno è Giuseppe Pagliani di Forza Italia, arrestato, l'altro è Giovanni Bernini, che in passato è stato il consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi.
Truffa dei rimborsi della Lega, chiesto il processo per Bossi e Belsito, scrive “Il Secolo XIX”. Una truffa sui rimborsi elettorali della Lega Nord per circa 40 milioni di euro, un caso sollevato originariamente da un’inchiesta giornalistica del Secolo XIX del gennaio 2011. Con questa accusa è stato chiesto il rinvio a giudizio dalla procura di Genova per l’ex segretario della Lega Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito per la presunta truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato da circa 40 milioni di euro. Oltre a Bossi e a Belsito, chiesto il giudizio anche per altri tre componenti del comitato di controllo di secondo livello del Carroccio: Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci. A chiedere il rinvio a giudizio è stato il pm Paola Calleri che ha ereditato l’inchiesta dalla procura di Milano, che l’ha trasferita per competenza territoriale. Esiste un’altra tranche della stessa indagine, quella che riguarda il riciclaggio dei fondi elettorali del Carroccio in Africa: l’ex tesoriere Francesco Belsito e i suoi sodali sono indagati con lui per un investimento estero da 5,7 milioni di euro di fondi pubblici dirottati su banche offshore; le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di appropriazione indebita, truffa e riciclaggio. Di questi soldi, una prima “tranche” (circa 1,2 milioni di euro) sarebbe stata stornata «dal conto corrente della Lega attraverso un bonifico in favore della società inglese Krispa Enterprises, della quale Paolo Scala era titolare effettivo, presso la banca di Cipro, somma della quale una parte, pari a 850mila euro è stata restituita a febbraio 2012»; un secondo importo (pari a 4,5 milioni) sarebbe stato trasferito, sempre tramite bonifico, dal conto del Carroccio a quello «intestato a Stefano Bonet presso la Fbme Bank della Tanzania, somma non accreditata per il rifiuto di quest’ultima banca, la quale non aveva ritenuto sufficiente la documentazione allegata, ma restituita soltanto a febbraio 2012». Nel provvedimento vengono indicate come parti offese la Camera, il Senato e la Lega Nord. Anche in questo caso della vicenda si occuperà il tribunale genovese.
LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.
Così la Mafia conquista il Nord d'Italia. Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli Anni 80. Eppure ci sono ancora molti esponenti della politica e della società civile che negano l'esistenza della grande criminalità organizzata. Per i magistrati ormai non si deve più parlare di infiltrazione ma di interazione-occupazione. Una presenza capillare che riguarda ogni regione e provincia, fino al singolo municipio. Lo vediamo nella mappa pubblicata nella nostra inchiesta: ricostruisce, per la prima volta, dove si sono piazzati i clan e quali sono le famiglie di riferimento, scrivono Daniele Autieri, Giuseppe Baldessarro, Valerio Gualerzi, Michele di Salvo e Salvo Palazzolo con un commento di Attilio Bolzoni. Tutto su “La Repubblica”.
Il Sistema come agenzia di servizi di Salvo Palazzolo. L'ultimo capomafia siciliano che ha deciso di collaborare con la giustizia, neanche due mesi fa, ha raccontato di aver trasferito la sua residenza a Mestre per "stare un po' più tranquillo". Così ha detto Vito Galatolo, rampollo di un'antica dinastia di Cosa nostra. I suoi fidati lo andavano a trovare ogni settimana, portandogli cassette di pesce fresco e la contabilità degli affari a Palermo. Intanto, in Veneto, Galatolo tesseva nuove alleanze criminali. E nessuno se n'era accorto. Perché di questi tempi il profondo Nord sembra assomigliare tanto al profondo Sud degli anni Ottanta: ancora tanti, nella società civile e nella politica, non vedono la mafia. Mentre i magistrati continuano a denunciare, con le loro inchieste, i processi, ma anche con prese di posizione eclatanti. L'ultima, è quella del presidente della Corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, che sabato 24 gennaio, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha denunciato: "La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione". A rischio, secondo i magistrati, c'è l'appuntamento simbolo dell'economia del Nord, l'Expo. Perché la presenza di 'Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra si fa sempre più insidiosa. Ecco allora perché è urgente tornare a ripercorrere numeri e storie delle mafie. E' l'obiettivo di questo dossier, che traccia una mappa aggiornata del "sistema", come lo chiama la Direzione nazionale antimafia. Un sistema che ha ormai affinato un metodo. Non è più quello del terrore, come nella Milano degli anni Settanta, battuta da estorsioni e sequestri architettati dai clan siciliani e calabresi. Oggi, il sistema delle mafie al Nord è una grande agenzia di servizi, che offre soprattutto capitali piccoli e grandi agli imprenditori in difficoltà, magari acquistando quote societarie. Ma l'abbraccio dei boss è fatale. Prima o poi, tutta l'azienda finirà nelle mani dei padrini. È già accaduto. Eppure, tanti imprenditori continuano a ritenere più conveniente rivolgersi all'agenzia di servizi del crimine organizzato. Anche nel profondo Nord è ormai scoppiata una grande "voglia di mafia". Ma, in fondo - hanno ragione i magistrati più avveduti - neanche questa è una novità. Nel 1974, un importante imprenditore milanese che temeva un sequestro chiese a un amico palermitano di presentargli qualcuno in grado di proteggerlo. Così fu organizzato un incontro, a cui partecipò uno dei capimafia siciliani più importanti dell'epoca. Era Stefano Bontate: assicurò che un suo uomo avrebbe garantito giornate tranquille alla famiglia dell'imprenditore, fingendo di essere il fattore della loro villa. Quell'imprenditore si chiama Silvio Berlusconi. L'amico palermitano è Marcello Dell'Utri, che sta scontando una condanna a sette anni per aver mediato l'accordo di protezione. Dagli anni Settanta a oggi, i mafiosi sono diventati un po' più insospettabili, e i loro servizi sono aumentati.
Il tabù infranto di Michele Di Salvo. Sono ormai moltissimi i processi e le indagini che certificano la presenza delle organizzazioni criminali, di ogni matrice e origine, nel tessuto socio-economico settentrionale. Nonostante quelle che ormai possiamo considerare certezze consolidate sembra che ammettere che le mafie hanno messo le mani al nord, e in particolare a Milano, nella capitale economica d'Italia, sembra un tabù. L'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni si disse "Indignato dalle parole di Saviano" quando lo scrittore nel novembre 2010, ospite della trasmissione "Vieni via con me", accennò alle possibili infiltrazioni mafiose al nord, semplicemente citando articoli di giornale e inchieste. Maroni in quella circostanza chiese e ottenne un contraddittorio a "Che Tempo Che fa". "Come ministro e ancora di più come leghista mi sento offeso e indignato dalle parole infamanti di Roberto Saviano, animate da un evidente pregiudizio contro la Lega". Parole dette mentre era titolare del Viminale, e aggiunge che chi avesse sentito "Saviano parlare senza contraddittorio potrebbe essere indotto a pensare che in quelle parole c'è qualcosa di vero e siccome non è così voglio poter replicare a quelle stupidaggini". "Del resto che non ci fosse la volontà, prima di tutto politica, di mostrare con chiarezza il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali nelle regioni settentrionali, è chiaramente mostrato dagli stessi rapporti semestrali preparati dalla DIA per la relazione del Ministro dell'Interno al Parlamento. Quello che dovrebbe essere il momento più elevato della rappresentazione della presenza del crimine organizzato all'organo legislativo, che dovrebbe appunto legiferare in materia anche e sopratutto tenendo conto di un quadro chiaro della situazione nazionale, e quello che dovrebbe essere un documento utile ai rappresentanti dei cittadini di tutte le regioni, omette incredibilmente una "rappresentazione grafica chiara" di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, lasciando trasparire un messaggio per cui le organizzazioni criminali sono un fenomeno geograficamente circoscritto e concentrato, e non una questione grave nazionale che tocca anche il più piccolo comune." Il ministro - di lì a poco segretario della Lega Nord - ammise che le mafie non erano un fenomeno locale e soprattutto non erano un fenomeno leghista. Chissà che avrebbe detto se avesse immaginato che entro tre anni sarebbe scoppiato il caso Belsito che evidenziò diversi tentativi di avvicinamento (durati circa vent'anni che gli inquirenti ipotizzano già sotto il tesoriere Maurizio Balocchi) tra le 'ndrine e d esponenti leghisti. Già, i tempi in cui il leader fondatore incontrastato della Lega era Umberto Bossi che nel 1990 sentenziava: "Basterebbero sei mesi, al massimo un anno di governo della Lega lombarda per far sparire anche l'odore della mafia da Milano". Che Milano fosse indenne dall'infiltrazione mafiosa lo disse anche Letizia Moratti intervenendo, il 25 maggio 2009, ad Annozero. Non solo politica e giornalismo si indignano quando si parla di cosche a Milano. Accade che lo facciano anche i massimi rappresentanti dello Stato. Prima della querelle a distanza Maroni-Saviano, il 21 gennaio 2010, a negare l'esistenza della 'ndrangheta nel capoluogo lombardo era stato il prefetto della città Gian Valerio Lombardi: "A Milano ci sono mafiosi, ma la mafia non esiste". Lo disse durante la prima audizione della commissione parlamentare antimafia a Milano in vista dell'Expo. Lombardi poi specificò indirettamente che non era in discussione la presenza delle organizzazioni criminali quanto il loro modo di agire: più imprenditoriale che "esecutivo". Sul filo sottile dell'etimologia è l'ex-sindaco ed ex-ministro Letizia Moratti, che il 23 gennaio 2010 dichiarò "io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata". Sulle barricate anche gli imprenditori. Nel maggio 2007 Roberto Predolin, allora presidente della controllata Sogemi, la società che gestisce tutti i mercati agroalimentari all'ingrosso, alla domanda se ci fosse la 'ndrangheta all'Ortomercato rispose secco: "Che sappia io, no". Oggi le indagini certificano invece che l'Ortomercato di Milano è considerato uno dei centri di controllo della criminalità organizzata. Secondo Paolo Pillitteri, sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi. "Nella nostra città una Piovra, sì una grande criminalità mafiosa, non esiste". Era il 1989 ed aggiunse, a scanso di equivoci: "Il bello della Piovra è proprio che si tratta di una favola, soltanto di una favola". Del resto sia lui che un altro sindaco sindaco Borghini sarebbero stati "rassicurati" dal giudice di Cassazione Corrado Carnevale che nell'agosto del 1991 assolvendo gli imputati scrisse testualmente nelle motivazioni della sentenza: che gli imputati "si frequentassero, concludessero affari con boss del calibro dei fratelli Bono, Salvatore Enea o con società del gruppo Inzerillo, e che questi legami non fossero né privati né occasionali o sporadici, bensì per motivi e ragioni di comuni interessi, assistenza e finanziamenti e operazioni speculative... non può di per sé essere utilizzato come prova dell'organizzazione criminale, né dell'appartenenza a essa". Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti. Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza-Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. L'elevata densità demografica corrisponde in genere a migrazioni storiche e l'alta densità demografica implica maggiore mimetizzazione sociale e più favorevoli opportunità di costruzione di relazioni sociali e professionali anonime. Infine l'alta densità demografica si associa a una elevata percentuale di cementificazione del territorio, processo che implica una esaltazione delle opportunità di inserimento delle imprese mafiose. Secondo l'Istat (2012) le provincie più cementificate di Italia risultano nel 2011, nell'ordine, Monza-Brianza (54 per cento di superfici edificate), Napoli (43), Milano (37) e Varese (29), e non è un caso che tutte e quattro le provincie si caratterizzino per una forte presenza, antica o espansiva, degli interessi di stampo mafioso. La formula ideale del successo sembra essere quindi "piccoli comuni-alta densità demografica". Sottovalutazione del fenomeno e rimozione, talvolta sfociante in un vero e proprio negazionismo, vanno di pari passo con l'inadeguatezza del grado di informazione sui fenomeni malavitosi e di contrasto all'attività del crimine organizzato. Del resto il modus operandi dei gruppi mafiosi è notevolmente flessibile. Possono avvantaggiarsi dell'alta o della bassa densità demografica, della abbondanza di risorse o della crisi (usura, gioco d'azzardo), dei servizi sociali evoluti o del degrado urbano, del servizio pubblico o dell'economia privata; e nella scelta della propria rappresentanza politica non presentano predilezioni a priori per l'uno o l'altro schieramento. Le organizzazioni mafiose, pur influenti, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi "pacchetti" di consensi. Ciò indica che il grado di organizzazione del consenso non si è ancora sviluppato, nelle regioni a maggior presenza mafiosa, come nelle realtà più tradizionali. Sia le inchieste lombarde sia quelle piemontesi rivelano la presenza di un alto numero di esponenti dei clan nati nelle regioni di nuova residenza, perfettamente orientati a riprodurre gli schemi di condotta praticati dalle rispettive organizzazioni nei luoghi di origine.
La mappa regione per regione di Michele Di Salvo.
La Lombardia è una regione di insediamento storico delle organizzazioni criminali: tutte le più importanti vi si sono stabilite non solo per le molte possibilità di investimento nelle attività legali (grandi opere, imprese, locali notturni) e illegali, ma anche per la scarsa resistenza ambientale. La disattenzione istituzionale e sociale al fenomeno mafioso e diversi fenomeni criminali differenti quali terrorismo, tangentopoli, immigrazione che hanno "coperto" il problema, hanno permesso alla criminalità organizzata una penetrazione sociale senza forti ostacoli. Il Nord-Ovest della regione (Como, Lecco, Varese, Milano e Monza e Brianza) è caratterizzato da presenze antiche e solide. Nella fascia meridionale della regione si individua una più recente e preoccupante pressione: la provincia di Lodi sembra svolgere una funzione di nicchia protetta e di area di avvicinamento all'hinterland milanese. Le provincie di Mantova e Cremona, invece, confinano con le provincie emiliane a maggiore presenza mafiosa. Fino alla fine degli anni '80 l'organizzazione predominante è stata Cosa nostra. Oggi ne risultano attivi diversi gruppi. Attualmente, invece, è la 'ndrangheta a essere l'organizzazione più forte: seppur insediatasi nel territorio lombardo nello stesso periodo di Cosanostra, è solo dagli arresti che hanno colpito i siciliani dagli anni '90 che ha affermato una sua indiscussa egemonia sviluppando una sorta di "colonizzazione" in diverse aree della regione, con una solida rete di alleanze e di rapporti istituzionali, nelle pubbliche amministrazioni, con professionisti e imprenditori privati. Con l'indagine Infinito del luglio 2010 gli inquirenti hanno identificato sedici locali, ognuna rispondente a una propria locale madre calabrese, ma insieme coordinate dalla "Lombardia", ovvero una sovrastruttura federativa che attraversa fasi alterne di autonomia rispetto alla Calabria. Presenza più difficile da analizzare è quella della camorra, da sempre attratta dalla ricchezza e dalle possibilità offerte soprattutto dal mercato della droga lombardo. Dalle più recenti indagini sono risultati attivi nella regione diversi gruppi: la famiglia Di Lauro, il gruppo Nuvoletta, la famiglia Laezza, legata al clan Moccia di Afragola, un gruppo che fa riferimento al clan Di Biase-Savio. È emerso, inoltre, l'interesse del clan dei casalesi e del gruppo Belforte di Marcianise nel settore del gioco, e la presenza del clan Fabbrocino e del clan Gionta.
Il Piemonte, come la Lombardia, ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata. L'espansione urbanistica degli anni '60, compresa quella delle zone turistiche, ha contribuito allo sviluppo di un fenomeno di colonizzazione a macchia di leopardo. In Piemonte si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata dalle recenti operazioni Minotauro e Albachiara. Grazie a esse è stato messo in evidenza un radicamento forte e strutturato soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia, che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici. Nel 2012 l'inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce l'esistenza di 9 cosche locali nell'area metropolitana, ma anche di una struttura territoriale non riconosciuta, chiamata "Bastarda", con influenze in provincia di Torino. Gli inquirenti, allo stato delle indagini, ipotizzano l'esistenza in Piemonte del "Crimine", organismo al vertice della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione del territorio, mentre manca la "Camera di Controllo" (apparato di coordinamento dell'organizzazione criminale presente in Lombardia e in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della 'ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte. (Secondo il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli questa struttura controlla anche i comuni di Rivarolo Canavese, Castellamonte, Ozegna, Favria e Front).
In Valle d'Aosta la stessa Commissione regionale speciale per l'esame del fenomeno delle infiltrazioni mafiose in regione pur sostenendo nel 2012 che non esiste una presenza strutturata di organizzazioni criminali, ha però evidenziato "l'influenza di grandi famiglie della 'ndrangheta che si è manifestata nel corso degli anni con episodi di riciclaggio di denaro, di traffico di stupefacenti e di estorsioni". La Direzione Nazionale Antimafia già nel 2010 era andata oltre, ipotizzando la presenza di una locale di 'ndrangheta. L'ipotesi troverebbe conferma in alcune intercettazioni dell'operazione torinese Minotauro. Nonostante la predominanza della 'ndrangheta, si colgono in Valle i segni di presenza di altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso. Nella seconda metà degli anni '90 hanno operato nella regione soggetti legati alla Stidda e vi si sono trasferite due famiglie legate al clan gelese degli Emmanuello ed è emerso l'interesse della cosca Mandalà per il casinò di Saint Vincent, a seguito di alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Francesco Campanella.
La Liguria rappresenta una regione storicamente interessante per le principali organizzazioni criminali di tipo mafioso: terra di confine, costituisce tuttora una base logistica per la gestione di latitanti che, passando per Ventimiglia, trovano rifugio nelle località contigue francesi; terra di mare, offre strategici snodi portuali in cui far confluire partite illecite di droga; terra di immigrazione, dalla seconda metà degli anni '40 diviene residenza di esponenti criminali all'interno dei flussi migratori, provenienti soprattutto da Sicilia e Calabria, composti da onesti corregionali in cerca di occupazione; terra di soggiornanti obbligati, e terra del gioco d'azzardo - con il casinò di Sanremo - da decenni rappresenta una tra le principali sedi del riciclaggio di denaro di illecita provenienza. Ad oggi si riscontra la presenza delle principali organizzazioni criminali di stampo mafioso, con un evidente primato della 'ndrangheta su camorra e cosa nostra, in linea con lo scenario nazionale ed internazionale in cui la mafia calabrese ricopre da anni un ruolo apicale. La 'ndrangheta si caratterizza per una presenza stabile e strutturata nella regione, con cosche locali innestate sul territorio secondo una precisa strategia di colonizzazione. Con l'inchiesta Il Crimine (2010), oltre allo scenario della 'ndrangheta in Liguria emerge l'esistenza di una camera di controllo e di "almeno nove locali", rispettivamente a Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana, Sanremo, Rapallo, Taggia, Savona e Imperia. La presenza di una camera di controllo, o camera di compensazione, esistente in Lombardia ma assente in Piemonte, sembra sottolineare l'elevato grado di strutturazione della associazione in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia. La presenza di Cosa nostra è stata riscontrata nelle diverse provincie. L'esistenza di decine di Cosa nostra nel capoluogo risale agli anni '80. Nel 1979 un importante boss mafioso, Salvatore Fiandaca, venne inviato al soggiorno obbligato nel comune di Genova diventando negli anni successivi capo decina del clan Madonia. Negli anni giunsero in Liguria diverse famiglie mafiose: Vallelunga, Di Giovanni, Lo Iacono, Aglietti, Morso, Monachella e gli Emmanuello attratti dalla presenza di numerosi cantieri, dalle opere di costruzione del tratto autostradale, nonché dalla posizione strategica della regione confinante con la Francia. La presenza della Camorra è rilevante nella città di Genova, dove è attiva nello spaccio di sostanze stupefacenti, nel levante ligure nell'ambito dell'edilizia, degli autotrasporti, dell'agricoltura in serra mentre a Sanremo è dedita prevalentemente al riciclaggio e al traffico di merce contraffatta.
In Emilia Romagna le principali organizzazioni criminali operano pacificamente sul medesimo territorio, talvolta stringendo patti per la conclusione di affari nei settori maggiormente remunerativi. La 'ndrangheta si dimostra, insieme al clan dei casalesi, la realtà criminale più incisiva. Seguono altri clan camorristici presenti nella provincia di Modena e in Romagna, più alcune presenze significative di Cosa nostra. In Romagna il riciclaggio è favorito dalla vicinanza con la Repubblica di San Marino. La 'ndrangheta risulta attiva in particolare nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Le 'ndrine maggiormente rappresentate sono quelle originarie di Platì, San Luca, della Piana di Gioia Tauro, di Isola di Capo Rizzuto ma in particolare quelle provenienti da Cutro, nel crotonese. La camorra risulta particolarmente attiva in provincia di Modena, benché recenti indagini rivelino un apprezzabile spostamento verso la sponda romagnola. La presenza dei casalesi sul territorio è in aumento e, negli ultimi anni, la magistratura ne ha più volte sottolineato la pericolosità. Si tratta di compagini criminali poco strutturate, sotto-gruppi vincolati da un legame stringente con i clan campani di provenienza. Senza alcuna ambizione di egemonia, spesso stringono affari con esponenti di altre organizzazioni criminali (calabresi o siciliane) con le quali operano soprattutto nell'ambito del gioco d'azzardo e delle estorsioni. Con l'operazione Vulcano del febbraio 2011 i carabinieri del ROS di Bologna hanno tratto in arresto soggetti appartenenti a tre clan camorristici diversi: i casalesi afferenti a Nicola Schiavone, i Vallefuoco di Brusciano e i Mariniello di Acerra. La peculiarità del sodalizio criminale che ne è emerso sta nel fatto che questi clan sono tra loro in conflitto in Campania, ma in Emilia Romagna risultano compartecipi in affari illegali. Di pochi giorni fa la maxiretata sulla 'ndrangheta con 117 richieste di custodia cautelare. Mani delle cosche sugli appalti, anche quelli della ricostruzione con gli indagati che ridono dopo il terremoto del 2012. E che parlano fra loro un linguaggio fatto di allusioni e frasi gergali. Cosa nostra appare oggi meno incisiva rispetto alle altre due principali organizzazioni criminali. L'organizzazione siciliana risulta particolarmente attiva nel modenese, nei comuni di Sassuolo, Carpi e Fiorano, residenze in passato di importanti soggiornanti obbligati o di sorvegliati speciali. Ancora nel 2005 diversi uomini legati al boss Bernardo Provenzano furono arrestati nei comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola e Modena. Nella zona di Parma risultano presenti esponenti delle famiglie Emmanuello e Rinzivillo originarie di Gela e appartenenti a Cosa nostra nissena, e nella zona di Piacenza è stata riscontrata la presenza di esponenti del clan Galatolo, operante nel quartiere Acquasanta di Palermo.
Il tessuto economico del Veneto risulta essere particolarmente attrattivo per i gruppi criminali perché caratterizzato da piccole e medie imprese, un alto tasso di industrializzazione e da una fitta rete di sportelli bancari. Al dinamismo del sistema imprenditoriale e alla sua ricca articolazione si sovrappone la perdurante crisi economica in cui versa l'Italia, con la conseguente mancanza di liquidità. Questa situazione, associata alla reticenza delle banche ad erogare prestiti alle imprese a rischio di insolvenza, sembra avere portato molti piccoli imprenditori veneti in difficoltà a rivolgersi alla criminalità organizzata. Basti ricordare l'indagine Aspide del 2011 che ha visto coinvolti soggetti che erogavano crediti agli imprenditori per poi vincolarli al pagamento di interessi altissimi fino ad ottenere l'acquisizione delle attività. Il Veneto, inoltre, costituisce un potenziale snodo strategico per i traffici illeciti, interni e internazionali, dal narcotraffico al traffico illecito di rifiuti. Tra gli anni '70 e '90, molti boss di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta vi sono stati inviati al confino. Si pensi a Salvatore "Totuccio" Contorno, al boss 'ndranghetista Giuseppe Piromalli oppure ad Anna Mazza, appartenente al clan Moccia di Afragola e conosciuta come la "vedova della camorra". Oggi diverse operazioni di polizia hanno dimostrato una presenza vivace della criminalità organizzata e, in particolare, della camorra, presente soprattutto nelle provincie di Venezia e di Padova. La prevalenza di sodalizi campani rispetto ad altre forme di associazionismo mafioso, si riflette anche sulla natura e sulle modalità di infiltrazione, configurato come delocalizzazione di specifiche attività. Negli ultimi anni si è riscontrata però una sempre più consistente presenza della 'ndrangheta, specialmente nella provincia di Verona. Un esempio significativo è il caso del comune Garda, dove nel 2012 è stato richiesto il commissariamento per sospette infiltrazioni della 'ndrangheta negli appalti e negli uffici comunali. Nella regione non mancano neppure gruppi riferibili a Cosa nostra, che sembrano attivi nella marca trevigiana, nel veneziano e nel padovano.
In Friuli Venezia Giulia nel corso degli anni è stata riscontrata la presenza di soggetti riconducibili alla mafia siciliana, alla camorra, alla 'ndrangheta calabrese e a sodalizi pugliesi. La collocazione geografica della regione, il peculiare tessuto socio-economico e la piccola imprenditoria che caratterizzano l'economia locale costituiscono un'attrattiva per gruppi criminali. Il Friuli ha così assunto un ruolo strategico "di secondo grado", diventando una sorta di area di transito in prossimità del confine con la Croazia e la Slovenia, ma anche uno snodo importante per i traffici illeciti, soprattutto via mare, che ha visto particolarmente coinvolte la città di Trieste e il comune di Monfalcone. L'arresto di diversi latitanti, affiliati a gruppi criminali di diversa provenienza: cosche campane, clan calabresi o gruppi di origine pugliese, induce a ritenere che la criminalità organizzata consideri il Friuli Venezia Giulia un luogo sicuro dove cercare rifugio, una regione in cui è agevole, anche per la disabitudine locale a confrontarsi con il tema, allestire proprie "reti di assistenza". La predominanza storica è della camorra, particolarmente interessata ad operare nella zona di Trieste, nel comune di Monfalcone e sul litorale udinese. Per quanto riguarda Cosa nostra, invece, la presenza si è concentrata storicamente nella provincia di Pordenone e, in particolare, nel comune di Aviano e dintorni, e nella provincia di Udine.
In Trentino Alto Adige le diverse forme di criminalità organizzata, e in particolar modo la 'ndrangheta, hanno adottato una strategia di infiltrazione "leggera", mantenendo il classico basso profilo, che non si esprime solo nell'assenza di locali. La posizione geografica della regione gioca un ruolo strategico e di attrazione in quanto collocata in prossimità del confine con la Svizzera e proiettata verso il centro dell'Europa. Non è un caso, infatti, se l'attività più diffusa sul territorio sia proprio il narcotraffico.
"Sono ovunque, solo la cultura ci può salvare" di Valerio Gualerzi. Sarebbe il caso di cambiare espressione. Quando si racconta di vicende mafiose lontane da Sicilia, Calabria o Campania il riflesso condizionato ci porta ancora a usare la parola "infiltrazione", ma da anni si tratta ormai in realtà di un vero e proprio radicamento. Il professore Enzo Ciconte, a lungo parlamentare nelle file del Pci-Pds e coautore dell'Atlante delle mafie edito da Rubbettino, ne è convinto. "Sa qual è la prova migliore di quanto le sto dicendo? Provi a leggere un'ordinanza giudiziaria coprendo l'intestazione del tribunale che l'ha emessa. Dalle descrizioni dei fatti e del contesto faticherebbe a capire che non si riferisce a vicende avvenute al Meridione, ma a Pavia piuttosto che a Sanremo. Le mafie sono presenti ormai stabilmente in tutta Italia e in particolare nel triangolo Liguria, Lombardia, Piemonte".
Professor Ciconte, possibile che nessuno sia riuscito a rimanere immune?
"Si tratta di una diffusione non omogenea, a macchia di leopardo, con alcune aree che ancora resistono meglio di altre, come buona parte dell'Emilia Romagna, ma nel complesso la criminalità organizzata, e in particolare la 'ndrangheta, sono riuscite ovunque a conquistare l'economia locale, a stringere rapporti con l'imprenditoria e a far eleggere sindaci, amministratori e consiglieri comunali. In quest'ultimo caso il problema è stata la formulazione dell'articolo 416 ter che punisce i politici solo se aquistano voti in denaro, ma non interviene se la controparte sono favori generici. La presenza mafiosa al nord è talmente forte che ormai anche un tratto considerato tipico del sud, come l'omertà, è ormai una caratteristica del settentrione. Allo stesso modo tante inchieste dimostrano che il rapporto tra imprenditoria locale e mafie non è più subito, ma spesso cercato dagli stessi imprenditori, magari per delegare il recupero crediti".
Che cos'è che ha favorito il radicamento di questa presenza?
"I fattori decisivi sono quelli culturali ed economici, spesso intrecciati. Penso ad una società che negli ultimi decenni è stata dominata dalla parola d'ordine 'arricchitevi' e dal disprezzo delle regole, anni in cui il presidente del Consiglio sosteneva la liceità dell'evasione fiscale. La crisi poi ha fatto il resto, perché se le banche chiudono i rubinetti del credito, la disponibilità di liquido delle mafie è invece illimitata. Anzi, la mafia ha bisogno di far girare il suo denaro per ripulirlo e non stiamo parlando di usura, ma di investimenti".
Eppure gli episodi di violenza continuano ad essere concentrati al sud.
"Certo, la grande criminalità organizzata non vuole attirare l'attenzione su di sé e uccide solo se strettamente necessario. Se possibile poi preferisce aspettare l'occasione giusta, quando la vittima torna nella terra d'origine per le vacanze o per fare visita ai parenti. Lì un omicidio desta meno impressione, fa meno notizia".
Nel loro trapiantarsi al centro nord le mafie hanno assunto caratteristiche diverse in base al luogo di insediamento?
"Direi di no. A parte le scontate attività illecite come il traffico di droga, hanno puntato soprattutto sull'edilizia e sulle imprese per il movimento terra, oltre che su commercio e ristorazione".
Qual è l'antidoto per riconquistare la legalità ed evitare che il contagio si diffonda ancora?
"Innanzitutto bisogna prendere coscienza della portata del problema. Ognuno deve fare la propria parte. Se l'imprenditore fa l'imprenditore non serve l'antimafia. Sembra una banalità, ma non lo è. Come in una banda, affinché ci sia armonia occorre che ogni strumento dia il suo contributo. Senza dubbio però la battaglia si gioca soprattutto sul piano culturale. Le mafie questo lo hanno capito e hanno prima messo da parte la loro tradizionale ritrosia, venendo allo scoperto con interviste e dichiarazioni dei boss, e ora cercano di imporre loro modelli culturali, come con la musica dei neomelodici in Campania".
Il "mondo di sotto" della camorra a Roma di Daniele Autieri. Nel "mondo di sotto" ritratto da Massimo Carminati come il luogo dove si agitano i "morti" e dove regnano crimine e violenza, le leggi, gli equilibri, i regolamenti di conti sono gestiti da un'organizzazione spietata e capillare, dotata di massicci gruppi di fuoco, e protetta da un grande fratello criminale che osserva a 200 chilometri di distanza. Alcuni inquirenti già la chiamano "Camorra Capitale" perché è cresciuta negli ultimi venti anni imbastardendo le origini camorriste con embrioni della criminalità romana. Soprattutto di stampo neofascista. "È la teoria del mondo di mezzo, compà - ripeteva Carminati a Riccardo Brugia - ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo". Scovati gli intrecci e le connivenze con i "vivi" della politica, mancava un tassello per completare il quadro a tinte fosche disegnato dal boss di "mafia capitale". Mancavano i "morti". E il mondo di sotto, quello dei "morti", Massimo Carminati lo fissa negli occhi il 30 aprile del 2013, fuori dal bar "La Piazzetta" in zona Fleming, quando incontra Michele Senese. È quest'uomo nato ad Afragola che tiene in mano lo scettro criminale della città. Estorsioni, traffico internazionale di stupefacenti, ricatti, minacce: un padrone assoluto che impone la sua legge sotto l'egida del piombo. E al suo fianco i "napoletani di Cinecittà", partiti da Roma Est per conquistare la Capitale. Un obiettivo raggiunto perché il gruppo esercita ormai il controllo quasi ovunque, da Tor Bella Monaca a Ponte Milvio e, oltre alle attività più tradizionali delle organizzazioni mafiose, si è infiltrato nel ventre malato dell'imprenditoria romana. Le origini: l'omicidio Carlino. Casa di reclusione di Rebibbia, Roma. Anno 1999. Michele Senese, boss della camorra trapiantato da anni a dirigere il traffico criminale della Capitale si affaccia alla finestra della sua cella e urla in direzione di Carlino, uno dei capi della banda della Maranella. "Se non lo ammazzi tu a tuo fratello, lo ammazzo io. Vi ammazzo a tutti quanti". Due anni dopo la promessa è mantenuta. Il 10 settembre del 2001, mentre Senese è ancora in carcere, un commando di fuoco assalta la villa di Torvajanica dove vive Giuseppe Carlino e lo uccide davanti agli occhi della madre. L'omicidio lava il sangue di Gennaro Senese, fratello di Michele, assassinato dai Carlino a Centocelle il 16 settembre del 1997. Ma quello della faida familiare è solo uno spunto per mettere in chiaro un imperativo rimasto fino ad allora fumoso: Roma è della camorra. E del clan Senese. Lui, Michele, è un astro nascente nel firmamento criminale. Riconosciuto come un fiancheggiatore della banda della Magliana, si stabilisce in pianta stabile a Roma negli anni '80 dopo aver partecipato alla guerra di camorra che insanguina la provincia di Napoli. Affiliato al clan Moccia, costruisce il suo potere criminale a Roma, dove viene conosciuto da tutti come "ò pazzo" per la sua abilità nello scontare le pene all'interno degli ospedali psichiatrici piuttosto che in galera. Ma le indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri di via in Selci lo mettono all'angolo, insieme a una parte nutrita della sua organizzazione e il 26 giugno del 2013 viene nuovamente arrestato. Questa volta è diversa dalle altre perché il primo grado di giudizio lo riconosce come il mandante dell'omicidio Carlino e lo condanna all'ergastolo. Occhi di ghiaccio. Se il boss di Afragola è il mandante (quando Carlino viene ucciso Senese è ristretto in un ospedale psichiatrico in Toscana), gli esecutori materiali sono altri. E quegli uomini, negli anni di carcere del capo, hanno imposto la sua legge su Roma. Il primo e più temuto è Domenico Pagnozzi (agli arresti con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso), chiamato nell'ambiente ice per via dei suoi occhi di ghiaccio. E con lui Fiore Clemente, Giovanni De Salvo, Raffaele Carlo Pisanelli, Giovanni Moriconi, Vicenzo Carotenuto e Antonio Riccardi. Tutti fedelissimi, riconosciuti colpevoli di aver partecipato al delitto Carlino. Eppure la decapitazione del vertice dei "napoletani di Cinecittà" non frena le attività dell'organizzazione. Tor Bella Monaca come Scampia. Il 24 gennaio scorso il Nucleo investigativo dei carabinieri di Frascati, insieme al Nucleo di polizia tributaria della Finanza, arresta 18 persone nella periferia est di Roma: Tor Bella Monaca. L'operazione sgomina un'organizzazione che gestisce lo stoccaggio e lo spaccio nel quartiere, divenuto per mezza Roma il supermarket degli stupefacenti. A guidare il gruppo è Manolo Monterisi, romano, 36enne, soprannominato "il pugile" e definito dai carabinieri del Nucleo "promotore e organizzatore dell'associazione". Tuttavia, fonti investigative confermano che Monterisi non lavora da solo. Anzi. Alcuni pentiti hanno infatti dichiarato che alle spalle del pugile ci sarebbe Michele Senese e il suo clan. La piazza di TorBella è roba loro. Gli imprenditori. "Camorra capitale" è ovunque. Nel traffico di stupefacenti, negli omicidi, nelle gambizzazioni, ma anche nel "business" delle estorsioni. Se è vero che a Roma il pizzo non esiste, almeno non nella sua forma tradizionale, è anche vero che un numero consistente di imprenditori è finito nelle mani della camorra. Perché? Da anni si è sviluppata una indefinita zona grigia, una vasta macchia di petrolio nero che alimenta l'economia sommersa. Sono centinaia le imprese coinvolte, che lavorano senza pagare tasse né contributi, ma soprattutto senza godere delle tutele previste dallo Stato. E quando sorgono questioni la camorra si sostituisce all'autorità pubblica, dirimendole e pretendendo in cambio denari o l'ingresso nel business. Fino a costringere l'imprenditore a diventare uno schiavo dell'organizzazione criminale. Il mistero dell'arsenale. Nonostante le ambizioni imprenditoriali del gruppo, il controllo del territorio viene ancora esercitato con il piombo. Le armi restano la chiave di questa storia, il deterrente più efficace e l'ultimo appello per risolvere questioni pendenti. Armi che i carabinieri hanno cercato negli ultimi anni in ogni anfratto della città. Oggi però una pista riporta al passato, al 17 dicembre del 2011 quando i carabinieri scoprirono in un garage nei pressi della Casilina un vero e proprio arsenale. Mitragliatori, fucili d'assalto di nazionalità cinese, pistole automatiche, fucili AK47, e oltre 1.400 cartucce. Di lì a poco l'inchiesta "Grano nero" identifica i gestori dell'arsenale: Fabio Giannotta, Claudio Nuccetelli, Manolo Pastore e Mauro Santori. Tutti vantano un pedigree da rapinatori a partire da Giannotta, appartenente tra l'altro a una nota famiglia dell'estrema destra romana. Il padre, Carlo, è stato in passato responsabile della sede Msi di Acca Larentia e il fratello, Mirco, fu nominato dall'allora sindaco Gianni Alemanno capo dell'ufficio decoro urbano del Campidoglio. Fabio invece fa rapine e ama la bella vita: i carabinieri lo seguono mentre sfreccia sulla Casilina alla guida di una Ferrari California blu in direzione di casa. Fino ad oggi gli inquirenti non hanno fatto piena luce su chi fossero gli utilizzatori finali di quell'arsenale, tuttavia proprio in questi giorni emerge una nuova pista e indizi inediti che dimostrerebbero la contiguità di alcuni uomini finiti in "Grano nero" con il clan di Michele Senese. La camorra di Ponte Milvio e il poker. "Camorra capitale" non si accontenta delle periferie. Roma è grande, e le opportunità sono ovunque.
Le Terme di Diocleziano svendute ai clan di Daniele Autieri. Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo Ragosta per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da Gioacchino Gabbuti (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i Ragosta, famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli Ragosta. Secondo gli inquirenti, le imprese del gruppo sono cresciute in modo così esponenziale negli ultimi anni grazie ad un'enorme iniezione di denaro liquido di provenienza camorrista. Il salto di qualità viene compiuto nel 2001 quando i Ragosta acquistano le fallite Acciaierie del Sud. Gli assegni circolari di 4 miliardi e 683 milioni di lire che servono per la cauzione vengono emessi da una società costituita appena tre giorni prima e coperti da una società di diritto lussemburghese, la Immobilfin SA. Le indagini della Dda dimostreranno che la Immobilfin SA è direttamente riconducibile a Raffaele Ragosta e alla moglie Annamaria Iovino e che, tra il 2001 e il 2003, la finanziaria pompa nelle società italiane del gruppo ben 10,8 milioni di euro. Così l'impero dei Ragosta cresce: arrivano le grandi acquisizioni (come quella del palazzo dell'Atac) e il patrimonio raggiunge le 477 unità immobiliari per un valore stimato di un miliardo di euro.
'Ndrangheta, la mafia dei cinque Continenti di Giuseppe Baldessarro. Vincenzo Macrì lo diceva quando era magistrato alla Direzione nazionale antimafia, una decina di anni fa: "Non vi è continente che possa considerarsi immune dalla presenza della 'ndrangheta". E' lo stesso concetto espresso più volte dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che ha inseguito i broker delle cosche calabresi in tutto il mondo: "La 'ndrangheta è l'unica mafia presente in tutti e 5 i continenti". E' un dato di fatto, ormai certificato dalle indagini delle polizie internazionali che hanno fotografato gli interessi e il modus operandi delle "famiglie" che, comunque, restano legate alla terra d'origine e alle regole scritte nel cuore dell'Aspromonte. È la Calabria la "mamma" della 'ndrangheta. E questo a prescindere dal fatto che le cosche si siano poi insediate nel resto d'Italia e del Mondo. Per comprenderlo basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande-Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese. E' questa la peculiarità dei gruppi criminali calabresi, sono in grado di riproporre ovunque un insieme di leggi non scritte e cultura della violenta. Ovunque significa in Italia, in Europa, e nel resto del mondo, dove cellule calabresi si sono trasferite inizialmente al seguito delle rotte dell'emigrazione e, più di recente, dei flussi economico-finanziari. Basta scorrere le relazioni annuali della Dna o delle polizie estere per scoprire che, solo per fare qualche esempio, in Germani da anni ci sono i Nirta, gli Strangio, i Pelle e i Vottari di San Luca. Opure che rappresentanti delle cosche sono attivi in Belgio e Olanda. Che in passato le 'ndrine facevano traffico di Armi con l'Ira in Gran Bretagna e che nella city di Londra, dice sempre Gratteri, "riciclano montagne di denaro sporco". La Francia e la Spagna sono da sempre considerati oasi di pace per boss latitanti e, ancora oggi, piattaforme per il traffico di cocaina. Persino la Svizzera, racconta il pentito Emilio Di Giovine, è terra per far sparire i soldi della droga e per chiudere affari sulle armi. Ma non c'è solo l'Europa. La 'ndrangheta si è già insediata stabilmente in tutti i continenti. In Australia ad esempio, la presenza della 'ndrangheta è radicata ormai da un secolo. Esistono mappe dettagliate che spiegano come ad Adelaide, nella parte meridionale dell'Australia, siano presenti una dozzina di 'ndrine che fanno riferimento alla provincia di Reggio Calabria. I cognomi sono quelli dei Sergi, dei Barbaro, dei Perre, dei Romeo e dei Piromalli. E ancora quelli dei Polimeni e dei Papalia. A Sidney la famiglia più potente era quella degli Alvaro, mentre nel Nuovo Galles del Sud, e precisamente a Griffith, vengono indicate come potentissime le famiglie di origine "platiota", ossia di Platì nella Locride. Stessa storia per Camberra, Melbourne o Perth, in ogni città c'è una locale di 'ndrangheta. Non meno potenti le "famiglie" calabresi in Canada. Ai primi del novecento quando non si parlava neppure di 'ndrangheta, ma di "mano nera", a incutere rispetto c'erano "uomini d'onore" come Giuseppe "Joe" Musolino e Rocco Perri. Negli anni '50 arrivarono poi i soldati, gli sgarristi e i padrini della cosca guidata da Antonio Macrì e da Michele Racco, detto Mike. Identico il destino delle città del Nord America, come New York, dove già negli anni '60 le cosche calabresi si riunivano in "circolo formato" per spartirsi il territorio di alcuni quartieri della città. Ci sono poi intere colonie di calabresi anche nell'America del Sud. Brasile, Venezuela e Argentina hanno accolto per decenni migliaia di emigranti, al seguito dei quali sono anche arrivate le famiglie di 'ndrangheta. Ci sono poi paesi come la Colombia dove la 'ndrangheta ha trasferito decine di broker mandati a trattare direttamente con i narcos della coca. Il più noto di tutti è certamente Roberto Pannunzi, detto "Bebè" che aveva rapporti stabili con Salvatore Mancuso, di origini campane e già capo indiscusso delle Auc (le forze di autodifesa colombiane). Entrambi, oggi in galera, erano trafficanti di droga capaci di muovere tonnellate di "roba" ogni settimana. Lo raccontano, ad esempio, storiche maxi inchieste della Dda di Reggio Calabria note con i nomi di "Igres" (Sergi, scritto al contrario), "Decollo", "Marcos" o "Stupor Mundi". Non manca l'appello l'Africa, il Medio Oriente e quasi tutti gli stati dell'ex blocco sovietico. In Urss i clan ci sono arrivati sono per entrare nel traffico di armi e nelle speculazioni edilizie (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino). E' successo così in Romania e Ucraina. A questo proposito esiste un'intercettazione ambientale del 1991 in cui un boss, che non fu possibile identificare, ordinava ad un suo investitore di spostarsi all'Est: "Compra, compra tutto quello che puoi, compra tutto, non mi interessa cosa, basta che compri". In altri casi, come per il Libano, i clan vi operano nel ruolo di acquirenti di hashish ed eroina. Oggi, in molti continenti sono stabilmente insediate le seconde e terze generazioni di calabresi. Tra di esse si mimetizzano famiglie di 'ndrangheta che non hanno alcuna difficoltà a riprodurre il loro modello, ritenuto universalmente criminalmente il più longevo. Giovanotti che parlano solo dialetto e inglese. Regole vecchie e tecnologie moderne formano insomma un mix che consente ai clan di fare affari d'oro in mille settori. La droga innanzitutto, da dove arriva gran parte della ricchezza e il denaro da reinvestire giocando in borsa o entrando nei business legali. All'estero la nuova generazione di 'ndranghetisti è identica alla vecchia nella mentalità e cultura criminale, ma assolutamente nuova ed mobile nel modo di fare affari. Negli ambienti investigativi, li chiamano gli uomini delle due valigette: in una ci tengono il codice delle 'ndrine e la calibro 38. Nell'altra il denaro contante e i contratti milionari.
La "Linea del pioppo" di Attilio Bolzoni. Pensando alla mafia che ormai è dappertutto è ovvio che ci venga in mente Leonardo Sciascia e la sua "linea della palma". Come ricorderete, verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, lo scrittore siciliano parlò della "linea della palma" ("Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia.. gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno.. ed è ormai già oltre Roma") utilizzandola come metafora della "mafiosizzazione" dell'intera Italia. Sciascia ne capiva molto di mafia, avendola respirata nella sua Racalmuto e nei feudi intorno. E ne capiva molto anche della nostra Italia, intuendo l'avvelenamento che il Paese avrebbe inesorabilmente subito. Sono passati quarant'anni e - se possiamo permetterci un paradosso - oggi non sarebbe poi tanto stravagante parlare della "linea del pioppo" o della "linea del salice", tipiche piante della Padania e dintorni. E ci piacerebbe anche - usando logore frasi come "se abbassiamo la guardia", se "non raccogliamo l'allarme", se "non interveniamo per tempo" - lanciare una provocazione: state (stiamo) tutti attenti, perché se continua così tra qualche anno ci ritroveremo boss e capi mandamento o "santisti" e Cupole di varie dimensioni e forme anche in Sicilia, Calabria e Campania. C'è questo rischio: c'è il pericolo che le mafie prima o poi invadano tutto il Sud per continuare l'opera: depredare quel poco che hanno lasciato prima di spolpare definitivamente il "loro" Nord. Due Italie lontane. Questa premessa mi è venuta quasi spontanea rileggendo le cronache degli ultimi giorni. Quelle dell'imprenditore di Corleone che ha confessato ai carabinieri della locale caserma di avere subito il pizzo e rivelando i nomi dei suoi aguzzini, quelle della grande retata in un'Emilia Romagna infestata dal malaffare mafioso. Due Italie lontane, molto lontane in questo inizio di 2015. A Corleone il muro dell'omertà si è infranto per la prima volta, in Emilia Romagna nessuno ancora se la sente di parlare. Anzi, peggio: tutti rimuovono, tutti che fanno finta di cadere dal pero. I più coraggiosi si spingono a denunciare l'"infiltrazione", parola secondo noi da abolire dal vocabolario delle mafie al Nord. Infiltrarsi significa penetrare in un luogo senza che gli abitanti stessi di quel luogo se ne siano mai accorti, come presi alla sprovvista, alle spalle. In realtà nelle regioni settentrionali sarebbe meglio parlare di "radicamento", di espansione avvenuta con complicità e favoreggiamenti soprattutto locali. E ciò sta accadendo non da ieri o da ieri l'altro ma dal lontano 1963, data in cui - in quell'anno a Palermo ci fu la strage di Ciaculli, cinque carabinieri e due artificieri dell'Esercito saltati in aria davanti a una Giulietta imbottita di tritolo mentre in città infuriava la guerra fra le cosche - il ministro dell'Interno del tempo, Mariano Rumor, ebbe la felice intuizione di far trasferire fra Veneto, Emilia e Lombardia qualche centinaio di "sospetti mafiosi" (l'istituto del soggiorno obbligato, il famoso confino di polizia) esportando mezza Commissione di Cosa Nostra lontano dall'isola e aprendo la strada alla tanto sbandierata "infiltrazione" mafiosa al Nord. Sì, è vero, si sono "infiltrati" tranquillamente da più di mezzo secolo e da mezzo secolo tutti li considerano semplicemente "infiltrati". Questo è il problema. Ogni qualvolta un'indagine giudiziaria o un'inchiesta giornalistica (vedi Giovanni Tizian in Emilia, vedi Lirio Abbate a Roma) svela la loro forza anche là sopra, tutti si meravigliano come se avessero scoperto il giorno prima - e per caso - gli uomini cattivi che si arricchiscono o minacciano qualcuno nel cortile di casa loro. Come appunto in Emilia Romagna, dove il presidente della Regione Stefano Bonaccini il 26 gennaio, prima prendeva le distanze dalle denunce di don Luigi Ciotti sulla "mafiosità" di certi metodi contro il sindaco di San Lazzaro Isabella Conti, e poi - in generale, molto in generale - sosteneva che "per un periodo, magari in buona fede, al Nord non si è voluto vedere il fenomeno mafioso.. ma qui c'è l'anticorpo per potere sconfiggere questo vero e proprio cancro, che fa male a tutti". Gli "anticorpi". Li abbiamo visti quegli "anticorpi" nella recentissima operazione dell'Arma dei carabinieri, affari sul dopo terremoto, voto di scambio, patti tra 'ndranghetisti camuffati da imprenditori e costruttori locali, il business dei rifiuti speciali, sindaci, prelati e giudici nella ragnatela del boss Nicolino detto "Manuzza", appalti pilotati e tanto altro ancora che prima o poi verrà allo scoperto. E poi, cosa intende "per un periodo", il presidente della Regione Emilia? Lo sa quando è arrivato Giacomo Riina (lo zio del capo dei capi di Cosa Nostra) a Budrio, ventitré chilometri da Bologna? Nel 1967. Sposato con una sorella di Luciano Liggio, aveva scelto un piccolo comune alle porte di Bologna come suo quartiere generale. Dal 1967, un periodo lungo, molto lungo. E' sempre una "sorpresa" ritrovarsi la mafia fra i piedi. E di certo non solo in Emilia. Basta ricordare tutti quei sindaci e quegli amministratori da Roma in su, quei prefetti (memorabile la battuta negazionista del rappresentante di governo di Milano di qualche anno fa), quei magistrati distratti o privi di una specifica competenza in materia antimafia, un paio di ministri dell'Interno di qualche governo fa, soprattutto di milioni e milioni di italiani sicuri e convinti che mafia e mafiosi - ancora oggi - siano "patrimonio" di un altro Paese. Solo verso sud, da Napoli fino a Trapani. Non c'è consapevolezza, non c'è coscienza. E c'è anche un po' di tornaconto. Prendiamo come altro esempio la vicenda di Mafia Capitale. Possibile che quasi nessuno si sia mai accorto delle scorrerie de Er Cecato e della sua banda (con amici non solo in Comune ma in tutto il sottobosco politico, non solo nelle zone tradizionalmente criminali della città ma con agganci ministeriali) prima dell'arrivo dei procuratori Pignatone e Prestipino e di un gruppo di carabinieri che venivano dalla Sicilia e dalla Calabria? Vi sembra normale che uno come Er Cecato sia andato liberamente in giro per Roma per così tanto tempo e così indisturbato? Forse qualche complice che l'ha "coperto" ci sarà pure o no? Forse sarà anche arrivata l'ora di ridiscutere tutti insieme cos'è mafia e cosa non è mafia. A meno che, da Roma (compresa) in su, non si voglia condividere il pensiero di Giuseppe Pitrè, illustre letterato e antropologo di fine '800. Quello che sosteneva che la mafia "non era una setta né un'associazione a delinquere". Ma uno stato d'animo. Dei siciliani, solo dei siciliani.
«Sono in festa ora che a Verona ha vinto Tosi». L'indagine sulla mafia emiliana prosegue. E nel filone calabrese spuntano nuovi particolari sul rapporto di alcuni imprenditori «contigui al clan» e uomini dell'amministrazione veronese. Nelle carte si parla di presunto sostegno elettorale, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Quando Flavio Tosi è stato eletto sindaco, alcuni imprenditori ritenuti vicini alla 'ndrangheta hanno esultato. «Sono in festa ora che là a Verona ha vinto Tosi, quello che appoggiavano loro». Loro, sono gli imprenditori della famiglia Giardino, crotonesi di origine, residenti a Verona da molto tempo. E secondo gli inquirenti sono collegati al clan della 'ndrangheta capeggiata da Nicolino Grande Aracri, sovrano del crotonese e dell'Emilia Romagna. Spuntano dunque nuovi particolari e riferimenti al primo cittadino leghista della città scaligera e ad alcuni suoi uomini che hanno fatto parte della giunta. “L'Espresso” due settimane fa aveva rivelato il pranzo tra l'industriale amico di Tosi e il braccio imprenditoriale della 'ndrina calabrese al quale avrebbe preso parte lo stesso sindaco e il suo ex vicesindaco. Ora però nell'ultima informativa del filone calabrese dell'indagine Aemilia, che ha portato all'arresto di oltre 150 persone, i carabinieri descrivono ulteriori particolari sulle relazioni pericolose della cosca nel Nord Italia. «Dal complesso delle intercettazioni sono emersi i rapporti tra i Giardino e amministratori locali di Verona: da una parte si ricava il loro (dei Giardino ndr) sostegno elettorale fornito all'attuale amministrazione comunale facente capo al sindaco Tosi; dall'altra si rileva il rapporto con l'assessore Marco Giorlo (ex assessore allo Sport) per ottenere appalti pubblici». Nel rapporto dei militari dell'Arma di Crotone sono inserite numerose telefonate tra gli imprenditori calabresi sospettati di 'ndrangheta e un medico, un dentista veronese, nelle quali si fa riferimento alla disponibilità di Giorlo ad assicurare alcuni lavori. Nelle intercettazioni si parla soprattutto di affari. Una struttura sportiva, lavori per l 'illuminazione pubblica. E un asilo, in zona Santa Lucia: «Poi ti devo parlare dell'asilo» dice Alfonso Giardino, che aggiunge: «Ti devo fare un discorso sull'asilo perché io avevo accennato a Franco qualcosa no, due parole così, però te lo voglio dire pure a te, allora, io se era possibile sull'asilo avevo pensato una cosa, Marco, se si poteva, di investimento in pratica, se si poteva collaborare ma come proprietario però, se è possibile, perché so che questi asili». E il dentista veronese risponde: «Ah sì, ma si può, sono aperto a tutto io, allora, io adesso ho messo di mezzo anche il Sindaco... sto costruendo, la possibilità di ricostruirlo e... poi siamo disposti ad assorbirlo». L'entusiasmo dell'imprenditore è alle stelle perché secondo lui quello dell'asilo è «un affarone». Di questo investimento Marco Arduini, il dentista, aveva promesso ai Giardini di parlarne con con in sindaco :«Anche perché ... anche perché Marco lo stava acchiappando anche per il fatto dell'asilo pure hai capito? Che si dovevano incontrare anche con Tosi». A questo punto però l'asilo scompare dall'informativa e i dialoghi vertono su altre possibilità di business. Questa volta a parlare sono i due imprenditori della famiglia Giardino, Alfonso e Franco: «Cugì io l'ho visto non è male, anche perchè d'inverno la dentro là c'è sempre gente perchè giocano a bocce ... mi ha detto quelli di fuori li potremmo togliere se vogliamo, i campetti e fare un campetto di calcetto, due, c'è un altro di pallacanestro e mi ha detto che lo possiamo fare pure a calcetto..., quello che vogliamo e da vedere e valutare un attimino». L'attenzione dei due è rivolta alla struttura sportiva che puntano a gestire tramite le amicizie in Comune. Se non a gestirla comunque a fare qualche lavoro. Agganci e relazioni sulle quali i due imprenditori hanno scommesso e che inizialmente sembrano dare i loro frutti: «Eh stiamo parlando dell'assessore qua...a me l'ha presentato lui (il dentista ndr) ha mangiato lui con noi stasera se ne sta andando ora vedi, quello che mi ha salutato prima era lui, era l'Assessore, hai capito? il Signore mi è testimone è lui, ho mangiato con lui vedi se ne sta andando ora, hai capito che mi ha dato pure un centro sportivo nelle mani Enzì, hai capito? Mi ha dato già un centro sportivo a San Michele, a fine mese se voglio chiudo il contratto, ha detto di andare a vederlo». Poi su Giorlo uno dei due precisa: «Se si trova alla poltrona si trova per me questo, che gli ho trovato non so quanti voti, quanti gliene ho tirati fuori non hai nemmeno l'idea tu, mi sono massacrato giorni e giorni però vedi ora Grazie a Dio è riconoscente, mi ha detto io per i Giardino faccio tutto, per i Giardino perchè i Giardino a me mi hanno aiutato, mi ha detto lui siccome è responsabile di tutti i centri sportivi di Verona, di tutti, sono i suoi, sotto le sue mani». Un incontro con Giorlo effettivamente le telecamere dei carabinieri lo riprendono. E lo scrivono in una nota che inseriscono nel fascicolo inviato al pm. Dopo qualche tempo però i presunti rapporti si raffreddano. E i Giardino si lamentano del comportamento poco serio dell'ex assessore. «No cugì, domani guarda Frà, gli dico in faccia quello che penso, perchè lui ha dato una parola e quella parola la deve portare a termine, non si deve tirare indietro, eh che facciamo qua, davvero cugì? E' andato sopra il trono e si dimentica di quelli che lo hanno mandato sulla poltrona, qua ... cugì allora siamo disperati, non sappiamo cosa dobbiamo combinare». L'altro concorda per attuare una linea più dura: «No, no, gli diciamo che ci deve tirare fuori il lavoro, che vuoi fare: giardinaggio, pulizia, tira fuori il lavoro hai capito? Centro sportivo e come si deve, che ci mettiamo tutti la dentro a lavorare, però noi abbiamo cristiani sulle spalle a cui abbiamo dato una parola ed io per te ho fatto la figura del pagliaccio». Incontri, promesse, un presunto sostegno elettorale. Indizi o millanterie che comunque insospettiscono gli investigatori. Che vogliono andare a fondo sui rapporti tra 'ndrangheta e alcuni imprenditori che da tempo ronzano attorno al palazzo comunale di Verona.
IL VENETO DEI GATTOPARDI.
Scandalo Mose, gli inquisiti restituiscono 22 milioni. Una trentina di politici, manager e imprenditori coinvolti nell'inchiesta hanno ottenuto di patteggiare la condanna e risarcire il danno alle casse pubbliche, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso” Le paratie del Mose a Venezia Una trentina fra politici, manager e imprenditori coinvolti nello scandalo del Mose hanno ottenuto di patteggiare la condanna e di risarcire il danno alle casse pubbliche. La somma totale versata a oggi è di 22 milioni di euro. Il grosso delle restituzioni riguarda quattro soggetti. Prima è la Mantovani, capofila del Consorzio Venezia Nuova (Cvn) con 6,7 milioni di euro in riparazione dell’evasione fiscale. Dopo il pagamento, Mantovani è rimasta la capofila del Cvn. Rimane saldo nel Cvn anche Alessandro Mazzi, il costruttore romano di Fincosit Grandi Lavori che ha pagato 4 milioni di euro. Seguono l’ex governatore e ministro Giancarlo Galan (2,6 milioni di euro), l’ex assessore regionale Renato Chisso (2 milioni) e infine il commercialista del Cvn Luciano Neri (1 milione di euro). Il principale teste d’accusa, Piergiorgio Baita, ex manager ed azionista di minoranza della Mantovani di Romeo Chiarotto, se l’è cavata con 106 mila euro e un anno e dieci mesi di condanna. Per sbloccare il patteggiamento, l’ingegnere veneziano ha anticipato l’intera somma (425 mila euro) chiesta a lui, all’ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, all’ex console di San Marino William Ambrogio Colombelli e a Nicolò Buson, già direttore amministrativo della Mantovani. I patteggiamenti più duri sono toccati all’ex generale della Guardia di finanza, Emilio Spaziante (4 anni e 500 mila euro) e a Roberto Meneguzzo di Palladio Finanziaria (due anni e sei mesi), intermediario di una tangente destinata a Chisso, anch’egli condannato a due anni e sei mesi. Sembra destinato a processo ordinario l’ex braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Milanese, indagato per il filone della Procura di Milano. Lo stesso vale anche per Altero Matteoli, ex ministro delle Infrastrutture accusato da Giovanni Mazzacurati di avere ricevuto tangenti per circa 400 mila euro, per l’ex europarlamentare Pdl Lia Sartori, e per l’ex sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, che si è visto respingere dai giudici un patteggiamento a quattro mesi con 15 mila euro di ammenda per finanziamento illecito dei partiti. Orsoni ha poi accusato due colleghi, i deputati Pd Michele Mognato e Davide Zoggia, di essere i destinatari finali di 450 mila euro pagati dal Cvn di Mazzacurati. Mognato e Zoggia hanno smentito ma sono indagati. Unico latitante dell’inchiesta, a sei mesi di distanza, è A.drea A.ostinone, considerato il regista delle false fatturazioni e rifugiatosi a Dubai. Fuori dal patteggiamento è anche Mazzacurati, interrogato per rogatoria in California, dove risiede. G.T.
Venezia, Mose ancora in mano ai gattopardi. Il commissariamento deciso per il Consorzio Venezia Nuova non ha cambiato gli equilibri tra i costruttori. Che ora puntano all’affare d’oro della manutenzione del sistema di dighe mobili, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso” Sei mesi dopo il maremoto giudiziario, i gattopardi del Mose si riprendono Venezia. La mano di vernice del commissariamento deciso da Raffaele Cantone, presidente dell’autorità anticorruzione, non ha cambiato di una virgola gli equilibri interni al Consorzio Venezia Nuova (Cvn), concessionario unico incaricato di realizzare il sistema di dighe mobili a protezione della laguna. Non è bastata l’espulsione dal sistema di Giovanni Mazzacurati, dominus del Cvn, e di Pierluigi Baita, ex manager-azionista della Mantovani cioè dell’azienda che guida il Consorzio. Né è stata sufficiente l’ondata di patteggiamenti concessi ai politici, dall’ex governatore Giancarlo Galan all’assessore di Galan e di Luca Zaia, Renato Chisso. In una situazione di vuoto politico, con la città senza sindaco almeno fino a maggio dopo le dimissioni dell’indagato Giorgio Orsoni, il nuovo e sorprendente protagonista degli affari in laguna è l’incontenibile prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, amico del piduista e piquattrista Luigi Bisignani, nonché cinghia di trasmissione di chi ha spadroneggiato sui sei miliardi di appalti del Mose e non intende lasciare la presa: Gianni Letta, in primis, e subito a ruota, Altero Matteoli, indagato per il Mose e per la bonifica di Porto Marghera, nonché difensore d’ufficio del prefetto di Roma nelle vicende legate all’inchiesta su Mafia Capitale. «Al prefetto Pecoraro va la nostra solidarietà ed il nostro appoggio incondizionato», ha dichiarato all’Adn Kronos l’ex ministro delle Infrastrutture concedendosi il plurale maiestatis. Chi si chiedesse che c’entra Pecoraro nelle vicende veneziane deve accontentarsi di una risposta formale. La prefettura romana è competente perché si è stabilito che il Mose, pur vivendo nell’extraterritorialità giuridica delle tre leggi speciali su Venezia, è da ritenersi una creatura di due ministeri romani: le Infrastrutture, appunto, e l’Economia che, attraverso il Cipe, un mese fa ha deliberato un altro megafinanziamento da 1,37 miliardi per le dighe mobili. E così Pecoraro si è trovato a redigere l’ordinanza che nomina i due commissari. Si tratta dell’ex finanziere Luigi Magistro, braccio destro del magistrato Gherardo Colombo ai tempi del pool Mani Pulite appena dimessosi dalla vicedirezione dell’Agenzia delle Dogane, e di Francesco Ossola, progettista dello Juventus stadium e ordinario di ingegneria strutturale al Politecnico di Torino che ha già lavorato per il Consorzio Venezia Nuova nel 1998 nei lavori di rialzo della fondamenta dei Tolentini. Un terzo amministratore sarà nominato prossimamente. Il prefetto Pecoraro, protagonista di una lunga serie di casi controversi, dall’espulsione di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mikhtar Ablyazov, alla trattativa dello stadio Olimpico con l’ultras napoletano Genny ’a carogna, dalle cariche contro gli operai dell’Ast di Terni ai permessi alle cooperative guidate da Salvatore Buzzi, non si è limitato a firmare l’ordinanza di commissariamento. Prima delle festività natalizie è sbarcato nella nuova sede del Consorzio all’Arsenale di Venezia e ha incontrato i rappresentanti delle tre principali imprese del Mose, che insieme alla Ccc (Lega coop) hanno quasi il 90 per cento delle quote Cvn: Alberto Lang, vicepresidente in rappresentanza di Condotte, Salvatore Sarpero, direttore generale della Fincosit, e soprattutto Romeo Chiarotto, classe 1929, proprietario della Mantovani. Dopo l’estromissione di Baita, Chiarotto ha affidato la Mantovani a un altro ex poliziotto come Pecoraro, l’ex questore di Treviso Carmine Damiano - poi finito sotto inchiesta per corruzione - su suggerimento di un altro prefetto, Gianvalerio Lombardi. Nonostante l’età, il costruttore padovano resta il punto di riferimento dell’opera tanto che i rumors lagunari lo dicono responsabile dell’estromissione di Alberto Scotti (Technital-Mazzi), progettista del Mose piuttosto critico sulla riuscita delle cerniere delle dighe prodotte dalla Fip del gruppo Mantovani. In questo contesto l’ordinanza di commissariamento rischia di ridursi a una lettera di licenziamento per il vicentino Mauro Fabris, lobbista del Mose diventato parlamentare multitasking (Ccd-Cdu, Udr, Udeur, Pdl) e piazzato all’Arsenale su ordine del ministro Maurizio Lupi dopo gli arresti del giugno scorso. Il documento firmato da Pecoraro e datato 1 dicembre 2014 non è proprio un lavoro di cesello. Giovanni Mazzacurati è ribattezzato Giuseppe Mazzacurati. La legge sui compensi agli amministratori è postdatata al 2013, benché sia del 2010, e Alessandro Mazzi di Fincosit-Technital è indicato come vicepresidente del Cvn anche se si è dimesso il 6 giugno 2014, due giorni dopo l’arresto. De minimis non curat praefectus ma la sostanza del provvedimento sta nella messa in sicurezza del Consorzio, nella scelta di completare i lavori con le stesse imprese che hanno iniziato i lavori (loro erano innocenti, gli amministratori erano colpevoli) e di mantenere in carica i commissari “fino a collaudo avvenuto”. In termini di tempo, questo significa almeno il 2018 se i lavori, dopo l’ultimo slittamento, saranno completati nel 2017. Da lì in avanti si apriranno due partite. La prima è il pagamento dei commissari. L’ordinanza ha rinviato la quantificazione del compenso ma ci sono in sostanza due soli modi. L’opzione forfettaria con un salario annuo sotto il tetto massimo dei 240 mila euro fissato per gli stipendi dei manager pubblici. Oppure c’è l’opzione privatistica che retribuisce i commissari in percentuali sui lavori fissate dagli ordini professionali di appartenenza. Non c’è dubbio che il Cvn sia un raggruppamento di imprese private, anche se opera con fondi pubblici. Quindi, a termine di legge, le parcelle dei commissari potrebbero essere nell’ordine di qualche milione di euro, dato che il costo finale del Mose si aggira sui 6 miliardi. La seconda riguarda il grande business della manutenzione delle dighe mobili. La messa in opera delle paratoie alle bocche di porto ha già evidenziato problemi di tenuta delle vernici, già denunciati da studiosi come Fernando De Simone, e di proliferazione di microrganismi marini. Ancora non c’è una cifra certa sull’impatto economico annuale della manutenzione delle dighe ma la stima fatta da Baita a “l’Espresso” (da 20 a oltre 60 milioni di euro) offre una banda di oscillazione troppo ampia per non indurre in tentazione. Per citare una frase famosa attribuita a Baita: «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott’acqua». Paradossalmente, il commissariamento sembra avere dato forza a chi critica le dighe mobili, un fronte molto eterogeneo. I commercianti hanno ribadito che piazza San Marco non sarà protetta dalle paratoie alle bocche di porto, sollevate con la marea a 110 centimetri mentre San Marco va sotto con 80 centimetri. Hermes Redi, progettista nominato direttore generale del Cvn poco prima del commissariamento, ha confermato che, senza le opere complementari necessarie a proteggere il cuore e il simbolo di Venezia, piazza San Marco continuerà a sparire sotto l’acqua come è accaduto duecento volte nel 2014. Questi interventi complementari, peraltro, costerebbero 100 milioni di euro, una frazione pari a circa un sessantesimo del costo delle dighe mobili. I comitati ambientalisti (No Mose e Ambiente Venezia) si sono rivolti ai due neocommissari per riportare all’attenzione il possibile malfunzionamento del sistema in condizioni di mare agitato. È una questione emersa già nel 2008 dallo studio della società francese Principia commissionato dall’allora sindaco Massimo Cacciari. Le critiche e i dubbi di Principia erano stati accantonati dal presidente del Magistrato alle Acque Patrizio Cuccioletta, altro uomo di Gianni Letta che è finito nell’inchiesta e ha patteggiato la condanna, a differenza della collega Maria Giovanna Piva che attende la richiesta di rinvio a giudizio come Orsoni, Matteoli e l’ex europarlamentare Pdl Lia Sartori. Il Magistrato alle Acque era il principale controllore del Mose ma, in realtà, i funzionari del ministero erano totalmente a disposizione delle maggiori imprese del Consorzio che scrivevano anche i testi per conto dei dipendenti statali. Anche la struttura del Magistrato alle Acque ha ricevuto la sua parte di vernice antiruggine. In primo luogo, Matteo Renzi lo ha soppresso e ha trasferito le sue competenze al Provveditorato alle opere pubbliche del Veneto. Ma con la nuova veste i rapporti di forza non sembrano cambiati. Chi comandava nel Consorzio prima comanda anche adesso. L’incontro di Pecoraro a dicembre con i grandi azionisti del Consorzio, rivelato dalla “Nuova Venezia”, ha molto scontentato le piccole cooperative locali socie del Cvn che, con l’eccezione del Coveco di Pio Savioli, non sono state sfiorate dall’inchiesta e che continuano a trovarsi ai margini dei processi decisionali. Circostanza ancora più incresciosa, dovranno partecipare pro quota al rimborso di 27 milioni di euro dovuti all’Agenzia delle Entrate per l’evasione fiscale accertata dalla Guardia di finanza e finalizzata a creare i fondi neri necessari per pagare le mazzette ai politici. Questo disagio dovrebbe essere superato grazie a una nuova struttura prevista dall’ordinanza commissariale della prefettura di Roma. Il documento firmato Pecoraro prevede che i commissari costituiscano un comitato consultivo “in modo da garantire un’adeguata rappresentanza alle imprese consorziate”. Questo comitato adotterà “specifiche linee guida per definire modalità e termini per la straordinaria e temporanea gestione delle attività oggetto di concessione”. In altre parole, con questo modello di governance si fa un passo avanti, sia pure in modo straordinario e temporaneo, verso uno dei grandi obiettivi strategici di Mantovani e soci: la gestione del Mose dopo il completamento dell’opera. Ha collaborato Alberto Vitucci.
Mose, la «beffa» della conca: le navi più grandi non entrano. I cargo di 280 metri non riescono ad allinearsi in sicurezza: scogliera troppo vicina. Il Porto ha presentato la «correzione» al ministero: costo 15 milioni, scrive Francesco Bottazzo su “Il Corriere della Sera”. Doveva servire per far arrivare le navi in porto con le paratoie del Mose alzate. Peccato che così come è stata realizzata l’unica cosa che può fare la conca di navigazione alla bocca di porto di Malamocco è bloccare i container fuori della laguna. Tutta colpa della scogliera di protezione lunga poco più di un chilometro e troppo vicina all’ingresso. La sua presenza infatti non permette alle navi più grandi di allinearsi ed entrare in sicurezza. Non a caso finora le prove sono state fatte con i cargo più piccoli e già con questi i piloti hanno cominciato ad esprimere le proprie perplessità. I problemi però evidentemente erano emersi già qualche mese prima se il presidente del Porto ha scritto al ministero delle Infrastrutture e al magistrato alle Acque chiedendo alcune modifica alla conca. «Noi l’abbiamo realizzata come da progetto», si difende il Consorzio Venezia Nuova. Qualcuno però ha sbagliato i conti — e i disegni — se così non serve a niente. In realtà qualche polemica c’era già stata per le sue dimensioni, troppo esigue — considerando i grandi container che arrivano allo scalo veneziano — che ne limitano l’accesso alle navi lunghe più 280 metri. Ma mai nessuno si era spinto a testare la sua inutilità per le attività portuali. La bufera degli arresti del Mose ha bloccato ogni intervento, che inevitabilmente dovrà essere fatto, e non a costo zero. Il progetto dell’Autorità portuale prevede infatti la realizzazione di una sorta di muro di gomma in continuazione con una delle sponde della conca in modo da far appoggiare le navi prima di spingerle all’interno, così come avviene ad esempio per il canale di Panama. L’intervento tecnicamente assume il nome di «mooring dolphin» e costa tra i dieci e quindici milioni di euro, che qualcuno dovrà mettere per far diventare operativa la conca di navigazione. E dire che il passaggio della prima nave era stato annunciato con grossa soddisfazione dal Consorzio Venezia Nuova. Era l’8 giugno dell’anno scorso quando il cargo Slavutich di 115 metri di lunghezza ha attraversato la conca in assetto normale, in poco più di 4 minuti. Le prove sono continuate anche durante l’estate aumentando gradualmente la stazza e quindi anche la lunghezza delle navi, facendo emergere quei problemi che erano stati evidenziati da piloti e Porto già qualche mese prima. La scogliera infatti non metterebbe in condizioni i cargo di allinearsi completamente e la cosa comporta grossi rischi anche di impatto sulle sponde. La conca funziona come qualsiasi «diga » tra dislivelli, quando le paratoie saranno alzate per contenere le maree eccezionali superiori a 110 centimetri. La procedura prevede che a Mose chiuso le navi all’arrivo trovino la conca aperta, entrino, aspettino la chiusura della prima porta e quindi l’apertura della seconda per proseguire lungo il Canale dei Petroli e arrivare al terminal di Marghera. Una vera beffa per quella che è stata annunciata — con i suoi 370 metri di lunghezza e 50 di larghezza — come una delle più grandi strutture al mondo di questo tipo. Doveva essere uno dei fiori all’occhiello del sistema Mose, per ora rappresenta solo uno dei punti neri. E’ dal 2004 che Mantovani è impegnata nella costruzione, con un numero di operai che hanno sfiorato anche le cento unità. E già dal 2005 i piloti hanno cominciato ad usare il simulatore di addestramento per guidare i cargo ad affrontare il passaggio. L’allora presidente del Porto Giancarlo Zacchello definì conca e simulatore gli strumenti giusti per garantire funzionalità e sicurezza dello scalo veneziano. Ma i lavori erano appena cominciati e ritardi e aumenti di costi dovevano ancora essere all’orizzonte. Bene per il Porto che l’entrata in funzione delle dighe mobili non sia prevista prima del 2017 perché davanti ci sono ancora due anni di tempo per approvare il progetto presentato al ministero, trovare i soldi e realizzarlo, ponendo una pezza a questa situazione. Viene da chiedersi perché solo 11 anni dopo l’inizio del lavori ci si accorge che la conca così come è stata pensata non funziona. E chi metterà i soldi che servono per riparare l’errore?
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
CHI SONO I VENETI.
«Sono dei deficienti. Egoisti. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori. Questa gente non è stupida. E’ peggio: ignorante e plebea. Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo», sbraitò Vittorio Sgarbi dopo esser stato silurato in Veneto.
Il 17 aprile 2014 Santoro, nel programma Servizio Pubblico di La7 ha mandato in onda un servizio in cui si sono dipinti alcuni giovani veneti appassionati di softair come guerrafondai, xenofobi, razzisti, violenti pronti alla guerra, con ovvia estensione del concetto a tutto il movimento indipendentista veneto moderno e al referendum di indipendenza del Veneto del 16-21 marzo 2014, accostato al movimento di Marine Le.
Chi sono i veneti? Si chiede Luca su “Il Mattino di Padova”. Sembra ridicolo e piuttosto privo di senso parlare del senso di identità dei veneti dato che molti si sono dedicati a questa attività, ma “rovistare” ogni tanto in questo ambiente, l’identità veneta, porta alla luce particolari sempre nuovi. Vagando alla ricerca di qualche cosa di interessante nel web mi sono imbattuto in un commento sull’elettorato veneto da parte di Vittorio Sgarbi dopo essere stato sconfitto nelle elezioni del 1996. Premetto che non ci tengo a pubblicare l’intera pletora di “complimenti” dedicata dall’ex onorevole ai veneti, ma ne riporto solo una piccola fetta tanto per rendere l’idea “ Questa gente non è stupida. È peggio: ignorante e plebea. Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo”. Ebbene, dopo aver letto l’intera opinione del critico d’arte sulla gente veneta, ammetto che non posso fare a meno di condividere, non perché io sia misantropo ma perché lo riscontro ogni giorno in tutto ciò che mi circonda, soprattutto parlando con la gente. Con il nuovo anno è cominciato lentamente il countdown che preannuncia le elezioni regionali, un avvenimento importante che diventa un ottimo strumento di misura del sentimento di identità del “popolo veneto”. Come previsto i primi rintocchi che hanno scandito l’inizio della competizione elettorale sono stati suonati dalla lega che, forte degli accordi con il pdl, ha annunciato il suo candidato presidente. Questa mossa strategica dell’asse pdl-lega non può che far venire, almeno al sottoscritto, i brividi dato che con questo atto la sorte di una regione bisognosa di una ventata di rinnovo, viene condannata a vivere quello che si preannuncia un lungo medioevo. Parlo di medioevo perché da ormai vent’anni questa regione, o meglio chi la popola, peggiora senza accorgersene e sfoggiando con orgoglio il lato peggiore di sè; strana coincidenza è che questo fenomeno si è inasprito da quando ha cominciato ad affermarsi il partito prima citato. Ora il razzismo e la cultura dell’elusione del fisco (con un tocco qua è là di mitomania) non sono più cose riprovevoli e da condannare, ma sono un motivo di vanto e orgoglio che riescono a riunire “i padani” attorno a una serie di frasi e concetti annessi che ormai fanno ridere non solo l’Italia, ma anche l’Europa. Si potrebbe andare ancora a lungo parlando di questo argomento, ma lascio ai lettori la parola facendo una domanda: vi sentite davvero veneti? E poi, che cosa vuol dire per voi essere veneti?
Veneti e friulani campioni di antipatia, in un libro il Nordest senza sorriso. Il nuovo lavoro di Gian Mario Villalta rilancia il tema della scarsa simpatia: ecco perchè parlano male di noi, scrive Sergio Frigo su “Il Gazzettino”. Non ridiamo più, non cantiamo più per le strade, facciamo fatica a scambiarci un saluto, tanto che qualche anno fa qualcuno si è sentito in dovere di promuovere una "campagna per il ciao". E poi siamo sempre più litigiosi e ingrugniti, lamentosi o rivendicativi. A Nordest siamo diventati antipatici? Gian Mario Villalta, scrittore e direttore artistico di Pordenonelegge.it, è convinto di si, tanto che al tema ha dedicato il suo nuovo libro, "Padroni a casa nostra", che sarà nelle librerie la prossima settimana, edito da Mondadori, con un sottotitolo esplicito: "Perchè a Nordest siamo tutti antipatici". Villalta parte da un episodio personale, l’invito a un incontro pubblico a Pordenone ad un amico e collega scrittore, che tentenna a lungo prima di accettare, con la motivazione, prima celata e poi esplicitata, che «c’è un’aria là da voi che non mi piace. Siete antipatici». L’autore si offende, discute, tenta una difesa poco convincente perchè affidata agli stereotipi e ai contro-stereotipi di sempre: ci dicono che siamo dediti solo al lavoro e ai soldi, incolti e xenofobi? E noi rispondiamo tirando fuori l’associazionismo solidale, e la grande tradizione culturale di queste terre. Bisogna provare ad andare più a fondo, chiamare le cose con il loro nome, confrontarsi, approfondire: il risultato è questo libro, denso di analisi, riflessioni, testimonianze, complesso ma al tempo stesso avvincente. Un libro in cui Villalta mette insieme la sua perizia letteraria e la sua passione per il territorio, la capacità di scandagliare le questioni della storia e dell’identità e al tempo stesso di radiografare questo complicato Nordest, terra di confini vissuti a volte come un’ossessione. L’autore rileva i "disturbi della memoria" che affliggono il nostro tempo, sospeso tra un passato troppo remoto e un presente troppo presente, evidenzia la frattura che divide le generazioni, scopre il "complesso dell’impostore" che avvelena la vita ai tanti che dalle nostre parti (ma non solo) hanno fatto i soldi ignorando i libri e mettendo in atto comportamenti di cui i loro genitori si sarebbero vergognati. «Mi ha colpito molto la storia dell’imprenditore - commenta il libro lo scrittore padovano Fernando Camon - che dietro la scrivania ha un rilievo in terracotta con scritto "L’ingegno umano partorì cose stupende quando ebbe fra le mani meno libri e più faccende". É vero, è così, per questo all’esterno ci guardano male. Ma io dico: ora siamo antipatici perchè ci siamo arricchiti, un tempo eravamo miserabili e provavano pietà: allora, meglio l’antipatia della pietà. Ma la questione è un’altra: un conto è il tenore di vita, un conto è la qualità del vivere: io non scambierei un minuto del mio tempo con la vita di questi ricchetti, che sono pieni di soldi e vivono in belle case, ma non capiscono nemmeno i telegiornali, non sanno apprezzare un buon film, nè un libro. E c’è un altro interrogativo: quanto potrà durare? C’è chi sostiene che si può essere ricchi e stupidi per una sola generazione. I nostri ragazzi scolasticamente sono già fra i peggiori in Europa: non reggono il confronto, e perderanno la guerra della competitività». Camon ha però anche una spiegazione molto pragmatica della cattiva immagine di cui siamo vittime all’esterno: «La scarsa attenzione della borghesia nordestina per la politica e la cultura fa sì che non contiamo niente nei centri di potere nazionali, che non abbiamo un giornale nè una televisione unificante. Uno scrittore come me che vive a Padova e pubblica i suoi libri a Milano, è un emigrante». Andrea Zanzotto, le cui citazioni punteggiano le pagine di Villalta, è però scettico sull’esistenza di uno "specifico veneto" dell’antipatia, perchè, dice, «esiste da sempre, e ci cascano tutti, la tentazione di utilizzare alcuni particolari difetti delle comunità per prenderle in giro. É un fenomeno universale». Concorda a suo modo anche Ilvo Diamanti, che proprio sul Gazzettino lanciò un dibattito analogo una dozzina di anni fa: «Rispetto ad allora è cambiato il fatto che ora siamo tutti antipatici. A quell’epoca lo eravamo solo noi veneti, perchè eravamo incazzati, perchè non riuscivamo ad ottenere all’esterno i riconoscimenti che ritenevamo di meritarci per esserci liberati dopo secoli della nostra condizione di miseria e di subalternità. E quindi avanzavamo le nostre rivendicazioni magari senza usare tanto le buone maniere. Io pensavo, sbagliando, che una volta che ci saremmo abituati al nostro nuovo ruolo sociale avremmo trovato anche un modo più equilibrato di rappresentarci. E invece, siccome il presentarsi sempre come incazzati è risultato pagante, è diventato un modello di successo, imitato da tutti anche fuori dal Nordest. Non vede che stanno sparendo i comici che ci facevano sorridere, soprattutto quelli dediti alla satira? E che lo stesso "gran simpatico" per eccellenza, Berlusconi, ha dovuto giocoforza cambiare maschera?» Sarà anche per questo che Diamanti ha in arrivo un nuovo libro, da Feltrinelli, intitolato "Sillabario dei tempi tristi"...
NOI VENETI. “Veneziani gran signori, Padovani gran dottori, Vicentini magna gati, Veronesi tuti mati, Trevisani pan e tripe, Rovigoti baco e pipe, Belunesi pochi sesti.” Di David Conati. In Veneto si sgobba, c’è poco da fare, ma non esiste posto migliore al mondo dove vivere il problema è che spesso i veneti non lo sanno. Recita una vecchia filastrocca “Veneziani gran signori, Padovani gran dottori, Vicentini magnagati, veronesi tuti mati…”. Come se una semplice filastrocca bastasse a far capire oltre mille anni di storia di un territorio e le popolazioni che lo hanno abitato, coltivato, amato, odiato, domato e purtroppo a volte sì anche deturpato. E questa filastrocca, quanti sanno che racconta in versi anche delle altre tre provincie venete? Il Veneto infatti è anche Rovigo, Treviso e Belluno, non solo Venezia, Padova, Verona e Vicenza. Se i veronesi sono tuti mati, o i vicentini si cibano ancora di felini, o Belùn non è di nessun è ancora vero? E le sette sorelle (le provincie venete), sono unite o sono ancora in rivalità? Perché tradizionalmente i veneti hanno queste caratteristiche? E soprattutto questa filastrocca rappresenta ancora gli abitanti del territorio che si estende per 18.400 km2 e ospita quasi 5.000.000 di abitanti? Per lungo tempo terra di povertà ed emigrazione, il Veneto, grazie a un notevole sviluppo industriale, è oggi una delle regioni più ricche d'Italia, grazie al suo patrimonio paesaggistico, storico, artistico ed architettonico, ma cosa spinge 64,5 milioni di turisti ogni anno a fare del Veneto la regione più visitata d’Italia? Probabilmente a loro saperlo non interessa (ci vengono), ma ai Veneti invece dovrebbe interessare sapere cosa spinge un visitatore a un viaggio in Veneto, cosa cerca chi si avventura tra le città o i paesi. Riscoprire, conoscere e valorizzare al meglio le proprie tradizioni e la propria cultura potrebbe essere un’ulteriore risorsa in tempi di crisi, perché spesso non ci si stupisce più delle bellezze che ci circondano, della cucina, dell’ospitalità dimenticando che sono queste la vera ricchezza che ci hanno lasciato in eredità i nostri avi. Quanto c’è di bello da vedere e da gustare al di fuori delle solite rotte turistiche? E chi sono i veneti? Cosa mangiano? Che lingua parlano? Compiendo una ricerca minuziosa sul territorio siamo andati scovare molte notizie curiose, aneddoti, ricette, per far emergere la generosità dei veneti, la loro essenza, le loro abitudini, pregi e difetti, vizi e virtù, in relazione anche al territorio che abitano e a come lo vivono. Storie di colonizzazione, di città sulla terra e sull’acqua, di imprese epiche, di grandi disastri e di grandi riprese, di gente che si rimbocca le maniche… storie che tessute insieme a molte canzoni originali danno vita ad uno spettacolo teatralmusicale che parla di territorio, di vizi, virtù, cucina, abitudini, modo di essere e di esprimersi dei veneti. Che permette a chi non li conosce di capirli meglio e apprezzarli e a chi ci è nato di essere orgoglioso delle proprie radici. Una volta un vecchio saggio disse che una storia che non si racconta è una storia che non è mai stata vissuta. E se una storia non si racconta finisce per essere dimenticata. Per questo noi la vogliamo raccontare. Lo scopo di questo spettacolo è quello di raccontare o spiegare con un occhio ironico e divertito, pregi e difetti dei veneti (dalle origini ai giorni nostri) nei quali gli autoctoni certamente si riconosceranno e cercando di farli apprezzare a chi veneto non è (ovvero se li conosci “non” li eviti). Purtroppo sovente a causa di singoli episodi accade che l’intera comunità dei veneti venga spesso messa alla berlina dai mass-media, che generalizza le problematiche gettando fango su tutti e facendo di ogni erba un fascio; con questo spettacolo vogliamo far capire da dove nascono l’essere e il fare tipici di chi è nato e ha vissuto in questa terra generosa ma difficile, parlare della cucina, delle bellezze, degli usi e costumi non per giustificare ma per far conoscere. Per questo abbiamo scelto la formula del teatro di narrazione e canzoni, in quanto è una forma di intrattenimento accessibile a tutti, che vedrà impegnati sul palcoscenico David Conati, Marco Pasetto e Giordano Bruno Tedeschi (tutti e tre in qualità di attori, musicisti e cantanti).
Ho trovato su internet le caratteristiche regionali degli italiani.
VENETO. tipi vizi pregi e difetti.
CARATTERISTICHE DEI VENETI. Operosità, inventiva e fantasia, predisposizione per il commercio e gli affari (il pensiero divergente), operosità, determinatezza, voglia di lavorare e produttività (Faso tuto mi...), inventiva e fantasia (Datemi un bottone e solleverò il mondo...), religiosità, sentimento ambivalente odio/amore per Venezia (considerata improduttiva), spirito di dedizione, senso del dovere, lealtà, scarso interesse per la cultura.
CARATTERISTICHE DEI VENEZIANI. Fatalismo (fede nel caso e nella buona sorte), umorismo (la presa in giro, canzonatura, scherzi), presunzione e senso di superiorità nei confronti degli altri veneti (storicità e importanza artistica e culturale di Venezia), gusto per l'esagerazione (l'abitudine di magnificare la propria città), amore per il verde e i fiori, passione per la pesca, piacere di spendere e viaggiare, cultura del "bel gesto" (aiutare il prossimo anche a costo di sacrificare o far danno a se stessi), spirito festaiolo e comportamento teatrale.
CARATTERISTICHE DEI TREVIGIANI. Strategia del camaleonte (la cìacoea), volubilità, carattere libertino, culto dell'immagine di sé e maschere sociali, capacità di distinguere e separare lavoro e riposo, senso estetico, senso del dovere.
I Veneti. Mistero delle origini. Il popolo di Troia. I Veneti sono i più Celti tra i contemporanei? Da: "NOI, CELTI E LONGOBARDI" di Gualtiero Ciola, Edizioni Helvetia 1987. l problema dei Veneti e molto controverso; consultando qualche enciclopedia troviamo:
"Popolo celtico del Nord-Ovest della Gallia Celtica: popolo marinaro del1’Atlantico".
"Antica popolazione indoeuropea stanziata nella pianura veneta".
"Antico popolo della Gallia, che abitava la penisola di Bretagna e che fu vinto e assoggettato da Cesare".
"Antica popolazione di stirpe illirica, abitante nell'attuale Veneto".
Montanelli storico ne fa addirittura una tribù germanica acquartierata nella provincia che ne porta il nome....La Società Filologica Veneta: "L antico popolo indoeuropeo dei Veneti si diffuse, verso la meta del secondo millennio avanti Cristo, dal Centro-Europa, in numerose direzioni, ben prima delle grandi migrazioni "illiriche", celtiche e germaniche, portando con sé la propria cultura e la propria lingua, lasciando tracce della propria presenza riconoscibili ancora oggi in varie regioni europee. Saranno i Veneti stabilitisi tra le Alpi e l'Adriatico a mantenere, nel corso dei millenni, la propria identità ed uno sviluppo culturale autonomo, fino ai nostri giorni; stanziati ancora oggi, nonostante le pressioni celtiche e la frammentazione sofferta ad est della Livenza, sul territorio che dai nostri antenati ha preso il nome: il Veneto. La lingua veneta più antica, chiamata anche venefica, indoeuropea occidentale, scritta sin dal VI sec. a.C., unitaria, non può essere confusa con alcuna delle lingue più antiche d’Europa, né aggregata ad alcun gruppo; era però dotata, dati i suoi caratteri "antico-centroeuropei", d'interessanti isoglosse con alcuni altri linguaggi. Un filone linguistico veneto disceso nel Lazio (tipo "rubro") partecipò anzi alla genesi tripartita del Latino, assieme a1 filone osco-umbro (tipo "rufus") ed al filone ausonico (tipo "rutilus"). Tale partecipazione, anteriore al contributo etrusco al Latino, e confermata nel Lazio da reperti archeologici di tipo venetico (gli incineratori del foro romano) e dallo stesso Plinio (N.H. 3.69), nel citare il popolo dei Venetulani tra i componenti dell'antichissima lega sacra d'Alba Longa. I Veneti contribuirono anche in misura notevole allo sviluppo culturale e linguistico dell'antica Bretannia; la stele di Plumergat presenta, infatti, tratti decisamente venetici. Il nome etnico di "Veneti" e stato tra i più diffusi nel mondo indoeuropeo; si ebbero presenze venete antiche anche in Gran Bretannia, nel Belgio, in Paflagonia (Turchia) e forse in Catalogna. Duemila anni fa il lago di Costanza era chiamato "lacus Venetus" ; altre testimonianze toponomastiche e storiche degli antichi stanziamenti veneti in Europa sono tuttora chiaramente rilevabili lungo le coste del Baltico, nell’Europa Centrale e Orientale e nella penisola balcanica. Spesso questi antichissimi gruppi veneti, mantennero dei contatti con i Veneti dell'Adriatico ed il ricordo di tali relazioni era ben vivo al tempo della Repubblica Veneta. Spesso questi antichissimi Veneti mantennero dei contatti con i Veneti dell'Adriatico ed il ricordo di tali relazioni, era ben vivo al tempo della Repubblica Veneta. In seguito all’espansione del latino in Europa ed al suo uso universale nella scrittura, nel Veneto, nazione che i Romani mai conquistarono, il contatto con tale lingua internazionale e con le successive lingue neolatine, favori maggiormente la conservazione nella nostra lingua di quanto di comune essa aveva, in quanto indoeuropea e per le ragioni suesposte, col latino stesso, senza che ciò ne riducesse l’individualità, l'omogeneità e l’autonomia. Queste riappaiono chiaramente nei primi testi medievali veneti non latini, e quindi nei testi successivi anche se, come ovunque in Europa, la lingua scritta sarà sempre più latineggiante della lingua parlata. Amplissima e stata ed è tuttora, le produzione letteraria, diffusa nel tempo ed in tutte le province venete, il Veneto e stato, e risaputo, la lingua ufficiale della nostra Repubblica, giungendo ad essere una vera "Schriftsprache" europea, una lingua in tutti i possibili sensi della parola, molti secoli prima del sorgere della lingua italiana e con un’importanza maggiore di questa. Fu ed e notevole la profonda omogeneità della lingua veneta, di per se stessa koinè, cioè lingua comune a tutti i Veneti, dalla quale nessuna variante locale si discosta sensibilmente; ed altrettanto notevole è stata la politica della millenaria Repubblica, che mai volle imporre il Veneto ad alcun popolo non venetofono (realtà ricordata ancora oggi con riconoscenza da Cimbri e Sloveni, Ladini, Albanesi, Croati, Lombardi e Greci), giungendo ad usare nei documenti, oltre alle lingue locali, lingue neutrali diverse dal veneto, secondo uno spirito pluralista ancora oggi ben raro in Europa. Privato con l’inganno della propria libertà e della propria indipendenza plurimillenaria (1797), il popolo veneto ha continuato fino ad oggi a parlare e a scrivere in Veneto, a dispetto dei governi "forestieri", succedutisi da quella data (!) ; e la stessa "subalterneità" alle culture dominanti cui la cultura veneta pareva ormai condannata, viene oggi finalmente rimessa in discussione. Sentiamo ora Attilio Nodari, cultore della Venezianità: " Circa 1500 anni a.C. nuove genti provenienti dall’area caucasica (Aral, Caspio, Volga) si mossero verso occidente. Una nobile schiatta di cavalieri e di marinai, giunta nella penisola anatolica (odierna Turchia), dopo aver partecipato alle vicende dei principi della Frigia, prese stanza nella vicina Paflagonia, lungo le coste del Mar Nero. Erano i Veneti, che in greco significano "degni di lode", una parte dei quali riprese il cammino per l’Europa e risali il corso del Danubio fino alle montagne, ove si divise. Quelli che si diressero a nord delle Alpi, raggiunsero l’Atlantico presso l’estuario della Loira e popolarono le coste della Bretagna e della Normandia dedicandosi all’arte della navigazione. Soltanto Cesare molti secoli dopo, nel 56 a.C., li vinse, come egli stesso narra nel libro terzo del "De Bello Gallico". Quelli invece che affrontarono la porta orientale dell’Italia, entrarono nella regione degli Euganei, i quali, vinti, dovettero fuggire o sottomettersi. I Veneti, che alcuni storici classificano di stirpe illirica venuta dall’oriente e sono invece i Veneti dell'Adriatico, d'antica origine indoeuropea, erano d'attitudini più elevate che non gli Euganei. Possedevano carri leggeri trainati da un veloce e fino allora sconosciuto animale, privo di corna ma con criniera, che sapevano anche cavalcare; perciò il loro impeto nei combattimenti era incontenibile, tuttavia amavano l’ordine e la pace che mantennero per secoli perché erano i più forti. Estesero il loro dominio dal Timavo all’Adige, ma non si affacciarono sul mare e per questo sono stati chiamati i Veneti terrestri. Dopo alcuni secoli anche i discendenti di quelli che erano rimasti in Paflagonia lasciarono quella patria dopo la distruzione di Troia (1184-1183 a.C.), della quale erano stati alleati e, stando al racconto di Livio, arrivarono per mare nel fondo del golfo adriatico per riunirsi ai loro fratelli: sono i Veneti detti marittimi, che, con i terrestri, costituirono la grande nazione dei Veneti italici. L’antica Ateste (Este), già euganea, fu il centro principale della civiltà paleoveneta, ma nuclei importanti furono anche Padova, Adria, Vicenza, Oderzo, Treviso e Belluno. In epoca più tarda, quando iniziarono i rapporti con Roma, Padova assunse il ruolo di cita capitale, anche perché Este andava decadendo. Le abitazioni dei paleoveneti erano costituite da capanne, probabilmente simili ai superstiti casoni della nostra bassa pianura; nelle zone paludose prelagunari erano innalzate su piattaforme di tronchi, mentre in montagna si costruivano di pietra, materiale di facile disponibilità. Nella parte più orientale della regione le capanne si erigevano all’interno dei castellieri. I Veneti si dedicavano alla confezione di prodotti fittili e alla lavorazione del bronzo (spade, asce, pugnali, fibule), arte nella quale raggiunsero un livello di preminenza. Poi comparve il ferro che avrebbe acquistato gradatamente sempre maggiore importanza. Tra le due età essi si fecero iniziatori d'industrie e attivarono per primi la navigazione commerciale non solo lungo i fiumi e nelle lagune, ma anche per il mare, conseguendo supremazia e ricchezze. La loro civiltà progredì nei secoli successivi e raggiunse il massimo splendore proprio quando, tra il 500 e il 400 a.C., iniziarono le tremende e rovinose invasioni galliche.
I Veneti sono i più "Celti" tra i contemporanei? A questo punto tocca a noi fare delle osservazioni e provare a dimostrare una tesi della quale siamo più che convinti. Che i Veneti siano un antica popolazione indoeuropea stanziata nella pianura veneta e pacifico; pero e altrettanto pacifico che il popolo dei Veneti che abitava la penisola di Bretagna e che fu vinto da Cesare, fu da questi descritto come una tribù celtica e che fosse di stirpe celtica nessuno lo ha mai messo in dubbio. Un altro argomento che va puntualizzato e il concetto di "stirpe illirica", alla quale molti studiosi attribuiscono i Veneti: le così dette stirpi illiriche potevano essere tutto: doriche, celtiche, germaniche e slave, poiché si riferivano esclusivamente alla localizzazione geografica, sita fra il Danubio e l’Adriatico; una "razza illirica" come tale, non e mai esistita! Quanto all’uscita di Montanelli ("Dante e il suo secolo" - Rizzoli) di vedere nei Veneti una tribù germanica, ciò a prima vista può anche stupire; ma poi risulta giustificata dal fatto che il paleoveneto, proprio come il latino, presenta una rimarchevole affinità col germanico, specie nella costruzione del periodo. Per esempio: il veneto forma l’accusativo del pronome personale "mecho" secondo il nominativo "echo", in ciò corrisponde perfettamente al germanico - gotico "mik", antico alto tedesco "mih". La radice pronominale "selbo" si incontra soltanto tra i Veneti e i Germani: la doppia posizione ritorna in entrambi i linguaggi, veneto "sselboi", "sselboi" ( = "sibi ipsi’) sta accanto all’alto tedesco "selb", "selbo". Il veneto "veno" accanto a "veso", corrisponde alla formazione gotica parallela di "seins", "suo" e di "sui proprio". Secondo la maggior parte degli storici che sino ad ora non hanno trovato che pochi contraddittori, solo dal V° secolo a.C. i Celti emergono dalla preistoria come entità etnica riconosciuta. E prima? Theodor Mommsen e Georges Dumezil sono di ben diverso avviso. Questi due insigni studiosi non sembrano avere dubbi che si possa parlare di Celti anche a proposito di quegli invasori nordici che conquistarono l’Italia nel corso dei due primi millenni: in particolare essi ipotizzano l’esistenza di un gruppo italo - celtico, strettamente imparentato con il gruppo indo - iranico che conquistò la Persia e l’India. Anche per noi i paleoveneti sono dei protocelti ed allo stato attuale, assieme agli altri Padani, ai Francesi ed agli Irlandesi, costituiscono ancora il popolo che possiede la più alta percentuale di sangue celtico. In effetti, salvo infiltrazioni germaniche che non hanno alterato granché il carattere etnico di queste popolazioni, anche perché non si è trattato di un vero e proprio meticciamento, i Veneti hanno potuto mantenere inalterati per millenni le loro peculiarità somatiche e spirituali. Non siamo certo stati i primi a sostenere la teoria sulla celtitudine dei Veneti, poiché già da tempo la scuola germanica la dava per scontata; citiamo tra i tanti l’antropologo tedesco Otto Reche: "Veneter und norditalienische Gallier werden heute nicht mehr zu den Italikern gezählt, sondern als keltische Gruppen angesehen, die Veneter von manchen auch als Illyrer..." (=I Veneti e i Galli dell’alta Italia non vengono oggi più ascritti agli Italici, ma a gruppi celtici, i Veneti da alcuni anche gli Illirici…" Pure lo storico cecoslovacco Jan Filip attribuisce carattere celtico "almeno a quella parte di popolo veneto che praticava la sepoltura in campi d’urne": ora e un fatto storicamente accertato che il nome di Veneti accompagna tutti i movimenti del popolo dei campi d’urne dalla foce della Vistola (Wenedi), fino alle rive dell’Atlantico (Galli Veneti, Veneti della Loira). Scrive Franz Altheim: "Ad ogni modo si può dire che qualunque estensione possa avere avuto questo nome etnico (:dei Veneti), e certo che esso e legato con l’espansione dei campi d’urne". E d’altra parte la maggior parte degli storici indicano nei Celti i portatori più tipici della civiltà dei campi d urne centroeuropei, per cui questa, da sola, sarebbe la lapalissiana dimostrazione dell'equazione: Veneti = Celti! Anche gli studi sulla preistoria del Veneto compiuti da R. Battaglia, il quale ha visto una stretta affinità tra i paleoveneti e le contemporanee popolazioni di Hallstatt e della Carniola ci hanno sorretti nella nostra convinzione sulla celtitudine dei Veneti, oltre ad alcune osservazioni che balzano agli occhi di ogni ricercatore che cerchi un approccio non prevenuto alla questione.
I toponimi. Il più chiaro e probante indizio dell’insediamento di un popolo di stirpe celtica ci rimane nella toponomastica : le località con finale in "ago", "aga", "igo", "iga" ( tipici del paleoveneto "ico", "ica") corrispondevano ad antiche proprietà agricole che si definivano normalmente secondo il nome del proprietario, che si ritrovano in Italia dovunque si sono insediate popolazioni protoceltiche e galliche, ma che nel Veneto e nel Friuli sono molto più frequenti che altrove, se si eccettua la zona compresa tra Como e Bergamo, che e il punto di massima concentrazione celtica in Lombardia: Alpago, Asiago, Crescenzago, Legnago, Maniago, Mardimago, Massanzago, Moriago, Orsago, Terlago, Vedelago, Volpago, Umago, Grassaga, Peraga, Lancenigo, Francenigo, Lonigo, Veternigo, Zianigo, Barbariga, Pianiga, ecc. Il Prof. Giovan Battista Mancarella sostiene che molti toponimi con la finale in "acum" ("ago"), dopo la conquista romana sono stati sostituiti dal latino "anum", per cui è logico ritenere che anticamente i nomi di derivazione celtica dovessero essere molto più numerosi; anche le italianizzazioni in "ato" sembrano frequenti, come dimostra l’esempio di Borgnato che prima suonava Borgnago e di Lovernato che anticamente era Lovernaco. Anche i toponimi uscenti in "lano", "liano", "gliano" derivano dal celtico "land(a)" e dal gallo-romano "lanum" come Primolano, Mortegliano, Conegliano, Terlano, ecc. Ci sono poi toponimi riferibili a vocaboli o radici celtiche: da "avon" = fiume, Piavon ed il fiume Piave; il suffisso finale in "asio", "esa", "iso" indica località poste lungo corsi d’acqua, come Bevasio, Uigasio, Nervesa e la stessa città di Treviso ("Tarvisium") derivante dalla radice "tarvos" = toro; il monte Grappa dalla radice "greb", "grepp", indicante luogo sassoso ed arido, analogamente alle Grave del Piave o di altri fiumi; Belluno, Montebelluna derivano da "behl" = splendente o dal dio Behl e da "dunum" = fortezza, castello; da "seg", "sego" = forza, fortezza, Segusio, Segusino, Susegana; da "windo" = bianco, il monte Venda e Vendevolo; da "briga" = colle, rocca, Breganze e Preganziol; da "ronk" = campo, colle, Roncade, Roncadelle, Ronchi, Ronco; da "mara" = palude, Marano, Mareno, Marocco; da "bark" = capanna, Barco, Barcon; da "cadubrium", Cadore; la denominazione pregermanica del lago di Garda, Benaco; Verona da Verna, Ceneda dai Cenomani, Lugo Vicentino dal dio Lug, Motta di Livenza da "motta" = mucchio. Questo per dare solo qualche esempio poiché il campo della toponomastica e ancora tutto da scoprire.
La lingua. Per Polibio "i Veneti differivano pochissimo dai Galli nei costumi e nell'abbigliamento, ma si servivano di un’altra lingua". La lingua venetica veniva un tempo parlata in un’area molto più vasta di quella attuale, che comprendeva una parte della Lombardia, il Friuli Venezia Giulia, l'Istria, la Carinzia e la Carniola, ove il ritrovamento di iscrizioni venetiche e oltremodo frequente. Per la specificità e la diversità del venetico dal linguaggio celtico parlato nel II e I sec. a.C.,, ventiliamo l'ipotesi che la parlata dei Veneti, venendo a contatto con il linguaggio degli Euganei autoctoni, sia stata da questo influenzato in quelle zone nelle quali questo popolo era di casa: da qui può essere incominciata la sua differenziazione dalla lingua parlata nelle antiche sedi centro-europee. Per il Prof. G.B. Pellegrini la lingua veneta più antica, indeuropea occidentale, scritta fin dal VI secolo avanti Cristo, unitaria, non può essere confusa con alcuna delle lingue più antiche d’Europa, né aggregata ad alcun gruppo; era però dotata, dati i suoi caratteri "antico-centroeuropei", "di interessanti isoglosse con alcuni altri linguaggi". Ora il suo antico carattere centro-europeo, nonostante il suo autonomo sviluppo e l'omogeneità che accomunerà tutti i Veneti in una vera koinè, doveva necessariamente avere dei punti di contatto con "alcuni altri linguaggi", che altro non potevano essere che quelli del gruppo paleoceltico, analogamente all’antico leponzio. Per dare un esempio abbiamo trovato che per denominare il bosco i Celti usavano il termine "leukos", mentre i Veneti dicevano "louki", il che poteva sembrare molto diverso se udito da uno straniero greco (come Polibio) o romano, ma che nella grafia rivela una indubbia analogia. Del dialetto veneto molti sono i termini ad etimo non latino sui quali seri studi di glottologia dovrebbero fare luce, come per dare un solo esempio l’aggettivo "romaso" = meravigliato, stupito e numerosi altri termini, molti dei quali sono purtroppo caduti in disuso. Diamo ora un breve elenco di vocaboli ad etimo celtico che ancora si usano, mentre la maggior parte deve essere andata perduta con la romanizzazione della popolazione:
Prima voce italiano seconda voce veneto:
Arente Arente deriva dal celt. "are": vicino, presso, accanto
Barco Bark, Barko recinto per bestie
Barchessa Barkesa tettoia rustica annessa alla casa rustica
Baro Baro, Xbaro cespuglio, mazzo
Beta Beta, erbeta Bietola
Bora, borin Bora, borin Tipico vento
Bòria Bòria Superbia
Borlon, bora borlon, bora Trave
Boriana, buriana Boriana, buriana Burrasca
Braga, braghe Braga, brage, bragese Pantaloni
Branca, brincar Branka, brinkar zampa, afferrare
Bricco Brik Recipiente
Bricola Brikòla gruppo di pali per ormeggio
Briga, brigar sbriga, sbrigar, briga, brigar molestia, brigare, sveltire
Torse la briga Torse la briga assumersi l’onere
Brolo, broleto Brolo, broleto, brolet campo, orto, frutteto
Cantaro Kanter Vaso
Cioco, ciuca Cok, cuka ubriaco, sbornia
Cloccar Krokar suonare di campane
Grébani, grava, grave Grébani, krépani, grava, grave luoghi sassosi
Mota, motta Mota Mucchio
Sbrego, sbregar sbrego, sbrek, sbregar strappo, strappare
Scaga Skaga, skago, spago, skego Paura
Smara smara corruccio, dispetto
Sloz, sloso sloth, slotho Sporco, anche: marcio "ovo sloth" ed eccentrico
Tacon Takon Pezza
Tamiso Tamiso, tamis Setaccio
Topa Topa Toppa
Abbiamo sin qui riportato delle testimonianze:
saranno i lettori a giudicarle probanti o meno; a corollario produrremo alcuni
altri indizi a sostegno della nostra tesi. A. Nodari scriveva: "I Gallo-Celti
riuscirono a penetrare nella regione dei Veneti, costringendoli temporaneamente
nella fascia più prossima al mare". Però si contraddice quando sostiene che i
Veneti "amavano l’ordine e la pace che mantennero per secoli perché erano i più
forti". In effetti ciò corrispondeva a verità perché le tribù che si stanziarono
nel Veneto e nel Friuli, lo fecero col beneplacito dei padroni di casa; infatti
più oltre afferma che "gli antichi Veneti coabitarono coi Gallo-Celti, dai quali
poco differivano, essendo di comune origine indoeuropea".
Della stessa origine, ribadiamo noi. Circa la provenienza dei nostri Veneti non
ci sentiamo di contraddire nessuno, constatata la straordinaria rapidità degli
spostamenti in rapporto ai tempi, di cui erano capaci i popoli dell'antichità.
Comunque, visto che l’antico idioma venetico apparteneva alle lingue indoeuropee
occidentali con caratteri antico-centroeuropei, non si può escludere che la sua
origine sia comune a quella degli altri popoli celtici: il Centro Europea. La
provenienza dall’area caucasica e dall’Anatolia. non si può escludere, per le
ragioni suesposte, per qualche gruppo di quel popolo: basti pensare a Brenno,
che senza automezzi ed autostrade portò fulmineamente il suo esercito a
saccheggiare Roma e un secolo dopo un suo omonimo fece lo stesso con la Grecia
sino a Delfo! Un’altra ragione per dimostrare l’appartenenza dei Veneti al
gruppo dei popoli celtici e costituito dai reperti paleoveneti dei musei: le
armi in bronzo, spade, pugnali, asce, sono della più tipica e raffinata fattura
celtica, così come le fibule, i vasi e le suppellettili: nella grandiosa
esposizione sui "Celti della Mitteleuropa" tenuta ad Hallein, presso Salisburgo,
nell'estate-autunno 1980, i reperti celtici provenienti dall’Italia, provenivano
in massima parte dal museo di Este. Purtroppo la falsificazione della storia e
soprattutto dell’etnografia sono di moda nel nostro paese, si che molte armi,
statue ed oggetti di fattura gallica e gallo- romana portano la dicitura di
armi, statue ed oggetti romani, vuoi per ignoranza, vuoi per malafede e di
esempi se ne possono vedere parecchi sia nei grandi che nei piccoli musei. A
titolo di curiosità annotiamo che presso i Celti "le piantagioni, la raccolta
delle erbe medicamentose e la vinificazione venivano fatte solo con la luna
giusta". La qualcosa e ancor oggi nel Veneto una legge non scritta, ma
scrupolosamente osservata. Altro interessante campo di studio aperto
all’archeologia e l’identificazione di castellieri e di templi solari: assai
studiati sono stati i castellieri preistorici di Trieste e dell’Istria; il
celtismo degli abitatori dei castellieri del Veneto Orientale e del Friuli e
stato messo in luce da M.G.B. Altan; nel resto del Veneto gli studi
scarseggiano: assai dettagliatamente catalogati i reperti del Bostel
sull'Altipiano di Asiago; le rovine di Castel Sottosengia presso Breonio
(Verona), è stato descritto da R. Battaglia come un santuario veneto-gallico.
Un’ara celtica ci e stata segnalata dalll'avv. Perin sulla collina di Refrontolo
(Treviso): ci siamo recati a vedere il tumulo di forma perfettamente circolare,
edificato con materiale ghiaioso di riporto; nelle immediate vicinanze la
conformazione spianata dalla mano dell’uomo della sommità di un colle lasciava
supporre la presenza di un antico "oppidum"; un vecchio contadino ha dichiarato
di aver sentito raccontare da bambino, che sotto il tumulo dovrebbe trovarsi "la
testa della regina", la qual cosa ci ha fatto venire alla mente la decapitazione
rituale dei re celti per placare gli dei nei casi di calamità naturali... La
ricerca con fotografe aeree ed a raggi infrarossi potrebbe approdare a
ritrovamenti interessanti. Invece il parroco di Solimbergo Don L. Cozzi ci ha
informato che numerosi tumuli vengono spianati dalle ruspe, malgrado le
segnalazioni alle autorità preposte come nel caso di sessanta tombe a tumulo, di
cui solo una ha restituito il corredo funerario, mentre le altre sono state
distrutte; hanno resistito sino ai nostri giorni delle costruzioni megalitiche
come il "Cjadin", termine per indicare l’enorme diga formata da massi ciclopici
presso Usago nello Spilimberghese e l'ara di Meduno, monolito di 35 quintali,
con quattro coppelle ineguali ai lati, scannellatura ai bordi e colatoio e con
scolpita una rudimentale figura di toro, animale sacro per i Celti. E per finire
la sopravvivenza di un antichissimo rito: durante il Solstizio d’inverno, i
Celti della Bretagna bruciavano e bruciano tuttora delle pire di legname a scopo
propiziatorio: ciò si fa ancora, da tempo immemorabile in tutto il Veneto e nel
Friuli il 5 di gennaio, perpetuando una tipica tradizione druidica precristiana.
A proposito delle peculiarità somatiche e psichiche gli storici greci e romani
ci hanno descritto i Celti con caratteristiche che sono assai simili a quelle
dei Veneti odierni e ciò non deve stupire, ove pensiamo che i Germani descritti
da Tacito assomigliano molto ai tedeschi moderni, cosa che si può affermare che
i popoli non cambiano i loro caratteri quando si mantengono immuni da massicce
commistioni con popolazioni diverse. Le peculiarità somatiche dei Veneti sono
abbastanza note: l’alta statura, nei confronti delle altre popolazioni italiane
e la corporatura generalmente robusta. Dolicocefali o mesocefali a bassa volta
cranica, orbite rotondeggianti e distanziate, gli occhi sono spesso azzurri,
verdognoli, grigiastri o nocciola; raramente scuri o neri. Capigliatura:
frequente il tipo biondo - cenere, ma con caratteristiche diverse dal tipo
germanico, per intenderci analogo al biondo slavo, baltico, falico e dinarico
che e più slavato. Frequentissimi i capelli castani, relativamente frequenti i
capelli rossicci; rari i capelli neri. Anche il naso diritto e prominente,
spesso carnoso, e lo stesso di quello del Galata morente, visibile al Museo
Capitolino a Roma. Se ne deduce che poco o nulla essi divergono dalle
descrizioni fatte dagli storici sull'aspetto fisico dei Celti. Per il
temperamento dei Celti risulta che essi erano portati al massimo grado per il
lavoro di tipo industriale e versatissimi per gli affari e il commercio; è quasi
certo che furono i primi in Europa a costruire fabbriche di abiti, scarpe, armi,
utensili e vasi. Polibio racconta poi che nella Gallia Cisalpina i viaggiatori
sostavano nelle locande "senza pattuire il prezzo di ogni singola prestazione,
ma chiedendo il prezzo giornaliero tutto compreso per persona": i Galli
cisalpini avrebbero così inventato l’albergo a pensione completa! Tutto ciò si
attaglia perfettamente ai Veneti d’oggi, dediti ad ogni sorta di attività
industriale e commerciale per non parlare della fitta rete turistico -
alberghiera dell'alto Adriatico, che costituisce il pezzo forte delle strutture
turistiche italiane. E ancora: "I Celti erano, gente chiassosa e spaccona,
sempre pronta a litigare e siccome avevano la passione per il bere, questo
avveniva specialmente durante i festini e i banchetti che occupavano una parte
importante nella loro vita". Vengono in effetti descritti come dei buongustai ed
in ciò ci pare che non si possa porre in dubbio la loro strettissima parentela
con i loro discendenti Veneti, Emiliani e Romagnoli: ne fa fede la grande
frequenza di ristoranti, locande e osterie che si trovano nell'ospitale terra
veneta ed emiliana. Chiassosi e spacconi bisogna riconoscere che lo sono anche i
Veneti; litigiosi no, almeno sino a che sono sobri; quanto al bere e indubbio
che nel Veneto si beve più vino che altrove, ma bisogna aggiungere che è anche
bene tollerato. Nell'antichità i Celti erano generalmente descritti come un
popolo battagliero, coraggioso e fiero, ma talvolta di una ingenuità quasi
infantile (Jan Filip). Secondo Cesare, erano un popolo instabile e la loro
eloquenza spesso sfociava in loquacità..."Le più spiccate qualità della gente
celtica – scrive lo storico Thierry – sono il valore personale, un carattere
fermo, impetuoso, accessibile a qualunque impressione, intelligenza, ma nello
stesso tempo moltissima volubilità, nessuna perseveranza, renitenza alla
disciplina e all ordine, millanteria e discordia eterna, conseguenze di una
vanità sconfinata" (!). Più severo ancora è il giudizio dello storico Theodor
Mommsen: "La gente celtica, benché ricca di solidi pregi, e forse più brillanti
che solidi, mancava di quell’indole morale e di quel senso politico su cui si
basa fermamente, nelle vicende della natura umana, tutto ciò che vi e di buono e
di grande....La loro costituzione civile è imperfetta; non solo l’unità
nazionale vi è appena abbozzata da un debole vincolo federativo, ma anche in
ciascuna comunità mancano lo spirito di concordia, di fermezza politica, di
coesione civica e i desideri e i concetti che ne sono le conseguenze". Questi
autorevoli giudizi sulle peculiarità caratteriali degli antichi Celti, ne
dimostrano 1 impressionante affinità psicologica coi moderni Veneti: questo
insieme di pregi e difetti, presenti invero in ogni gruppo umano, ci da modo di
centrare alcune osservazioni che propizieranno qualche autocritica riflessione
tra i diretti interessati...Sulle virtù militari la Storia della Repubblica
Veneta ne dimostra a iosa il coraggio e la valentia nelle molte guerre sostenute
dai Veneziani: anche nelle guerre moderne i Veneti, se ben guidati da valenti
ufficiali, hanno dimostrato di essere ottimi soldati, coraggiosi e zelanti.
L'ingenuità è pure una caratteristica non sempre positiva, che rende questa
popolazione acritica e indifesa di fronte ad un potere che tende ad uniformare e
a livellare a suo piacimento l’opinione pubblica. Anche le osservazioni di
Cesare sono molto pertinenti poiché l'instabilità da noi riscontrata fra i
Veneti ne fa un popolo perennemente in balia dei mestatori di professione, quali
sono oggi i politici, che agendo con una certa abilità dialettica, riescono a
condurre la massa amorfa a riconoscere soltanto le "loro" verità, che tali assai
spesso non sono; anche la spiccata verbosità e una quasi costante realtà della
gente veneta che sfoggia molte parole, senza arrivare a definire dei solidi
concetti. L'instabilità, la volubilità, la renitenza all’ordine e alla
disciplina, la discordia, furono, come vedremo, le cause delle sconfitte dei
Celti ad opera dei Romani e furono anche le cause della perdita della loro
identità nazionale, dei loro usi, costumi e tradizioni; anche nei Veneti fa
difetto la consapevolezza e la fierezza della propria storia e della propria
etnia, mentre vi abbonda il conformismo, tanto che sarebbe improprio per loro
usare il termine "popolo", nel senso che noi diamo a tale termine, che
presuppone questa consapevolezza e fierezza. Ribadiamo per chi troverà
provocatorie queste osservazioni, che lo scopo di queste note è proprio quello
di creare o propiziare una mentalità nuova, partendo dal riconoscimento delle
proprie antiche origini. Le stesse carenze vengono ribadite dallo storico
tedesco Mommsen, che lamenta l’assenza del legame di comunità, mancando lo
spirito di concordia, di fermezza politica, di coesione civica; tutto ciò è la
causa per la quale il Veneto e rimasto una terra di conquista e di
colonizzazione: i Veneti sono stati "adoperati" quali "buoi da lavoro’ per
bonificare paludi e per dissodare terreni sterili : Veneti sono stati i coloni
delle Paludi Pontine, delle bonifiche di Torrimpietra presso Roma, del
dissodamento del deserto libico in Cirenaica, di rimpiazzo ai contadini lombardi
e piemontesi passati all’industria; altre volte i Veneti sono stati considerati
"buoi da macello", quando si e trattato di combattere delle guerre fratricide
per interessi ad essi estranei ed essi hanno sempre docilmente obbedito, morendo
di malaria o di piombo per un paese che li considera ne più ne meno di quello
che vogliono essere: dei sudditi comunque, talvolta dei servi!
FRATELLI COLTELLI.
Chievo-Hellas, storia di un derby che non c’era, scrive Matteo Bruni su “Il Giornale”. La storia del derby Chievo-Hellas è un po’ la storia di Davide e Golia. Da una parte un piccolo quartiere, la passione di un pugno di tifosi e tanta, tanta militanza nelle serie inferiori; dall’altra la storia, i trofei, lo scudetto di Bagnoli, le vittorie e le coppe europee. Ma, come narra il mito, Davide sconfigge Golia. Nel calcio però non sempre i due si incontrano, accade al massimo due volte all’anno, tre o quattro tutt’al più. La storia di Chievo-Hellas si è avvicinata vertiginosamente al mito nella stagione 2001-2002, la prima in A per il Chievo, l’ultima in A per molti anni per l’Hellas. Non c’era nessun tipo di rivalità fra le due squadre fino a quel momento. Che bisogno c’era per il maestoso e imponente Golia di odiare il piccolo e indifeso guerriero Davide? Nessuno, anzi come spesso accade in queste situazioni, Davide era un protetto di Golia. Golia lo guardava con la pietà con cui si guarda un ragazzetto imberbe alle prese con il mondo degli adulti. Golia era il mentore, Davide lo scolaretto. Il primo derby della Scala, nome che deriva dalla signoria Veronese che regnò per una manciata di secoli nella prima metà del secondo millennio, fu disputato nella serie cadetta, l’inferno della Serie B, la sera del 10 dicembre 1994. Altra storia, altro calcio: l’Hellas, 10 anni dopo lo scudetto, era ormai una nobile decaduta del calcio italiano, i clivensi erano ancora semplicemente i mussi, gli asini, non ancora volanti e raggruppati in una squadretta simpatica senza speranze e manie di grandezza; era l’anno del ventitreesimo scudetto della Juve, il primo della triade e di Marcello Lippi in panchina, Luciano era ancora Eriberto e la città veneta era in fibrillazione per questo evento storico. Niente di paragonabile s’intenda, con i grandi derby del Nord. Milan-Inter, Juve-Toro, Genoa-Samp erano di un’altra pasta, tutta un’altra storia, tutta un’altra rivalità. Verona-Chievo era una gara da simpatici sfottò, nulla più, tra due squadre che da sessantacinque anni condividevano la stessa città e lo stesso stadio ma che mai e poi mai avrebbero pensato di spartirsi i piatti allo stesso banchetto. Appunto, Davide contro Golia, e la storia era appena cominciata. Per la cronaca, il primo derby ufficiale tra le due squadre in quella sera di fine autunno terminò con un pareggio per 1 a 1, con il Chievo che raggiunse il Verona che si era portato in vantaggio. Un pareggio a dir la verità carico di significato, come a dire: siete i più forti, ma anche noi possiamo farcela. Gli anni passano con un andirivieni dell’Hellas tra la serie A e la serie B e con il Chievo che si posiziona sempre in acque tranquille nella serie cadetta. Arriviamo alla stagione 2000-2001, con l’Hellas che ci riprova nella massima serie e il Chievo, tranquilla squadra folkloristica, che si accinge ad affrontare il suo sesto anno consecutivo in serie B. Golia, forte della sua supremazia cittadina, si permette di sfottere i “cugini” o, per meglio dire “figlioletti” per le loro velleità di promozione. “Quando i mussi i volarà, vedremo il derby in serie A”. Ovvero, quando gli asini (soprannome dei clivensi) voleranno vedremo il derby in serie A. Come a dire: impossibile, la Serie A è per i grandi, voi bimbi restate fuori a giocare nei campetti di provincia. Ma tutto stava per cambiare. Al termine dell’annata 2000-2001 infatti il Chievo viene promosso in Serie A, il Chievo giocherà nella massima serie insieme all’Hellas. Quella che era fino all’anno prima solo una squadra folkloristica, comincia a far parlare di sé. E i dubbi non fecero che aumentare quell’anno perché il Chievo dei miracoli di Gigi Del Neri strabilia a destra e a sinistra perdendo di un soffio il titolo d’inverno e arrivando a un impensabile quinto posto con accesso diretto alla Coppa Uefa alla fine dell’anno, a un solo punto dal Milan, dai preliminari di Champions League. Proprio in questa stagione avvenne l’imponderabile: Chievo quinto, Hellas retrocesso. Impensabile fino all’anno prima. Il gigante Golia, da sempre sicuro della sua supremazia sul povero e indifeso guerriero Davide, inizia a temerlo, inizia a guardarlo dal basso verso l’alto. Si é compiuta per l’ennesima volta la poesia del calcio. La rappresentativa di una maestosa città come Verona, lo storico Hellas scudettato finisce in Serie B e il piccolo Chievo, i mussi volanti, la squadra che fino a pochi anni prima contava un paio di migliaia di appassionati e niente più, ora la fa da padrone in una città intera e conquista l’Europa al primo vero tentativo. Il derby di Verona comincia qui a diventare un vero derby, i tifosi dell’Hellas cominciano a non esultare più alla notizia dei gol del Chievo. Se prima le maggiori rivalità erano con il Milan, con il Vicenza, con il Brescia, ora si iniziano a vedere come il fumo negli occhi anche i concittadini. Niente più folklore a Chievo, niente più sfottò nei derby dell’Arena, ora é una vera e propria rivalità, ora é un vero e proprio derby. Il Verona, da quella retrocessione del 5 maggio 2002, non vedrà più per molto tempo la luce della Serie A. Quello che prima era un andirivieni tra la massima serie e la Serie B ora diventa un andirivieni tra la serie cadetta e la Serie C. Per il Chievo invece è iniziata la lunga storia di Serie A, interrotta per un solo anno, nel 2007-2008. In questi dodici lunghi anni il Chievo è maturato, il Chievo ha conosciuto l’Europa, da solo e grazie a Calciopoli, mentre il Verona cercava sé stesso lontano dai grandi palcoscenici. La stagione 2013-2014 si apre a ruoli invertiti: da una parte il Verona, neopromosso, realtà interessante in cerca di conferme nel calcio dei grandi; dall’altra il Chievo squadra navigata dopo anni di Serie A, che punta a una salvezza tranquilla e magari anche a qualcosa in più. Sappiamo tutti com’è andata. Il Chievo dopo un periodo difficile ha cominciato la sua corsa verso la salvezza, l’Hellas dopo un avvio sprint che ha riportato alla memoria il Chievo dei miracoli, a salvezza raggiunta si è un po’ seduto sugli allori, vivacchiando con più infamia che lodi fino ad oggi. Il grande ritorno del derby, nel girone d’andata ha lasciato un po’ d’amaro in bocca a tutti, con una partita tesa e arcigna conclusa da un gol di Lazarevic quando ormai tutti pensavano a uno zero a zero. Questo è il derby di Verona, un derby di metà classifica, una rivalità giovane, nata perché gli asini volano e i mastini non mordono più e che continuerà per sempre perché la storia ci insegna che le simpatie sono fragili, possono finire, mentre gli odi no, l’odio è duro a morire, duro come il marmo. La storia del derby della Scala è appena nata, col passare degli anni non può che approfondirsi, anche se gli asini un bel mattino si svegliassero senza ali o chissà, magari i mastini ricominceranno a mordere. Questo è il derby della Scala, questo è Chievo-Hellas.
La parte contro il tutto: «Trovo perfetta la sintesi di Alessandro Niero nel suo libro di poesie dedicato al Chievo: il deby è "pars contra totum", ossia la parte della città contro la città che ingloba quella parte», scrivono Matteo Fontana e Matteo Sorio su “Il Corriere della Sera”. Guariente Guarienti è uno degli avvocati più noti di Verona. Tifa Chievo dal 1994, ossia dal passaggio in Serie B: «Esprimeva un calcio garibaldino ed esuberante, cosa che purtroppo non si può dire adesso». Il derby dell’Adige, all’epoca, era agli albori. Non mancava la tendenza, anche tra un numero per nulla irrisorio di appassionati dell’Hellas, a guardare con simpatia non celata al Chievo: «Era semplicemente un’altra realtà sportiva della città. Come può essere una squadra di pallavolo o di pallacanestro. E personalmente, in quel periodo, non sentivo la necessità di schierarmi a tutti i costi: l’Hellas veniva prima di tutto, ma il Chievo suscitava attenzione », dice Roberto Puliero, leggendaria voce radiofonica del Verona. Che racconta così il cambio di rotta nella concezione popolare della gara. Da semplice confronto poco più che folcloristico a rivalità autentica: «Alcuni fatti sono stati determinanti. Intanto, quando il Chievo salì in A e cominciò ad emergere, a livello mediatico ci fu una profusione di melassa: la favola, i buoni contro i cattivi dell’Hellas. Poi, nel derby di ritorno del 2002, la speaker del Chievo, annunciando le formazioni, disse, presumo imbeccata da qualche dirigente, "Hellas Verona 1991". Come per troncare la storia gialloblù. Quello è stato il gesto che ha marcato le distanze. Inoltre, con il passare degli anni, è parso che il Chievo abbia cercato di sostituirsi nell’immaginario popolare al Verona. E questo ha suscitato irritazione nei tifosi dell’Hellas». Il riferimento è alla vicenda dei simboli e dei colori. Il gialloblù e la Scala del Chievo, che gli appassionati del Verona ritengono siano stati «scippati ». Walter Curti, una bandiera del club della Diga, in campo nel primo confronto di sempre (suo l’assist per il gol dell’1-1 di Gori, il 10 dicembre 1994), osserva: «Se la rivalità s’è acuita è anche per motivi storici. Penso al discorso dei colori. Il gialloblù è sulle maglie del Chievo dagli anni ‘50. Solo che finché il Chievo era una meteora, la squadra del giro in giostra e poi tanti saluti, allora non c’erano problemi. Poi, ripeto, è arrivata l’affermazione del Chievo. Ed è cambiato tutto». Affermazione del Chievo, dice Curti, e nel contempo la crisi del Verona, ora tornato in A dopo infinite peregrinazioni e un’assenza che durava dal 2002. Graziano Battistini, all’Hellas dal 1997 al 2000, portiere che ha giocato per quattro volte la sfida col Chievo, evidenzia: «A quei tempi sentivamo di più, come ambiente, altre partite. Con il Brescia, con l’Atalanta, oppure con la Salernitana. Poi, una volta salito in A il Chievo, il tifoso del Verona si è visto insidiare. E, di lì in poi, l’Hellas è sceso fino alla Serie C. Non entro nel merito della discussione sui simboli, ma i risultati in un senso e nell’altro hanno rimarcato il dualismo». Riprende Curti: «Quando stavamo vincendo la C il pubblico del Verona ci applaudiva: mi raccontavano di boati allo stadio quando sul tabellone veniva fuori il nostro risultato. Quando ci fu il primo derby vero e proprio c’era contrapposizione, sì, ma all’acqua di rose: noi eravamo la favoletta di passaggio, mica una rivale». Domenico Penzo, attaccante storico dell’Hellas, nonché apprezzato opinionista, commenta: «Quello con il Chievo è il derby per eccellenza. So che tanti tifosi del Verona lo snobbano, dicono che, a esserlo, è l’incontro con il Vicenza. Ma non può essere così. Non più. Perché a cambiare, in questi anni, è stato un aspetto essenziale: il Chievo è nato come squadra di quartiere, ma ora, e con merito, è l’altra società calcistica di Verona. Ed è normale, visto il tempo che ha trascorso in A. Detto questo, l’Hellas è un’altra cosa, e qui sta la differenza che si è rafforzata. Uno può tifare Chievo, ed è una questione meramente sportiva. Il Verona, invece, è un modo di essere, uno stile di vita». E Puliero, a supporto delle parole di Penzo, ricorda: «Un giorno ero al seguito dell’Hellas in uno dei tanti campacci della C. Vidi due tifosi. Mi dissero: "Non siamo mica qui per quelli che giocano. Francamente, pensiamo che siano pure quattro brocchi. Ma noi il Verona non lo lasceremo mai"». Resta, ora, il distacco che si è allargato tra Hellas e Chievo. Anticipato, con toni pungenti, già nel 2001 da Tim Parks, autore inglese e tifoso del Verona (celebre, al riguardo, il suo libro «Questa pazza fede»). Che, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera, scrisse: «Il Chievo è popolare perché non rappresenta tutto quello su cui gli altri italiani sono pronti a litigare quando pensano a Verona. Quel compito è lasciato all’Hellas. Ci rubano i colori ma non accettano i nostri nemici. Nel frattempo, le tribune deserte del Chievo hanno fatto da vuoto pneumatico per aspirare quel terribile spirito di perbenismo politicamente corretto sempre così impaziente di dare una falsa rappresentazione del football come puro gioco di intrattenimento fra giovani in buona salute». Qualcosa è cambiato sul serio.
ITALIA. NAZIONE DI LADRI E DI IMBROGLIONI.
Italia. Quello che manca è la credibilità nelle istituzioni. Come dire….il pesce inizia a puzzare dalla testa.
"Falcone e Borsellino erano due persone diverse: l'uno, Giovanni, aveva un carattere introverso, quasi schivo, Paolo, invece aveva un carattere goliardico, era estroverso. Si scambiavano continuamente battute. Borsellino diceva a Falcone: 'Finché sei vivo tu io sono tranquillo, perché se devono fare qualcosa ad uno di noi prima lo faranno a tè'. Era uno scambio continuo di battute e scherzi". Lo ha detto il presidente del Senato, Pietro Grasso, partecipando ad un incontro-dibattito all'Assemblea regionale siciliana per celebrare la "Giornata della memoria e dell'impegno contro le mafie". "Entrambi avevano, però, una caratteristica professionale comune - ha aggiunto -: erano dei fuoriclasse, eccellevano e questo creava invidie dei colleghi. Dopo il maxi processo iniziarono a vivere un attacco continuo. Attacchi dal Csm e dalle istituzioni, vennero le accuse di insabbiare le carte, mettendo in difficoltà il loro lavoro".
Già. Il CSM. "Apprestandosi a chiudere la scandalosa vicenda degli abusi e delle irregolarità emerse in alcune delicate inchieste della Procura di Milano, senza neanche un 'Pater, Ave e Gloria' di penitenza, il Csm dimostra di essersi definitivamente trasformato da organo di autogoverno dei giudici a organo di autoinsabbiamento di ogni malefatta, specie se riguardante magistrati molto in vista e ritenuti intoccabili". E' quanto afferma Luca d'Alessandro (Fi), segretario della commissione Giustizia della Camera.
VELENI IN PROCURA E MALI DI CORRENTE, scrive Bruno Tinti (magistrato) su “Il Fatto Quotidiano”. La Procura di Milano è sconvolta dalla denuncia di un Aggiunto, Robledo, contro il suo capo, Bruti Liberati: non mi voleva affidare i reati contro la Pubblica amministrazione, mi ha blandito, minacciato, emarginato, violato le procedure di assegnazione. È vero? Il Csm traccheggia, difende Bruti, impedisce un’approfondita istruttoria. Lo dice un suo componente, Racanelli. È vero? Lo stesso Racanelli, nel corso di un plenum cui partecipa il ministro della Giustizia, chiede che questi proceda a un’ispezione; e spiega che è stato costretto a farlo perché il Csm voleva insabbiare tutto. Ha fatto bene?
1) È nota la frase di Bruti: “Ricordati che sei stato nominato aggiunto per un solo voto, di Magistratura democratica. Avrei potuto dire a uno dei miei al Csm che Robledo mi rompeva i coglioni e di andare a fare la pipì, così sarebbe stata nominata la Gatto che poi avremmo sbattuto all’esecuzione”. Bruti non ha negato di aver detto queste parole. Il corriere.it del 14/3 riferisce che – al Csm che gliene chiedeva conto – avrebbe sorriso e sostenuto che si trattava di humour inglese. Supponendo che la frase sia stata effettivamente pronunciata, le conclusioni sono obbligate. Bruti ritiene normale che le decisioni del Csm dipendano dagli schieramenti correntizi. Bruti ritiene normale che, nei contrasti interni all’ufficio, non si debba ricorrere al Csm, ma ricordare a chi gli si oppone il suo ruolo di correntocrate (in grado – evidentemente – di condizionarne la carriera). Bruti ritiene normale ghettizzare i magistrati a lui sgraditi “sbattendoli” in uffici valutati di secondo piano (Nunzia Gatto, poi divenuta Aggiunto, si occupa effettivamente di esecuzione). Ora, è vero che l’ultima versione dell’ordinamento giudiziario (legge Castelli–Mastella, due nomi, una garanzia), ha rafforzato molto i poteri del Procuratore capo; ed è vero che Bruti avrebbe potuto destinare al dipartimento che gli fosse sembrato opportuno Robledo (e Gatto). Ma ciò con un provvedimento motivato, passibile di ricorso al Csm. Minacce e ritorsioni non fanno parte delle prerogative di un magistrato.
2) Le mancate assegnazioni di importanti indagini a Robledo si prestano a considerazioni meno perentorie. L’indagine Expo, affidata a Boccassini. Vero che i reati per cui si procede sono quelli contro la Pa (corruzione). Ma sono anche vere altre circostanze. La prima informativa giunta alla Procura di Milano segnalava un’associazione a delinquere di stampo mafioso funzionale a commettere corruzioni. Competenza della Dda, Boccassini. E però il Gip non ha ritenuto sufficienti le prove con riferimento a questo reato. Il fascicolo doveva essere trasferito a Robledo? Parrebbe di no: sia perché le indagini sul 416 bis proseguono; sia perché, quando un magistrato comincia un procedimento, la cosa peggiore che si può fare è toglierglielo e affidarlo a un altro; giorni e giorni di lavoro buttato. E poi Bruti ha inserito, nel pool che si occupa dell’indagine Expo, un Sostituto appartenente al dipartimento di Robledo, D’Alessio. Il Ruby bis, le false testimonianze a favore di Berlusconi. Vero, la falsa testimonianza è un reato contro la Pa. Ma è prassi costante in ogni Procura che di questo tipo di indagini si occupino i Pm che hanno trattato il procedimento principale. Per una ragione di efficienza: conoscono bene gli atti, sanno già quali prove dimostrano la falsa testimonianza, non ha senso che qualcun altro ricominci tutto da capo. E il processo Ruby era stato trattato da Boccassini. Ma non doveva esserlo, dice Robledo: l’accusa più grave era quella di concussione, di competenza del dipartimento della Pa. Ma, anche in questo caso, l’indagine era cominciata per tutt’altro: la telefonata di Berlusconi al questore e tutto quello che ne seguì avvennero a procedimento iniziato da tempo. Sarebbe stato dissennato sostituire i Pm a indagine praticamente conclusa. Però il veto all’iscrizione di Podestà, che ordina di raccogliere firme false per le liste Pdl alle regionali 2010, perché potrebbe creare problemi al Pdl, se vero, è inaccettabile. Se vero… Robledo dice che, dopo l’iscrizione (cui egli aveva proceduto contravvenendo all’ordine del capo) Bruti gli avrebbe detto “allora non ci siamo capiti”. Sta di fatto che, in una lettera successiva, Bruti evidenzia il suo disappunto: “Hai proceduto a stretto giro (come prevede la legge ndr), senza adottare la cautela dell’iscrizione con nome di fantasia, che ti avevo indicato come opportuna”. E Robledo nega di aver ricevuto tale suggerimento. E, quanto alla mancata iscrizione e assegnazione del processo ESA-Gamberale per turbativa d’asta, Bruti l’ammette: “Me ne sono dimenticato”. Da procedimento disciplinare: è rimasta nel cassetto per più di 3 mesi. Per molto meno (ritardi nel deposito delle sentenze e mancate iscrizioni per fatti da quattro soldi) decine di magistrati sono stati condannati. Insomma luci e ombre. Il Csm dovrebbe accertare le une e le altre; è quello che dice l’art. 105 della Costituzione.
3) Ma Racanelli dice che non lo fa. Riferisce di volontà “politica” di insabbiare tutto; di rigetto di richieste di audizione dei magistrati che possono fornire informazioni sulla vicenda; di nuovo e sconcertante strumento di accertamento dei fatti: un contraddittorio cartaceo a distanza. E se qualcuno volesse fare qualche domanda? È per questo che si rivolge al ministro.
4) Ha fatto malissimo, tuonano le correnti. Il Csm è organo sovrano, indipendente dalla politica. Vero. Solo che questi stessi correntizzati e correntocrati, tutti uniti, invocarono e approvarono le ispezioni ministeriali a De Magistris e alla Procura di Salerno. L’indignazione a corrente alternata è poco credibile. E comunque, se è vero che al Csm c’è la “volontà politica” di insabbiare, che altro resta?
Come si dice, il difetto sta nel manico. Bisogna mandare al Csm gente che non abbia nulla a che fare con le correnti. Quello che si sta tentando adesso, con il sorteggio. A tacer d’altro, senza le correnti, Bruti forse nemmeno ci sarebbe arrivato alla Procura di Milano.
Se davvero la «guerra alla Procura di Milano» finisce in nulla. Quello che avevamo creduto di capire nello scontro tra Alfredo Robledo ed Edmondo Bruti Liberati. E che ora il Csm, invece, nega sia mai esistito, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Scusateci, avevamo sbagliato. Alla Procura di Milano, dalla metà di aprile a oggi, avevamo capito fosse scoppiata una guerra senza esclusione di colpi. Non era così. Avevamo creduto di capire che l'alto magistrato Alfredo Robledo, nientemeno che un procuratore aggiunto (in ordine gerarchico, il numero 2 dell'ufficio), senza infingimenti e senza giri di parole, accusava davanti al Consiglio superiore della magistratura il suo capo, Edmondo Bruti Liberati, nell'ordine:
1) di avere attribuito illegittimamente ad altri magistrati una serie d'importanti inchieste, tutte «politicamente rilevanti», per il solo motivo che il medesimo capo della Procura, uomo dai lunghi trascorsi nel sindacalismo di categoria e per questo particolarmente abile nella gestione delle correnti giudiziarie e del potere nel suo senso più lato, riteneva in qualche modo più «affidabili» i destinatari delle indagini;
2) di avere indebitamente e gravemente rallentato l'avvio di due o tre inchieste, tutte «politicamente rilevanti», sostenendo in aperti dialoghi che in certi casi fosse meglio non intervenire in certe faccende per motivi di opportunità economica, finanziaria, politica...
3) di avere rimproverato Robledo, anche per questo autore della denuncia, di «scarsa collaborazione», e di avergli per questo rinfacciato che se era in quell'incarico lo doveva esclusivamente alla sua corrente di appartenenza, Magistratura democratica. In particolare, Robledo aveva denunciato, mettendolo nero su bianco, che Bruti gli aveva detto queste sconvolgenti parole: «Ricordati che al plenum (del Csm, ndr) sei stato nominato aggiunto per un solo voto di scarto, e che questo è un voto di Magistratura democratica. Avrei potuto dire a uno dei miei colleghi al Csm che tu mi rompevi i coglioni e di andare a fare la pipì al momento del voto, così sarebbe stata scelta la Gatto, che poi avremmo sbattuto alle esecuzioni” (Nunzia Gatto, poi nominata procuratore aggiunto a Milano, è effettivamente andata a occuparsi del trattamento dei condannati, ndr)».
4) di avere tenuto per sé (e poi chiuso in una cassaforte per almeno tre mesi) un fascicolo proveniente dalla Procura di Firenze, contenente elementi che ipotizzavano una turbativa d'asta su una delicata cessione d'azienda da parte del Comune di Milano.
A sua volta, il procuratore rispondeva al Csm con una serie di accuse: Bruti sosteneva che il suo aggiunto gli aveva sottaciuto di avere personalmente querelato due degli indagati sui quali chiedeva la titolarità delle inchieste aperte dalla procura. Lo accusava anche di avere disposto un doppio pedinamento di un altro indagato e di avere «intralciato le indagini». Questo, avevamo capito. Invece no, lo ripeto: ci siamo sbagliati. È stato tutto un equivoco, spiacevole ancorché collettivo. Perché se tutto questo fosse stato vero, come finora pareva, di certo il Csm (come sembra) non si appresterebbe a chiudere la feroce disputa fra Bruti e Robledo con una serena archiviazione. È impossibile, non starebbe né in cielo né in terra che l'organo di autogoverno della magistratura, istituto di rilevanza costituzionale, non disponga nemmeno una censura, un trasferimento per incompatibilità ambientale. Non starebbe né in cielo né in terra: perché è evidente. Ma certo, è impossibile, ci siamo sbagliati. Perché la giustizia italiana è una cosa seria. Perché lo Stato di diritto è uno dei pilastri del nostro ordinamento democratico. Perché l'obbligatorietà dell'azione penale è un principio incontrovertibile, un caposaldo della giurisdizione. Perché il Consiglio superiore della magistratura è fatto esclusivamente di persone intellettualmente oneste, che rispondono alla legge e non alle spinte delle correnti. Perché il Csm è il baluardo dell'indipendenza dei magistrati e del loro corretto operare, non è un ente dove si patteggiano soluzioni, si insabbiano questioni, si coprono scandali. Perché a volte gli asini volano, e noi ancora ci crediamo.
Per il CSM nessuno ha ragione, ma noi sappiamo che hanno tutti torto. Se andiamo più nel dettaglio è indiscutibile affermare che un trasferimento d’ufficio contro il Procuratore Capo non sarebbe mai stato preso veramente in considerazione..., scrive Massimo Melani su “Totalità”. In molti, giorni fa, avevamo immaginato che Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo, il primo capo della Procura di Milano e il secondo suo vice del pool antitangenti, occupati in una battaglia a campo aperto e ambedue sostenuti dai rispettivi alleati e sostenitori, non sarebbero mai stati richiamati all’ordine o trasferiti in altre sedi, ma ahiloro, dovranno sopportarsi ancora quattro anni. Il CSM, com'è solito fare quando di mezzo ci sono alcuni suoi protetti, tende ad insabbiare tutto ciò che può arrecare danno al proprio enorme strapotere e anche stavolta, coerentemente, ha deciso di archiviare il caso. Né il capo della procura, né Robledo, verranno sbattuti fuori dalla sede milanese. Entrambi resteranno al loro posto, con tutta la loro serenità per niente ammaccata da un esilio meritato, così da poter continuare reciprocamente a darsi, questa volta lontani da telecamere e taccuini, del bugiardo. Ambrose Bierce, scrittore statunitense, nel suo libro Il Diario del Diavolo, ebbe a scrivere: “Giustizia. Un articolo che lo stato vende, in condizioni più o meno adulterate, al cittadino, in ricompensa della sua fedeltà, delle tasse e dei servizi resi.” Nient’altro che un articolo, un prodotto di scambio che lo Stato italiano fa amministrare autonomamente da persone illecitamente parziali e dove, anche in quest’ultima situazione, non viene a mancare la paradossale, bizzarra, grottesca leggerezza di chi comanda il sistema giudiziario: nei prossimi mesi, non sto scherzando, sarà proprio Bruti Liberati a dover redigere, come procuratore capo, la scheda di valutazione di Robledo, per stabilire se sia in grado di rimanere al suo posto. E la stessa scheda dovrà compilarla anche per la Boccassini e Greco, i procuratori aggiunti che per Robledo erano stati aiutati in maniera sfacciata da Liberati in questi ultimi anni, e che sono sempre stati pedissequamente al suo fianco in ogni battaglia, in primis contro Silvio Berlusconi. Se andiamo più nel dettaglio è indiscutibile affermare che un trasferimento d’ufficio contro il Procuratore Capo non sarebbe mai stato preso veramente in considerazione, vuoi per l’affronto che sarebbe stato fatto al numeroso gruppo di persone importanti che quattro anni addietro lo vollero fortissimamente come capo, unitamente al Presidente della Repubblica; vuoi per la netta presa di posizione di Magistratura Democratica che, immantinente, ha isolato Robledo, colpevole di aver leso l’onore del grande capo. Facile, dunque, la scelta “pilatesca” del CSM che ha deciso di lavarsene le mani lasciando tutto com’era, senza infierire su nessuno, scimmiottando un tipico comportamento democristiano; cioè quello di non parteggiare né per l’una né per l’altra parte. In tutto questo, però, ne esce vincitore solo Robledo, che né il nemico Bruti Liberati né MD sono riusciti a scalzare dal suo posto, tentando di passarlo per le armi per disobbedienza alla causa o addirittura per interazione intellettiva col nemico. Provate adesso a ragionare un po’ sulla cosa e arriverete a capire ciò che può essere successo, o ciò che può sapere Robledo di tanto compromettente se, sia il massimo potere giudiziario, il CSM, sia il suo appoggio naturale, il sindacato di MD, si sono dovuti accontentare di un moscio e insignificante niente di fatto? L’importante è insabbiare i veleni venuti tragicamente a galla e, in questo, c’è serenamente da ammetterlo, quelli del CSM sono dei veri maestri.
Ma in Procura continua la faida tra correnti. La scelta di salvare entrambi i litiganti è scontata, però il clima rimane irrespirabile, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Milano I vecchi conoscitori dei riti eterni della magistratura italiana lo avevano previsto da tempo: «Non succederà niente e quei due dovranno rassegnarsi a convivere per altri quattro anni». Laddove quei due erano Edmondo Bruti Liberati e Alfredo Robledo, il capo della Procura milanese e il suo vice del pool antitangenti, impegnati in uno scontro senza quartiere, e spalleggiati entrambi da alleati e supporter. La profezia si avvera ieri, con la Prima commissione del Consiglio superiore della magistratura che insabbia tutto quanto. Non viene cacciato Bruti ma neanche Robledo (che a dire il vero non era mai stato formalmente sotto procedimento, anche se mediaticamente si è cercato di farlo passare per tale). Restano entrambi al loro posto, con la serenità d'animo e di rapporti reciproci che si possono immaginare tra due magistrati in là con gli anni, arrivati a darsi pubblicamente e vicendevolmente del bugiardo. E con un dettaglio oltretutto quasi grottesco: nei prossimi mesi sarà Bruti a dover stendere, come capo dell'ufficio, il pagellino di Robledo, per valutare se sia in grado di restare al suo posto. E la stessa pagellina Bruti dovrà stenderla anche per Francesco Greco e Ilda Boccassini, i procuratori aggiunti che Robledo lo accusava di avere favorito in questi anni, e che più sono stati al suo fianco in questa battaglia. Che il Csm potesse trasferirlo per «incompatibilità ambientale», Bruti Liberati lo aveva escluso già nei giorni scorsi: «Se al Consiglio non piace il mio modo di fare il procuratore dovrebbe rimuovermi dalla magistratura, perché io farei dovunque il mio lavoro come lo faccio a Milano», aveva confidato a chi lo conosce da tempo. D'altronde una rimozione d'ufficio di Bruti sarebbe suonata come uno schiaffo al vasto fronte che quattro anni fa lo scelse come procuratore, con l'autorevole benedizione del Quirinale. A temere di più per la propria sorte era in queste settimane Alfredo Robledo, che si era trovato quasi isolato all'interno del sindacalismo di categoria: solo la destra di Magistratura Indipendente si era schierata con lui, e c'era persino chi chiedeva la sua testa per il reato di «lesa maestà» nei confronti della Procura milanese. Invece, almeno per ora, lo «zero a zero» sancito dal Csm salva capra e cavoli. Decisivo, perché finisse senza spargimenti di sangue, è stato il documento che due veterani della Procura milanese, Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, hanno fatto circolare nei giorni scorsi, raccogliendo la grande maggioranza delle firme dei pm: un documento vagamente democristiano, che non si schierava né con l'uno né con l'altro dei contendenti. Ma già l'equidistanza, l'accortezza di evitare difese d'ufficio del capo Bruti Liberati (che né Pomarici né Spataro amano particolarmente) ha finito con suonare come un messaggio esplicito a chi, come una parte di Magistratura Democratica, puntava a rovesciare il tavolo e a fare del grande accusatore Robledo l'unica vittima della faccenda, passandolo per le armi per diserzione o addirittura per intelligenza col nemico. La partita non è ancora del tutto chiusa, perché ieri non finisce i suoi lavori la Settima commissione del Csm, quella che potrebbe tirare le orecchie a Bruti per la sua gestione dei fascicoli. Ma nel frattempo la Procura milanese si prepara a restare in mezzo al guado, ad affrontare anni in cui non basterà una delibera del Csm a riportare sotto la sabbia i veleni venuti drammaticamente alla luce in queste settimane.
Repubblica inetta, nazione corrotta, scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Nonostante gli angeli vendicatori di Tangentopoli la corruzione dilaga ancora in Italia. E la spiegazione si trova in Machiavelli: è l’incapacità di governare a produrre malaffare e conflitti d’interessi. Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati? Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout? Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai Mastellas e da lì ai Boccias, e abbraccia in sé destri e sinistri, senes, viri et iuvenes? Ah, se invece di moraleggiare pedantemente, leggessimo i padri! «Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.8). Niccolò vedeva dall’Albergaccio meglio che noi ora da Montecitorio. Tristi cittadini sempre ci saranno. Ma in una repubblica che non sia, essa, corrotta, poco potranno nuocere e facilmente essere “esiliati”. Gli “ordini” contano, le leggi, che non sono fatte dai giudici. Le leggi non cambiano la natura umana, ma la possono governare. È la repubblica corrotta che continuamente produce i corrotti. E quando una repubblica è corrotta? Quando è inetta. Quando risulta impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti, che sono la ragione della sua stessa vita, ma li patisce e li insegue. Se è inetta a mutare in relazione all’“occasione”, se è inetta a comprendere quali dei suoi ordini siano da superare e quali nuovi da introdurre, allora è corrotta, cioè si corrompe e alla fine si dissolverà. Corruzione è anzitutto impotenza. E impotenza è incapacità di “deliberare”. Una repubblica strutturata in modo tale da rendere impervio il processo delle decisioni, da rendere impossibile comprendere con esattezza le responsabilità dei suoi diversi organi, una repubblica dove si è costretti ogni volta alla “dannosissima via di mezzo” (sempre Niccolò docet), alla continua “mescolanza” di ordini antichi e nuovi, per sopravvivere - è una repubblica corrotta e cioè inetta, inetta e cioè corrotta. Ma quando questa infelice repubblica darà il peggio di sé? Con megagalattiche ruberie da Tangentopoli? Purtroppo no. Piuttosto (“banale” è il male), allorchè diviene quasi naturale confondere il privato col pubblico, concepire il proprio ruolo pubblico anche in funzione del proprio interesse privato. Magari senza violare norma alcuna - appunto perché una repubblica corrotta in questo massimamente si manifesta: nel non disporre di norme efficaci contro i “conflitti di interesse”, di qualsiasi tipo essi siano. Una repubblica è corrotta quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il «bene particulare» nello svolgimento del proprio ufficio. Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza: tutte prove della corruzione della repubblica. Poiché soltanto “il bene comune è quello che fa grandi le città” (Discorsi, Libro II, cap.2). Il politico di vocazione può riuscire nel difficile compito di tenerlo distinto sempre dal suo privato. Il politico di mestiere, mai. Quello che si è messo alla prova nei conflitti della repubblica senza corrompersi, può farcela. Il nominato, il cooptato, che abbia cento anni o venti, mai. Ma abbiamo forse toccato il fondo. E questo deve darci speranza. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò, era necessaria tutta la miseria di Israele.
ALL’INIZIO FU TANGENTOPOLI. L’ultimo bilancio dell’inchiesta mani pulite, condotta dal pool di magistrati della procura di Milano, risale al febbraio del 1999. Anche perché da allora la stessa inchiesta mani pulite può dirsi morta, mentre Tangentopoli continua ad imperare. A sette anni dall’avvio delle indagini sulla corruzione politica e finanziaria che va sotto il nome di Tangentopoli, cominciate il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, il solo pool di Milano aveva indagato 3.200 persone, aveva chiesto 2.575 rinvii a giudizio e aveva ottenuto 577 condanne, di cui 153 con sentenza passata in giudicato. Le statistiche ci dicono ancora che fino alla fine 1997 la guardia di finanza aveva accertato reati fiscali legati a Tangentopoli per un importo di 3.609 miliardi. Sono cifre che bastano da sole a dare un’idea della diffusione in Italia del sistema della corruzione che ha riguardato arricchimenti personali, ma anche e soprattutto maniere illecite di finanziamento dei partiti mediante il sistema delle tangenti, le cosiddette bustarelle, pagate da imprenditori ad esponenti politici. Quello che le statistiche non possono però raccontarci riguarda i criteri in base ai quali, non solo il pool di Milano, ha portato avanti queste inchieste. Anche perché, pur essendo – per ammissione degli stessi magistrati inquirenti - la corruzione estesa a tutti i partiti, nessuno escluso, decapitando di fatto solo una parte della classe politica e permettendo ad un’altra di salire al potere, l’inchiesta giudiziaria mani pulite ha avuto un notevole impatto sugli assetti istituzionali del Paese.
Mose, ultimo capitolo della tangentopoli della Seconda Repubblica. Da Bertolaso a Galan, passando per Penati, scrive Pietro Salvatori su “L’Huffingtonpost” All’inizio fu Tangentopoli. Una purga benefica per il sistema, dicevano. Qualcosa non deve essere andato per il verso giusto se vent’anni dopo un pubblico ministero come Carlo Nordio presenzia ad una conferenza stampa snocciolando parole come queste: “Avendo trattato Tangentopoli 20 anni fa posso dire che gran parte della corruzione scoperta oggi è simile e molti dei protagonisti sono gli stessi. Ma questo è un sistema molto più sofisticato". Punto. Si riparte da Expo, Mose, la cricca del G8, gli scandali milanesi, il “colpo di culo” del terremoto abruzzese. Se è vero, come sosteneva Honoré de Balzac, che “la corruzione è l’arma della mediocrità”, la grande aspirazione della classe politica emersa nel post-Tangentopoli sarebbe dovuta essere quella di elevare la schiera dei mediocri spazzati via dalle procure in un giardino di ottimati dai saldi principi e dalla retta condotta. Non sembra essere andata così. Perché nel pieno di una crisi economica di portata storica il ricorso alle Grandi opere salvifiche è stata spesso la bandiera sotto la quale combattere per creare occupazione, sviluppo e rivitalizzare una filiera produttiva in debito d’ossigeno. Ma è indubbio che quella dei “big deal all’amatriciana” è sovente stata un’etichetta latrice di operazioni opache, appalti pilotati, se non di corruttele. Gli ultimi sono gli episodi che hanno visto trentacinque arresti nell’ambito della realizzazione del Mose, il gigantesco sistema di paratoie mobili che dovrebbe isolare Venezia dai rovesci delle maree. Trentacinque paia di manette sono scattate ai polsi di altrettanti indagati. Tra questi figurano l’azzurro Renato Chisso, assessore regionale ai Trasporti, il democratico Giampietro Marchese, collega di Chisso in Regione, ma soprattutto Giorgio Orsoni, sindaco Pd della città lagunare. I provvedimenti di custodia cautelare sarebbero stati trentasei, se non che il berlusconiano Giancarlo Galan siede tra i banchi della Camera, e per lui bisognerà attendere l’autorizzazione a procedere da parte di Montecitorio. Quello delle fila di Forza Italia è uno sfarinamento che va avanti da tempo. Per tacer del leader, le inchieste che coinvolgono i fedelissimi dell’ex Cavaliere occupano da mesi le pagine della cronaca giudiziaria: da Denis Verdini (sotto botta per la gestione del Credito cooperativo fiorentino) a Marcello Dell’Utri (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), passando per Claudio Scajola, arrestato per aver favorito la latitanza dell’ex collega onorevole Amedeo Matacena. La vecchia guardia, si dirà. Vero, ma solo in parte. Perché, a molte delle figure riemerse da un’epoca che fu, si affiancano volti nuovi di una classe dirigente maturata dopo il 1994. Prendiamo Orsoni. Fino alla metà degli anni zero ha guidato la società ingegneristica dell’aeroporto di Venezia ed è stato consigliere di amministrazione alla Biennale. La sua frequentazione con gli ambienti della politica è tutto sommato residuale (tecnico al ministero dei Lavori pubblici dal ’96 al ’98, un’esperienza da assessore del capoluogo lagunare terminata nel 2005) fino al 2010. È quando la svolta fusionista veltroniana si è consumata da tempo che viene individuato come volto nuovo, profilo da grand commis tecnico, da presentare sul palcoscenico nazionale, lanciato nel 2010 verso la polverizzazione dell’avversario di centrodestra, Renato Brunetta, e da innalzare a guida Democratica di uno dei patrimoni storici dell’umanità. Sorte condivisa da Giampietro Marchese, che, forte di una prima elezione in consiglio regionale nel 2005, non ha ancora festeggiato il primo decennio con una targhetta di un certo rilievo sulla porta dell’ufficio. Orsoni avrebbe ricevuto soldi per finanziare la propria campagna elettorale, in cambio di “agevolazioni” ai suoi co-imputati una volta eletto. Proprio da questo punto di vista, sono stati i magistrati che indagano sull’altro grande scandalo delle ultime settimane, quello che riguarda l’Expo 2015, a mettere in luce un paradigma delle inchieste che hanno terremotato la politica del post-Tangentopoli. Mentre vent’anni fa ci si sporcava le mani avendo come scopo principale quello di apportare benefici al proprio partito, oggi a muoversi sono cupole ramificate che sì coltivano rapporti con la politica o che ne fanno parte, ma che si mettono in moto per tornaconto personale. Così se alla metà degli anni ’90 si poteva dare a Primo Greganti il beneficio del dubbio che i soldi in nero fossero transitati per un suo conto avendo come destinazione finale il sol dell’avvenire, oggi l’accusa è quella che si sia mosso per intascarsi una bustarella degli appalti che tentava di pilotare. Così come i suoi sodali tripartisan nella cricca che sguazzava nelle ricche commesse dell’esposizione universale: l’ex democristiano Gianstefano Frigerio, e l’ex senatore berlusconiano Luigi Grillo. Anche qui un miscuglio di protagonisti datati di un’epoca che sembrava archiviata si unisce senza soluzione di continuità a rampanti arrivisti dell’ultima ora, come il responsabile dell’ufficio contratti Angelo Paris, che ha ammesso di aver commesso alcuni dei presunti illeciti contestatigli “per la promessa di una futura carriera”. La primogenitura della lunga serie di mani sporcatesi nel tentativo di drenare parte del fiume di denaro diretto verso le grandi opere è dell’uomo nuovo per eccellenza dell’epoca d’oro di Silvio Berlusconi, quel Guido Bertolaso che ha guidato le sorti di mezza Italia da capo della Protezione civile e sottosegretario della presidenza del Consiglio. Una carriera folgorante, rimasta invischiata in un “sistema gelatinoso” che lo ha visto coinvolto insieme ad Anemone e Balducci, accusati di aver distratto soldi dall’organizzazione del G8 della Maddalena, dai cantieri messi in piedi per i 150 anni d’Italia e dall’allestimento dei mondiali di nuoto. Vecchi sistemi, uomini e fini nuovi. Il trait d’union delle due epoche è quel Filippo Penati che non ha conosciuto il carcere forse solamente perché la prescrizione è intervenuta a estinguerne i reati. Anche il “sistema Sesto” era imperniato su opere pubbliche. Da un lato due aree industriali (le cosidette Falck e Marelli) per la cui riqualificazione, secondo gli inquirenti, girarono una serie di mazzette. Dall’altra l’acquisto (dal gruppo Gavio) della Provincia di parte delle quote della Milano-Serravalle, con un danno per le casse erariali stimato in 119 milioni di euro. Penati ha un cursus honorum nel corpaccione dei partiti della Prima repubblica simile a quello di Greganti. Ma i fatti contestatigli risalgono a quando, da semplice assessore di Sesto San Giovanni, arrivò a toccare con mano il potere vero, come presidente della Provincia meneghina, un incarico che lo fece incamminare verso la grande sfida (persa) per la guida del Pirellone contro Roberto Formigoni. Da semplice quadro di partito negli anni nei quali l’Italia veniva sconvolta dalle inchieste del pool di Milano, è nella Seconda Repubblica che l’ex sindaco di Sesto San Giovanni si proiettò sul panorama nazionale. Prima da presidente provinciale, nel 2004, poi da membro del coordinamento del Pd veltroniano, infine da capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani una volta che questi vinse le primarie per la segreteria del 2009. Insomma, per le mele marce della politica dalla metà degli anni ’90 a oggi, le grandi opere sono spesso “una botta di culo”. Così Ermanno Lisi, assessore della giunta di centrosinistra de L’Aquila, definiva il terremoto che provocò 309 vittime nel capoluogo abruzzese. In barba alle bare e alle migliaia di sfollati, Lisi vedeva nelle montagne di soldi che sarebbero arrivati per la ricostruzione una grande opportunità di business. Dello stesso parere sembrerebbero altri tre amministratori aquilani: il vicesindaco Roberto Riga, indagato per una presunta mazzetta da 30mila euro, un ex consigliere comunale con delega, Pierluigi Tancredi del Pdl, accusato di corruzione, e un altro ex assessore, Vladimiro Placidi. Solo punte dell’iceberg in un sistema che ha portato l’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici a trasmettere negli ultimi anni alle procure e alla Corte dei Conti più di settanta indagini e quasi mille denunce per false dichiarazioni nelle gare di appalto. Tante, troppe, per la voracità di quella classe politico-imprenditoriale che si doveva affrancare dalla mediocritas dei propri padri. E che, al contrario, a dar retta a Nordio, insieme ai suoi predecessori rischia di trasmettere sugli schermi degli italiani il brutto film di una nuova Tangentopoli.
TANGENTOPOLI VENETA. Il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio nel corso della conferenza stampa sui 35 arresti evoca Mani pulite anche se parla di meccanismo "più sofisticato". E il procuratore capo Luigi Delpino aggiunge: "Il sistema di false fatture serviva in gran parte a finanziare forze politiche a livello comunale, regionale e nazionale e a corrompere pubblici ufficiali", scrive Alice D'Este su “Il Fatto Quotidiano”. “Avendo trattato Tangentopoli 20 anni fa posso dire che gran parte della corruzione scoperta oggi è simile e molti dei protagonisti sono gli stessi. Ma questo è un sistema molto più sofisticato”. È la riflessione del procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, nel corso della conferenza stampa sui 35 arresti eseguiti questa mattina dalla Guardia di Finanza. “Il sistema di false fatture o meglio di sovrafatturazioni serviva in gran parte a finanziare forze politiche a livello comunale, regionale e nazionale e a corrompere pubblici ufficiali di elevato ruolo istituzionale” spiega il il procuratore capo Delpino. L’aggiunto Nordio: “Finanziamento illecito a entrambi gli schieramenti politici”. Ai domiciliari per finanziamento illecito è finito il sindaco Pd Giorgio Orsoni, arrestato anche l’assessore regionale alle Infrastrutture di Forza Italia Renato Chisso. In manette imprenditori, rappresentanti delle forze dell’ordine e anche due ex Magistrati delle acque. Richiesta d’arresto per l’ex ministro Giancarlo Galan e la europarlamentare Amalia Sartori. I fondi neri del Mose “sono stati utilizzati per campagne elettorali e, in parte, anche per uso personale da parte di alcuni esponenti politici. Hanno ricevuto elargizioni illegali persone di entrambi gli schieramenti” chiarisce Nordio. “Ho letto l’intervento del Capo dello Stato e del vice presidente del Csm che hanno invitato i magistrati a essere attenti in merito alle indagini più delicate. Voglio assicurare che la Procura di Venezia non ha nessuna intenzione di interferire su un’opera come il Mose, altamente tecnologica e che onora l’Italia” prosegui Nordio. “Ci addolora il fatto che è stato accertato che attorno ai lavori di realizzazione di quest’opera, continuino a interferire perniciose operazioni illecite”. Il procuratore Delpino: “Le indagini vanno avanti, gli sviluppi possono essere tantissimi”. “Le indagini vanno avanti, non sono concluse con questa operazione. Gli sviluppi possono essere tantissimi e non riguardano solo l’ulteriore fase di accertamenti di reati fiscali”, dovuti alla sovrafatturazione e false fatturazioni per creare fondi neri per pagare esponenti politici, osserva il procuratore di Venezia, Luigi Delpino. “È stato un eccezionale lavoro della Guardia di Finanza che con una lunga e difficile indagine ha portato alla luce un sistema illecito ben radicato. La Procura della Repubblica sente il dovere di dare atto agli appartenenti della Gdf per l’alto livello di professionalità e di riserbo che ha consentito di far emergere perniciosi settori di illegalità e di recuperare ingenti risorse finanziarie frutto di attività illecite”. Delpino ha ringraziato anche le autorità della Svizzera e di San Marino che hanno collaborato per risalire ai fondi neri creati all’estero. “Il sistema di false fatture o meglio di sovrafatturazioni serviva in gran parte a finanziare forze politiche a livello comunale, regionale e nazionale e a corrompere pubblici ufficiali di elevato ruolo istituzionale”. La Gdf ha resistito a “tentativi di interferenze” dall’esterno nell’ambito dell’indagine. “Spartizione equivalente tra le varie forze politiche di destra e di sinistra”. ”Gli elementi in comune di questa vicenda con il passato sono una spartizione equivalente di risorse tra le varie forze politiche di destra e di sinistra e la constatazione che la madre della corruzione, 20 anni fa come oggi, non è solo l’avidità umana, ma appunto la complessità delle leggi. Se devi bussare a cento porte invocando cento leggi diverse per ottenere un provvedimento è quasi inevitabile che qualcuna resti chiusa e qualcuno ti venga a dire che devi imparare a oliarla” ragiona Nordio. “Al di là dell’inchiesta di oggi – sottolinea il magistrato – voglio ricordare quanto scrissi già 15 anni fa: una delle cause della corruzione deriva dalla farraginosità delle leggi, dal numero delle leggi e dalla loro incomprensibilità, e da una diffusione di competenze che rende difficile individuare le varie responsabilità”. “Se è consentito al magistrato dare un messaggio forte, per ridurre, se non eliminare, la corruzione la strada è la riduzione delle leggi e l’individuazione delle competenze. Alzare le pene, come si continua a fare, e contemplare nuovi reati non serve assolutamente a niente, come dimostra questa inchiesta dove si può dire che le forze politiche non hanno imparato nulla dal passato. Unica differenza – riflette – è che oggi il sistema è molto più sofisticato”. Il generale della Finanza Buratti: “Venticinque milioni di fondi neri”. Dall’indagine sul Mose è emerso un “sistema che ha prodotto 25 milioni di euro di fondi neri” dei quali ora si è “accertata la destinazione” afferma il comandante della Gdf del Veneto, Bruno Buratti. “Si tratta di un’indagine che parte da lontano e che trae origine da verifiche fiscali iniziate nel 2008. Questa terza fase dello sviluppo investigativo aveva il fine di accertare la destinazione dei fondi neri realizzati dalle aziende impegnate nei lavori del Mose”, dice il generale Buratti, nel corso della conferenza stampa in Procura a Venezia. “Abbiamo accertato che il sistema ha prodotto, attraverso triangolazioni con società estere con sedi in Svizzera e San Marino, 25 milioni di euro di fondi neri. Si trattava con questo filone d’indagine di accertare la destinazione di questi fondi e le responsabilità soggettive”. Il generale rivela che, tra le ipotesi di reato, vi sono “corruzione, finanziamento illecito ai partiti, violazione del segreto istruttorio, millantato credito, favoreggiamento personale”. Buratti sottolinea che “è stato realizzato un sistema nel quale venivano emesse fatture per operazioni inesistenti non per evadere il fisco ma appunto per creare fondi neri. Non si tratta solo di dazioni di denaro connesse a fatti specifici, ma di un fatto sistematico e continuativo. Esisteva un fenomeno continuativo in cui i soggetti con funzioni pubbliche avevano il compito di agevolare le attività”. Fatturazioni aumentate per operazioni inesistenti che facevano dunque ricadere i finanziamenti illeciti in opere pagate dalla collettività.
Il Mose (Modulo Sperimentale Elettromeccanico) è un'opera di ingegneria idraulica pensata negli anni '80 per difendere Venezia e la sua laguna dal fenomeno dell'acqua alta e specialmente da quelle superiori ai 110 centimetri. Il sistema di dighe mobili, la cui realizzazione è stata autorizzata dal Comitatone del 3 aprile 2003 e i cui lavori sono partiti lo stesso anno, viene realizzato dal Consorzio Venezia Nuova, che opera per conto del Magistrato delle Acque di Venezia, emanazione del Ministero delle Infrastrutture. Lo scorso 12 ottobre, alla bocca di porto del Lido-Treporti, una delle tre che permettono l’ingresso in laguna, sono state per la prima volta sollevate quattro delle 78 paratoie che dovranno difendere la città dall'alta marea attraverso un meccanismo fatto di cassoni di alloggiamento in cemento armato, cerniere e, appunto, paratoie. Il costo complessivo dell’opera è di 5.493 milioni di euro (prezzo "chiuso" stabilito nel 2005), lo stato di avanzamento dei lavori è pari all'87% e, ad ottobre, serviva ancora un miliardo di euro circa per la realizzazione completa. L'obiettivo, ricordato anche in quell'occasione, è di concludere l'opera entro il 2016. L'idea di difendere Venezia dalle acque alte che la flagellano da sempre, nasce dopo la terribile alluvione del 1966, poi dagli anni Ottanta, tutto si concentra sul progetto del Mose, un sistema idraulico di paratoie mobili che stanno appoggiate invisibili sul fondo delle bocche di porto e si alzano con l'alta marea, riempite di aria compressa. Nel 2003 la posa della prima pietra, poi oltre 10 anni di cantieri per realizzare la struttura che sarà controllata da una sede operativa all'Arsenale, attiva già da due anni, in grado di fornire previsioni sul meteo e sulle maree con un anticipo di 3 giorni.
4 giugno 2014, tutta Italia ne parla. Mose, 35 arresti per tangenti: anche il sindaco di Venezia. Chiesta la custodia cautelare per l'ex governatore Galan, gli atti dovranno essere trasmessi al Senato. Un centinaio di persone nel registro degli indagati, scrive “La Repubblica”. Imprenditori e tanti politici. Una raffica di arresti clamorosi. Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, del centrosinistra, è finito in manette con le accuse di corruzione, concussione e riciclaggio. L'inchiesta è quella della Procura di Venezia sugli appalti per il Mose e sull'ex ad della Mantovani Giorgio Baita, già colpito da un provvedimento di custodia cautelare lo scorso febbraio. In manette anche l'assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso, di Forza Italia. Le persone finite in manette sono in tutto 35 persone, un altro centinaio gli indagati. Tra gli arrestati anche il consigliere regionale del Pd Giampiero Marchese, gli imprenditori Franco Morbiolo e Roberto Meneguzzo nonchè il generale in pensione Emilio Spaziante. E una richiesta di arresto è stata formulata per il senatore di Foza Italia Giancarlo Galan. Trattandosi di un parlamentare, gli atti dovranno essere tramessi al Senato. Galan è coinvolto per il periodo in cui è stato presidente della Regione Veneto. Gli arresti partono da una partono da una inchiesta della Guardia di finanza di Venezia avviata circa tre anni fa. I pm Stefano Ancillotto, Stefano Buccini e Paola Tonino (Dda) avevano scoperto che l'ex manager della Mantovani Giorgio Baita, con il beneplacito del proprio braccio destro Nicolò Buson, aveva distratto dei fondi relativi al Mose, le opere di salvaguardia per Venezia, in una serie di fondi neri all'estero. Il denaro, secondo l'accusa, veniva portato da Claudia Minutillo, imprenditrice ed ex segretaria personale di Galan, a San Marino dove i soldi venivano riciclati da William Colombelli grazie alla propria azienda finanziaria Bmc. Le Fiamme gialle avevano scoperto che almeno 20 milioni di euro, così occultati, erano finiti in conti esteri d'oltre confine e che, probabilmente, erano indirizzati alla politica, circostanza che ha fatto scattare l'operazione di questa mattina all'alba. Dopo questa prima fase, lo stesso pool, coadiuvato sempre dalla Finanza, aveva portato in carcere Giovanni Mazzacurati ai vertici del Consorzio Venezia Nuova (Cvn). Mazzacurati, poi finito ai domiciliari, era stato definito "il grande burattinaio" di tutte le opere relative al Mose. Indagando su di lui erano spuntate fatture false e presunte bustarelle che hanno portato all'arresto di Pio Savioli e Federico Sutto, rispettivamente consigliere e dipendente di Cvn, e quattro imprenditori che si spartivano i lavori milionari.
La Laguna degli scandali. Fatture gonfiate. Consulenze fasulle. E arresti eccellenti. Ma l'inchiesta sul consorzio concessionario per la realizzazione del Mose, non è ancora conclusa. E rischia di arrivare a Roma, scrive
Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Adesso tocca alla politica. Devono emergere le responsabilità di chi ha creato questo mostro giuridico che si chiama Consorzio Venezia Nuova». La frase non appartiene agli inquirenti che negli scorsi sei mesi, da febbraio a luglio, hanno arrestato vertici, azionisti e fornitori del raggruppamento di imprese incaricato di realizzare le dighe mobili a protezione della Serenissima. Sono le parole di un politico, Massimo Cacciari, sindaco di Venezia per tre mandati. Avendo trascorso un quarto di secolo a fare la vox clamantis in deserto, non ci credeva più neanche lui che il mostro della Laguna sarebbe andato in crisi dopo avere inghiottito e distribuito nel suo vasto organismo oltre 4 miliardi di euro su un investimento complessivo che arriva a 5,5 miliardi. E chissà poi se il mostro è davvero in crisi. Tutto dipende da quanto la magistratura vorrà, o potrà, approfondire un contesto di fatture gonfiate, consulenze fasulle, massi comprati dalle cave istriane al prezzo di diamanti e pagamenti che si perdono dietro società croate, austriache o sanmarinesi e fiduciarie made in Italy. Di sicuro, l'arresto dell'ex presidente e direttore generale Giovanni Mazzacurati, lo scorso 12 luglio, è stato assorbito in anticipo. L'ingegnere padovano, 81 anni di cui 31 trascorsi all'interno del consorzio, si è dimesso il 28 giugno, ufficialmente per motivi di salute. Tempi, modi e protagonisti dell'avvicendamento al vertice del Consorzio sono all'insegna delle ingerenze denunciate da Cacciari e del cambiare perché nulla cambi. Mazzacurati è stato sostituito alla presidenza dal vicentino Mauro Fabris, perquisito con altre cento persone mentre Mazzacurati finiva agli arresti. Di mestiere, Fabris farebbe il consulente d'azienda. Ma forse è un po' più noto come parlamentare irrequieto, capace di attraversare per tre legislature (1996-2008) ogni fase del centrismo (Margherita, Udr, Ccd, Udeur) prima di abbracciare il credo berlusconista e di consolarsi, dopo la mancata candidatura alle politiche del 2008, con la presidenza della Lega pallavolo femminile e un incarico da commissario per il tunnel del Brennero firmato dal ministro di allora, Altero Matteoli. Qualcuno gli ha chiesto se il suo sponsor per la nomina al Consorzio fosse il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi oppure lo stesso premier Enrico Letta, nipote del sottosegretario berlusconiano Gianni che in Laguna ha comandato a lungo attraverso i suoi emissari Angelo Balducci e Fabio De Santis, prima che i processi alla Cricca li portassero in carcere nel 2010. Stroncando ogni sospetto di patronage politico, Fabris ha replicato che il Consorzio Venezia Nuova (Cvn) è composto da imprese private (Mantovani, Condotte, Mazzi, Lega coop), che sono stati gli azionisti del Cvn a sceglierlo e che il sindaco di New York, Michael Bloomberg, gli ha già chiesto le planimetrie del Mose perché pensa di adottarle contro le piene del fiume Hudson. In un momento di pessimismo, ha aggiunto che il Consorzio potrebbe sciogliersi subito dopo la fine dei lavori, prevista nel 2016, e affidare non si sa a chi la fase più delicata dei primi anni di attività di un sistema sul quale molti tecnici qualificati hanno espresso gravi perplessità. Il fatto che il vicentino Fabris sia stato scelto da un gruppo di imprenditori privati mostra come in una delle opere più ambiziose e costose in corso in Italia un lobbista sia più competitivo di un ingegnere o di un manager. Del resto, per l'ex deputato, ex senatore ed ex sottosegretario ai Lavori pubblici è un ritorno sui luoghi dove la sua carriera ebbe inizio circa un quarto di secolo fa. Nella seconda parte degli anni Ottanta Fabris è stato il primo portavoce in quota Dc del Consorzio allora guidato da Luigi Zanda, prima di essere sostituito da Franco Miracco, al tempo di sinistra e poi riciclatosi come eminenza grigia dell'ex governatore regionale ed ex ministro Giancarlo Galan. In un contesto local-nazionale dominato dai virtuosi del trasformismo, il mostro raffigurato da Cacciari ha avuto una testa per ogni forza politica che l'ha nutrito. Quindi, ha avuto tutte le teste possibili fin dai tempi della Prima Repubblica, quando la legge speciale su Venezia del 1984 stabilì che il Cvn, in quanto concessionario unico dello Stato, lavorasse con fondi pubblici messi a disposizione dal Cipe. Lo schema è sopravvissuto a ogni polemica, a ogni restrizione di spesa sulle infrastrutture e a una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea perché il sistema Mose-Cvn era sospettato di essere un monopolio. Per anni, Mazzacurati si è speso in una spola continua tra palazzo Morosini, la splendida sede del Consorzio nel sestiere di San Marco, e palazzo Chigi mentre Piergiorgio Baita reggeva di fatto l'operatività del Cvn a nome dell'azionista di maggioranza Mantovani. Baita, che per molti resta il custode dei segreti del Mose, è finito in carcere a febbraio. Durante la sua detenzione, la Mantovani lo ha rimpiazzato con un ex questore di Treviso, Carmine Damiano, giusto per dare un segnale di buona condotta al committente statale che, peraltro, non ha mai smesso di tenere in cima alle priorità infrastrutturali il Mose chiunque fosse il premier, Romano Prodi o Silvio Berlusconi, Mario Monti o Enrico Letta. In sede regionale, si è vista la stessa continuità e i referenti non sono cambiati da quando Galan ha lasciato la giunta al leghista Luca Zaia dopo avere comandato in Veneto dal 1995 al 2010. Renato Chisso, ex socialista assessore alle Infrastrutture fedelissimo di Galan, è stato confermato anche nella nuova giunta. Al momento, il sistema politico è rimasto fuori dai provvedimenti della magistratura. Ma la diga sembra fragile e l'acqua alta, stavolta, potrebbe arrivare fino a Roma.Mose, inchiesta sugli appalti: arrestato il sindaco di Venezia. Chiesta custodia cautelare per Galan, scrive “La Repubblica”. Cento indagati, 35 provvedimenti restrittivi. Ai domiciliari Giorgio Orsoni, accusato di finanziamenti illeciti, ma non di corruzione. Chiesto l'arresto per l'ex governatore del Veneto: "Milioni in stipendi da fondi neri". Ma lui: "Totalmente estraneo". In manette anche l'assessore regionale alle Infrastrutture Chisso, coinvolti un magistrato della Corte dei Conti e un generale della finanza. I pm: "Peggio di una tangentopoli". Imprenditori, manager e soprattutto amministratori e politici di primo piano. Dopo il caso Expo, uno sviluppo clamoroso dell'inchiesta sugli appalti per il Mose ha sconvolto stamattina Venezia: il sindaco Giorgio Orsoni, eletto con il centrosinistra, è stato arrestato e ora è ai domiciliari. In carcere, invece, è finito l'assessore regionale alle Infrastrutture, Renato Chisso, di Forza Italia. E la procura veneziana ha chiesto un provvedimento di custodia cautelare anche per Giancarlo Galan, ex presidente della Regione Veneto e attuale parlamentare di Forza Italia, sul quale, essendo deputato, dovrà pronunciarsi la Camera. L'inchiesta è quella della Procura di Venezia che a febbraio aveva portato all'arresto di Giorgio Baita, ex amministratore delegato della Mantovani, una delle imprese impegnate nei lavori per la costruzione delle barriere del Mose che dovranno proteggere Venezia da alte maree ed allagamenti. Le accuse per gli indagati variano dai reati contabili e fiscali alla corruzione, dalla concussione al finanziamento illecito. Le accuse a Orsoni. Secondo quanto si legge nell'ordinanza integralmente riportata dalla Nuova Venezia, il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni è accusato di finanziamento illecito poiché "con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, quale candidato sindaco del Pd alle elezioni comunali di Venezia del 2010, riceveva i contributi illeciti", "consapevole del loro illegittimo stanziamento da parte del Consorzio Venezia Nuova": si parla 110 mila euro al Comitato elettorale del candidato sindaco e 450 mila ricevuti in contanti "di cui 50 mila procurati dal Baita quale amministratore delegato della Mantovani che il Sutto (dipendente del Consorzio Venezia Nuova, società coinvolta nella realizzazione del Mose, ndr) e Mazzacurati (allora presidente di Cvn, ndr) consegnavano personalmente in contanti a Giorgio Orsoni, in assenza di deliberazione dell'organo sociale competente e della regolare iscrizione in bilancio". La posizione del sindaco. "Le circostanze contestate nel provvedimento notificato paiono poco credibili", hanno subito risposto gli avvocati di Orsoni, in quanto "gli si attribuiscono condotte non compatibili con il suo ruolo ed il suo stile di vita". Un anno fa, in un'intervista ad Antenna 3, sulla questione di un finanziamento dal Consorzio Venezia Nuova, il sindaco disse: "Non credo di aver avuto contributi, ma sulla questione va interrogato il mio mandatario elettorale". Nell'ambito dell'inchiesta sono stati perquisiti gli uffici del sindaco di Venezia e dell'assessore regionale Chisso. "False fatture per 25 milioni". "E' doveroso precisare che al sindaco di Venezia Orsoni non è stato contestato il reato di corruzione", ha sottolineato il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio. "Orsoni è indagato per finanziamento illecito ai partiti". Nordio ha definito l'inchiesta "peggio di una Tangentopoli". L'ordinanza del gip (711 pagine), citata dal pm, sostiene che "i fondi neri sono stati utilizzati per campagne elettorali e, in parte, anche per uso personale" e che "hanno ricevuto elargizioni illegali persone di entrambi gli schieramenti politici". Il procuratore capo, Luigi Delpino, ha spiegato che alla base di questo sviluppo 'politico' dell'inchiesta ci sono triangolazioni di denaro e fondi neri ottenuti attraverso false fatture maggiorate per un totale accertato di 25 milioni di euro. Trentacinque arresti, un centinaio di indagati nell'inchiesta avviata dalla procura di Venezia per gli appalti del Mose. Tra gli arrestati il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni. Per tutti le accuse vanno dalla corruzione alla concussione e al riciclaggio. Le persone destinatarie di provvedimento restrittivo sono in tutto 35 (25 in carcere, 10 ai domiciliari), mentre sono un altro centinaio gli indagati, tra cui anche Marco Milanese, il consigliere politico dell'ex ministro dell'Economia Giulio Tremonti già coinvolto nell'inchiesta P4, per il quale il gip non ha accettato la richiesta di arresto. Tuttavia, come si legge nell'ordinanza, Milanese "al fine di influire sulla concessione di finanziamenti del Mose", avrebbe ricevuto dal presidente del Consorzio Venezia Nuova la somma di 500 mila euro. Tra gli arrestati ci sono inoltre il consigliere regionale del Pd Giampiero Marchese (coinvolto nell'inchiesta per un finanziamento sospetto di 33mila euro per la campagna delle regionali 2010), gli imprenditori Franco Morbiolo (presidente del Coveco, cooperativa impegnata nel progetto Mose) e Roberto Meneguzzo (ad di Palladio Finanziaria, avrebbe messo in contatto Mazzacurati con Milanese), nonché il generale della Guardia di finanza in pensione Emilio Spaziante, il magistrato della Corte dei Conti Vittorio Giuseppone, Patrizio Cuccioletta, ex presidente del Magistrato delle Acque, e Amalia Sartori, eurodeputata di Forza Italia non rieletta alle recenti elezioni (la richiesta d'arresto è stata inviata all'europarlamento). La GdF ha sequestrato beni per un valore complessivo di circa 40 milioni di euro e sta effettuando perquisizioni e sequestri in Veneto, Lazio, Lombardia ed Emilia Romagna con oltre 300 uomini impegnati. Le accuse a Galan. Corruzione è invece il reato ipotizzato nella richiesta di arresto formulata per il deputato di Forza Italia Giancarlo Galan. L'ex governatore veneto è indagato dalla Procura di Venezia con l'accusa di aver ricevuto fondi illeciti per milioni di euro dal Consorzio Venezia Nuova (Cvn) nell'ambito delle opere del Mose. Le dazioni, da fondi neri realizzati dal Consorzio e dalle società che agivano in esso, risalirebbero agli anni tra il 2005 e il 2008 e il 2012. "Gli stipendi annuali". Secondo quanto si è appreso, i fondi all'assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso sarebbero stati dati tramite la segreteria, circostanza che ha portato il politico agli arresti in carcere stamani all'alba. Il denaro veniva poi trasferito a Galan. Il reato contestato a Galan, Chisso e a un paio di funzionari della Regione è quello di corruzione contro i doveri d'ufficio. Nei brani dell'ordinanza riportati da La Nuova Venezia si legge che Galan è accusato di aver ricevuto "per tramite di Renato Chisso, che a sua volta li riceveva direttamente dallo stesso Mazzacurati", "uno stipendio annuale di circa 1 milione di euro, 900 mila euro tra il 2007 e il 2008 per il rilascio nell'adunanza della commissione di salvaguardia del 20 gennaio 2004 del parere favorevole e vincolante sul progetto definitivo del sistema Mose, 900 mila euro tra 2006 e 2007 per il rilascio (...) del parere favorevole della commissione Via della regione Veneto sui progetti delle scogliere alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia". L'ex governatore: "Totalmente estraneo a accuse". Trattandosi di un deputato, gli atti della richiesta di arresto dovranno essere trasmessi alla Camera, dove Galan è presidente della Commissione cultura. "Sono estraneo ad accuse, voglio essere ascoltato", ha detto Galan, che è coinvolto per il periodo in cui è stato presidente della Regione Veneto, dal 2005 al 2010. "Mi riprometto di difendermi a tutto campo nelle sedi opportune con la serenità ed il convincimento che la mia posizione sarà interamente chiarita. Chiederò di essere ascoltato il prima possibile con la certezza di poter fornire prove inoppugnabili della mia estraneità". Le accuse a Chisso e Marchese. L'assessore regionale ai Lavori pubblici Renato Chisso è accusato, invece, di aver percepito "uno stipendio annuale oscillante tra i 200 e i 250 mila euro, dalla fine degli anni Novanta sino ai primi mesi del 2013". Secondo il gip, Mazzacurati avrebbe concordato con i componenti del Consorzio il versamento della presunta tangente sotto forma di "stipendio" annuale, in cambio di nulla osta regionali per i lavori. Mentre Giampietro Marchese è accusato "quale candidato dal Consiglio regionale del veneto per il Pd alle elezioni 2010 riceveva i contributi illeciti" per 58 mila euro". Le accuse a Spaziante. Per quanto riguarda Spaziante, invece, nell'ordinanza del Gip si legge che in qualità "di Generale di Corpo d'Armata della Guardia di Finanza", per "influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova", avrebbe ricevuto dal presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. Nell'ordinanza, si legge che la somma versata fu poi di 500 mila euro, che poi sarebbe stata divisa anche con Milanese e Meneguzzo. Le accuse a Giuseppone (Corte dei Conti). Coinvolto anche il magistrato della Corte dei Conti Vittorio Giuseppone, indagato nell'inchiesta sul Mose per aver "compiuto atti contrari ai suoi doveri". "Nella sua qualità di magistrato in servizio presso la Corte dei Conti", scrive il giudice, Giuseppone avrebbe percepito "uno stipendio annuale oscillante tra i 300mila e i 400mila euro, che gli veniva consegnato con cadenza semestrale a partire dai primi anni duemila sino al 2008" e "non meno di 600mila nel periodo tra il 2005 e il 2006, con creazione delle idonee provviste da parte del Baita". I soldi, afferma ancora il Gip, servivano per "accelerare le registrazioni delle convenzioni presso la corte dei Conti da cui dipendeva l'erogazione dei finanziamenti concessi al Mose e al fine di ammorbidire i controlli di competenza della medesima Corte dei Conti sui bilanci e gli impieghi delle somme erogate al Consorzio Venezia Nuova". Le accuse a Cuccioletta. Per il presidente del magistrato delle acque Patrizio Cuccioletta, in carica dal 2008 al 2011, le utilità, invece, non sarebbero stati solo soldi. Ai 400mila euro l'anno di stipendio, e ai 500mila di 'buonuscita' versatigli, secondo l'accusa, dal Consorzio su un conto svizzero, l'uomo sarebbe riuscito a far assumere la figlia in una controllata del Cvn e il fratello in un'altra azienda del gruppo, che pagava lo stipendio. Sarebbero rimasti invece solo una promessa gli altri benefit: voli aerei per tutta la famiglia, alloggi di lusso a Venezia, Cortina e altre località per le vacanze. L'inchiesta. Gli arresti partono da una inchiesta della Guardia di finanza di Venezia avviata circa tre anni fa. I pm Stefano Ancillotto, Stefano Buccini e Paola Tonino (Dda) avevano scoperto che l'ex manager della Mantovani Giorgio Baita, con il proprio braccio destro Nicolò Buson, aveva distratto fondi relativi ai lavori del Mose, le opere di salvaguardia per Venezia, in una serie di fondi neri depositati all'estero. Il denaro, secondo l'accusa, veniva portato da Claudia Minutillo, imprenditrice ed ex segretaria personale di Galan, a San Marino dove i soldi sarebbero stati riciclati da William Colombelli, titolare della finanziaria Bmc. Appalti e partiti. Le Fiamme gialle avevano scoperto che almeno 20 milioni di euro, così occultati, erano finiti in conti esteri, ipotizzando che la riserva potesse essere destinata a "sovvenzionare" amministratori e politici in cambio di ulteriori commesse pubbliche. Da questa tesi d'accusa è partita l'operazione di questa mattina all'alba. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, dunque, attraverso un giro consistente di false fatture avrebbe creato fondi neri sarebbero serviti, almeno in parte, per finanziare politici e partiti di ogni schieramento durante le campagne elettorali. Dopo questa prima fase, lo stesso pool aveva ordinato l'arresto di Giovanni Mazzacurati ai vertici del Consorzio Venezia Nuova (Cvn). Mazzacurati, poi finito ai domiciliari, era stato definito "il grande burattinaio" di tutte le opere relative al Mose. Indagando sul suo operato erano spuntate fatture false e presunte bustarelle che hanno portato in seguito all'arresto di Pio Savioli e Federico Sutto, rispettivamente consigliere e dipendente di Cvn, e di quattro imprenditori che si sarebbero spartiti lavori per importi milionari. "Una vera e propria lobby". Il Consorzio Venezia nuova "si comporta come una vera e propria lobby o gruppo di pressione per ottenere le modifiche normative d'interesse", ha scritto il gip del tribunale di Venezia Alberto Scaramuzza, nell'ordinanza di custodia cautelare. Il riferimento è al tentativo di ottenere una modifica al tetto del 15% al nord dello stanziamento dei Fondi Fas (fondo aree sottoutilizzate) per avere 400 milioni di euro per il Mose attraverso una delibera Cipe. Mazzacurati, presidente del Cvn, secondo il Gip si muove su più livelli, da un incontro con Gianni Letta, che era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, passando per alcuni contatti con funzionari ministeriali, fino alla "terza possibilità, ossia l'appuntamento con Marco Milanese". Il Cvn, in una nota, ha negato tutte le accuse, definendosi "parte offesa".
Dal milione a Galan ai soldi per il giudice. La rete delle accuse. Al centro dell'inchiesta l'ingegnere Mazzacurati (Consorzio Venezia nuova) che pagava per ottenere finanziamenti pubblici. L'ex governatore: "Io estraneo, ho le prove". E rispunta Milanese, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Altro che trasparenza. Il Consorzio Venezia nuova, guidato dal grande burattinaio delle tangenti Giovanni Mazzacurati, riusciva addirittura a far scrivere le leggi su misura per mettere le mani sui finanziamenti dei fondi Fas (Fondo aree sottoutilizzate). «Il Consorzio Venezia Nuova - scrive il gip Alberto Scaramuzza nell'ordinanza di custodia - si comporta come una vera e propria lobby o gruppo di pressione per ottenere le modifiche normative d'interesse». Per raggiungere lo scopo e ottenere una deroga al tetto del 15 per cento dei fondi Fas per il Nord, Mazzacurati le prova tutte. Vorrebbe incontrare pure il sottosegretario alla Presidenza del consiglio Gianni Letta che così atterra fra le carte dell'indagine. Tirato in ballo in una girandola di conversazioni. In una telefonata, Mazzacurati annuncia al suo interlocutore il meeting con il «dottor Letta». Per il gip Letta riceve Mazzacurati a Palazzo Chigi almeno una volta. Ma i contatti, scrive Scaramuzza, sono «del tutto privi di rilievo penale, non risultando... alcun tipo di richiesta ma risultando esclusivamente un interessamento rispetto ad un'importante opera quale il Mose». Ma fra una telefonata e un colloquio volano anche le mazzette. Addirittura codificate, secondo l'accusa, con la retribuzione stabile di alcuni big della politica. Almeno 20 milioni, del resto, sono finiti sui conti esteri preparati dalla rete creata dall'ex top manager della Mantovani, Giorgio Baita, fra i primi ad essere arrestato. E sono pronti per soddisfare le diverse esigenze. Galan è in testa alla lista: l'ex governatore avrebbe ricevuto «900mila euro nel periodo fra il 2007 e il 2008, per il rilascio dell'adunanza della commissione di Salvaguardia del 20 gennaio 2004, del parere favorevole e vincolante al progetto definitivo del sistema Mose» e ancora 900mila euro nel periodo fra il 2006 e il 2007 per il rilascio nell'adunanza del 4 novembre 2002 e del 28 gennaio 2005 del parere favorevole della commissione V.i.a. della Regione Veneto, su progetti delle scogliere esterne alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia». Dunque, in conclusione Galan, «in qualità di presidente della Regione Veneto» si sarebbe adoperato più di una volta «per compiere atti contrari ai suoi doveri d'ufficio», ovvero per sbloccare pratiche care al Consorzio Venezia Nuova, ricevendo di fatto «uno stipendio annuale di un milione di euro». Il tutto fra il 2005 e il 2012. «Chiedo di essere ascoltato al più presto - replica l'ex ministro - ho le prove inoppugnabili della mia estraneità alle accuse che mi sono mosse, accuse che si appalesano del tutto generiche e inverosimili, per di più provenienti da persone che hanno goduto di miti trattamenti giudiziari e che hanno chiaramente evitato una nuova custodia cautelare». Il sindaco Giorgio Orsoni è stato arrestato per un reato meno grave: un finanziamento illecito di 110mila euro. La somma sarebbe arrivata in vista delle amministrative del 2010, quelle in cui sconfisse Renato Brunetta. Attenzione: Orsoni «beneficia di un contributo elettorale sì formalmente deliberato di 110mila euro, ma attraverso passaggi effettuati per impedire che risultasse il vero finanziatore, ossia il Consorzio Venezia Nuova, trattandosi quindi di finanziamenti illeciti». Insomma, Orsoni avrebbe mascherato l'imbarazzante contributo. Formalmente a pagare sarebbero state alcune aziende - dalla Mazzi alla Mantovani alla Covela - che a loro volta avrebbero ottenuto il denaro dal Consorzio Venezia nuova sulla base di false fatturazioni. Finisce ai domiciliari il magistrato della Corte dei conti Vittorio Giuseppone. Sarebbe stato corrotto dal solito Mazzacurati fra il 2000 e il 2008 «per ammorbidire i controlli i controlli di competenza della medesima Corte dei conti sui bilanci e gli impieghi delle somme erogate al Consorzio Venezia Nuova. Anche lui, come Galan e altri politici, avrebbe ricevuto uno stipendio fisso. L'importo? «Oscillante fra 300 e i 400mila euro, che gli veniva consegnato con cadenza semestrale, a partire dai primi anni del 2000 sino al 2008» e «non meno di 600mila euro nel periodo compreso fra il 2005 e il 2006». Fra gli arresti eccellenti c'è quello di Roberto Meneguzzo, il finanziere vicentino di Palladio finanziaria, crocevia di molti affari nel Nordest. Meneguzzo è «a conoscenza dell'illecita finalità perseguita da Giovanni Mazzacurati - scrive il gip - e «lo metteva in contatto» con l'ex ufficiale della Gdf ed ex deputato del Pdl Marco Milanese. Milanese è «il consigliere politico dell'allora ministro Giulio Tremonti. Mazzacurati gli consegna «personalmente» 500mila euro, «al fine di influire sulla concessione dei finanziamenti del Mose, in particolare nel far inserire fra gli stanziamenti inclusi nella delibera Cipe n. 31 2010 e nei decreti collegati anche la somma relativa ai lavori gestiti dal Consorzio Venezia Nuova, inizialmente esclusa dal ministro». Milanese, che è indagato, compare in un secondo gravissimo episodio. Mazzacurati, sempre per il tramite di Meneguzzo e Milanese, entra in contatto con il generale delle Fiamme Gialle Emilio Spaziante, all'epoca comandante interregionale dell'Italia centrale e oggi in pensione. Spaziante serve per influire «in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova». Mazzacurati «consegnava, a titolo di acconto, in una prima occasione a Spaziante e Meneguzzo, e in una seconda a Spaziante e Milanese, una somma complessiva pari a 500mila euro». Secondo l'ordinanza, Mazzacurati prometteva a Spaziante «il versamento di una somma pari a 2,5 milioni di euro». Ma i versamenti si sarebbero interrotti prima.
Tutti i protagonisti della Cupola del Mose. Nell’inchiesta-choc di Venezia ci sono ex ministri indagati, sindaci democratici e potenti assessori regionali. Una sacra alleanza per drenare fondi pubblici e accumulare mazzette all’estero. Con imprenditori compiacenti e spioni pagati in nero per inquinare le indagini, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. La cupola del Mose è esplosa. La tangentopoli veneta è diventata di dominio pubblico con arresti clamorosi. Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e l’ex governatore Giancarlo Galan sono tra i trentacinque destinatari delle misure cautelari eseguite questa mattina dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza. Al centro delle indagini ci sono i “protettori politici” e gli imprenditori privati del progetto Mose, come scritto da Paolo Biondani sull'Espresso già lo scorso novembre: «La più grande opera pubblica varata in Italia: un enorme sistema di dighe mobili, che dovrebbe proteggere Venezia dall'acqua alta ma dopo più di trent'anni non è ancora in funzione. Gran parte delle indagini sono per ora segrete, ma il quadro disegnato dalle prime confessioni è già chiaro: il Mose è diventato una monumentale fabbrica di denaro nero. I soldi ce li mette lo Stato, che ha già garantito ben 5 miliardi e 496 milioni di euro. Questa marea di denaro pubblico entra nelle casse di un soggetto privato, il Consorzio Venezia Nuova, che ha la concessione a gestire tutti gli appalti senza gara, senza concorrenza, senza alcun confronto tra costi e progetti alternativi. Il Consorzio è come una porta girevole: incassa i soldi dello Stato e li distribuisce ai suoi associati, cioè a un gruppo di fortunatissime aziende private che grazie al Mose sono diventate sempre più ricche e potenti». E poi, attraverso intrecci societari e triangolazioni con paradisi fiscali, le Fiamme gialle hanno scoperto che almeno 25 milioni di euro, occultati, erano finiti in conti esteri o riversati alla classe politica. L’alleanza Pd-Pdl per una marea di soldi. Un appoggio bipartisan per drenare fondi e salvare la città più bella del mondo. Oggi è un terremoto in casa dei democratici con il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni, accusato di finanziamento illecito per la sua vittoriosa campagna elettorale del 2010. In quella sfida aveva battuto al primo turno il candidato-ministro Renato Brunetta. Lui ha sessantasette anni, avvocato amministrativista erede dello studio di Feliciano Benvenuti, primo procuratore di San Marco, vicepresidente della Biennale, prima di diventare sindaco era stato assessore al patrimonio con la giunta Costa. Una carriera dentro il centrosinistra anche per Lino Brentan l’amministratore delegato dell'autostrada Padova-Venezia arrestato due anni fa (e ai domiciliari oggi) e condannato per aver intascato mazzette, obbligando i suoi dirigenti a firmare atti anche se loro erano contrari, per favorire imprenditori amici. Entrambi muovono enormi flussi di denaro, memorizzano procedure, prassi, facce e nomi che li rendono indispensabili. Sulla sponda politica opposta il potente assessore alle infrastrutture Renato Chisso e Lia Sartori sono i protagonisti assoluti di Forza Italia, ramo Veneto. Chisso è nella giunta Zaia: ha abbracciato la causa berlusconiana fin dalla sua fondazione e dal 1995 non ha mai mancato un’elezione al parlamentino regionale. Dal 2000 ha in mano il portafoglio e le decisioni per le strade e grandi opere. Oggi è accusato di aver percepito «uno stipendio annuale oscillante tra i 200 e i 250 mila euro, dalla fine degli anni Novanta sino ai primi mesi del 2013», si legge nell’ordinanza per assicurare tutti i permessi necessari alla grande opera. L'europarlamentare Lia Sartori è stata per anni la vera eminenza grigia della politica di Galan. La sua esperienza a Palazzo Balbi, sede veneziana della Regione, è iniziata nel partito socialista di Bettino Craxi. Utilissima a Galan nel momento in cui l'ex manager di Publitalia dovette organizzare la nuova creatura di Berlusconi in Veneto, da allora ne diventò l'ombra, qualcuno dice la vera mente. Lo studio Altieri, che era stato fondato dal suo compagno, fu coinvolto nei grandi progetti infrastrutturali regionali e nella edificazione di molti ospedali. Dopo 15 anni a Bruxelles nelle ultime elezioni del 25 maggio non ha spuntato la rielezione. Ministri e indagati. Nella pattuglia degli ex spunta il nome di Giancarlo Galan: il governatore del Veneto dal 2005 al 2010 (e poi ministro dell’Agricoltura) è accusato di corruzione e, secondo la tesi dell'accusa, avrebbe intascato tangenti per un milione di euro all'anno dalla fine degli anni '90 fino al 2011, oltre a farsi ristrutturare gratis la sua villa di Cinto Euganeo. Non solo: Galan è indagato dalla Procura di Venezia anche con l'accusa di aver ricevuto fondi illeciti per almeno 800mila euro dal Consorzio Venezia Nuova nell'ambito delle opere del Mose. Il denaro, secondo l'accusa, veniva portato da Claudia Minutillo, imprenditrice ed ex segretaria personale di Galan, a San Marino dove i soldi venivano riciclati da William Colombelli grazie alla propria azienda finanziaria Bmc. Sotto accusa anche un altro ex potente ministro dell’era Berlusconi: Altero Matteoli ha ricevuto un avviso di garanzia. I fatti contestati risalgono al periodo in cui il senatore 74enne di Forza Italia era ministro all'Ambiente e alle Infrastrutture del governo Berlusconi. Dagli uffici dei pm Stefano Ancillotto, Stefano Buccini e Paola Tonini, titolari dell’inchiesta-choc, il fascicolo contenente gli elementi che chiamano in causa l'ex ministro sono stati trasferiti al tribunale dei ministri che si sostituisce all'indagine, per poi decidere in materia. Spioni e imprenditori. Le indagini si sono concentrate anche sull’ex generale della Guardia di Finanza Emilio Spaziante, massimo responsabile fino allo scorso autunno per tutta l'Italia centrale, che sarebbe stato corrotto tramite Marco Milanese, braccio destro dell'ex ministro Tremonti, e Roberto Meneguzzo, ricchissimo finanziere della Palladio. Una macchina da guerra che ha macinato le posizioni di maggiore prestigio negli anni d'oro di Nicolò Pollari. Gli viene attribuito un filo diretto con l'entourage berlusconiano e nel pasticcio della Laguna è sospettato di essersi fatto consegnare pacchi di banconote in contanti. Almeno mezzo milione di euro. I magistrati veneti hanno già messo in allarme altre procure italiane, bersagliate da analoghe manovre di inquinamento delle indagini che potrebbero aver avuto la stessa regia. I costi e i rischi di una corruzione di tale livello si spiegano con l'importanza del movente: impedire ai magistrati di scoprire un colossale sistema di malaffare gestito da un cartello di aziende collegate alla politica. Così si spiega un altro arresto eccellente: il presidente della Grandi lavori Fincosit di Roma e vice presidente del Consorzio Venezia Nuova Alessandro Mazzi. Il suo nome era finito già quattro anni fa nel filone veneto nell’inchiesta sulla Protezione civile che ha portato in galera l’imprenditore Diego Anemone e i tre alti funzionari incaricati per contro della Presidenza del consiglio dei ministri della gestione dei «Grandi eventi»: Angelo Balducci, Fabio De Santis e Mauro Della Giovampaola. Dopo la cricca, ora c'è la nuova Tangentopoli veneta: in Italia la vera legge degli appalti è la corruzione.
La Cupola del Mose. Inchiesta a Venezia su una rete di ufficiali che proteggevano gli affari sporchi del Mose. Sotto indagine per tangenti un alto ufficiale della Finanza. E gli inquirenti sospettano fondi neri per centinaia di milioni di euro, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. La cupola degli appalti in Veneto aveva una super-copertura: una rete di controspionaggio guidata da un generalissimo della Guardia di Finanza. Un comandante di rango nazionale, con un passato nei servizi segreti, che poteva impartire direttive e farsi trasmettere informazioni sensibili da schiere di graduati senza destare sospetti. I magistrati di Venezia, con una squadra di fidati investigatori della stessa Guardia di Finanza, stanno scoperchiando una nuova Tangentopoli con centinaia di indagati. E come ai tempi delle inchieste milanesi di Mani Pulite, anche i pm di oggi si trovano costretti prima di tutto a coprirsi le spalle. Con un troncone d'indagine che punta contro un network di pubblici ufficiali sospettati di aver messo in vendita un servizio illegale di protezione dalle inchieste giudiziarie. Non le solite mazzette per addomesticare verifiche fiscali, insomma, ma una corruzione programmata per fermare sul nascere ogni possibile istruttoria. A libro paga c'era e forse c'è tuttora una rete di funzionari di varie forze di polizia, con agganci nei servizi e in agenzie private, in grado di spiare le procure, allertare gli intercettati, falsificare o far sparire documenti compromettenti e trafugare atti giudiziari. In settembre era stato arrestato il vicequestore bolognese Giovanni Preziosa, accusato di aver intascato circa 160 mila euro proprio per spiare le indagini venete. Ora i pm sono risaliti ai livelli più alti. E sotto accusa c'è un generale a tre stelle delle Fiamme gialle, sospettato di essersi fatto consegnare pacchi di banconote in contanti. Almeno mezzo milione di euro. I magistrati veneti hanno già messo in allarme altre procure italiane, bersagliate da analoghe manovre di inquinamento delle indagini che potrebbero aver avuto la stessa regia. I costi e i rischi di una corruzione di tale livello si spiegano con l'importanza del movente: impedire ai magistrati di scoprire un colossale sistema di malaffare gestito da un cartello di aziende collegate alla politica. Al centro delle indagini c'è il Mose, la più grande opera pubblica varata in Italia: un enorme sistema di dighe mobili, che dovrebbe proteggere Venezia dall'acqua alta ma dopo più di trent'anni non è ancora in funzione. Gran parte delle indagini sono per ora segrete, ma il quadro disegnato dalle prime confessioni è già chiaro: il Mose è diventato una monumentale fabbrica di denaro nero. I soldi ce li mette lo Stato, che ha già garantito ben 5 miliardi e 496 milioni di euro. Questa marea di denaro pubblico entra nelle casse di un soggetto privato, il Consorzio Venezia Nuova, che ha la concessione a gestire tutti gli appalti senza gara, senza concorrenza, senza alcun confronto tra costi e progetti alternativi. Il Consorzio è come una porta girevole: incassa i soldi dello Stato e li distribuisce ai suoi associati, cioè a un gruppo di fortunatissime aziende private che grazie al Mose sono diventate sempre più ricche e potenti. Tutte gli altri imprenditori possono spartirsi solo le briciole, a condizione di essere accettati e graditi. Questo sistema di arricchimento privato con soldi pubblici, contestato apertamente dall'Unione europea ma sopravvissuto a tutti i governi, è entrato in crisi per la prima volta il 28 febbraio 2013. Quel giorno finisce in carcere l'ingegnere idraulico Piergiorgio Baita , 64 anni, amministratore e azionista al 5 per cento della Mantovani spa, il socio forte del Consorzio. Baita scivola su una buccia di banana: fatture false per dieci milioni. La Mantovani dichiarava al fisco di pagare fantomatiche consulenze a una ditta di San Marino, la Bmc Broker, che in realtà restituiva i soldi in nero, trattenendo dal 22 al 24 per cento per il disturbo. A trasportare le valigie di contanti erano William Colombelli, presidente della società-fantasma, e Claudia Minutillo , fino al 2005 segretaria-factotum del presidente berlusconiano della Regione Veneto, Giancarlo Galan, poi diventata manager di Adria Infrastrutture, l'azienda stradale del gruppo Mantovani. Colombelli e Minutillo confessano subito dopo l'arresto: la Bmc produceva solo «carta straccia», il nero serviva a Baita per comprare politici, burocrati e ufficiali corrotti. Difeso dal parlamentare Pietro Longo, l'ingegner Baita tiene duro per tre mesi. Poi cambia avvocato e confessa. E mentre lui torna libero e chiede di patteggiare, nei palazzi della Serenissima comincia a tremare un sistema di potere ventennale. La seconda retata arriva a metà luglio. Tra i 14 arrestati c'è l'uomo più potente del Veneto, l'ingegnere idraulico Giovanni Mazzacurati, padre padrone del Consorzio Venezia Nuova. Mazzacurati scivola su un'indagine diversa: una gara da 15 milioni per il dragaggio dei canali. Le intercettazioni svelano che a pilotare quell'appalto portuale è proprio lui, il re del Mose. Per favorire una cordata di piccole imprese locali, Mazzacurati ordina ai colossi degli affari di non presentare offerte. In cambio di quei lavori, i piccoli devono girare allo staff del Consorzio una percentuale in nero. E così le grandi aziende possono continuare indisturbate a spartirsi la gigantesca torta delle dighe mobili per salvare Venezia. Ma anche per il Mose, dopo il caso Baita, spunta un altro giro di nero. Una cooperativa di Chioggia è accusata di aver gonfiato i costi dei massi per le barriere subacquee: arrivano dalla Croazia, ma sulla carta passano dall'Austria, dove c'è una ditta-fantasma che sforna fatture false per 5,5 milioni. A questo punto le due inchieste s'incrociano e disegnano lo stesso quadro: a pilotare tutti gli appalti è lo staff di Mazzacurati, ma per entrare nel club dei privilegiati le aziende devono consegnare una fetta del nero. Ora le indagini, in pratica, devono misurare l'ampiezza del sistema: la regola del nero valeva solo per Baita e pochi altri o il malaffare era generalizzato? E i fondi occulti restavano alle imprese o finivano anche alla classe politica che dispensa i soldi pubblici a Venezia e magari a Roma? L'inchiesta conta già più di cento indagati, venti arrestati e fatture dichiaratamente false per più di 30 milioni, ma finora si è vista solo la punta dell'iceberg. La Guardia di Finanza ha scoperto altre "cartiere" in Svizzera, Austria, Canada, oltre che in Italia, e indaga su possibili fondi neri per «centinaia di milioni di euro». Baita ha già dovuto confessare che il gruppo Mantovani ha gonfiato anche i costi di altre opere, come le tangenziali Verona-Padova o le autostrade bellunesi. Il top manager avrebbe anche ammesso di aver finanziato «politici di destra e di sinistra» in almeno tre elezioni. Grazie ai soldi del Mose la Mantovani ha potuto aggiudicarsi anche faraonici "project financing" sanitari, come l'appalto trentennale da 2 miliardi di euro per l'ospedale di Mestre, sempre in cordata con altre imprese agganciate alla politica. I più importanti sponsor istituzionali del duo Baita-Mazzacurati sono sicuramente Galan, governatore in carica dal 1995 al 2010, il suo assessore Renato Chisso, rimasto in carica con il presidente leghista Luca Zaia, l'europarlamentare Lia Sartori e il super-tenico Silvano Vernizzi di Veneto Strade. Solo Galan però ha difeso Baita dopo l'arresto e ha dovuto pure ammettere di avergli presentato la sua ex segretaria e l'altro signore del nero di San Marino. Tra le sponde a sinistra, più del modesto contributo finito alla fondazione VeDrò di Enrico Letta, pesa il ruolo delle cooperative rosse. E tutta l'inchiesta è nata dai controlli su Lino Brentan, amministratore in quota Pd dell'autostrada Padova-Venezia, arrestato nel gennaio 2012 per corruzione.
E poi....il caso Expo. La denuncia dell'Authority dei contratti a Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione: "Deroghe a ottanta regole, così la spesa è lievitata", scrivono Giuliano Foschini e Fabio Tonacci su “La Repubblica”. "Appalti senza controlli per mezzo miliardo". È stato più facile costruire le fondamenta dell'Expo che una pista ciclabile a Monza, più semplice affidare un contratto di vigilanza da qualche milione di euro che non assumere due bidelli in una scuola pugliese. In attesa di vedere quello che sarà, l'Esposizione universale del 2015 si è già rivelata per quello che è: una delle più grandi deroghe che lo Stato abbia mai concesso a se stesso. Mezzo miliardo di euro di denaro pubblico sottratto "alle norme e ai controlli" in nome dell'"emergenza" più prevista del mondo. "Ben 82 disposizioni del Codice degli appalti sono state abrogate con quattro ordinanze della Presidenza del consiglio - denuncia Sergio Santoro, l'Autorità garante per la vigilanza dei contratti pubblici - così hanno escluso noi e la Corte dei conti da ogni tipo di reale controllo". Dopo gli arresti dell'inchiesta di Milano, però, è scattato l'allarme e gli uffici tecnici dell'Authority hanno analizzato tutti i contratti per capire cosa sarebbe accaduto se quelle deroghe non ci fossero state, se il Codice nato nel 2006 apposta per combattere i fenomeni di corruzione fosse stato rispettato alla lettera. Ed ecco che sono venuti fuori affidamenti diretti oltre le soglie consentite, goffi riferimenti a commi di legge inesistenti, procedure ristrette poco giustificabili. "Le nostre sono osservazioni - ci tiene a specificare Santoro - fatte sui documenti disponibili online". Numeri, casi, segnalazioni, appunti, finiti in un dossier che Repubblica ha avuto modo di consultare e che è stato consegnato al magistrato Raffaele Cantone, il commissario voluto dal premier Matteo Renzi per evitare altri scempi. Le falle. Per capire di cosa stiamo parlando basta prendere l'opera al momento più famosa dell'Expo, le cosiddette "Architetture di servizio" per il sito, cioè le fondamenta dei capannoni. Famosa per il costo, 55 milioni di euro, ma soprattutto perché attorno a quel contratto ruota l'indagine di Milano sulla banda di Frigerio. Lo ottiene la Maltauro, ma come? Per l'affidamento Expo sceglie di non bandire una gara europea, aperta a tutti, ma di seguire la procedura ristretta. Partecipano sette aziende e dopo la valutazione della commissione vince un'Ati (Associazione temporanea di imprese) che ha come capofila appunto la Maltauro, l'azienda che è accusata di aver pagato mazzette a Frigerio e Greganti. La procura di Milano accerterà cosa è accaduto e come. Per il momento si può dire che a spalancare la porta alla corruzione è stata proprio la legge, permettendo la procedura abbreviata. "Come in molti altri casi per l'Expo - scrive il Garante nel suo dossier - si è seguito il criterio di aggiudicazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa". A individuare quale sia, deve essere una commissione di 3 o 5 membri, "imparziale e altamente qualificata". Ma, ed ecco l'anomalia, nell'offerta della Maltauro hanno avuto più peso gli elementi qualitativi "per loro natura soggettivi", quali l'estetica e il pregio, rispetto al prezzo e ai tempi di esecuzione, "che sono invece dati oggettivi". Il punteggio qualitativo era 65 punti, quello quantitativo 35 punti. In sintesi, basta avere dei commissari amici e il gioco è fatto. "Ne abbiamo due su tre", si compiacevano Frigerio e Greganti, al telefono. E lo stesso Maltauro, interrogato dopo l'arresto, ha confermato il sistema. L'urgenza che non c'è. Ma a impressionare l'Authority è l'"emergenza perenne" che tutto giustifica. Perché, per esempio, viene affidato "in deroga" a Fiera di Milano spa l'allestimento, la scenografia e l'assistenza tecnica (2,9 milioni)? "Non si ravvisano evidenti motivi di urgenza - annota Santoro - per un appalto assegnato il 28 novembre scorso, un anno e mezzo prima della data del termine dei lavori". Ancora: con procedura "ristretta semplificata" sono stati dati i 2,3 milioni per il servizio di vigilanza armata a un'Ati (la mandataria è la Allsystem Spa), nonostante quella modalità "è consentita solo per contratti che non superino il milione e mezzo di euro". Sforamenti simili, ma di entità inferiore, sono avvenuti con l'"affidamento diretto", utilizzato 6 volte. "Il tetto massimo ammissibile è 40mila euro", segnala Santoro, ma nella lista figurano i 70mila a un professionista per lo sviluppo del concept del Padiglione 0 e i 65mila per servizi informatici specialistici. Ben 72 appalti sono stati consegnati "senza previa pubblicazione del bando", tra cui figurano il mezzo milione a Publitalia per la fornitura di spazi pubblicitari e i 78mila euro per 13 quadricicli alla Ducati energia, impresa della famiglia del ministro dello Sviluppo Federica Guidi. A Fiera Milano congressi - il cui amministratore delegato era Maurizio Lupi fino al maggio scorso, quando si è autosospeso - viene invece affidata l'organizzazione di un meeting internazionale dal valore di 881mila euro. Anche in questo caso Expo decide di seguire la via della deroga, appoggiandosi a una delle quattro ordinanze della presidenza del Consiglio (il dpcm del 6 maggio 2013). Lo fa in maniera quantomeno maldestra, perché nel giustificativo pubblicato sul sito ufficiale "si rileva un riferimento al comma 9 dell'articolo 4 che risulta inesistente". Un refuso. Il caso Mantovani. Su un caso, la realizzazione della "piastra del sito espositivo", l'Authority si sofferma un po' di più. È l'appalto più consistente, la base d'asta è fissata a 272 milioni di euro. Con un ribasso addirittura del 41 per cento e un offerta di 165 milioni lo ottiene, il 14 settembre di due anni fa, una cordata guidata dal colosso delle costruzioni Mantovani, il cui presidente Piergiorgio Baita sarà arrestato il febbraio successivo nell'ambito di un'inchiesta sul Mose di Venezia. "Con lo stesso aggiudicatario - rileva il garante - Expo ha stipulato però altri due contratti, rispettivamente di 34 milioni e 6 milioni, in opere complementari alla piastra". Un'osservazione che rimane tale, che non arriva ad assumere le forme di una qualche accusa specifica contro la cordata di imprese vincitrici, ma che per Raffaele Cantone (che martedì si incontrerà con Santoro) potrebbe valere un approfondimento. La Pedemontana. Quando l'Authority ha potuto ficcare il naso, sono stati guai. "Solo per la costruzione della Pedemontana - spiegano - non siamo stati esautorati dal nostro ruolo di vigilanza". A marzo del 2013, dopo uno screening dello stato di avanzamento, oltre a segnalare gravi ritardi ha individuato un incremento del costo complessivo dell'opera complementare all'Expo di 250 milioni di euro. Non sarebbe un caso. Nella relazione ispettiva si legge che l'appalto era stato affidato con "elementi oggettivi di distorsione della concorrenza e conseguente alterazione del risultato della gara". In sostanza appalto sbagliato, costi impazziti, autostrada che rischia di non essere mai terminata.
Inchiesta Mose: Renzo Mazzaro e i padroni del Veneto. Un sistema senza controlli. Dove giravano miliardi. Finiti nelle tasche di pochi. Lo scandalo anticipato dal libro di Mazzaro. Brani estratti da I padroni del Veneto (Laterza) di Renzo Mazzaro e pubblicati su “Lettera 43”. Se il project è la finanza privata che soccorre lo Stato senza soldi, il Mose è lo Stato da mungere finché ce n’è. Almeno su questo Baita è d’accordo. Il Mose (acronimo di Modulo sperimentale elettromeccanico) ha due caratteristiche fondamentali. La prima è che, trattandosi di un progetto sperimentale, non ha precedenti: è un prototipo da mettere a punto strada facendo. Questo significa che Mazzacurati, Baita e i loro collaboratori lavorano seguendo il motto dell’Accademia del Cemento fondata a Firenze nel 1657 da discepoli di Galileo: «Provando e riprovando». Con la differenza che Galileo provava e riprovava (bocciava) in laboratorio, mentre l’attuale Accademia del Cemento fa gli esperimenti direttamente in laguna, senza possibilità di correzioni. Si stima che complessivamente verranno annegati in acqua la miseria di 8 milioni di metri cubi di gettata. Una volta messo in opera, il cemento solidifica e non si torna indietro. La seconda caratteristica del Mose è che ha rischio d’impresa zero. Il Consorzio è concessionario esclusivo dell’opera, incassa i finanziamenti dello Stato e li gira alle imprese che eseguono i lavori, le stesse che fanno parte del Consorzio. Su 3.243 milioni finanziati, ma meno di 3 miliardi effettivamente resi disponibili, a fine 2010 il Consorzio aveva messo in gara opere per meno di 10 milioni di euro (9). Chi garantisce il controllo dei costi di questo mostro? Il prezzo chiuso. Per il Mose lo Stato spenderà in ogni caso 4.241 milioni di euro, non un centesimo in più. L’opera dovrà funzionare con questa cifra. La fine dei lavori è indicata nel 2014. Ma il Consorzio rispetterà questo termine? Baita ha una risposta che fulmina l’interlocutore: «No». Come no? «Il Mose è fatto da quattro bocche di porto: quella di Chioggia, quella di Malamocco e quella del Lido che è divisa in due dall’isola artificiale, Lido-San Nicolò e Lido-Treporti. Nella bocca di Lido-Treporti noi cominceremo le prove in bianco, cioè con le paratoie che si alzano, nella primavera del 2013. Naturalmente chiudere una bocca e lasciare aperte tutte le altre consentirà una serie importantissima di prove, test e messe a punto dei metodi di gestione, ma non difenderà certo Venezia dalle acque alte. Quando hai quattro buchi o li chiudi tutti o hai fatto un lavoro inutile. E la chiusura delle altre bocche dipende dall’erogazione dei finanziamenti». Eccoci al collo della bottiglia: l’opera governata dalla spesa deve fare i conti con le casse vuote dello Stato. È il collo della bottiglia o la canna del gas? Cosa succede se lo Stato non scuce il miliardo e mezzo di euro che ancora mancano per completare il finanziamento? Il diabolico Baita ha studiato come uscirne: convertendo la concessione dei lavori in una forma diversa di rapporto, che prevede il subentro del concessionario nella gestione. Lo Stato paga in base al funzionamento dell’opera. «Siamo d’accordo che il Mose deve funzionare? Se lo Stato si indebita per fare il Mose, la cifra è a debito nel momento in cui firma il contratto. Se invece si indebita con qualcuno che gli garantisce la gestione del Mose, il debito nasce anno per anno solo dopo che questi ha dimostrato di poter gestire l’opera. È diverso per lo Stato indebitarsi adesso oppure non avere nessun debito finché io non gli dimostrerò che per un anno ho difeso Venezia dalle acque alte. Il mio debito nascerà per quell’anno dal lavoro che avrò già fatto, non prima che lo faccia. È una conversione del rapporto esistente nel cosiddetto contratto di disponibilità, previsto dalla legge». Con i dovuti adattamenti di interesse, si suppone. 9 Cfr. Gianfrancesco Turano e Alberto Vitucci, Mose, una voragine a Venezia, l’Espresso, 27 dicembre 2010. Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto e ora deputato di Fi, e Giovanni Mazzacurati, allora presidente del Consorzio Venezia Nuova, in un' immagine d'archivio del 12 luglio 2013.
Dove scorrono i soldi. Il partito degli affari. C’è un partito degli affari che controlla gli appalti pubblici indirizzandoli verso i soliti noti? La questione tiene banco per tutto il decennio 2000-2010. Ci sono gli affari, questo è certo. E sono tanti. Un mare di soldi pubblici scorre nel Veneto: solo dal 2006 al 2009 si stima che il mercato delle opere pubbliche regionali valga 2,5 miliardi di euro. Escludendo il Mose, finanziato dallo Stato per oltre 4 miliardi di euro. Escludendo il Passante di Mestre, finanziato a metà fra Stato e Regione, partito con un costo di 650 milioni e arrivato alsaldo con 850. Escluse le Ferrovie, che spendono 2 miliardi per l’Alta Velocità tra Padova e Mestre, unico tratto realizzato per i collegamenti Verona-Padova e Venezia-Friuli, di là da venire, saranno necessari altri 10 miliardi. Escludendo strade, autostrade, porti e aeroporti: solo Veneto Strade spa, che ha ereditato patrimonio e competenze dall’Anas, ha da spendere nei tre anni un miliardo di euro. In questo mare di soldi pubblici navigano pochi operatori privati. Tutti gli altri stanno sulle rive a guardare. I vincitori delle gare sono un numero ristretto di aziende che da sole o in associazione di impresa (Ati) si assicurano le commesse con una frequenza sistematica. Gli appalti variano ma i nomi si ripetono. Contano indubbiamente le capacità, bisognerà mettere nel conto le versioni denigratorie prodotte dall’invidia per il successo altrui. Ma il fatto è sotto gli occhi di tutti: c’è un monopolio che non si spiega con assenza di concorrenza. Nasce da qui il sospetto che il vantaggio acquisito sia frutto non di merito ma di favore. Un privilegio di pochi costruito con i soldi di tutti. Chi parla per primo di un partito degli affari è Massimo Carraro che nel giugno del 2000, da parlamentare europeo dei Ds, pone la questione del finanziamento della campagna elettorale vinta dal presidente Giancarlo Galan contro Massimo Cacciari, candidato del centrosinistra. Una campagna di grande effetto, lanciata già nel dicembre 1999 con manifesti di ogni grandezza su spazi commerciali in tutto il Veneto. L’imponenza dello sforzo e il dispendio esibito colpiscono gli stessi pubblicitari. All’inizio di marzo, prima di entrare sotto il controllo delle leggi elettorali, lo stato maggiore di Cacciari stima che la spesa sostenuta per questo battage oscilli fra i 3 e i 6 miliardi di lire, considerando 30 mila manifesti per 100 giorni di uscita al costo unitario tra 1.000 e 2.000 lire, non precisabile ulteriormente per gli sconti diffusi nel settore. «Cifre fuori da ogni logica», replica il coordinatore regionale di Forza Italia Giorgio Carollo, che riduce la stima drasticamente: «Al massimo avremo speso 30 milioni». Dall’Ulivo gli replica Valter Vanni, capogruppo dei Ds in Regione, sfidandolo al confronto: 21.000 manifesti del centrosinistra affissi su spazi commerciali per 10 giorni (1) sono costati 109.512.000 lire, più altri 10.290.000 per la stampa, fatture saldate da lui in persona. Andando alla ricerca di chi ha sborsato i soldi per la campagna elettorale di Galan, Massimo Carraro cita Enrico Marchi e Giuseppe Stefanel, imprenditori impegnati in una grossa operazione immobiliare a Padova Est, la cosiddetta lottizzazione Ikea. Chiede loro di chiarire pubblicamente «se siano stati, magari a mezzo di loro società, generosi finanziatori della campagna elettorale di Forza Italia». Si becca una querela, non dai due ma da Giancarlo Galan, benché il presidente abbia appena confidato in una cena con gli eletti di Forza Italia - sui Colli Berici, ad Arcugnano, la settimana prima - di aver speso 3 miliardi di lire raccolti anche attraverso sostenitori. A corredo della denuncia, l'avvocato di Galan produce una montagna di documenti sulla base dei quali, sorpresa, il pm padovano Antonino Cappelleri non indaga Massimo Carraro bensì il sindaco di Padova Giustina Mistrello Destro e l'assessore Tommaso Riccoboni, entrambi di Forza Italia. Il contraccolpo è notevole, la procura si trova al centro di reazioni eccellenti. L'indagine prosegue ma non emergono elementi di rilevanza penale. Cappelleri passa all'ufficio di sorveglianza e il pm Matteo Stuccilli, che gli succede, finisce per archiviare. La lottizzazione non subisce rallentamenti. 1 Dal 9 febbraio in poi. I manifesti, 70x100, più piccoli di quelli di Galan, denunciavano l’incompatibilità di Lia Sartori e di Gian Paolo Gobbo ad essere insieme parlamentari europei e consiglieri regionali, cumulando doppi stipendi e doppi vitalizi. Sergio Berlato, che era nella stessa situazione, aveva dato le dimissioni dal Consiglio regionale.
Inchiesta Mose, ritratto dei protagonisti. Galan il doge. Chisso il braccio destro. E l'eminenza Sartori. Il ritratto dei potenti veneti finiti agli arresti nell'inchiesta Mose, scrive Giovanna Faggionato su “Lettera 43”. Trentacinque arresti e un'intera regione che trema. L'inchiesta sul Mose rischia di decapitare la classe dirigente che ha governato il Veneto negli ultimi vent'anni, a partire da Giancarlo Galan, che della Regione è stato tre volte presidente e per cui i magistrati hanno chiesto l'arresto. Sotto indagine sono finiti anche la sua segretaria, Claudia Minutillo, il suo numero due, il sempiterno assessore ai Trasporti Renato Chisso e soprattutto Lia Sartori, appena rieletta europarlamentare per Forza Italia e considerata la grande artefice dell'ascesa di Galan al potere e la sua più fidata consigliera, nonché compagna dello scomparso Vittorio Altieri, fondatore dell'omonimo studio di Thiene che ha progettato molte delle infrastrutture regionali. Al centro dell'inchiesta anche l'imprenditore Pier Giorgio Baita, indagato anche sul caso Expo, e il sindaco del Partito democratico Giorgio Orsoni. Ecco il ritratto di una famiglia allargata che ha comandato sulla Laguna e ora rischia di finirci dentro.
Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto e deputato di Forza Italia. Giancarlo Galan, il re sole del Veneto. Lo chiamano anche il Colosso di Godi, per dire della sua capacità di godersi la vita. Libertario, esponente del partito liberale veneto assieme a Niccolò Ghedini, prima di diventare manager di Publitalia, e infine dirigente di Forza Italia, tre volte governatore del Veneto e ministro. Giancarlo Galan non doveva nemmeno candidarsi a governatore nel 1995, ma riuscì a emarginare gli avversari e a convincere Silvio Berlusconi da poco entrato in politica. Galan ha esercitato sul Veneto un potere indiscusso, grazie soprattutto al sostegno di Lia Sartori, che per anni ne è stata la più fidata consigliera. Nel 2008, non a caso, si è autoproclamato Re Sole, con un libro intervista dal titolo eloquente: Il Nord Est sono io. Nel 2010, lasciò a malincuore la poltrona di Palazzo Balbi al leghista Luca Zaia, che venne sostituito al ministero dell'Agricoltura durante l'ultimo governo Berlusconi proprio dall'ex governatore: una staffetta che a Galan sembra non essere mai andata molto a genio. Il suo è stato il regno delle grandi opere e delle relazioni d'acciaio, anzi di cemento, tra impresa e politica. Oggi è stato chiesto il suo arresto con l'accusa di corruzione. Gli atti ora devono essere tramessi alla Camera, che ha il compito di valutare se dare l’ok al fermo.
Lia Sartori, europarlamentare di Forza Italia. Lia Sartori, la Richelieu di Galan. L'europarlamentare Lia Sartori è stata per anni la vera eminenza grigia della politica di Galan. La sua esperienza a Palazzo Balbi, sede veneziana della Regione, è iniziata nel partito socialista di Bettino Craxi. Tra 1986 e '87 diventò assessore ai Trasporti della Regione, il ruolo che oggi è di Renato Chisso. Utilissima a Galan nel momento in cui l'ex manager di Publitalia dovette organizzare la nuova Forza Italia in Veneto, da allora ne diventò l'ombra, qualcuno dice la vera mente. Lo studio Altieri, che era stato fondato dal suo compagno, fu coinvolto nei grandi progetti infrastrutturali regionali e nella edificazione di molti ospedali. Dopo aver accompagnato il doge padovano alla conquista della presidenza regionale, Sartori si è guadagnata un posto da europarlamentare che ha mantenuto per tre legislature, quattro considerando che nel voto del 25 maggio si è conquistata la riconferma. A Strasburgo Sartori siede nella commissione industria ed energia. Ma la sua influenza sugli affari veneti sembra ancora indiscussa. Ancora nel 2008, il consigliere regionale Raffaele Grazia, parlando delle scelte sulla sanità con un giornalista del gruppo Espresso, ha affermato: «Galan non ha alcuna autonomia (...). È Lia Sartori che sceglie i direttori generali e anche i primari, stabilisce dove si fanno gli ospedali e li progetta o li fa progettare dallo studio Altieri». Lia Sartori si è rivolta al giudice, ma il tribunale per ora ha dato ragione a Grazia considerandola la denuncia di un conflitto di interessi. Il 4 giugno i magistrati hanno chiesto per lei le misure cautelari ai domiciliari.
Renato Chisso, assessore alle Politiche di mobilità e agli Investimenti strategici del Veneto. Renato Chisso, inamovibile assessore alla Mobilità del Veneto. Se Galan è stato il re delle opere pubbliche, Renato Chisso è stato il suo gran ciambelliere, braccio destro per decenni e gran regista degli investimenti pubblici grazie a tre mandati consecutivi come assessore. Eletto per la prima volta consigliere nella prima infornata di uomini di Forza Italia nel 1995 e finito subito nella commissione urbanistica, dal 2000 occupa la poltrona di assessore alla Mobilità e all'Ambiente che significa ovviamente anche infrastrutture. Nel 2005, quando è stato riconfermato, la dicitura si fa ancora più precisa: assessore alle Politiche di mobilità e agli Investimenti strategici. La convivenza obbligata con i leghisti di Luca Zaia non è semplice per la vecchia leva di Forza Italia, ma dopo essere stato il più votato per Fi nella provincia di Venezia, Chisso ha riottenuto puntuale le sue deleghe, con la competenza dunque anche sul Mose. Il 4 giugno 2014 è stato arrestato nell'ambito delle indagini sulla grande opera.
Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia dal 2010. Giorgio Orsoni, un avvocato con la passione per le infrastrutture. Il primo cittadino di Venezia, Giorgio Orsoni, è noto ai più per aver battuto Renato Brunetta nella corsa a sindaco nelle elezioni del 2010. Durante la campagna elettorale veniva presentato soprattutto come un professionista dell'avvocatura, essendo stato presidente dell'Ordine degli avvocati di Venezia e membro del Consiglio Nazionale Forense. Ma nella sua carriera sono molti i ruoli che ha ricoperto nel settore infrastrutture. Dal 1996 al 1998 è stato consigliere del ministero dei Lavori pubblici, dal 1997 al 2003 è stato presidente della Save Spa, la società che controlla l'aeroporto di Venezia, la stessa poltrona dove anni prima si era seduta Lia Sartori. Arrestato il 4 giugno, Orsoni è accusato di aver intascato fondi illeciti dal Consorzio Venezia Nuova, la società del Mose, proprio per la campagna delle Comunali del 2010.
Pier Giorgio Baita, ex amministratore delegato di Mantovani spa e Adria Infrastrutture. Pier Giorgio Baita, nel mirino dei pm dai tempi di Tangentopoli. Il suo nome, come quello di Primo Greganti e di Gian Luca Frigerio, arriva direttamente dalle cronache della Tangentopoli degli Anni 90. Ed è rispuntato nelle indagini sugli appalti per l'Expo. Ex amministratore delegato della Mantovani Spa e di Adria Infrastrutture, era stato indagato anche in un'inchiesta sulle tangenti pagate per l'autostrada Padova Venezia, di cui la Mantovani (in prima fila nella costruzione del passante di Mestre) è terzo azionista. Baita è stato arrestato nel febbraio 2013 per un presunto giro di false fatturazioni, per cui era finita in manette anche la segretaria personale di Galan, Claudia Minutillo, e il responsabile amministrativo della Mantovani Niccolò Buson. Da allora gli arrestati hanno raccontato molte cose ai magistrati. Per esempio, la segretaria Minutillo ha spiegato che fu Galan a farle conoscere William Colombelli, presidente della Bmc Broker, la società di San Marino attraverso cui sarebbero passati i fondi neri. L'incontro sarebbe avvenuto a casa di Niccolò Ghedini, padovano come Galan, suo amico di lunga data e compagno di partito dai tempi dei liberali e poi in Forza Italia. Ghedini è stato anche l'avvocato di Baita, assieme all'altro legale di Silvio Berlusconi e suo socio professionale, Piero Longo. Dopo tre mesi e mezzo di carcere però, a giugno 2013, l'imprenditore ha deciso di cambiare difensori e strategia: ha scelto l'avvocato Alessandro Rampinelli e ha iniziato a parlare. Gli arresti di oggi arrivano con tutta probabilità anche dalla sua testimonianza.
Galassia Galan. Ripubblichiamo l'articolo uscito sul numero 48 dell'Espresso del 2006 in cui veniva anticipato tutto il sistema do potere dell'allora governatore della regione e dove compaiono molti dei personaggi coinvolti nell'inchiesta sul Mose, scrive Gigi Riva su “L’Espresso”. Giancarlo Galan Sulla vetta dell'Olimpo c'è il governatore Giancarlo Galan, "GG", il Doge. Sta lì piantato come un «colosso di Godi» (è alto un metro e 90) da quasi 12 anni. Da quando, cioè, Silvio Berlusconi lo trasformò da venditore di Publitalia nella punta di lancia di Forza Italia nel Nordest. Dicono i biografi che ormai si disinteressa o quasi delle terrene vicende, dedito com'è a inseguire le sue passioni: pesca d'altura al tonno, buen retiro nel cason in Laguna e ora nella reggia campestre di Cinto Euganeo, ozi sul litorale istriano nella casa sul mare della Serenissima Rovigno. L'unico uomo, forse, a cui i veneti non rinfacciano la scarsa propensione al lavoro, tanto da avergli cucito il nomignolo quasi affettuoso di «fancazzista di successo». Ha 50 anni, la sua compagna Sandra Persegato 33, fra poco gli darà un figlio e ha promesso/minacciato di ritirarsi. Se si potrà dedicare ai suoi lussuosi hobby e alle gioie della paternità lo si deve a due motivi: può campare di rendita perché dall'esperienza politica esce più ricco (e lo vedremo) a scorno delle sue lamentazioni per le quali ci avrebbe rimesso; ha messo in piedi una macchina ben oliata che ormai funziona da sola. Poche persone fidate che compongono il sistema. I potenti del Veneto. Un gradino sotto la vetta dell'Olimpo stanno in tre. Enrico Marchi, coetaneo del governatore e come lui nato nel Partito liberale (corrente Altissimo, Galan stava con Biondi), amico di vecchia data, premiato con la presidenza della Save, la società che controlla l'aeroporto di Tessera, il terzo in Italia per volume di traffico. Uno che un giorno si era messo in testa l'idea meravigliosa di assaltare la Gemina, mettere sotto scacco Cesare Romiti, e impadronirsi degli Aeroporti di Roma salvo fallire e battere in ritirata. E poi due ex socialisti convertiti sulla via di Arcore, more solito, come la potentissima eurodeputata di Forza Italia ed ex presidente del Consiglio regionale Amalia Sartori detta Lia, 58 anni, già compagna di Vittorio Altieri, un ingegnere morto tre anni fa e che con Galan condivideva le scorribande in Adriatico, titolare dell'omonimo studio di progettazione. O come Renato Chisso, piazzato nello strategico assessorato alle Politiche della mobilità e infrastrutture. Traduzione: appalti. Ci sarebbe poi un altro uomo di fiducia, il portavoce, quel Franco Miracco, ex giornalista del "Manifesto", che si occupa però di un settore impalpabile come la Cultura, tanto da essere indicato come l'assessore-ombra (Galan si è tenuto quella delega). Ma quella è un'altra storia. Il livello politico di chi conta, termina, più o meno, qui. Cerchia ristretta. Come ristretta, ristrettissima, è la cerchia delle aziende (livello economico) che fa man bassa degli appalti pubblici. Anche se non sempre presentano le offerte più vantaggiose, anche se variegati sono i campi d'azione. Dalla sanità alle strade, il risultato non cambia, vincono sempre loro. Perché, adesso, non basta ribassare l'offerta, il punteggio complessivo si basa su valori assai più discrezionali come l'affidabilità e la qualità, i veri cavalli di Troia per eventuali favoritismi. Studio Altieri, Mantovani costruzioni e Gemmo impianti, queste tre vincono sempre (sono, per inciso, le stesse tre che hanno acquistato ampie pagine pubblicitarie della pubblicazione monografica "Il Veneto ha cambiato strada" supplemento della rivista "Tempi" e agiografia della giunta). Spesso in cordata con le cooperative, a quote minime. Perché il sistema Veneto del nuovo Doge non è poi così dissimile a quello della vituperata Prima Repubblica e per la pace sociale si accontenta anche la tanto odiata sinistra. Le aziende sempre vincenti bisogna vederle da vicino e congratularsi perché risultano sempre le migliori. Cominciamo dalla Gemmo impianti di Arcugnano (Vicenza), già devastata da Tangentopoli. Figura nell'elenco, guarda caso, dei finanziatori della prima campagna elettorale di Galan, quella del 1995 con la cifra più alta: 10 milioni, allora si ragionava in lire. Il capostipite è conoscente di vecchia data di Lia Sartori. La figlia, Irene, è invece buona amica del governatore che non ha esitato, qualche mese fa, a piazzarla a capo di Veneto Sviluppo, la Finanziaria regionale, nonostante la sua azienda concorra e come nelle gare della Regione. E se non c'è una incompatibilità giuridica, ce n'è una morale. Ma qualunque richiamo al conflitto di interessi non trova orecchie nel partito azzurro. Dopo una storica vocazione negli impianti di illuminazione, la Gemmo è stata folgora dalla sanità, che significa due terzi del bilancio regionale. Da sola o associata con altri, fa la parte del leone per la fornitura di energia a Dolo-Mirano, Bassano, Arzignano, Cittadella, Verosa Usl e Verona ospedale. Contratti milionari che durano, in alcuni casi fino al 2015. E aggiudicati con criteri che il nuovo assessore, il leghista Flavio Tosi, ha trovato quantomeno discutibili, tanto da proporre una delibera con la quale si istituisce l'obbligo di bandire gare al massimo ribasso ogni volta che è possibile e comunque di riconoscere al prezzo un peso di almeno il 60 per cento nel giudizio complessivo. In modo da evitare (è successo a Verona) che una ditta di pulizie vinca col 36 per cento di rialzo. Galan avrebbe commentato che era ora che i direttori generali fossero messi sotto controllo. E c'è da chiedersi dove stesse lui quando erano fuori controllo. Ma torniamo alla Gemmo. Gli ospedali, se è redditizio gestirli, immaginarsi cosa significa costruirli. A Schio e Thiene (Alto Vicentino) ce ne sono due a distanza di una manciata di chilometri. Stando a uno studio dell'ingegner Gianni Plicchi di Bologna, l'ammodernamento dell'esistente costerebbe 63 milioni di euro. La giunta Galan ha bocciato la soluzione per privilegiare un'altra via: un terzo ospedale da edificare ex novo a Santorso, località baricentrica, al costo di 143 milioni, più del doppio, 72 dati dal pubblico e il resto con un project financing promosso - c'erano dubbi? - dalla Gemmo, unitamente allo studio Altieri e alla Serenissima ristorazione. Il Doge in persona aveva tuonato in commissione durante uno dei vari passaggi burocratici: «Signori, chi vota contro lo metto sulla lista nera». Meglio non mettersi contro l'invincibile armata degli amici del governatore che, del resto, avevano già sperimentato con successo la formula del project financing per l'ospedale di Mestre, affare da 220 milioni di euro di cui 80 a carico dello Stato e 10 della Usl competente. In cambio dello sforzo dei privati, la concessione dei servizi per una durata di 24 anni e un valore stimato in 1,26 miliardi di euro. Una concessione che comprende anche i servizi tecnico-amministrativi di supporto alle attività di radiologia, laboratorio e neuroradiologia. E poi parcheggi, servizi alberghieri, ristorazioni. Con tanti saluti al rischio d'impresa. C'è sempre da guadagnarci se di mezzo c'è il pubblico. Chi promuove un project financing difficilmente si vede sfuggire l'appalto durante una gara. Perché ha studiato la materia e perché agli eventuali concorrenti viene dato sempre meno tempo. Per la Pedemontana veneta, 64 chilometri da costruire tra l'interconnessione con la A13 Valdastico e la A27 Mestre-Belluno, affare quantificato in 2,3 miliardi di euro di cui 243 milioni a contributo pubblico, il bando è stato reso pubblico il 10 novembre scorso e scadrà il 12 dicembre alle ore 12. Poco più di un mese per studiarsi un'opera complessa. Logico che vincerà il gruppo del "project". Ma da chi è composto? In origine furono le banche. Man mano che si avvicinava il momento di aprire i cantieri ecco che le quote sono passate di mano e compaiono i costruttori. Dall'Impregilo fino ai soliti noti Gemmo, studio Altieri e Mantovani costruzioni. Chi si prende i lavori avrà un contributo pubblico per i prossimi 30 anni col seguente meccanismo: se i pedaggi non garantiranno un introito congruo, se cioè transiteranno sull'arteria meno di 840 milioni di veicoli l'anno, la Regione verserà un contributo di 10,2 milioni di euro ogni sei mesi. Se ne passeranno di più, calerà il contributo in proporzione. Nella Pedemontana, come in tutte le grandi opere, è presente la Mantovani dell'ingegner Piergiorgio Baita, pure vecchia conoscenza di Tangentopoli (assolto, giusto precisarlo). Fa la parte del leone nel Mose, la mastodontica opera che dovrebbe salvaguardare Venezia dall'acqua alta, costo 4,3 miliardi di euro, quasi una Finanziaria da tempi normali. Naturalmente ha i suoi uomini impegnati sui cantieri del Passante di Mestre, l'opera più attesa del Nordest, 750 milioni di euro, 32 chilometri da inaugurare nel 2008 se tutto andrà bene. Dentro c'è anche la Gemmo, of course. Che pure era stata capofila, con grande arrabbiatura dei concorrenti, per la terza corsia dinamica della Tangenziale di Mestre quando non aveva alcuna esperienza in fatto di strade. Sarà utile far notare che, anche per il Passante, non è mai stato preso in considerazione un progetto meno oneroso di una società norvegese che prevedeva un tunnel. L'elenco potrebbe proseguire all'infinito. La Mantovani si è aggiudicata due lotti del nuovo Piano acquedotti (progetto Altieri), del valore complessivo di 300 milioni e la rete di distribuzione del degasificatore. Per non dire del piano integrato Fusina, un complesso sistema di depurazione (500 miliardi di vecchie lire). Attorno, naturalmente, una rete di aziende satellite che ci campano, mentre le altre sono perennemente escluse. E cominciano ad arrabbiarsi, fanno sapere che la misura è colma. Per ora fanno ammissioni a mezza bocca e lasciano trapelare qualche dato oggettivo su cui riflettere. C'è un'azienda che, svenandosi, aveva ribassato fino all'11 per cento l'offerta per ammodernare la linea ferroviaria Adria-Mestre (21.047.404,72 euro) e si è vista sorpassata da un gruppo concorrente (dentro c'è la Gemmo) che aveva ribassato molto meno (attorno al 2 per cento), ma aveva fatto razzia di tutti i punti qualità e affidabilità. C'è un grossista di frutta e verdura che ha perso l'appalto con l'Usl malgrado non abbia avuto alcuna contestazione negli anni di onorato servizio e fosse previsto un congruo punteggio per la vicinanza: è stato battuto da un concorrente milanese. E c'è la fila alla sua porta, giura Giorgio Carollo, ex coordinatore regionale di Forza Italia silurato dalla coppia Sartori-Galan e ora impegnato a rifondare il Grande Centro, «di imprenditori che non ne possono più». Aggiunge: «Solo che io mi sono stufato, invece di lamentarsi con me, andassero dai giudici se hanno qualcosa da denunciare». Carollo avrà anche il dente avvelenato, però esprime un disagio riscontrato e pensa gli tocchi un compito: «Cambiamo noi la classe dirigente prima che ci pensi la magistratura». Galan ha promesso che se ne andrà da solo. Del resto ora tiene famiglia e, prima, ha piazzato già amiche e segretarie, da signore sensibile al fascino femminile. Irene Gemmo alla finanziaria regionale il colpo più grosso. L'ex segretaria Lorena Milanato in Parlamento, l'ex segretaria Barbara Degani in consiglio regionale. Un'altra ex segretaria, Claudia Minutillo, è stata oggetto di un'interrogazione diessina perché a lei farebbe capo la BMC Broker di San Marino cui sono stati riconosciuti finanziamenti regionali. Per non dire della sorella della morosa, Carla Irene Persegato, giunta prima tra varie ironie a un concorso da tecnico comunale a Monselice dopo aver sbaragliato 80 concorrenti tra cui un geometra che da cinque anni lavorava in quell'ufficio con contratti a termine. A Galan stesso non è andata male. Nel modello 740 dell'anno precedente la prima elezione aveva dichiarato 202 milioni di vecchie lire e una proprietà a Milano. Da allora ha sempre denunciato solo lo stipendio da presidente, 140 mila euro lordi. Il che non gli ha impedito un tenore di vita esagerato e una serie di acquisti che vorrebbero ben altro reddito. La nuda proprietà di un appartamento a Milano; un'imbarcazione a motore Boston Whaler Walk Around anno 1991; una imbarcazione a motore Whaler 28 Conquest del 2001; 15.247 azioni ordinarie di reti bancarie. Risulta amministratore unico e titolare al 100 per cento di una società con sede a Rovigno (Croazia) con capitale sociale di 1.173.000 kune (al cambio attuale un euro è uguale a 7,3 kune). C'è da aggiungere la favolosa villa di Cinto Euganeo. A chi gli chiede conto di tanta sproporzione tra reddito e proprietà risponde sbrigativo di essere «ricco di famiglia». Il padre Nelson era uno stimato primario radiologo di ospedale pubblico a Padova e doveva mantenere moglie e tre figli.
Chi è Giorgio Orsoni, il sindaco sotto accusa. Un professionista di prim'ordine, non un politico puro. Ambizioso e non amato da tutti, scrive Guido Moltedo su “Europa Quotidiano”. Giorgio Orsoni abita a San Silvestro, proprio dirimpetto a Ca’ Farsetti che con Ca’ Loredan è la sede del comune di Venezia. Una sola fermata di vaporetto e attraversi il Canal Grande. Ma il sindaco preferisce di solito usare il motoscafo di servizio per andare nel suo ufficio, pareti di raso rosso veneziano, arredo di eleganza solida e sobria, lo stile degno di una città che fu la Serenissima. Una mattina incontra un ex assessore mentre sta per salire sul motoscafo, e quasi si giustifica: «Sai, in vaporetto mi vedono, mi riconoscono e cominciano a chiedere, a far domande, a lamentarsi…». Se l’incontri nelle calli, dalle parti del suo studio di avvocato ai Tolentini, zona stazione, lo vedi d’inverno col cappello calato giù, il bavero alzato, a passo spedito, immerso nei suoi pensieri o affiancato da un collaboratore. Dicono che Orsoni sia snob. In realtà, è schivo. Riservato. Ma affabile. Cortese. Pronto all’ascolto. Certo, Orsoni non è come Cacciari, che da sindaco andava in vaporetto o a piedi, che parlava con la gente, che era capace di inveire contro il turista reo di dar mangime a un piccione o di fare picnic in calzoncini sui gradini di una chiesa. Infatti Cacciari, che pure nel suo ultimo mandato non ha fatto faville e ha lasciato un po’ di rogne al suo successore – Orsoni, appunto – resta un beniamino a Venezia, mentre Orsoni ha sempre faticato a far breccia tra i suoi elettori veneziani, ancora più tra quelli di Mestre e della terraferma, l’altra metà e più della città di Venezia. Non per ragioni politiche, ma perché dà l’impressione di fare il sindaco con riluttanza, come facesse un sacrificio a svolgere pienamente la sua “missione”, che non è solo amministrativa, ma anche, spesso soprattutto, un’attività di relazioni, di rapporti, di vita tra la gente. Qui è la differenza sostanziale tra un politico di professione e un professionista prestato alla politica. L’altra differenza è che da un politico-politico ti aspetti, di questi tempi, che prima o poi venga fuori qualcosa di losco. Da uno col “profilo” di Orsoni non te l’aspetti. Infatti, a Venezia, nel giro delle persone che lo conoscono bene, sono certi che ne uscirà bene, da quest’inchiesta. E lo pensa anche un collega autorevole come Piero Fassino, presidente dell’Anci, che ha avuto modo di lavorare con lui. «Chiunque conosca Giorgio Orsoni e la sua storia personale e professionale – ha detto il sindaco di Torino, immediatamente dopo la notizia del suo arresto – non può dubitare della sua correttezza e della sua onestà. Siamo sicuri – ha aggiunto Fassino – che la magistratura, nel compiere gli accertamenti successivi, giungerà rapidamente a stabilire la verità dei fatti, consentendo così ad Orsoni di ritornare alla sua funzione di sindaco di Venezia». Quest’ultimo punto è invece discutibile. L’arresto, anche se si rivelerà ingiusto, è considerato in città uno stop alla sua carriera di primo cittadino. Nel frattempo è già in moto la macchina dell’insulto su Facebook. Ed è scattato il prevedibile tormentone del “rinnovamento” di una classe dirigente invischiata in affari e intrecci opachi e sospetti. Per come è fatto Orsoni, se effettivamente uscirà bene dalla vicenda, si può perfino pensare che ne faccia un punto d’onore, quello di ritornare a Ca’ Farsetti e anche di ricandidarsi il prossimo anno per un secondo mandato. Una prospettiva, quella della ricandidatura, che non si sa se l’avesse in mente o meno. Questi quattro anni sono stati per lui molto duri, ci sono stati momenti in cui avrebbe voluto perfino lasciare, altri in cui si è sentito sfidato e ha provato gusto a rilanciare. Gli amici si dividono tra chi prevede che la vicenda, comunque si concluda, lo stacchi, nauseato, dalla politica, e chi pensa che la vivrà come una sfida. Sessantasette anni, ordinario di diritto a Ca’ Foscari, titolare di uno studio “ereditato” dal grande amministrativista Feliciano Benvenuti, il placido Orsoni sconfisse sonoramente, al primo turno, il pirotecnico Renato Brunetta l’8 aprile 2010. Arrivava a Ca’ Farsetti dopo Massimo Cacciari e dopo Paolo Costa, con cui era stato assessore al patrimonio. Alle sue spalle, oltre l’attività prestigiosa di avvocato, incarichi di peso in città, tra cui quello di Primo procuratore di San Marco. Di fronte aveva invece una città problematica e un comune con le casse pressoché vuote, soprattutto per via della crisi del Casinò, una vera miniera di finanziamenti che nessun’altra città italiana ha, e l’esaurirsi dei fondi speciali. Il nuovo sindaco ereditava in compenso problemi complicati, tipici di una città unica come Venezia, più grane antipatiche, dal ponte di Calatrava al “buco” del palazzo del cinema al Lido, dal passaggio delle grandi navi alla gestione di un turismo pervasivo e prepotente. Senza contare che ormai il grosso di Venezia è in terra ferma, Mestre e Marghera, a loro volta alle prese con la questione della deindustrializzazione e dell’immane impresa del risanamento ambientale. E lui, veneziano, la passione per il mare e per la vela, fa spesso fatica a sintonizzarsi con i mestrini e le loro lagnanze contro l’eccesso di attenzione per Venezia. «Sono così. Sono moderato, riflessivo e razionale», disse di sé a Manuela Pivato della Nuova Venezia, che gli dedicò un ritratto poco dopo la sua elezione a sindaco. “La sua forza tranquilla – scriveva la giornalista – l’ha portato negli anni esattamente dove voleva, e forse anche un po’ più in là, al punto da consacrarlo come uno degli uomini più “incaricati” della città: avvocato, professore di Diritto amministrativo a Ca’ Foscari, Procuratore di San Marco, ex presidente di Save Engineering, vicepresidente della Fondazione Cini, presidente dell’assemblea dell’Oua (il sindacato degli avvocati), presidente della Compagnia della Vela e in più solido borghese, cattolico, buona forchetta, gran bevitore di thè caldo sia d’estate che d’inverno, amante dei libri di storia, velista e padre di tre figli uno più bravo dell’altro, tutto in un sol uomo». Il sogno di Orsoni andava in realtà oltre Venezia. Si dice che coltivasse il desiderio di un incarico a Roma, che pensasse a un ministero o un posto di sottosegretario che si occupasse delle città metropolitane. Da sindaco, negli ultimi due anni, è diventato il massimo esperto della questione, e ha lavorato intensamente a quest’idea, immaginando una grande città metropolitana che tenga insieme Venezia, Padova e Treviso. Ci ha creduto, ed è un progetto ambizioso, importante per il Nordest, ma che fatica a farsi strada. In Orsoni aveva trovato un propulsore convinto. Peccato, anche per questo, se il suo percorso politico si debba ora davvero fermare.
Tangenti Mose, Massimo Carlotto: «Il Nord è più criminale del Sud». Tangentopoli in Veneto. Lo scrittore Carlotto: «All'estero ci studiano come laboratorio della nuova malavita economica». Intervista di Gabriele Lippi su “Lettera 43”. Chi ha letto i suoi libri, probabilmente, nella mattinata di mercoledì 4 giugno 2014 è rimasto meno stupito di altri. Di intrecci tra criminalità e politica in Veneto, Massimo Carlotto ne aveva parlato anni prima che lo scandalo Mose scoppiasse coinvolgendo il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, l'assessore regionale alla Infrastrutture Renato Chisso e l'ex governatore, ora deputato di Forza Italia, Giancarlo Galan. «NORD PIÙ CRIMINALE DEL SUD». Nessuna sorpresa dunque per Carlotto, che a Lettera43.it spiega come questo sistema fosse «evidente da tempo», e racconta come, ormai, «il Nord è ben più criminale del Sud» e viene studiato nelle università straniere «come il laboratorio della nuova criminalità economica». Una situazione riemersa con prepotenza dalle acque torbide dei canali veneziani. Massimo Carlotto, scrittore nato a Padova.
DOMANDA. Politica, malaffare, criminalità. Quello scoppiato a Venezia sembra un romanzo di Carlotto.
RISPOSTA. Devo dire che questo l'avevo raccontato in Alla fine di un giorno noioso.
D. Sapeva già tutto?
R. In Veneto si aspettava da tempo questa azione della magistratura, il sistema era evidente, era stato messo a nudo dai comitati sul territorio.
D. Come si sapeva?
R. Le denunce sono state fatte nel corso degli anni in un silenzio assordante e nella protervia con cui i politici coinvolti rispondevano alle domande dei comitati. La battaglia è stata gestita da una minoranza forte e agguerrita del Veneto. Ora, finalmente, il territorio può tirare un sospiro di sollievo.
D. Corruzione e politica. Cosa sta succedendo al Veneto?
R. Nulla di nuovo. Questo è un sistema che ha governato la Regione per moltissimi anni. Ci sarà un motivo per cui nelle università straniere il Nord Est italiano è studiato come il laboratorio della nuova criminalità economica. Si è creata una connessione tra la criminalità e tre ambienti fondamentali della società: imprenditoria, politica e finanza.
D. E da questa unione cosa è nato?
R. Un sistema che ha permesso nel passato grandi accumulazioni di capitale che poi si sono riversate in tutti questi agganci nel mondo dei grandi appalti. Ma si tratta di una situazione definita ormai da tempo.
D. Quello del Nord Est virtuoso e motore dell'economia italiana è un falso mito, dunque?
R. Il mito è dovuto anche al fatto che ci sono stati moltissimi imprenditori onesti che hanno creato un sistema economico vincente. Poi si sono infilati anche quelli che hanno accumulato grandi ricchezze evadendo sistematicamente le tasse, con il lavoro nero, con lo smaltimento illegale dei rifiuti industriali.
D. La superiorità morale del Nord vantata dalla Lega non esiste?
R. Lo dico da moltissimo tempo che il Nord è ben più criminale del Sud, perché i veri affari avvengono qui. Bisogna dire la verità anche sui tempi in cui le mafie si sono insediate in Settentrione. La 'ndrangheta è arrivata a Torino nel 1964. È l'Italia nel suo complesso che ha un sistema criminale di cui bisogna liberarsi al più presto.
D. L'inchiesta sul Mose andava avanti da anni, ma si aspettava uno scandalo di tali proporzioni?
R. Mi sorprende solo il coinvolgimento del sindaco di Venezia. Gli altri nomi circolavano da tempo nell'ambito delle indagini e tra coloro che si occupavano di queste cose.
D. Il sindaco di Venezia, un assessore regionale, l'ex presidente della Regione. Uno scandalo bipartisan. La politica veneta è tutta da rottamare?
R. Esiste anche una parte della politica onesta, anche in senso bipartisan. C'è però un sistema che ha governato il Veneto per tantissimi anni e che ora deve essere debellato completamente. Ma poteva essere fatto prima.
D. In che senso?
R. Si sta facendo ora un'opera di pulizia che prima della magistratura toccava alla politica. Agli elettori. Il sistema politico era evidente, ma si è preferito mantenerlo perché era fortemente ancorato a quello economico.
D. Come si spiega il ritorno forte della magistratura sugli appalti?
R. Credo che siano cambiati anche gli equilibri politici, in particolare per quanto riguarda il Veneto. Pensare che il lavoro dei magistrati non sia influenzato da queste cose significa non essere ancorati alla realtà. D'altra parte gli appalti sono diventati un'occasione di riciclaggio del denaro sporco per la criminalità organizzata.
D. Come mai proprio gli appalti?
R. Quando la criminalità ricicla su attività normali non c'è guadagno, c'è una perdita che la guardia di finanza calcola intorno al 30%. Investendo in attività pubbliche, invece, la criminalità riesce anche a guadagnare sui soldi che investe, oltre a riciclarli.
D. Per Galan c'è una richiesta d'arresto. Pensa che il parlamento darà l'ok?
R. Questo non lo so ed è difficile dirlo. Quello che secondo me è politicamente importante è la dimensione complessiva dell'inchiesta per cui il sistema nel suo complesso è stato messo a nudo.
D. Sembra anche qualcosa che va oltre Tangentopoli. Tra gli indagati ci sono magistrati, ex generali della guardia di finanza. La criminalità si insinua ovunque.
R. Questo è il dato della mutazione antropologica di questa società. La dimensione dell'agire criminale è di una illegalità diffusa che ha contagiato nel suo complesso la società.
D. Cioè?
R. Non c'è aspetto che non sia toccato o influenzato da queste forme illegali. Niente di cui stupirsi in un Paese in cui la corruzione aumenta del 100% ogni anno.
D. Se fosse un libro di Carlotto come andrebbe a finire?
R. Arriverebbe qualcuno che mette tutto a tacere, come successo con Tangentopoli. Si sono accordati sul 10% di tangente e tutto è continuato nella normalità, fino allo scandalo successivo. In questo Paese gli scandali sono serviti spesso a sanare le contraddizioni. Questo è un po' diverso, ma non bisogna abbassare la guardia per il futuro.
D. Insomma, il lieto fine c'è solo per i cattivi della storia.
R. Esattamente.
Basta sdegno e chiacchiere. Trentuno anni e costi quadriplicati. Quando diremo basta alle mazzette? Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta. L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan. C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento. C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli? C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza». E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei. C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio. C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette. E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri. E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei». Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti. L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva... Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari! L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?
Dopo i «100 motivi per amare l’Italia». Ecco (almeno) 10 motivi di vergogna. L’amore per il nostro Paese non cambia ma vicende come quella di Venezia (Mose), o di Genova (Carige) e Milano (Expo), impongono una riflessione, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Abbiamo appena pubblicato su Corriere.it «100 buoni motivi per amare l’Italia». Sono stati tradotti in inglese, spagnolo e francese. Vicende come quella di Venezia (Mose), Genova (Carige), Milano (Expo) - tanto per restare alla cronaca di questi giorni, e restare lontani dalle paludi romane e dai buchi neri del sud - non ci fanno cambiare idea. Ma onestà impone di aggiungere, ai 100 motivi d’orgoglio, almeno 10 motivi di vergogna: intraducibili. Ecco perché, purtroppo, in queste ore l’Italia ci imbarazza.
1. Perché tutti sono innocenti finché non è provata la colpevolezza. Ma insomma.
2. Perché gli oppositori drammatizzano e i governanti minimizzano. Salvo scambiarsi i ruoli al prossimo giro.
3. Perché la fame è fisiologica, ma l’ingordigia è patologica: dove finiscono tutti quei soldi? Cosa se ne fanno? Quanti auto tedesche e appartamenti svizzeri deve comprare, un uomo, prima di essere sazio?
4. Perché le grandi opere, da decenni, sono occasioni di grandi saccheggi. Ma ce ne accorgiamo sempre dopo.
5. Perché la nostra indignazione è tribale: il peccato è grave quando lo commettono i nostri avversari. Altrimenti, parliamone.
6. Perché i collettori di frustrazioni sono lì che aspettano. E non tutti sono inoffensivi come Grillo & C.
7. Perché viene il dubbio che non ci meritiamo Venezia, sprechiamo Milano, svergogniamo Genova, umiliamo Siena, roviniamo Roma. E al Sud, ormai, abbiamo rinunciato.
8. Perché «Delitto e castigo», in Italia, è solo il titolo di un romanzo russo che hanno letto in pochi. C’è sempre un’amnesia, un’amnistia o una prescrizione per tirarsi fuori dai guai.
9. Perché le pene italiane sono drammatiche, lontane e incerte. Quando dovrebbero essere proporzionate, rapide e certe.
10. Perché abbiamo la memoria di un pesce rosso (quattro secondi). Dimentichiamo tutto subito. E qualcuno, questo, se lo ricorda bene.
Corruzione, la Grande Ipocrisia. L'analisi. Da Tangentopoli in poi, e per un infinito ventennio di malaffare, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto male, scrive Massimo Giannini su “La Repubblica”. Cos'altro deve succedere, per convincere la politica a muovere un passo concreto, tangibile e inequivocabile, contro la corruzione che torna a minare le basi della convivenza civile e della concorrenza economica? Quante altre retate devono accadere, per spingere il governo e il Parlamento a ripristinare con un atto definitivo, responsabile ed efficace, il principio di legalità di cui in questi anni di fango hanno fatto strame tutti, ministri e sottosegretari, amministratori centrali e cacicchi locali? Domande tutt'altro che oziose (o capziose), di fronte all'acqua lurida che tracima dal Mose, dove proprio la politica si è definitivamente messa "a libro paga", esigendo quello che i magistrati chiamano "lo stipendio di corruzione". Da Tangentopoli e Mani Pulite in poi, e per un infinito ventennio di malaffare pubblico e privato, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto assai male. Grandi proclami, piccoli compromessi. Leggi-feticcio, da dare in pasto al popolo bue. E poi appalti in deroga a volontà, per lucrare fondi neri. Non solo in epoca berlusconiana, che sappiamo straordinariamente nefasta sul piano etico. Anche in tempi più recenti, che speravamo finalmente proficui sul piano della ricostruzione morale e della legislazione penale. Così non è stato. Così non è ancora. E al presidente del Consiglio Renzi, che meritoriamente dichiara di voler "cambiare verso" all'Italia anche dal punto di vista della giustizia e che opportunamente si accinge a dare più poteri al commissario anti-corruzione Cantone, non è inutile ricordare quanto è accaduto e quanto sta ancora accadendo. Al di là degli annunci, che pure servono a scuotere la coscienza di un Paese disabituato al meglio e assuefatto al peggio, ma che da soli non bastano a consolidare nell'opinione pubblica la percezione di un vero cambiamento. Da troppo tempo - interrotti solo dai blitz dei pm sulle infinite cricche tricolori, dal terremoto dell'Aquila al G8 della Maddalena, dai mondiali di nuoto al sacco di Carige, dall'Expo milanese al Mose veneziano - abbiamo ascoltato alti lai e asciugato lacrime di coccodrillo. Ma nulla è cambiato, nei codici e nelle norme di contrasto. C'è come l'accidiosa consapevolezza che la corruzione, con i suoi 60 e passa miliardi di "fatturato" l'anno, rappresenti una parte essenziale e forse irrinunciabile del Pil nazionale. Così l'establishment, politico ed economico, celebra a ogni nuovo arresto la Grande Ipocrisia. Interviste sdegnate, riunioni d'emergenza. Poi più nulla. O leggi fatte male, a volte col legittimo sospetto che le si vogliano esattamente così, per convenienza bipartisan. Non parliamo, stavolta, dei misfatti compiuti da Berlusconi premier. Sono tristemente noti. Diamo dunque per acquisite le 12 leggi ad personam azzardate dall'ex Cavaliere sulla giustizia. La colossale occasione, miseramente mancata, è stata la legge Severino, approvata dal governo Monti nel novembre 2012. Insieme a qualcosa di buono (le nuove norme sulla decadenza e l'incandidabilità, che costano allo stesso Berlusconi condannato il seggio al Senato) la legge "spacchetta" inopinatamente il reato di concussione, riducendo i reati (e dunque i tempi di prescrizione) per l'ipotesi meno grave (ma infinitamente più frequente) dell'"induzione". L'anomalia viene segnalata dai magistrati, rilevata dal "Sole 24 Ore" e da "Repubblica", che ne chiede conto al ministro Guardasigilli consegnandole 250 mila firme raccolte a favore di una "seria legge contro la corruzione". Ma non c'è niente da fare. La legge passa così com'è, con la benedizione trasversalissima delle appena nate Larghe Intese: "tecnici" montiani, Pd e Pdl votano compatti, alla Camera: 480 favorevoli, solo 19 contrari, il Parlamento approva. Di lì nascono tutti i guai successivi. Berlusconi userà i benefici derivanti dal caos normativo innescato dalla legge Severino nel processo Ruby. La stessa cosa farà Filippo Panati nel processo Falck. Un caos che nel frattempo viene autorevolmente certificato. A febbraio di quest'anno tocca alla Ue, nel suo rapporto sulla corruzione, evidenziare la lunga "serie di problemi irrisolti" lasciati dalla legge Severino (prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio) e stigmatizzare "gli effetti della frammentazione del reato di concussione". Il 15 marzo tocca invece alla Corte di Cassazione denunciare per sentenza i danni causati da quella legge all'esercizio della giurisdizione, e chiedere a governo e Parlamento di porvi rimedio al più presto. La richiesta cade nel vuoto. Mentre cominciano a scoppiare i nuovi scandali, governo e Parlamento non solo non raccolgono l'invito. Ma si muovono lanciando al Paese segnali contraddittori, su tutti i fronti che riguardano lo Stato di diritto. Due esempi, ma clamorosi perché passati sotto silenzio. Il 28 gennaio 2014 il governo Letta approva il decreto legge numero 4, "disposizioni urgenti in materia di emersione e rientro dei capitali detenuti all'estero". È la cosiddetta "voluntary disclosure", in voga in altri Paesi dell'Unione. Ma da noi viene allentata oltre misura. Al Senato il testo originario viene modificato, le imposte dovute sui capitali rientrati vengono dimezzate e i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione, vengono depenalizzati. Di fatto, quasi un colpo di spugna, che alla fine non passa solo perché la Camera il 19 marzo decide di stralciare queste norme e di farle confluire in un ddl che sarà presentato in futuro. Per uno scampato pericolo, un disastro compiuto. Il 17 maggio è entrata in vigore la legge numero 67, che introduce la possibilità di chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a 4 anni di detenzione. In questi casi, su richiesta del soggetto incriminato, si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti per i quali si può ottenere il beneficio ci sono l'omessa dichiarazione dei redditi, la truffa, il falso in bilancio e persino il furto. Questo sì, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un "colpo di spugna", studiato proprio per i reati dei "colletti bianchi". Il Parlamento approva unanime la legge, il 2 aprile scorso, nell'indifferenza dei più. Mentre riesplodono le nuove e vecchie Tangentopoli, che vedono il potere politico alternativamente vittima e a volte carnefice di quello economico, il Parlamento invia dunque questi strani segnali di fumo al Paese. Delinquere non è poi così compromettente. Alla fine si può scendere a patti. Di fronte a tanto cinismo consociativo, la Grande Speranza si chiama Matteo Renzi. Solo lui può spazzare via la Grande Ipocrisia chiamata lotta alla corruzione. Ma le prime mosse del premier non sono confortanti. Nel discorso sulla fiducia alle Camere, il 22 febbraio, il nuovo presidente del Consiglio non dice una parola sul tema della legalità e delle strategie di contrasto al malaffare. Un silenzio che assorda, e che spinge Roberto Saviano a scrivere una lettera aperta al premier, su "Repubblica" del 28 febbraio. Renzi raccoglie la sollecitazione, e il giorno dopo annuncia dal salotto di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa", la nomina di Raffaele Cantone alla guida dell'Autorità anti-corruzione, nata un anno prima e mai formata. È un primo indizio, che sembra rassicurante. Ma le mosse successive, purtroppo, non sembrano trasformarlo nella prova che tutti aspettiamo. La vicenda del Documento di Economia e Finanza, non aiuta a capire qual è la vera strategia del governo. Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi, approva il Def l'8 aprile. Renzi ne illustra le linee guida, con le solite slide. Il giorno dopo, sul suo sito, il ministero dell'Economia pubblica il testo integrale. A pagina 27 del Piano Nazionale delle Riforme, compare un ricco capitolo dedicato alla giustizia: "Asset reale per lo sviluppo del Paese", è il titolo. Pier Carlo Padoan, dai tempi dell'Ocse, ha bastonato duramente l'Italia, proprio per i ritardi sulla corruzione. Per questo, nel Def, il ministro scrive parole chiarissime, non solo sulla giustizia civile e amministrativa, ma proprio sulla lotta alla corruzione: occorre "rivedere la disciplina del processo penale, con particolare riferimento all'istituto della prescrizione, ferma restando l'esigenza di assicurare la certezza e ragionevolezza dei tempi". Più avanti: "Introduzione dei reati di autoriciclaggio e autoimpiego, anche rafforzando il 41 bis". E infine: "È necessario affrontare in modo incisivo il rapporto tra gruppi di interesse e istituzioni e disciplinare i conflitti di interesse e rafforzare la normativa penale del falso in bilancio". Finalmente una dichiarazione programmatica impegnativa. Il segno che "cambiare si può". Ma sei giorni dopo, quando il Def arriva alle Camere per l'avvio dell'iter parlamentare, il testo è sorprendentemente cambiato. Il capitolo Giustizia rimane, alle pagine 29 e 30, e poi a pagina 63, nel capitolo II.10 intitolato "Una giustizia più efficiente". Si parla di tutto, dalla riforma della giustizia civile al sovraffollamento carcerario, dalle leggi già varate sul voto di scambio a quelle contenute nella Severino. Si propone la "mediazione obbligatoria" e la "depenalizzazione dei reati minori", la "difesa dei soggetti più deboli" e la "tutela dei minori". Ma per quanto li si cerchi, i paragrafi sulle modifiche al processo penale, dalla prescrizione all'autoriciclaggio, dall'autoimpiego al falso in bilancio, non ci sono più. Chi e perché le ha cancellate? Una spiegazione possibile, anche se parziale, la forniscono gli atti parlamentari. Il 16 aprile, durante il dibattito in Commissione Giustizia della Camera, i deputati Cinquestelle almeno per una volta fanno bene il loro mestiere. Alfonso Bonafede "ritiene che sia estremamente grave che nella formulazione presentata alle Camere del Def in data 9 aprile 2014 venga fatto espressamente riferimento all'esigenza di affrontare definitivamente entro giugno 2014 il problema dei tempi di prescrizione e che ieri, martedì 15 aprile, dopo che nella serata di lunedì 14 aprile il presidente del Consiglio si sia incontrato con Silvio Berlusconi, sia pervenuta alle Camere una "errata corrige" da parte della presidenza del Consiglio, nella quale è stato cancellato ogni riferimento alla questione della prescrizione". La risposta di Donatella Ferranti, presidente della Commissione, arriva di lì a poco: "Le correzioni apportate con l'errata corrige - replica l'esponente del Pd - erano state in realtà segnalate dagli uffici del Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio la scorsa settimana". Dunque, non sarebbe stato il premier a "depotenziare" il testo, e meno che mai l'avrebbe fatto dopo l'incontro di due ore, a Palazzo Chigi, con l'ex Cavaliere. Possiamo credere alla ricostruzione della Ferranti. Ma l'anomalia resta. E se a "sbianchettare" i paragrafi sul programmato giro di vite per la prescrizione, l'autoriciclaggio e il falso in bilancio è stato il ministro Orlando, e non Renzi, che differenza fa? Di nuovo: che segnale si vuol mandare al Paese? Siamo all'oggi. La gigantesca metastasi delle mazzette, che si propaga da Milano a Venezia nel corpo malato dell'"operosa Padania", obbliga il governo a fare qualcosa, subito. Orlando ha preso tempo sui vari provvedimenti già all'esame del Parlamento da più di un anno (dal testo della Commissione Fiorella sulla prescrizione alle diverse proposte sul falso in bilancio). Ha rinviato tutto a un più organico disegno di legge anti-corruzione, originariamente previsto entro l'estate e ora forse anticipato alla prossima settimana. Ma nel frattempo deve battere un colpo, almeno sulla promessa attribuzione dei pieni poteri a Cantone e magari anche sull'autoriciclaggio. Se ci riuscirà, al Consiglio dei ministri di domani, sarà tanto di guadagnato. Ma di fronte alla nuova Questione Morale, che torna a devastare drammaticamente il Paese e a sporcarne irrimediabilmente l'immagine, non basta più la narrazione riformista. Serve l'azione riformatrice. Chiara e severa, senza concessioni e senza ambiguità. Anche così si difende la memoria di Enrico Berlinguer dagli iconoclasti pentastellati.
Democratici divisi anche sulle mazzette. Fassino: "Orsoni uomo onesto". Ma i renziani non vogliono scandali. Moretti: "Nuova classe dirigente per mettere fine alla corruzione", scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. È sempre così. Quando succedono queste cose è tutto un fuggi fuggi. Quello non c'entra, quell'altro è innocente, ci auguriamo che la magistratura faccia chiarezza al più presto, bla bla bla. A una settimana dai sorrisoni a trentadue denti mostrati al Nazareno, dopo la schiacciante vittoria di Renzi alle Europee, da ieri mattina il Pd si è improvvisamente ammutolito. Anzi no, di chiacchiere se ne sono sentite sin troppe, ma del fiume di parole sgorgate dalle bocche dei dirigentoni e esponentoni del partito, qualcuna non solo era dissonante, ma in certi casi contrastante. Nordisti contro sudisti. Veneti contro il resto del mondo. Soprattutto la nuova contro la vecchia guardia. Ex comunisti contro neo demo-renziani. C'è da capirli ahiloro. Il loro cristallino sindaco di Venezia, di specchiata moralità e ineccepibile levatura, è finito in manette. E si levò nell'aria un unico attestato di stima: «Chiunque conosca Orsoni non può dubitare della sua correttezza e della sua onestà». Parola di Piero Fassino, sindaco di Torino. Virginio Merola gli fa eco da Bologna. Ma loro appartengono al vecchio, due che Renzi, se fosse il rottamatore, avrebbe già rottamato (per motivi anagrafici). Uno ad uno hanno fatto capolino i nuovi, o quelli rivestiti di nuovo, come la ex bersaniana, poi ultrà renziana, Alessandra Moretti, che da ex vicesindaco di Vicenza scarica tutte le colpe sui vecchi compagni con una frase che i politici di razza definirebbero «concreta»: «È arrivato il tempo che una nuova generazione di politici si prenda la responsabilità di scommettere sul futuro». Parole sacrosante. L'altra conterranea, Laura Puppato, ex sindaco di Montebelluna in provincia di Treviso, salita a forza sullo stipato carro renziano, dà la colpa di tutto questo marciume a quei vecchi bacucchi del suo partito, in via di rottamazione: «Dall'inchiesta sul Mose viene fuori la parte peggiore della politica del passato», mentre «noi con Renzi stiamo voltando pagina da tutto questo». E pure il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Sandro Gozi, si smarca dalla puzza che fuoriesce dalla laguna, tirando fuori un evergreen: «Siamo il governo del cambiamento». Quel discolo di Pippo Civati non ci casca e pretende «una maggiore selezione della classe dirigente». Il filosofo ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari aveva la soluzione in tasca ma, guarda caso, nessuno l'ha ascoltato: «Da sindaco, durante i governi Prodi e Berlusconi ebbi modo di ripetere che le procedure assunte non permettevano alcun controllo da parte degli enti locali e che il Mose si poteva fare a condizioni più vantaggiose. L'ho ripetuto milioni di volte». L'eurodeputato rieletto David Sassoli s'improvvisa spazzino e si augura che si faccia «pulizia rapidamente» con un pizzico di retorica: «Voglio una Repubblica fondata sul lavoro non sulle mazzette». Sarà il prossimo ad essere rottamato.
Per l'avvocato mito della sinistra figuraccia nel "Biennale day". Dopo aver sconfitto Brunetta nel 2010 fu osannato come un Monti "ante litteram", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Nel sito internet del Partito democratico la biografia di Giorgio Orsoni appare sotto un titolo che è tutto un programma: «Buone mani». Orsoni il cattolico, il moderato, il pacato, il senza tessere, l'avvocato delle cause vinte. La barba bianca garantiva la saggezza, gli occhialini la preparazione, la fronte alta l'esperienza. Un doge sobrio e democratico, del giro prodiano. E chi si aspettava le manette per un sindaco del genere? Nel 2010 prese il posto di Massimo Cacciari e la sinistra lo elesse a simbolo della riscossa. Erano gli ultimi anni di Silvio Berlusconi premier, impazzava il gossip sul bunga-bunga, eppure in Veneto il centrodestra era ancora capace di piazzare il leghista Luca Zaia come governatore della regione al posto di Giancarlo Galan con il 60 per cento dei voti: Carroccio al 35, Pdl al 25. Nel comune di Venezia, invece, il ministro Renato Brunetta fu surclassato senza ballottaggio da questo avvocato esperto di diritto amministrativo che da tempo si agitava nelle seconde file della politica, quelle degli assessorati, delle consulenze, dei consigli di amministrazione, dei posti nelle fondazioni. Orsoni non ebbe neppure il tempo di indossare la fascia tricolore che fu fatto santo subito. Una specie di Mario Monti «ante litteram», un tecnico capace di mettere insieme dall'Udc a Rifondazione, diavolo e acqua santa. Ecco il peana intonato da Repubblica: «Portato al dialogo e alla riflessione pacata. Uno che non alza mai la voce. E proprio la sua tranquillità, la sua campagna elettorale che è sembrata persino sottotono tanto è stata sobria, ha prevalso, nella scelta degli elettori, rispetto alla campagna arrembante del ministro fantuttone». Gli mancava soltanto il loden, che a Venezia non si porta e oltretutto è inadatto al girovita di Orsoni. Le accuse di finanziamenti illeciti che lo costringono agli arresti domiciliari riguardano proprio quella campagna elettorale contro Brunetta. Oggi Massimo Cacciari non si spende troppo in parole di solidarietà, ma quattro anni fa fu lui a indicarlo come successore. Docente di diritto a Ca' Foscari, erede dello studio legale di un principe del foro come Feliciano Benvenuti, era stato assessore al patrimonio nella giunta del sindaco Paolo Costa, allora suo grande sponsor. Uomo di Romano Prodi nel Nordest, da ministro dei Lavori pubblici nel primo esecutivo del Professore (subentrato ad Antonio Di Pietro) Costa aveva voluto Orsoni come consulente giuridico e capo dell'ufficio legislativo al dicastero. Le poltrone non sono mai mancate a Orsoni. È stato presidente della Save Engeneering, società satellite dell'aeroporto Marco Polo; presidente degli avvocati veneziani e veneti e membro del Consiglio nazionale forense; consigliere di amministrazione della Biennale; primo procuratore di San Marco; vicepresidente della Fondazione Cini; insignito della Legion d'onore. Le sue «buone mani» sono sempre state mani in pasta. Quando mesi fa scattarono le prime manette per gli appalti del Mose, Orsoni non fece una piega, sicuro del fatto suo: «Non sono io a dovermi preoccupare, ma altri: quelli che vogliono mantenere nascoste le cose. Perché in questa vicenda c'è qualcuno che vuole seminare del fumo». Nella torrenziale relazione della Guardia di finanza (740 pagine) il suo era l'unico nome di un politico non coperto da omissis. Orsoni si sentiva le spalle coperte nonostante avesse preso le distanze dai vecchi sponsor: contrario al passaggio delle grandi navi da crociera nel bacino di San Marco, mentre Costa (ora presidente del Porto) è favorevole; ostile ai progetti di sviluppo dell'aeroporto, al punto da aprire una battaglia legale contro la Save che un tempo l'aveva accolto tra gli amministratori. In questi ultimi mesi era impegnato a trasformare Venezia in città metropolitana assieme ai sindaci di Padova e Treviso, entrambi di sinistra. Domenica Padova va al ballottaggio e Massimo Bitonci, candidato di Lega e Forza Italia, ha riempito Facebook di foto in cui il suo avversario, Ivo Rossi, bacia e abbraccia Orsoni. Il quale oggi avrebbe dovuto inaugurare la Biennale architettura con l'archistar Rem Koolhaas. Una serenissima figuraccia.
Tutti sapevano, nessuno parlava. La Tangentopoli veneta è peggiore di vent’anni fa. Perché coinvolge, oltre ai politici, magistrati, servizi segreti, finanzieri. Impegnati ad alzare una diga contro le indagini. E si scopre che il marchio Mose non è registrato. E non si sa di chi sia...scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso”. Uffa, che noia, ancora mazzette e corrotti, finanzieri silenti e grand commis conniventi. Verrebbe voglia di parlare d’altro. Anche perché nella notte buia delle ruberie pubbliche finisce che tutti i gatti appaiano bigi, e più si alza il tiro più cresca l’assuefazione. E però, come si fa? Se vent’anni di denunce non hanno impedito il dilagare di altre Tangentopoli, da Mani pulite all’Expo al Mose, che cosa succederebbe se anche i cronisti diventassero spettatori distratti del marciume? Se non trovassimo sorprendente, se pur utile e salvifico, che a svelare il meccanismo della mazzetta veneta perenne e consociativa sia stato un imprenditore (l’intervista a Piergiorgio Baita è a pag. 38) che prima di raccontare tutto ai pm è finito per tre volte in vent’anni in storie simili di commesse e di denaro nero, e sempre per conto della stessa azienda? Che a nessuno sia venuta in mente l’esistenza di un “sistema”? Stavolta, poi, lo spettacolo è perfino più drammatico di quello andato in scena sul palcoscenico di Mani pulite. E per più di una ragione. La prima è che non ci sono più i partiti tradizionali, quelli forti e strutturati. Sì, l’affermazione potrà sembrare spericolata, specie a chi si nutre di polemiche anti casta. Ma i grandi partiti filtravano, setacciavano, frenavano appetiti, e ciascun leaderino si sentiva in dovere di arginare lo strapotere altrui, se non altro per evitare di uscirne schiacciato. C’era una stagione, gli anni ruggenti del Psi e della Milano da bere, in cui Rino Formica avvertiva: «Il convento è povero, ma i frati sono ricchi». Oggi invece al posto dei partiti impazzano i cacicchi, i potentati locali, le lobby d’interesse che controllano affari e territori in uno scialo di motoscafi e alberghi a cinque stelle, politici e funzionari a libro paga, villoni con parco e cappella privata (magari venisse voglia di confessare i propri peccati…). E non è la sola differenza in peggio rispetto alla Tangentopoli di vent’anni fa. La versione di Venezia mostra l’esistenza di un robusto meccanismo diverso dal passato che non tocca solo politici e qualche mela marcia della pubblica amministrazione, ma ministri, sottosegretari, magistrati, finanzieri, consiglieri di Stato, servizi segreti, authority miopi e collaudatori pagati a percentuale. Si ha l’impressione che una così vasta rete di amici e amici degli amici avesse non tanto lo scopo di accelerare finanziamenti e lavori, quanto di innalzare una diga di protezione utile a segnalare guai in vista, deviare inchieste su binari morti, chiudere occhi troppo curiosi, lasciare al Consorzio Venezia Nuova una autonomia tale da sconfinare in onnipotente autoreferenzialità. Da vent’anni garantita da uno stuolo di sodàli grati. Inquieta, inoltre, che il traffico intorno al Mose e non solo fosse noto da tempo. Un’inchiesta di Gigi Riva per “l’Espresso” – “Galassia Galan” – che raccontava per filo e per segno il sistema di potere del governatore di allora, si interrogava su quel villone restaurato a colpi di milioni (“Sono ricco di famiglia”, spiegava il Doge con involontaria ironia) e segnalava le ditte – le stesse di oggi, ma guarda un po’ – che si aggiudicavano tutti gli appalti pubblici, porta la data del dicembre 2006. Quasi otto anni fa. Da allora a oggi il Parlamento ha depenalizzato il falso in bilancio, varato una decina di leggi su misura per B., accorciato i tempi di prescrizione per molti reati (concussione compresa, con gli applausi di Berlusconi e Penati) spuntando le unghie ai magistrati e favorendo una sorta di periodica amnistia. Oltre a lanciare un segnale evidente alla vasta truppa del malaffare. È tale l’autoreferenzialità del sistema Mose – costato finora 5,6 miliardi di euro – che nessuno in quarant’anni si è preso la briga di registrarne il marchio. Anche perché nessuno sarebbe in grado di indicarne così su due piedi la proprietà: lo Stato? La concessionaria? Il progettista? Le imprese? Del brand potrebbe appropriarsi chiunque, e l’impianto non potrebbe venderlo nessuno (i clienti ci sarebbero). Ecco, basterebbe questo paradosso a riassumere ciò che è successo finora. E a pretendere che la giustizia e la politica, quella vera, rimettano le mani sul Consorzio e lo restituiscano alla legalità. Una legge ad populum.
Piergiorgio Baita: "Così funzionava il sistema Mose". "Confesso che ho corrotto. Ma come me agivano altri soci del Consorzio. A partire da Mazzi. Che aveva un filo diretto con Gianni Letta". Parla il testimone d'accusa che ha travolto l'establishment lagunare, scrive Gianfrancesco Turano “L’Espresso”. Piergiorgio Baita Tutti contro tutti. Dopo venticinque anni di banchetto, le dighe mobili di Venezia non hanno tenuto alla pressione dell’acqua alta giudiziaria e adesso si salvi chi può, a costo di buttare a mare il vicino di remo. L’ingegner Piergiorgio Baita, da veneziano abituato al mareggio, ha giocato d’anticipo. L’ex presidente della Mantovani di Padova, capofila del Consorzio Venezia Nuova insieme alla Fincosit Grandi Lavori della famiglia veronese Mazzi, ha come riparo 97 giorni di carcere a Belluno e una condanna appena patteggiata: ventidue mesi per i fondi neri gestiti dalla Bmc di San Marino. Essendosi sacrificato per tempo, Baita è rimasto fuori dalla retata che la scorsa settimana ha coinvolto l’ex governatore e ministro Giancarlo Galan, il sindaco Giorgio Orsoni, l’eurodeputata uscente Lia Sartori, il costruttore Alessandro Mazzi, l’assessore regionale Renato Chisso, il generale di corpo d’armata a riposo Emilio Spaziante, il finanziere Roberto Meneguzzo e una trentina di altri indagati. Adesso Baita è il primo testimone d’accusa nell’inchiesta che ha travolto l’establishment lagunare, che punta sulle coperture del Palazzo romano e arriva fino agli appalti di Expo 2015, come le inchieste de “l’Espresso” avevano anticipato nel pieno disinteresse dei politici. Gli stessi che ora invocano tempeste di fuoco sui corrotti. Il colloquio con Baita, nell’ammezzato di un albergo di Mestre, è ricco di spunti, di interpretazioni soggettive, di qualche omissione significativa e di un’ossessione personale: scaricare le colpe maggiori su Giovanni Mazzacurati, storico presidente del Consorzio arrestato a luglio del 2013, quattro mesi dopo Baita. Un rapporto finito male dopo quarant’anni di lavoro in comune. Oggi Mazzacurati ha 82 anni, è stanco, provato dalla morte del figlio Carlo, il regista. Baita porta i suoi 65 anni alla grande. Ha ancora un futuro da giocarsi e un’esperienza da far valere sul mercato tanto che, pochi mesi fa, si è aperto una boutique di consulenza in società con moglie e figlio: Studio Impresa, si chiama, e ha sede nel sestiere veneziano di Dorsoduro. E poi c’è il suo 5 per cento di azioni della Mantovani, comprato nel 2005 a prezzo molto vantaggioso per suggellare il patto con Romeo Chiarotto, padrone del gruppo di costruzioni. L’accordo prevedeva un lock-up (divieto a vendere) di dieci anni. Alla fine del 2015, dunque, si vedrà se la buonuscita di Baita vale 5 milioni, 10 oppure 20. «Chi può dire», sorride l’ingegnere che i finanzieri chiamavano in codice “Chalet”. «Magari tra un anno il valore dell’impresa sarà zero». La preoccupazione, umanamente comprensibile, appare tecnicamente infondata. A parte le dighe veneziane, Mantovani ha ancora un portafoglio lavori colossale, un patrimonio netto in grande salute, riserve di utili invidiabili e profitti futuri garantiti. Baita difende la sua quota di prosperità. Ha lavorato duro e con tutti i mezzi per costruirla, come Jean Gabin nel film “Grisbi”. Ma il personaggio di Gabin rinunciava al bottino per aiutare il socio di sempre. Qui a Venezia il sentimentalismo sta a zero. Il meccanismo del Mose è ormai noto. I soldi arrivavano puntuali dallo Stato al concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova (Cvn), composto da soci privati e incaricato dei lavori. Il Consorzio, con rischio di impresa e controlli pari a zero, spendeva e spandeva (da 1,6 miliardi previsti a 5,6 miliardi di euro effettivi). Le imprese azioniste (Mantovani, Mazzi, Condotte, cooperative) si gonfiavano come anatre da foie gras grazie a margini sui lavori che raggiungevano il 50 per cento, cinque volte la norma. Mantovani cresceva più di tutte: 25 miliardi di lire di ricavi a fine anni Novanta, oltre 400 milioni di euro adesso, in massima parte incassati dal Consorzio. A parte le opere, Baita ha calcolato che il Cvn, fra fondi neri e fatture più o meno indispensabili (sponsorizzazioni, collaudi, consulenze, progetti, pubblicità, catering, alberghi e gite in mototaxi) abbia distribuito 100 milioni di euro ogni anno dal 2003. «Ora, se la Mantovani», dice Baita, «aveva un terzo del Cvn, perché si parla solo della Mantovani come corruttrice? Io avevo la sponda a San Marino. E gli altri? Per esempio la Technital del gruppo Mazzi, che ha preso anche la progettazione della Pedemontana lombarda, ha incassato dal Consorzio tra 150 e 200 milioni di euro solo per le opere alle bocche di porto. Mazzi era il tramite fra Mazzacurati e Gianni Letta, era quello che li faceva incontrare a cena a Roma, nella casa dove hanno trovato tre quadri del Canaletto e uno del Tintoretto. E non solo le parcelle Technital non si sono mai potute discutere ma nel 2004, quando siamo entrati nel Cvn comprando dall’Impregilo dei Romiti, Mazzacurati ci ha ordinato di girare una parte delle azioni a Mazzi, in modo da essere su un piano di parità. Se no, non ci faceva entrare». Baita conosce la leggenda nera riguardante Italholding, la capogruppo dei Mazzi intestata a due fiduciarie (Spafid e Prudentia): la quota di minoranza sarebbe stata girata di volta in volta al politico di riferimento dell’opera. «Di sicuro a ogni spreco», dice, «corrispondeva una fetta di consenso in un settore: politici, amministratori, quei tecnici che ti compri con quattro promesse di carriera. La settimana scorsa hanno messo agli arresti un ingegnere, Luigi Fasiol, per un incarico di collaudo su mia segnalazione. Con questo metro dovrebbero arrestare parecchi alti dirigenti ministeriali, manager pubblici e giudici contabili. Invece non ho visto nulla sui 26 milioni di euro in collaudi dati ai vertici dell’Anas, a Pietro Ciucci, a Vincenzo Pozzi, a Pietro Buoncristiano o a ex magistrati come Vincenzo Fortunato. Tutta gente che andava a chiedere l’incarico direttamente al Cvn, anziché al magistrato delle acque, rappresentante del governo». Sul ruolo del Consorzio, Baita dà un’analisi lineare, ingegneristica, rafforzata dalla sua prima disavventura giudiziaria, l’arresto nel 1992. «Dopo Tangentopoli, il Cvn ha avuto il merito di sollevare i politici dal rapporto diretto con gli imprenditori. Questo sistema ha fatto scuola con la nascita di varie società di scopo (Ispa, le società regioni-Anas, la stessa Sogin). Sono pubbliche, non devono dare utili ma hanno un’impronta di gestione privatistica, assumono chi vogliono. Il successore di Mazzacurati, il suo ex ufficio stampa Mauro Fabris, ha detto che taglierà i 270 dipendenti. Li sta solo spostando sulla controllata Thetis, comprata da Mazzacurati per parcheggiare gente, fra cui l’ex segretaria di Galan Claudia Minutillo, e per studiare la proliferazione dell’alga nel Mar Caspio spendendo un milione all’anno». L’idea fondante del sistema Cvn, alla fine, è che tutto si poteva fare e che il sistema poteva durare per sempre, oltre il completamento delle dighe mobili, previsto fra due anni. Finiti i costi dell’opera, sarebbero iniziati i costi di gestione, manutenzione e struttura. Secondo i calcoli di Baita, possono bastare 20 milioni all’anno o possono non bastarne 60, se ci sarà il sovraccarico di manager e funzionari con relativi stipendi d’oro. Altri, meno ottimisti, hanno parlato di 150 milioni di euro all’anno. L’importante è che si evitino le gare, come sono state evitate per tutti i 25 anni del Mose, salvo bandi per poche decine di milioni in tutto. Una repubblica degli affari autonoma, insomma, con il beneplacito degli organi dello Stato. «C’è stata una gara a trasferire competenze dai vari ministeri al Consorzio, che aveva le mani più libere. Poi bastava che il politico si presentasse da Mazzacurati, che dicesse: queste sono le mie aziende. E il gioco era fatto. La cupola dell’Expo, dove si è rivisto il rapporto diretto fra politici e imprenditori, io la chiamo cupoletta. Ha truccato un paio di gare. Il guaio vero dell’Expo è il tavolo chiuso delle imprese intorno a Ispa, cioè alla Regione, e a Expo 2015, cioè il Comune di Milano. La disavventura della Mantovani sulla piastra lo spiega bene». Se c’è qualcosa per cui Baita merita la fama, è l’organizzazione di un tavolo di appalti chiuso a Venezia e nel Veneto: Mantovani, Fincosit, Condotte, alcune cooperative, con l’appoggio di gruppi finanziari come la Palladio di Meneguzzo, Est Capital di Gianfranco Mossetto e la Save di Enrico Marchi. Pochissimo spazio per gli altri. Baita, però, nega l’addebito. Dice che la Mantovani, al di fuori del Mose, ha applicato le regole del mercato. Nella vicenda di Expo 2015, Baita si presenta come vittima e denuncia, proprio lui, un club esclusivo degli appalti in Lombardia. La Mantovani lo avrebbe messo in crisi vincendo la singola gara di maggiore valore dell’Expo, quella sulla piastra, a luglio del 2012. «Abbiamo partecipato per caso, in sostituzione di una società francese in crisi e su richiesta del Coveco (la coop che avrebbe finanziato Orsoni e Sartori, ndr), nostra socia nel Cvn». Mantovani vince la gara con un ribasso enorme (41,8 per cento), forse anomalo, di certo basato sulla speranza - che negli appalti in Italia è una certezza - di risalire sul prezzo in seguito. Fatto sta che le imprese del “tavolo lombardo” e l’Ispa la prendono male: pressioni, minacce, inviti a mollare la presa. «Prima che arrivassimo noi della Mantovani, nell’associazione che puntava alla piastra c’era già con una piccolissima quota la Ventura, che lavorava da anni a Milano per la manutenzione dei parchi del Comune. Un anno prima della gara abbiamo mandato la documentazione in prefettura. Ci hanno risposto a contratto firmato per dirci che l’informativa antimafia era sfavorevole. Abbiamo espulso subito la Ventura ma siamo finiti sui giornali. Cmc, nei cantieri vicini al nostro, ha avuto sei associate con problemi di antimafia e nei lavori ci sono state una ventina di imprese interdette. In quanto ai miei 271 contatti telefonici con Angelo Paris, allora numero due dell’Expo, si spiegano perché seguivo la coop Giotto e perché lui cercava un posto dopo l’esposizione». Una vena polemica con i prefetti affiora anche dal colloquio con Romeo Chiarotto (vedi box nella pagina accanto). Eppure la vicenda Mantovani-Expo è stata gestita quando la prefettura di Milano era guidata da Gian Valerio Lombardi, molto vicino alla famiglia Ligresti e molto sollecito nel fornire il passaporto nuovo all’olgettina Marysthell Polanco. Lombardi, che è stato fra i papabili del centrodestra per le elezioni a Padova, ha avuto un ruolo importante dopo l’arresto di Baita a febbraio 2013. «Ha chiamato Chiarotto e gli ha spiegato che l’azienda rischiava l’amministrazione controllata. Il mio successore, l’ex questore Carmine Damiano, che si occupa specificamente dell’Expo, è stato suggerito da Lombardi». Il resto del colloquio è autodifesa d’ufficio. Baita dice che a Galan ha solo pagato l’architetto e che lui gli ha fatto solo perdere lavori; che Lia Sartori era troppo amica di Pierangelo Daccò, il ras della sanità lombarda, per favorire lui; che Chisso pensava solo a ricollocarsi con i leghisti Flavio Tosi e Luca Zaia; che il primo incarico alla cartiera sanmarinese Bmc lo ha dato il Cvn, non lui. Parla di due sindaci che l’hanno contrastato, Orsoni sull’Arsenale e Massimo Cacciari ogni volta che ha potuto. Per metterli in cattiva luce dice che i due erano in buoni rapporti con Mazzacurati e si dimentica di citare Paolo Costa, un altro ex sindaco di centrosinistra con il quale Baita è andato piuttosto d’accordo. Tutto parte del gioco, del bellum omnium contra omnes in versione lagunare. E, per concludere, filosofia d’impresa. «Bisogna finanziare il servizio, non l’opera. Lo Stato deve pagare per ogni anno che Venezia evita l’acqua alta, non per i cassoni o le cerniere. Scommetto che così il Mose non sarebbe costato il triplo». Se lo dice lui.
Enrico, Gianni e il Mose. I Letta tirati in ballo nell'inchiesta veneziana. Zio e nipote sono entrambi da sempre favorevoli all’opera. Ora i due nomi spuntano nei faldoni. I due smentiscono, Gianni querela e Enrico nega le ultime affermazioni di Pravatà: «Sono falsità». Ma il rapporto dell’ex premier con il Consorzio risale ai tempi del think tank VeDro’, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. «Leggo falsità sul mio conto legate al Mose. Smentisco con sdegno e nel modo più categorico. Non lascerò che mi si infanghi così». È categorico l'ex premier Enrico Letta, via twitter, rispetto alle accuse che gli muove Roberto Pravatà. Il vicedirettore generale del Consorzio Venezia Nuova che sostiene che il Consorzio stesso abbia appoggiato la candidatura di Letta nel 2007 con 150 mila euro. «Cado totalmente dalle nuvole» è la replica dell’ex premier, «tutti i finanziamenti che ho ricevuto nelle mie campagne elettorali sono sempre stati regolarmente denunciati e registrati, e dunque sono pubblici». Pravatà nel corso dell’interrogatorio avrebbe però sostenuto che il presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati lo avrebbe convocato «per dirmi che il Consorzio avrebbe dovuto concorrere al sostentamento delle spese elettorali dell'onorevole Enrico Letta, che si presentava come candidato per un turno elettorale attorno al 2007, con un contributo dell'ordine di 150mila euro». Come? «Il presidente mi disse che Letta aveva come intermediario per il Veneto, anche per tale finanziamento illecito, il dottor Arcangelo Boldrin, con studio a Mestre. In effetti venne predisposto un incarico fittizio per un'attività riguardante l'arsenale di Venezia». Letta nega. Così come ha negato lo zio Gianni, il cui nome è uscito dai faldoni giusto due giorni prima di quello del nipote. «Il mio coivolgimento è una favola» ha detto l’ex sottosegretario di Silvio Berlusconi. E ha annunciato querele, affidandosi alla tutela dell’avvocato dell'ex Cabaliere Franco Coppi. «Non esistono né richieste di denaro, né versamenti. Non sono mai esistiti, mai pensati e neppure immaginati» dice Letta zio, convinto che se i giornalisti avessero letto l'ordinanza del Gip, «avrebbero dovuto rinunciare al gioco perverso della insinuazione maliziosa». Rivendica «un normale e doveroso contatto istituzionale», Letta, rispetto a quello che per Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, sarebbe stata una richiesta di favori, subappalti a «certe imprese» e a un «aiutino» all’ex ministro alle Infrastrutture Pietro Lunardi. Smentiscono i Letta. E nessuno dei due risulta indagato. Però bisogna registrare che non è la prima volta che vengono coinvolti nella storia del Mose. E non solo, come ovvio, per gli incarichi ricoperti, che - come dice Letta zio - hanno prodotto «doverosi contatti». Già un anno fa furono tirati in ballo, insieme, in accoppiata, per il Mose. Gianni per un bigliettino di ringraziamento ritrovato nella sede della Palladio Finanziaria, una delle aziende del Consorzio. Letta senior di suo pugno ringraziava, «per il regalo ricevuto», il finanziere Roberto Meneguzzo, capo della holding di Vicenza. Meneguzzo è lo stesso che ora è nella lista dei 35 arresti con cui è esplosa la vicenda Mose, e secondo Mazzacurati era per il Consorzio il ponte con il governo Berlusconi e il ministero guidato da Giulio Tremonti. Per Enrico, invece, fu scomoda la sponsorizzazione, pur trasparente, del Consorzio Venezia Nuova a Vedrò, il think tank dell’ex premier, per le edizioni delle stagioni 2011 e 2012. Il logo del Consorzio è sulle locandine dell’evento estivo organizzato sulle riva nord del lago di Garda, in compagnia di altri sponsor eccellenti, da Autostrade e Ferrovie, a Lotto e Moby. “Inchiesta sul Mose: perquisito anche Capecchi, tesoriere di Vedrò”, titolano i giornali a metà del luglio scorso. La Guardia di Finanza, su decreto di perquisizione del pm Paola Tonini, si reca nell’abitazione di Capecchi, a Perugia, e nella sede romana dell’associazione, per mettere insieme i faldoni di tutte le società che hanno avuto rapporti con il Consorzio. Sono oltre cento e tra loro c’è Vedrò. Può succedere. Come può succedere che tanto Gianni quando Enrico si siano sempre spesi per la grande opera in Laguna. Il quotidiano «la Nuova Venezia», il 17 luglio 2013, osservava: «Letta, ricordano i comitati anti-Mose, fu nel 2006 il coordinatore della commissione insediata da Prodi – di cui era sottosegretario – che aveva bocciato tutte le alternative al Mose».
Ecco chi paga Enrichino. Enel, soprattutto. Ma anche Eni, Telecom, Vodafone, Sky, Lottomatica, Sisal, Autostrade per l'Italia, Nestlé, Farmindustria e il gruppo Cremonini. Sono i generosi sponsor della fondazione VeDrò, da cui nasce la rete di potere del premier incaricato. Chissà se avranno qualcosa in cambio, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. Chi finanzia VeDrò, il think-tank bipartisan che ha fatto di Enrico Letta l’uomo giusto per un governo di larghe intese? Sponsor privati, ovviamente. Dall’Enel al gruppo dell’industria alimentare Cremonini, fino all’Eni e ad Autostrade per l’Italia. Il motivo? Ritorno di visibilità, loghi su brochure e siti internet. E la politica? La politica non c’entra, dicono: «Noi non negoziamo la nostra posizione intellettuale», dice subito il tesoriere Riccarco Capecchi. Vedrò, anzi vedremo: «Dobbiamo lavorare molto sul tema delle privatizzazioni», è la posizione nota di Enrico Letta: «Il patrimonio pubblico è ancora enorme: bisogna cominciare a mettere nel mirino nuove privatizzazioni pezzi di Eni, Enel e Finmeccanica». E poi: «Sarà uno dei temi del nostro governo, quando gli elettori ci faranno governare», conclude il prossimo Presidente del Consiglio. Sul tema dei finanziamenti privati ai think-tank, Mattia Diletti, docente e ricercatore di scienza politica all’Università La Sapienza di Roma, ha fatto un lavoro molto articolato: «Questo tipo di fondazioni politiche hanno bilanci molto simili e possono contare su budget medi di 800 mila euro». E Vedrò? «E’ poco sopra la media», dice Diletti. «Quello che colpisce però del sistema di finanziamento riguarda soprattutto i finanziatori piuttosto che i finanziati», spiega: «Sono prevalentemente ex monopoli pubblici, che hanno un rapporto ancora stretto con la politica e che finanziano un po’ tutti, con cifre ridotte, a pioggia, sia la destra che la sinistra. Funziona un po' «all’americana», dice Diletti. E come si riempie, in America, un bilancio da 800 mila euro? Lo si capisce prendendo in mano una qualunque brochure delle attività di Vedrò. Enel, Eni, Edison, Telecom Italia, Vodafone, Sky, Lottomatica, Sisal, Autostrade per l’Italia, Nestlé, Farmindustria, il gruppo Cremonini (la carne Montana): sono tante le aziende che concorrono al fabbisogno del pensatoio. Quello che non sappiamo è quanto sia il contributo specifico di questi sponsor, quali sono economici e quali invece in servizi. Quello che sappiamo è che gli sponsor hanno spesso un ruolo attivo, all’interno del dibattito, contribuendo al contenitore ma anche al contenuto. Enel, ad esempio, promuove così l’appuntamento estivo di Vedrò, sul proprio sito: «Un think-net aperto e dedicato anche alla mobilità elettrica e alle smart cities», dove «Enel, sponsor della manifestazione, è protagonista del working group Vedrò Energie». Vedrò vive tutto l’anno, organizza convegni, aperitivi e presentazioni. L’evento centrale è però la tre giorni che si svolge a fine agosto a Dro’, paese trentino di 4.500 abitanti, una quindicina di chilometri a nord del del lago di Garda, in un’ex centrale idroelettrica. Nonostante la chilometrica lista di sponsor, l'evento non è gratuito. Anzi. Gli hotel della zona costano cari, e tutti gli ospiti - o quasi - pagano di tasca propria. In più, ovviamente, c’è una quota di iscrizione: 150 euro per gli under trenta, 300 euro o più per tutti gli altri. Avarizia degli organizzatori? Piuttosto, ricerca dell’esclusività. Già così - per la prossima edizione - sono previste oltre mille persone: ben più di quelle arrivate l’anno scorso, che erano 800. «Le loro quote», ci spiega il tesoriere Riccardo Capecchi, «servono a coprire i costi vivi della manifestazione, l’allestimento della centrale, le navette con gli alberghi, il catering per i tre giorni». Ma non bastano. A Vedrò lavora una decina di persone («ma io come altri sono volontario», dice sempre Capecchi) e sono le sponsorizzazioni a tenere in piedi il tutto. Con quanto? Quanto basta per coprire tutti i costi, ma di più non si può sapere: «Noi - dice Capecchi - per ovvie ragioni di privacy non diffondiamo l’entità delle contribuzioni». Ma bisogna stare tranquilli, assicura, perché ««gli accordi che prevalentemente sono sulla visibilità, rispettano i parametri standard». «Quello che posso dire», continua Capecchi, «è che la contribuzione media è di circa 30 mila euro. Anche se poi, ovviamente c’è chi dà meno e chi dà molto di più». C’è poi chi è proprio affezionato: il premio di più fedele supporter va proprio all’Enel che a Vedrò ci va dalla prima edizione. «Con loro, così come con tutti gli altri», spiega il tesoriere, «c’è la condivisione di un progetto». Basta la condivisione a coprire tutti i costi? Pare di sì. «Anzi», si vanta Capecchi, «siccome io sono un gestore oculato, riusciamo anche ad avere un lieve avanzo di bilancio». Bilancio che però non aiuta a scoprire le cifre precise, perché le voci sono accorpate: «La nostra volontà di trasparenza è però certificata dal fatto che abbiamo fatto una società, al 100 per cento partecipata da Vedrò, che ha l’obbligo di presentare un bilancio pubblico, invece di fare tutto come associazione». Resta da capire se le sponsorizzazioni diano o meno i loro frutti. Politicamente parlando., s'intende.
Mazzetta rossa la trionferà: il Pd incassa un milione. Dal verbale di Orsoni emerge il sistema delle tangenti democratiche: finanziamenti illeciti dal Consorzio Venezia Nuova per la campagna elettorale nelle casse del partito in Veneto, scrive Stefano Zurlo “Il Giornale”. «Faceva tutto il partito». Altro che pecora nera. Giorgio Orsoni non ci sta a recitare la parte del capro espiatorio e racconta ai magistrati un'altra verità, molto più semplice: il Pd prendeva soldi dal Consorzio Venezia Nuova, esattamente come gli altri partiti. «Io non ho preso soldi, li ha presi il partito, era il partito a gestire i finanziamenti, io non so nulla sulla genesi di quei contributi». E ancora: «Giovanni Mazzacurati me lo ripeteva di continuo: "Ma cosa stai a preoccuparti, ho sempre fatto così, ho aiutato tutti i tuoi predecessori"». Orsoni si sente usato dai compagni che poi lo hanno scaricato al primo stormir di fronda. Lui in cella e loro a pontificare sul sindaco che aggirava la legge. È troppo. E nel verbale firmato lunedì il primo cittadino lascia trasparire la rabbia per questo abbandono e per l'ipocrisia sparsa a piene mani dalle prime e seconde file del Pd veneto. Non parla di Roma, perché non ne è a conoscenza, ma quel che accadeva in laguna lui ce l'ha chiaro. Fin troppo: «Mi hanno invitato a candidarmi. Ala fine ho ceduto. E in vista della campagna elettorale 2010, mi hanno detto di andare a battere cassa da Mazzacurati. C'era bisogno di soldi. Tanti soldi. Io ho accettato, ma non ho visto un euro. Gestivano tutto loro». Chi? Orsoni, amareggiato e ormai con un diavolo per capello, fa i nomi. I tre nomi di chi ha gestito la sua elezione quando vinse il duello con Renato Brunetta: Michele Mognato, Giampietro Marchese, David Zoggia. In sostanza, il terzetto che aveva fra le mani il partito nel 2010. Mognato è deputato, Marchese è consigliere regionale ed è uno dei politici finiti in cella nella retata della scorsa settimana, Zoggia è pure parlamentare ed è il volto più noto fra i tre. All'epoca era responsabile Enti locali del Pd, perfettamente inserito negli ingranaggi della ditta bersaniana. Non solo: si era guadagnato una certa popolarità con la frequentazione dei salotti televisivi. Ora Orsoni accusa tutti e tre. Quei tre erano il partito e gestivano in tutto e per tutto i suoi finanziamenti. Lui, se ha una colpa, è quella di aver prestato la propria faccia e la propria autorevolezza alla commedia degli equivoci. Oggi prova a ribattere punto su punto e a risollevare un'immagine offuscata. «Non possono confondermi con chi maneggiava i soldi pubblici - spiega ai pm - il partito spingeva, io ho ubbidito. Punto». I calcoli non sono così semplici, ma le cifre in gioco, fra contributi in bianco e in nero, superano quelle circolate sui giornali fin qui: in realtà il partito avrebbe incassato dal Consorzio quasi un milione di euro. Parte con contributi illeciti, parte con contributi solo apparentemente leciti, perché anche in quel caso la norma veniva aggirata: per non far comparire la solita manona del Consorzio, i soldi formalmente uscivano dalle imprese che però li recuperavano attraverso il più che collaudato meccanismo delle false fatture. Era il partito a gestire tutti quei soldi. Anzi, il sindaco offre un dettaglio che la dice lunga sulla voracità della classe politica: «Alla fine qualcosa era avanzato». Una piccola parte dei contributi in chiaro. Qualche migliaio di euro, ancora in cassa alla fine della campagna elettorale. «Ma il Pd pretese anche quei soldi». Tutti. Fino all'ultimo spicciolo. Hanno preso le distanze dal sindaco. Adesso è il primo cittadino che prende le distanze dal sistema Venezia, col Pd seduto alla grande mangiatoia del Consorzio Venezia Nuova. E la rapidissima scarcerazione disposta dal gip, con tanto di parere favorevole della procura, pare proprio il sigillo sul racconto di Orsoni. Di più, l'accordo che si profila, con una pena di soli 4 mesi, sembra delineare una clamorosa sproporzione fra accuse e realtà dei fatti. Quattro mesi, convertibili in pena pecuniaria, sono davvero il minimo sindacale. Insomma, chiarito il ruolo di Orsoni ora per la procura inizia una nuova fase. Esplorare gli ingranaggi del sistema delle mazzette in casa Pd. Certo, Mazzacurati, come afferma Orsoni davanti giudici, mostrava una grande consuetudine con i suoi compagni di partito. Il sistema funzionava da anni e nessuno l'aveva mai messo in discussione. Per ora nei guai c'è Marchese, ribattezzato a torto o a ragione da qualche giornale il Greganti del Veneto. Si vedrà. In ogni caso le responsabilità di Orsoni si diluiscono dentro quelle del partito. E della sua nomenklatura, almeno in Veneto. Ma la ricerca dei riscontri comincia proprio dai finanziamenti per l'elezione del sindaco nel 2010. Un tesoretto da non sottovalutare: quasi un milione. Giovanni Mazzacurati e Piergiorgio Baita, della Mantovani, hanno sempre detto di aver preparato le buste per Orsoni. Buste che venivano smistate da Federico Sutto, il postino delle mazzette. A chi le consegnava Sutto? Finora il dipendente del Consorzio Venezia Nuova non ha dato una risposta chiara. Ora i pm hanno una pista che porta direttamente al partito.
Sembra di vederlo, seduto davanti ai pubblici ministeri Stefano Buccini e Stefano Ancilotto: «Sì, sono Giorgio Orsoni, il sindaco», scrive “Il Corriere della Sera” . È stato quattro giorni fa. In 26 pagine di verbale Orsoni racconta della sua avventura elettorale del 2010. Lui che di mestiere fa l’accademico e che mai si era dedicato alla politica fino a quella volta. Premette quanto gli fossero estranei quegli ambienti: «Nessuna esperienza». E giura di essere stato «abbastanza a digiuno» anche su come reperire risorse. «Mi venivano a dire: guarda che c’è il tuo concorrente (Renato Brunetta, ndr ) che è in vantaggio. Si dice che ha un milione di euro, quindi tu fai la figura del pezzente... E poi insistevano perché fossi io stesso a finanziare... Mi dicevano: datti da fare per far arrivare risorse adeguate perché sennò rischiamo di andar male (...) Io mi sono adattato, questo non lo nego. E ho insistito con Mazzacurati». Avevano chiesto a lui di farsi avanti con l’allora presidente del Consorzio Venezia Nuova perché lo conosceva bene. Il re del Mose alla fine gli ha dato 560 mila euro. Finanziamento illecito, dice la procura. Ma Orsoni inizia il suo racconto ai magistrati precisando che «ho scoperto solo dalle carte giudiziarie che la mia campagna elettorale è stata finanziata in modi non corretti». Dice molto di più, il sindaco: «Pur ponendomi problemi di opportunità accettai che il finanziatore fosse Mazzacurati, quindi lo sollecitai (...) Le pressioni per avere soldi si sono fatte sempre più forti, quasi esclusivamente da parte di esponenti del Pd». Chi erano? chiedono i pm. Risposta: «Il segretario Mognato (Michele, all’epoca segretario provinciale, ndr ) e poi attorno c’erano un po’ tutti, in particolare Zoggia (Davide, allora presidente della Provincia, oggi deputato, ndr )» e «tanti altri minori della segreteria». Proprio a Mognato e Zoggia Orsoni ricorda di aver «espresso i miei dubbi sull’opportunità del finanziamento del Consorzio». Orsoni racconta di chi gli chiese di candidarsi: per esempio l’ex sindaco Massimo Cacciari e, fra gli altri, Giampietro Marchese, consigliere regionale del Pd. A proposito di Cacciari, non fa il nome esplicitamente ma ricorda cosa gli disse Mazzacurati e lo fa mettere a verbale: «Io mi sono sempre occupato delle campagne elettorali, anche quella del tuo predecessore» gli avrebbe ripetuto. Il professore-sindaco dice che il gran capo del Mose, parlandogli della campagna elettorale che lui finanziava «da una parte e dall’altra» gli aveva anche detto: «Brunetta si è già fatto vivo per chiedere congrui finanziamenti». E gli aveva confidato: «Conosco tanti imprenditori e posso metterci una parola buona». Così Orsoni si era persuaso a dargli, come racconta lui stesso «il conto corrente del mio mandatario e gli dissi: se conosci qualcuno eccolo qua...». Domanda successiva: Mazzacurati le ha mai consegnato brevi manu del denaro? «Mai» risponde lui. E spiega poi: «Può anche essere che mi abbia lasciato dei plichi da qualche parte e che io li abbia mollati lì». Una versione che convince i pm, i quali nel dare parere favorevole alla richiesta di patteggiamento di quattro mesi (deciderà il giudice dell’udienza preliminare) scrivono: «Tra persone di mondo questi affari si regolano con comportamenti concludenti e discreti, senza formule sacramentali e atteggiamenti grossolani (...) è plausibile che la consegna a domicilio sia stata la semplice collocazione di una busta anodina in una stanza qualunque, con vereconda indifferenza e reciproche cavalleresche cortesie». Escludono, dunque la possibilità di «una frusciante mazzetta», ritengono «poco plausibile» che «un candidato del prestigio di Orsoni potesse raccattare fondi con iniziative personali diffuse e petulanti». Ma dicono anche che «si è prestato, non opponendosi, a una strategia di finanziamento occulto elaborata dai vertici del partito», che aveva minacciato di non occuparsi più della campagna elettorale se lui non avesse provveduto a reperire fondi, «anche con risorse personali». Nell’interrogatorio i magistrati obiettano a Orsoni: «Lei non ha detto al partito “andateci voi a chiedere i soldi a Mazzacurati”». E lui: «È vero, questa è stata una mia debolezza, non mi sono opposto...». In un altro passaggio spiega: «In tutto questo io sono stato usato, mi pareva di essere la Madonna pellegrina...». Uno dei punti chiave dell’accusa riguarda la consapevolezza di aver avuto i finanziamenti considerati illeciti. Domanda: «Le hanno dato conto poi del fatto che fossero arrivati i soldi?». «Non in modo esplicito, l’ho potuto desumere dal fatto che tante manifestazioni messe in dubbio poi sono state fatte e quindi ho capito che le risorse ci fossero...». Nella parte finale del verbale si parla di una lettera depositata da Orsoni il 19 marzo al procuratore capo Luigi Delpino. Dalle domande dei pm si intuisce che la mossa non è piaciuta ai magistrati. E il sindaco spiega: «Non c’era da parte mia alcuna intenzione di muovervi accuse (...) mi ero molto seccato per le voci che giravano (...) credevo fosse giusto informare il procuratore di questo mio stato d’animo che mi sembrava di non meritare».
Ma non è solo questo che fa scandalo e ribrezzo contro le istituzioni e la loro Italia. Ci sono tangenti e tangenti. Qualcuno le chiama pizzo…..
Mose, parcelle a sei zeri per i 272 collaudatori. La parte del leone spetta ai dirigenti dell’Anas. Il record con 1,2 milioni di euro è dell’ex presidente Vincenzo Pozzi. Numero due per importo presunto il successore Pietro Ciucci: 747 mila euro di compenso, scrive Gianfrancesco Turano su L’Espresso”. Vincenzo Pozzi Il totale del costo per i collaudi delle opere del Mose era noto: 26 milioni di euro complessivi. Ma fa lo stesso effetto vedere la lunga lista di nomi (all’esame del governo), accompagnata dalla parcella che, a sua volta, è divisa fra compenso presunto e importo fatturato finora. La parte del leone spetta ai dirigenti dell’Anas. Il record con 1,2 milioni di euro è dell’ex presidente Vincenzo Pozzi, oggi sistemato alla presidenza della Cal (Concessionarie Autostradali Lombarde) con l’ex amministratore delegato Antonio Rognoni, arrestato a marzo per truffa alla Regione Lombardia. Numero due per importo presunto è il successore di Pozzi, Pietro Ciucci: 747 mila euro di compenso di cui 480 mila fatturati. Piero Buoncristiano, direttore del personale Anas in pensione, ha parcelle per più di mezzo milione, oltre a un posto di amministratore delegato del Cav, la società mista per gestire le strade fra Anas e Veneto. Presenti anche l’ex direttore generale Francesco Sabato, Alfredo Bajo, braccio destro di Ciucci, Mauro Coletta e Massimo Averardi con somme che vanno dai 240 mila ai 400 mila euro. In zona infrastrutture e trasporti si trovano l’ex magistrato ordinario e del Tar Vincenzo Fortunato (535 mila euro), capo di gabinetto di vari ministeri prima di essere nominato liquidatore della Stretto di Messina. Anche Roberto Daniele ha partecipato ai collaudi del Mose con oltre 400 mila euro fatturati. Daniele ha ricevuto quasi tutto il compenso presunto (414 mila euro) e da un anno, su nomina del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, presiede il Magistrato alle acque di Venezia, ossia la struttura governativa che nomina i collaudatori. Poco più di 500 mila euro è l’importo presunto di Maria Pia Pallavicini, direttore dell’edilizia statale presso il Mit ai tempi della cricca Anemone-Balducci, mentre il geometra Gualtiero Ceserali ha incassato 300 mila euro. Quello che impressiona, oltre alle cifre spese, è il numero di persone coinvolte. Nella prospettiva di una distribuzione capillare degli incarichi, la lista dei collaudatori è composta da 272 soggetti.
SECESSIONE. REATO DI FARSA IN SALSA VENETA.
Reato di farsa. In questa storia dei secessionisti c'è tutta l'infelicità italiana che condanna lo strapaese del separatismo al pittoresco della commedia, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Il sardo, il bresciano, il piemontese, il veneto, il forcone, il campano e il siciliano uniti per dividersi. I magistrati di Brescia, oltre che indagare, dovrebbero ripassare i film di Totò, Monicelli e Dino Risi. Qui c'è infatti un malumore vestito da barzelletta più che una secessione armata. C'è l'infelicità italiana che condanna tutto lo strapaese del separatismo al pittoresco della commedia, persino salvandolo dal tragico delle armi, leggere o pesanti che siano. Anche il carrarmato è una ruspa col ringhio, come i motorini con la marmitta segata. E c'è una frase intercettata che inchioda i piani criminali alla maledizione dell'osteria: "Più che tagliare il salame abbiamo bisogno di caricare i candelotti di dinamite". E dove preparavano la rivoluzione i 24 briganti? In un ristorante del Bresciano, la provincia del Garda classico, rosso e sfuso: "Quando l'azione sarà fatta, sarà coordinata mezza Italia. Lo faranno anche i piemontesi, lo faranno anche i sardi, ciascuno nel loro sistema, ma sarà sincronizzato con la nostra, persino la Napulitanìa...". Spesso i giudici sono costretti ad ingabbiare dentro gli articoli del codice anche i comportamenti più disordinati, e a trasformare in capi di imputazione persino certi disturbi che hanno bisogno di essere compatiti più che capiti. Ma non si può sempre normare il fuori norma e prendere sul serio anche la confraternita di tutti i secessionisti, l'unità italiana degli anti italiani: "l'alleanza" la chiamano, l'alleanza dei campanili che è uno scoppiettante ossimoro. Nella geografia sentimentale del separatismo italiano la Sicilia vuole seppellire i piemontesi invasori e annessori, e il Veneto sogna di liberarsi dei campani succhia-soldi...: "abbiamo bisogno degli scoglionati" è invece la comica parola d'ordine dell'Alleanza. Ma gli "scoglionati" sono, per significato letterale, i senza voglia, i disertori, i menefreghisti, gli accidiosi: si può organizzare un esercito di renitenti alla leva e puntare sulla virilità degli svirilizzati? Ecco cosa i separatisti sognavano di dire agli italiani (quali?): "Andatevene dall'Italia e chiedete perdono per 147 anni di crimini, andatevene e vivrete, rimanete e morirete, perché noi instaureremo il terrore, sai come ci divertiremo noi! La mafia anche qua...". Ditemi se c'è più bisogno di curare o di arrestare, di infermieri o di carabinieri per questi separatisti unitari che vorrebbero diventare feroci come i mafiosi pur essendo "scoglionati" e cioè, come direbbe Camilleri, senza "cabasisi". Ma se non ce li hanno, come possono mostrarli? E già litigano sulla bandiera. Propone il padovano: "La nostra è il libro aperto, ma non ha la spada". Replica il bresciano: "Usiamo invece quella con la spada". E ne viene fuori una lunga gag sulla spada e sul libro aperto o chiuso. Poi si passa al carattere tipografico: sarà meglio il gotico o il lombardo? La parola terrorismo, che è ipotesi di reato, evoca in Italia un mondo di torvi assassini, dai brigatisti di via Fani ai killer di Marco Biagi, molto distante dalle "velleità separatiste" di Franco Rocchetta che i cronisti politici romani hanno conosciuto bene, un uomo di marce e di zuffe, ex deputato ed ex sottosegretario, fondatore della Liga veneta ma espulso dalla Lega perché "antipadano", una macchietta del separatismo che i suoi adepti chiamano "il letterato", residuo marginale improvvisamente legittimato e trasformato dalla procura di Brescia nel Bobby Sands italiano. Altri due arrestati, Luigi Faccia e Flavio Contin, sono veterani del putsch-burla, quello dei Serenissimi che nel 1997 salirono sul campanile di San Marco, già allora con un salame in borsa, e issarono la bandiera con il leone di Venezia. Anche all'epoca avevano costruito un carrarmato di cartone, il famoso "tanko Marcantonio Bragadin" targato VT MB che proprio il Contin, ora in galera, riscattò all'asta giudiziaria per 6674 euro e conservò, feticcio e cimelio dell'impresa eroica, nel capanno di casa, il garage della rivoluzione veneta. Il "tanko" è la loro ossessione: "Finalmente è arrivato il pezzo". Chiamano "la cattedrale" il capannone dove lo costruiscono. E se andasse male? "Scriverò un libro come le Br". "Sì, fai casino e finisci in tv". Poi si dividono gli incarichi: "Tu vai al governo e io al Parlamento". E nella serata che chiamano "dell'investitura" fanno indossare a due giovani aspiranti, Tiziano Lanza detto Eddy e Stefano Ferrari detto "il truce", i baschi dell'affiliazione: "Ma devo fare anche dei discorsi?". E c'è chi si assenta per una settimana e chi non può partecipare perché si sente influenzato. Somigliano ai pensionati di Piero Chiara: vino rivoluzione e carte. Hanno una politica estera: "Le basi Nato le lasceremo". Sognano di entrare con la macchina dentro Equitalia e uscire dall'altra parte; di far fuori "tutti i forestieri"; di fondare la Banca Nazionale veneta. Verrebbe voglia di liquidarli con qualche battuta salace se i giudici non avessero arrestato per terrorismo il folclore, lo stato d'animo, la bile sociale. Solo la galera può trasformare Rocchetta e i suoi seguaci nei Robin Hood dell'Italia che in fondo è ancora incompleta.
2 aprile 2014. Tutta l’Italia ne parla. Secessionisti veneti: 24 arresti. "Trattavano acquisto armi". Renzi: "Sereno su tenuta Istituzioni". Sgominata organizzazione denominata L'Alleanza. Sequestrato anche carro armato artigianale attrezzato con un cannoncino, scrive "La Repubblica". L'operazione, ordinata dalla procura di Brescia, coinvolge 51 indagati: tra loro, anche l'ex deputato Rocchetta ora in custodia cautelare. Ipotizzati i reati di terrorismo e fabbricazione di munizioni da guerra. L'ira di Bossi e di Salvini: "Arresti bluff". Ma il Gip: "Disegno eversivo, pronti a deriva violenta per una rivolta popolare in armi". L'intercettazione: "Caricare i candelotti di dinamite". "Erano pronti a una deriva violenta per una rivolta popolare in armi", con una "iniziativa eclatante" da mettere in atto a ridosso delle elezioni europee di fine maggio. Niente a che vedere, quanto a determinazione, con l'esperienza - fallita - dei Serenissimi nel 1997: quella di oggi sarebbe stata molto più aggressiva. Non solo. I secessionisti sarebbero stati anche in trattative con la criminalità albanese per l'acquisto di armi leggere. E tra gli obiettivi da raggiungere, ci sarebbe stata pure la creazione di un direttorio che avrebbe avuto il compito di negoziare con lo Stato italiano per ottenere la secessione del Veneto. È scattato stamani il blitz dei carabinieri del Ros contro un gruppo separatista ampio e geograficamente variegato - denominato L'Alleanza - accusato di aver messo in atto "varie iniziative, anche violente", per ottenere l'indipendenza del Veneto, e non solo. L'accusa mossa dalla Procura di Brescia è quella di terrorismo (270 bis c.p.). Ventiquattro i provvedimenti restrittivi: tra gli arrestati ci sono cinque donne, di cui una 26enne. Nel complesso, 22 sono finiti in carcere, due sono ai domiciliari. Nel totale gli indagati sono 51 e 33 le perquisizioni che hanno interessato il Veneto. Tra gli indagati c'è anche, con un ruolo marginale, un poliziotto in servizio a Padova che ha avuto contatti con gli altri indagati, firmando anche il documento di adesione all'Alleanza. Il gip annota, nell'ordinanza di custodia cautelare, che "ovviamente, la firma del documento di adesione e della qualità di poliziotto rivestita" da P. "assumono tratti certamente allarmanti", ma la sua condotta "isolatamente considerata, non può assurgere di per sé sola a grave indizio di partecipazione al sodalizio". Né risulta documentato che il poliziotto abbia passato informazioni riservate al gruppo oppure abbia fatto nuovi adepti. Sotto inchiesta sono finiti anche un leader del movimento dei Forconi e l'ex deputato, Franco Rocchetta, già sottosegretario di Stato agli Affari esteri tra il 1994 e il 1995, ora in custodia cautelare. Ad attaccare la procura e a parlare di "arresti bluff" è Umberto Bossi, fondatore della Lega Nord, che dice: "Vogliono fermare gli indipendentisti, ma falliranno". Non si sbilancia il premier, Matteo Renzi: "Un governo non commenta mai nessun tipo d'indagine" e "sono assolutamente sereno rispetto alla tenuta di ogni tipo di istituzione democratica. Il modo migliore per assicurare questa tenuta è che l'esecutivo non commenti ciò che fanno i giudici. La magistratura fa il suo lavoro: noi abbiamo grandissima fiducia in qualsiasi tipo magistratura" ha detto, parlando da Bruxelles. Gli arresti e le perquisizioni sono stati eseguiti tra le province di Padova, Treviso, Rovigo, Vicenza e Verona e hanno visto impegnati i militari dei vari comandi provinciali dell'Arma. Tra gli indagati figurerebbero alcune persone vicine al noto gruppo dei Serenissimi e il presidente e la segretaria della Life, l'associazione che avrebbe avuto un ruolo particolarmente attivo nel periodo di contestazione dei cosiddetti Forconi dell'8 dicembre scorso. L'epicentro dell'indagine sarebbe Casale di Scodosia, nel Padovano. Nelle ordinanze di custodia cautelare, emesse dal gip del tribunale di Brescia Enrico Ceravone su richiesta della procura, sono contestati i reati di associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell'ordine democratico e fabbricazione e detenzione di armi da guerra. Secondo la procura di Bresca l'organizzazione secessionista L'Alleanza ha svolto anche una diffusa attività di autofinanziamento che ha consentito di raccogliere finora non meno di 100mila euro, grazie a singole elargizioni e all'apertura alla Cassa Padana di un conto dedicato alla raccolta dei fondi. Sarebbe anche documentato come alcuni militanti dell'organizzazione si siano adoperati per reperire armi leggere attraverso dei contatti con la criminalità albanese, da destinare ai membri dell'organizzazione. A intervenire sulla vicenda via Facebook è il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini: nel post, il numero uno del Carroccio attacca lo Stato che "libera i delinquenti e arresta indipendentisti". E ha aggiunto: "Due anni di intercettazioni e pedinamenti, che sono costati milioni di euro dei contribuenti, per scoprire un sessantenne bresciano che parla di pane e salame e di un trattore. Difendo la libertà d'opinione - ha aggiunto - la Lega è per la non violenza, hanno strappato 24 persone alle proprie famiglie, follia pura". Ma secondo le indagini del Ros, le persone arrestate avrebbero fatto parte di un "gruppo riconducibile a diverse sigle di ideologia secessionista che aveva progettato varie iniziative, anche violente, finalizzate a sollecitare l'indipendenza del Veneto e di altre parti del territorio nazionale dallo Stato italiano". Tra gli episodi contestati ai secessionisti c'è anche quello, riferiscono gli investigatori, della "costruzione di un carro armato da utilizzare per compiere un'azione eclatante a Venezia, in piazza San Marco". Il mezzo è stato sequestrato a Casale di Scodosia. Gli indagati, secondo quanto è emerso nelle indagini, avevano pensato di trasformare un trattore agricolo in una sorta di mezzo corazzato attrezzato con un cannoncino da 12 millimetri, ma durante le fasi di montaggio c'erano stati problemi di calibratura e di recupero dei pezzi per la sua costruzione. I particolari dell'operazione saranno resi noti in una conferenza stampa che si terrà alle 11 nella procura di Brescia. Il Tanko, tuttavia, serviva anche per dare "credibilità" al movimento che, rispetto a quello del '97 era "cresciuto sotto tutti i punti di vista". A parlare, intercettato dagli investigatori, è Luigi Faccia, già coinvolto nei fatti di 17 anni fa, durante i festeggiamenti per la consegna del primo carro armato artigianale: in tutto, infatti, i mezzi a disposizioni avrebbero dovuto essere ben 6. "Certo - dice Faccia in un incontro all'Arsenale - rispetto al '97 siamo cresciuti sotto tutti i punti di vista, abbiamo un'alleanza, abbiamo fratelli che combattono, noi siamo più preparati, abbiamo più esperienza..." E ancora: "Dunque questo Tanko, combattendo... ci dà la possibilità e ci darà la possibilità di essere veramente credibili e soprattutto di aver il controllo del nostro territorio e da là fare il passo finale per la vittoria, per l'indipendenza di noi veneti e di tutti i nostri fratelli alleati". L'Alleanza, l'associazione sgominata dal Ros, "ha riunito più organizzazioni secessioniste sotto il comune progetto dell'indipendenza dallo Stato italiano": tra queste, secondo gli investigatori, Brescia Patria, Veneto Stato, il movimento indipendentista sardo Disubbidientzia, nonché il movimento dei Serenissimi. Rappresentanti di questi movimenti, in particolare, si riunirono il 26 maggio 2012 ad Erbusco (Brescia) in quella che gli investigatori definiscono la riunione costitutiva de L'Alleanza. Nel corso delle indagini, sottolineano i carabinieri, sono poi emersi contatti con altre realtà indipendentiste piemontesi, sarde, campane e siciliane, "con l'obiettivo di coinvolgerle nella protesta generalizzata a sostegno dell'azione militare vera e propria". I dirigenti, secondo il Gip, "teorizzano e mettono in pratica un'operatività su un doppio binario, uno dei quali costituito dal volto pubblico e legale di propaganda politica dei valori indipendentisti o secessionisti e l'altro costituito dalla creazione di una struttura organizzativa segreta, con reclutamenti mirati, i cui veri fini non potevano essere divulgati". E dunque, prosegue il giudice, "nel programma dell'organizzazione si afferma la necessità di uso della violenza, al fine di provocare e guidate in armi una rivolta popolare, per giungere alla proclamazione della Repubblica Veneta". Ecco perché l'organizzazione sgominata dal Ros non ha "di mira un'azione simbolica o meramente dimostrativa come nel maggio del 1997, ma al contrario ricerca armi leggere e progetta mezzi blindati effettivamente operativi e dotati di armi pesanti costruite ad hoc, con un piano che, pur avendo di mira Venezia ed altre città (tra le quali Brescia), stavolta prevede un'azione militare in senso proprio, con resistenza armata, per di più coinvolgendo al contempo un'ampia platea di manifestanti". La presenza di questi ultimi, nell'ottica degli arrestati, "dovrebbe rendere impossibile una reazione immediata delle forze dell'ordine": e sulle "prevedibili incertezze della risposta dello Stato", l'organizzazione puntava da un lato ad innescare "un processo insurrezionale più ampio" e dall'altro ad avare "i primi riconoscimenti esteri della nuova realtà politica". "Parte essenziale del progetto sono pulsioni xenofobe e antimeridionali, in più occasioni esplicitate dai sodali, e diffusissima è la rancorosa rabbia per l'imposizione fiscale o per le difficoltà economiche, imputate alla classe politica marcia - scrive ancora il Gip -. Non a caso, uno dei fondatori dell'Alleanza, Luigi Faccia, nel corso di un incontro in un ristorante individua il target ideale dei nuovi militanti nelle persone 'alla disperazione' che però abbiano 'ancora qualcosina dentro' o una forza che li muove", ma "sintetizza la sua aspettativa delusa di adesioni massicce da parte degli imprenditori e degli artigiani in difficoltà con la frase noi che pensavamo di pescare in questo mare infinito di invisibili...". Stando poi a una intercettazione riportata nell'ordinanza di custodia cautelare, il bresciano Giancarlo Orini - tra i secessionisti arrestati - si sarebbe espresso così nel corso di una telefonata: "Più che tagliare il salame, abbiamo bisogno di caricare i candelotti di dinamite". Ma dal procuratore capo Tommaso Buonanno arriva anche una precisazione: "Non vi sono elementi dice - che evidenzino collegamenti fra queste persone e la Lega Nord. Si tratta di persone che avevano avuto contrasti con il Carroccio". I componenti del gruppo si proponevano "l'indipendenza dallo Stato italiano con il ricorso a metodi violenti e all'insurrezione popolare". Intanto, a seguito degli arresti, il comitato plebiscito.eu, che ha promosso il referendum online sull'indipendenza del Veneto, ha convocato per stasera alle 19 "una dimostrazione pacifica e democratica, solo con le bandiere del Veneto".
Blitz contro secessionisti veneti: 24 arresti. Sequestrato carro armato, scrive “Il Messaggero”. Volevano «l'indipendenza dallo Stato italiano con il ricorso a metodi violenti e all'insurrezione popolare» i 24 componenti dello sgangherato gruppo secessionista veneto arrestati oggi. A finire in manette anche due ex "Serenissimi" che assaltarono il campanile di San Marco a Venezia nel 1997, ma il disegno eversivo era «più ampio» e comprendeva di riunire più organizzazioni secessioniste, compresi gli indipendentista sardi di Disubbidientzia. Nessun legame con la Lega Nord, ma il segretario del Carroccio Salvini attacca: «Siamo alla follia, se lo Stato pensa di fare paura a qualcuno, sbaglia». Il blitz dei carabinieri del Ros contro il gruppo secessionista accusato di aver messo in atto «varie iniziative, anche violente», per ottenere l'indipendenza del Veneto, è scattato stamani. Sono 24 gli arresti e 33 le perquisizioni complessive disposti dalla magistratura di Brescia. Sequestrato anche un carro armato con cui i secessionisti progettavano di compiere un'azione eclatante in piazza San Marco a Venezia. L'accusa è quella di terrorismo. La competenza è radicata a Brescia in quanto nel bresciano si sarebbe costituito il gruppo e si sarebbero tenute le riunioni. Le indagini sono cominciate circa tre anni fa. Tra gli indagati figurano un leader del movimento dei Forconi e un ex deputato, il fondatore della Liga Veneta, Franco Rocchetta. La Liga Veneta confluì nella Lega Nord ma Rocchetta abbandonò poi il movimento. Di recente è stato tra i promotori del referendum per la secessione del Veneto. Nelle ordinanze di custodia cautelare, emesse dal gip del tribunale di Brescia su richiesta della procura, sono contestati i reati di associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell'ordine democratico e fabbricazione e detenzione di armi da guerra. Si proponevano «l'indipendenza dallo Stato italiano con il ricorso a metodi violenti e all'insurrezione popolare» i componenti del gruppo "Alleanza", ha spiegato il procuratore di Brescia, Tommaso Buonanno. Il gruppo era stato fondato nel maggio del 2012 e riuniva esponenti di Brescia patria e del Movimento separatista Veneto stato. Dicevano di voler instaurare «un clima di terrore» i secessionisti arrestati e raccontavano di avere a disposizione «un altro carro armato gigantesco». È Tiziano Lanza, di Bovolone (Verona) «sempre impegnato in azione di reclutamento e finanziamento» dell'Alleanza a parlarne al telefono in una lunga conversazione intercettata. «Andatevene dall'Italia e chiedete perdono per 147 anni di crimini contro la nostra popolazione e di ruberie - spiega in un'intercettazione riportata nell'ordinanza di custodia cautelare -. Andatevene e vivrete, rimanete e morirete.. poichè instaureremo veramente il clima di terrore, sai come ci divertiremo, la mafia anche qua..». Poi Lanza descrive un fantomatico piano per l'occupazione di piazza San Marco: «Se riusciamo ad andarci con un mezzo così gigantesco, invece di otto forse saremo in ottocento, ben equipaggiati, con maschere antigas, qualcuno appostato con mitra e tutto e ci sarà anche gente all'estero, come me, che convocherà una conferenza stampa». «E quando l'azione sarà fatta - conclude - sarà coordinata mezza Italia perché lo faranno anche i piemontesi, lo faranno anche i sardi, ciascuno nel loro sistema, ma sarà sincronizzato con la nostra, perfino la napulitania, vogliono chiamarsi così». I serenissimi. Gli arresti e le perquisizioni sono state eseguite tra le province di Padova, Treviso, Rovigo, Vicenza e Verona e hanno visto impegnati i militari dei vari comandi provinciali dell'Arma. Tra gli indagati figurerebbero alcune persone vicine al gruppo dei Serenissimi e il presidente e la segretaria della Life, l'associazione che avrebbe avuto un ruolo particolarmente attivo nel periodo di contestazione dei cosiddetti forconi dell'8 dicembre scorso. Il trattore carro armato. Tra gli episodi contestati ai secessionisti arrestati c'è anche quello della «costruzione di un carro armato da utilizzare per compiere un'azione eclatante a Venezia, in piazza San Marco». Il trattore trasformato in carro armato è stato posto sotto sequestro era perfettamente funzionante, tanto che erano state eseguite anche delle prove di fuoco. Il mezzo è stato sequestrato. La vicenda del trattore blindato richiama alla memoria quanto avvenuto il 9 maggio 1997, quando un gruppo di Serenissimi diede l'assalto al campanile di piazza San Marco. In quel caso tra gli elementi più scenografici c'era proprio un furgone trasformato in rudimentale carro armato, poi denominato Tanko. Le indagini sull'Alleanza hanno documentato anche «attività strumentali alla realizzazione del progetto eversivo, con l'organizzazione di conferenze e manifestazioni di piazza, nonché la costituzione di una sorta di direttorio del nuovo governo Serenissimo, per le trattative con lo Stato italiano finalizzate alla secessione del Veneto dall'Italia», affermano gli investigatori. Il progetto dei secessionisti arrestati di compiere attentati contro i tralicci, sulla scorta del terrorismo alto-atesino negli anni '50-'60, fu abbandonato perché - annota il gip di Brescia - «rischioso e probabilmente inviso alla quasi totalità della pubblica opinione». Lo spiega uno degli arrestati, Luigi Faccia, durante un incontro intercettato con i "patrioti" bresciani. «Non è che danneggi il Quirinale - spiega il serenissimo del 1997 -. Danneggi il c... che sta guardando la partita e che si incazza come una iena, capito?». Una bandiera della Serenissima in mano, con un cartello: "Siamo indipendentisti, arrestate anche noi". Così due consiglieri regionali della Lega Nord in Lombardia, Fabio Rolfi e Jari Colla, si sono fatti immortalare fra i banchi dell'Aula del Pirellone in segno di solidarietà con gli indipendentisti del Veneto arrestati. Borghezio. «Questa mattina, in Italia, nel Veneto, 30 persone incensurate sono state arrestate per delitto di opinione, essendo irredentisti veneti. Chiedo al Parlamento Ue di intervenire per difendere la libertà di opinione». Lo ha detto l'eurodeputato della Lega Nord, Mario Borghezio, chiedendo la parola all'inizio della sessione plenaria del Parlamento Ue. «L'argomento non è all'ordine del giorno», è stata la replica di Gianni Pittella (Pd), primo vicepresidente del Parlamento Ue che stava presiedendo la seduta. Dal canto suo, Borghezio ha poi aggiunto:«Bruxelles non può ignorare che Roma sta attuando nei confronti dei patrioti veneti comportamenti simili a quelli che condanna in tutte le altri parti del mondo...». Il presidente veneto Luca Zaia parla di un'inchiesta ad "orologeria" «con una tempistica - afferma - che far pensare male, in un momento in cui c'è questa istanza del Veneto sull'indipendentismo e sull'autonomia». Il sindaco di Verona Flavio Tosi ritiene «che il provvedimento della Procura di Brescia sia assolutamente sproporzionato rispetto ai fatti reali. A Roma - afferma il leader leghista - si discute dello svuota-carceri, provvedimento che prevede l'uscita di prigione di criminali veri, mentre si arrestano persone come Franco Rocchetta, che personalmente conosco da più di 20 anni, la cui pericolosità sociale è inesistente. Le Procure - conclude - dovrebbero perseguire la verità e la giustizia, mentre l'impressione è che in questo caso l'operazione sia di tipo politico».
Blitz contro secessionisti veneti: 24 arresti, altri 27 indagati, scrive “Libero Quotidiano”. In manette 24 presunti secessionisti veneti. Blitz dei carabinieri del Ros contro un gruppo secessionista accusato di aver messo in atto "varie iniziative, anche violente", per ottenere l'indipendenza del Veneto, e non solo. Ventiquattro gli arresti in corso di esecuzione da parte dei militari dell'Arma in varie regioni, su ordine della magistratura di Brescia. Nelle ordinanze di custodia cautelare, emesse dal gip del tribunale di Brescia su richiesta della procura, sono contestati i reati di associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell'ordine democratico e fabbricazione e detenzione di armi da guerra. I Carabinieri stanno anche eseguendo perquisizioni a carico di altri 27 indagati. Secondo le indagini del Ros, le persone arrestate avrebbero fatto parte di un "gruppo riconducibile a diverse sigle di ideologia secessionista che aveva progettato varie iniziative, anche violente, finalizzate a sollecitare l'indipendenza del Veneto e di altre parti del territorio nazionale dallo Stato italiano". Tra gli episodi contestati ai secessionisti arrestati oggi dai carabinieri su disposizione della magistratura di Brescia c'è anche quello, riferiscono gli investigatori, della "costruzione di un carro armato da utilizzare per compiere un'azione eclatante a Venezia, in piazza San Marco". Il mezzo è stato sequestrato. Gli arresti e le perquisizioni sono state eseguite tra le province di Padova, Treviso, Rovigo, Vicenza e Verona (Verona 9 arresti, Treviso 2, Rovigo 3, Padova 3) e hanno visto impegnati i militari dei vari comandi provinciali dell'Arma. Tra gli indagati figurerebbero alcune persone vicine al noto gruppo dei Serenissimi e il presidente e la segretaria della Life, l'associazione che ha avuto un ruolo particolarmente attivo nel periodo di contestazione dei cosiddetti forconi dell'8 dicembre scorso. Il quartier generale, sempre secondo quanto si è appreso, sarebbe Casale di Scodosia, nel Padovano dove sarebbe stato trovato il "tanko". Gli indagati, secondo quanto è emerso nelle indagini, avevano pensato di trasformare un trattore agricolo in un mezzo corazzato attrezzato con un cannoncino da 12 millimetri, ma durante le fasi di montaggio c'erano stati problemi per il recupero dei pezzi per la sua costruzione. Intanto dopo i fermi emergono le prime intercettazioni telefoniche tra i secessionisti veneti. Ecco alcuni passaggi delle telefonate. "Male che vada, ci troviamo a casa mia a tagliare il salame...". "No, più che tagliare il salame noi abbiamo bisogno di caricare i candelotti di dinamite!". “L’Alleanza”, così avevano chiamato il loro gruppo, aveva idee chiare: "Il nostro obiettivo è abbattere lo Stato....pota!". Poi avrebbero separato comune per comune, paese per paese, campo per campo. In un domino infinito di separatismi che nelle idee dei 24 arrestati avrebbe dovuto portare alla nascita di un nuovo stato padano, armato e "autoritario". Nelle intercettazioni non mancano spunti comici e qualche ingenuità, si ascolta l’esasperazione per le tasse troppo alte e si misura la disperazione per la crisi. "Allora, Adalberto, sta attento a cosa dovrebbe succedere - spiega in una conversazione Giancarlo Orini, il presunto capo dell’organizzazione - Bisogna far saltar le banche....Ci sarà una piccola parte di Carabinieri o della polizia che starà dalla parte degli insorti, poi una piccola parte sempre dei Carabinieri o della Polizia o della Guardia di Finanza che starà dalla parte dello Stato...la parte più forte che potrebbe essere l’esercito e gli altri che se ne stanno a guardare...staranno a vedere, stanno a vedere e si metteranno dalla parte dei vincitori, come è successo in altri paesi....". "In Libia", risponde Adalaberto. "In Libia, esatto, zio porco...dai leggi, leggi, poi ci sentiamo".
L'Armata Brancaleòn.
Veneto, il ritratto di tutti i secessionisti arrestati, scrive Alessandro Gonzato su “Libero Quotidiano”. Tra i 24 arresti effettuati ieri all’alba dai carabinieri del Ros di Brescia spicca quello del veneziano Franco Rocchetta, 67 anni il prossimo 12 aprile. È il padre della Liga Veneta, nata ufficialmente nel 1980 a Padova. È stato tra i primi, in Italia, a parlare di federalismo alla gente comune. Lo ha fatto nelle piazze e nei mercati. Fin da ragazzo ha sposato la causa veneta. A 22 anni, assieme ad altri oppositori dello Stato centrale, è stato difeso gratuitamente da un pool di avvocati veneti dalle accuse e dagli attacchi dei vertici della Democrazia Cristiana. Del caso si parlò molto anche all’estero. Consigliere regionale per un decennio, è stato presidente federale della Lega Nord tra il ’91 e il ’94 e per 8 mesi, a cavallo tra il ’94 e il ’95, ha ricoperto il ruolo di sottosegretario agli Esteri del primo governo Berlusconi. Dopo un lungo periodo di silenzio politico, Rocchetta era tornato di recente a sostenere in prima persona l’indipendenza della sua terra. Lo scorso 21 marzo, a Treviso - in piazza dei Signori - era a fianco di Gianluca Busato (promotore del referendum digitale) per la dichiarazione di sovranità della Repubblica Veneta. È Rocchetta l’unico degli arrestati ad aver preso parte attiva alla realizzazione della consultazione online di plebiscito.eu. I carabinieri hanno fermato anche due dei «serenissimi» protagonisti del blitz di piazza San Marco nel maggio del ’97. Flavio Contin, 72 anni, per ragioni di età è stato sottoposto agli arresti domiciliari, mentre Luigi Faccia - che quella notte non partecipò direttamente all’operazione, ma fu comunque condannato perché considerato uno degli organizzatori - è stato portato in carcere. In prigione è finito anche il veronese Lucio Chiavegato, 49 anni, noto alle cronache negli ultimi mesi per aver guidato la protesta dei forconi veneti. È il leader dell’associazione Life (Liberi imprenditori federalisti europei), nata nel ’94 a Conegliano, in provincia di Treviso. Da tempo è protagonista di azioni dimostrative contro Agenzia delle Entrate ed Equitalia. Ha pure scritto una sorta di manuale con le 10 regole per affrontare i controlli dei finanzieri. Patrizia Badii, anche lei finita in carcere, conosciuta a Nordest come «la rossa passionaria fiorentina», nel 2012 era stata candidata a sindaco di Verona per «Veneto Stato». Ottenne 349 voti. Le accuse a carico delle persone arrestate sono pesantissime: associazione con finalità di sovversione dell’ordine democratico e concorso in illecita fabbricazione e detenzione di armi da guerra. Rischiano condanne fino a 15 anni. Nell’elenco dei fermati c’è anche l’imprenditore milanese Roberto Bernardelli, 65 anni, ex parlamentare leghista nei primi anni ’90 ed ex assessore del Comune di Milano, oggi presidente dell’Unione Padana. Gli altri arrestati sono Tiziano Lanza, Andrea Meneghelli, Luca Vangelista, Corrado Turco, Felice Pani, Stefano Ferrari, Renato Zoppi, Riccardo Lovato, Angelo Zanardini, Michele Cattaneo, Maria Luisa Violati, Erika Pizzo, Elisabetta Adami, Maria Marini, Marco Ferro, Corrado Manessi, Roberto Abeni e Giancarlo Orini, nel 2008 candidato alla carica di sindaco di Brescia, 72 anni, e per questo, come Contin, agli arresti domiciliari. Tra gli indagati figura anche il direttore de lindipendenza.com, Gianluca Marchi (primo direttore de La Padania ed ex caporedattore di Libero), al quale i carabinieri hanno sequestrato un computer. «Se ne sono andati con il mio pc personale sul quale lavoravo per tenere aggiornato questo giornale», ha scritto ieri pomeriggio sul suo quotidiano online. «Non poteva essere diversamente, perché io non sono associato a nessun gruppo o sigla di quelle di cui parlano i magistrati, nemmeno a un club di bridge per il vero».
Panorama: viaggio nel Veneto ferito (e in manette). Nel numero in edicola la parola alla gente, ai sindaci, al governatore ed i numeri che spiegano la rabbia di un popolo, sempre più lontano dall'Italia, anche dopo gli arresti di oggi, scrive “Panorama”. "La Serenissima è incazzatissima". Comincia così il viaggio del giornalista di Panorama, Damiano Iovino alla scoperta di una regione a dir poco in subbuglio, dove sono riesplose, forti ed anche un po' inattese, le voglie di indipendenza. Un'inchiesta che potete leggere nel numero in edicola da domani, 3 aprile, e che è sempre più attuale dopo l'operazione coordinata dalla Procura di Brescia proprio contro i membri della "Serenissima". 24 le persone che sono state arrestate dai Ros dei Carabinieri con l'accusa di terrorismo ed eversione del sistema democratico, oltre che alla fabbricazione di armi. Tra gli arrestati numerosi veneti che militano tra le file del movimento indipendentista, tra questi l'ex parlamentare e fondatore della Liga Veneta Franco Rocchetta, gli ex Serenissimi Luigi Faccia e Flavio Contin e il leader dei Forconi Lucio Chiavegato. Le persone arrestate farebbero parte di «un gruppo riconducibile a diverse ideologie di tipo secessionista che aveva progettato iniziative anche violente finalizzate a sollecitare l'indipendenza del Veneto e di altre parti del territorio nazionale». Nelle immagini riprese con telecamere nascoste spiccano i lavori di costruzione e preparazione di una ruspa trasformata in un mezzo blindato che sarebbe stato utilizzato in un nuovo blitz in Piazza San Marco a Venezia, come quello del 1997. Violente ed immediate le proteste: Il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini parla di follia ed annuncia una manifestazione a Verona. Ma è soprattutto Gianluca Busato, l'ideatore e promotore del referendum sull'indipendenza del Veneto di due settimane fa (che ha fatto tanto discutere sulla veridicità del numero dei votanti) a lanciare la sua sfida allo stato: "Adesso arrestateci tutti". Un clima quindi di vera e propria rabbia; nel viaggio di Panorama ci sono alcuni numeri che la spiegano. Si va dal raffronto con la Sicilia per il numero di dipendenti regionali (2500 contro 20.000), alla differenza dei costi di un pranzo in ospedale (6,5 euro in Veneto, 80 euro al sud). Ma c'è soprattutto la rabbia della gente e dei sindaci dei piccoli paesi, stufi di questa situazione. Abbiamo parlato con i primi cittadini di Segugino, Santa Lucia di Piave, Cordignano e Silea. Paesi diversi, storie, proteste, richieste e rabbia identiche. "La repubblica veneta non è un amarcord, sono 1100 anni di storia; da noi 7 persone su 10 parlano Veneto..." Parole del Governatore del Veneto, Luca Zaia che a Panorama spiega come sia ormai in moto l'iter per la richiesta di un referendum che porti la regione ad una richiesta di indipendenza, un po' come sta accadendo in Spagna, per i catalani. Basterà questo a bloccare la rabbia di un leone ferito?
Arresti in Veneto, Busato minaccia vendetta. Il leader degli indipendentisti: "Accuse ridicole. Una ritorsione contro il nostro referendum", scrive Claudia Daconto su “Panorama”. "E' un colpo di coda dello Stato italiano morente". Il leader degli indipendentisti, Gianluca Busato, bolla così gli arresti ordinati dalla Procura di Brescia contro 52 esponenti di un presunto gruppo secessionista sospettati di aver messo in atto "varie iniziative, anche violente", per ottenere l'indipendenza del Veneto. L'accusa è di associazione con finalità di terrorismo ed eversione dell'ordine democratico e fabbricazione e detenzione di armi da guerra. Nel mirino anche un ex deputato leghista, Franco Rocchetta, e il capo dei Forconi veneti Lucio Chiavegato, persone vicine ai "Serenissimi" e il presidente e la segretaria della Life, l'associazione che avrebbe avuto un ruolo particolarmente attivo durante le contestazioni dello scorso dicembre. Raggiunto al telefono da Panorama.it, Busato lancia a sua volta accuse e minaccia ritorsioni.
Che intenzioni avete?
«Se fino ad ora eravamo disponibili a pagare una quota del debito pubblico, ora questa apertura verrà meno. Con questo tentativo di trattenere i soldi che ci deruba, lo Stato italiano ha solo fatto in modo di procurarsi un trattamento, da parte nostra, meno favorevole in vista delle trattative sulla secessione.»
Quindi, secondo lei, un'indagine antiterrorismo del Ros, iniziata tre anni fa, avrebbe avuto, fin dall'inizio questo unico scopo?
«Il fatto che l'indagine sia arrivata a conclusione proprio ora dimostra che era finalizzata a rallentare un percorso che, invece, riceverà un'accelerazione. Si tratta di una farsa e si rivelerà un boomerang.»
Le accuse sono gravi, si parla anche di fabbricazione e detenzione di armi da guerra. Al grido di "arrestateci tutti" lei ha espresso solidarietà agli indagati. Ma cosa ha a che fare con loro?
«Ho espresso solidarietà e lo rifaccio anche ora. Rocchetta è una delle persone più pacifiche che conosca. L'accusa di terrorismo è ridicola. Uno Stato che ha paura di venti persone con un trattore è uno Stato di cartone bagnato. La verità è che non temono queste venti persone ma i 2 milioni che pochi giorni fa hanno democraticamente votato per staccarsi dall'Italia.»
Che manifestazione sarà quella convocata questa sera alle 19 in Piazza San Marco a Venezia? Cercate lo scontro?
«Sarà una manifestazione pacifica e democratica di esercizio d'indipendenza della Repubblica veneta. Dimostreremo qual è la forza della rivoluzione digitale messa in atto e che si sta diffondendo anche in altre regioni. Quella di stasera è una chiamata a un'assunzione di responsabilità.» (Poco dopo la pubblicazione di questa intervista Gianluca Busato annuncia sulla sua pagina Facebook che "la manifestazione di questa sera a Venezia è rimandata per evitare una repressione violenta da parte dello Stato italiano" ndr)
Quale responsabilità?
«Quella di dover reagire a un'aggressione, a un tentativo disperato dello Stato di fermarci.
Quando parla di "accelerazione" del percorso avviato con il referendum, cosa intende esattamente?
«Che il popolo ci sosterrà ancora di più. Anche quelli che fino a ieri erano più timidi, dopo questi arresti passeranno decisamente dalla nostra parte. Qui in Veneto si sta verificando una saldatura che sta travalicando anche i ruoli.»
Quali, per esempio?
«Non può immaginare quanti suoi colleghi mi stanno chiamando per incitarmi ad andare avanti.»
L'indipendentista veneto Andrea Viviani assaltò piazza San Marco, ora dice: "Ci saranno altre azioni". Dopo gli arresti dei 'secessionisti' veneti, parla Andrea Viviani. Il membro del commando che nel ’97 si asserragliò sul campanile di Venezia dice: “In 17 anni non è stato fatto nulla per l’autodeterminazione del Veneto. Ma serve la diplomazia, non le armi”, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. Il suo nome dice ben poco. Eppure nel maggio del 1997 Andrea Viviani finì sui giornali di tutto il mondo per il celebre assalto al campanile di San Marco, realizzato dirottando un vaporetto e caricandoci sopra un carro armato artigianale (“il tanko”). Nel commando lui era proprio l’uomo asserragliato lassù con un Mab 38, un mitra residuato bellico della Seconda guerra mondiale ma perfettamente funzionante. Con lui c’era Luca Peroni: avevano viveri per resistere tre giorni, le teste di cuoio dei carabinieri li arrestarono con un blitz dopo poche ore. Per quell’azione, Viviani ha scontato 3 anni e 9 mesi di carcere. Uscito di galera, ha ripreso da dove aveva lasciato e coi compagni superstiti di quell’avventura ha rifondato la Veneta Serenissima Repubblica, governo “immaginario” che porta avanti il vessillo della Repubblica di Venezia schiacciata da Napoleone e venduta all’Austria nel 1797. Obiettivo: rifare il referendum del 1866 che sancì l’annessione del Veneto al Regno d’Italia, il cui risultato è considerato frutto di brogli. Lui è il ministro della Giustizia, il presidente della Repubblica è lo stesso Peroni (anche lui condannato a 3 anni e 9 mesi). Gli altri sono un edicolante in pensione (agli Interni) e un assicuratore (agli Esteri). Sugli arresti di oggi Viviani non ha dubbi e all’Espresso afferma: «Non sarà l’ultimo caso».
Perché dice così, ci saranno nuovi casi come quello di oggi?
«Certo, perché questo è il risultato dell’immobilismo del governo italiano. Noi con la liberazione di piazza San Marco volevamo porre il problema del diritto del Veneto all’indipendenza. Il governo italiano invece in questi 17 anni fa non ha fatto nulla, ha continuato con la politica delle tasse e a prendere in giro il nostro popolo. Ha solo detto “sono i soliti ubriaconi indipendentisti” e non ha risposto alle domande che noi provocatoriamente avevamo fatto. Quindi quello di oggi non sarà l’ultimo caso e non lo dico per minacciare ma perché è inevitabile. Speriamo non accada nulla ma il popolo vuole l’indipendenza. Lo dice il diritto internazionale: il popolo ha il diritto di decidere.»
Quella militare è una via percorribile?
«No, noi abbiamo scelto la strada diplomatica per chiedere di svolgere nuovamente il referendum del 1866. In questi anni noi abbiamo allacciato vari rapporti in campo internazionale, come con l’Abkhazia (la repubblica secessionista di Georgia riconosciuta dalla Russia, ndr) perché crediamo che questo sia il momento dell’azione politica internazionale. Ma la verità è che i politici italiani hanno paura. Noi invece non abbiamo paura di chiedere ai veneti cosa vogliono fare.»
Il segretario della Lega afferma che lo Stato italiano è alla follia e vuole solo far paura.
«Non siamo vicini politicamente a Salvini ma sappiamo come funziona lo stato italiano. Di certo gli arrestati di oggi si dovranno assumere la responsabilità delle loro scelte.»
Che effetto le ha fatto la notizia di questi arresti?
«Mi ha ricordato la sensazione di 17 anni fa. Mi dispiace molto perché sono persone conosco da vent’anni e che non farebbero del male a nessuno. Ma mi dispiace anche che non abbiano capito che questo è il momento dell’azione politica, non di quella violenta. Resta il fatto che, anche se da anni non collaboriamo più con loro perché abbiamo preso altre strade, quelli finiti in manette sono e resteranno nostri amici.»
Gli arresti di oggi avvicinano o allontanano l’indipendenza del Veneto?
«Nell’immediato complica le cose ma non è detto. Bisogna vedere come risponderà la gente. Nel ‘97 nemmeno noi speravamo nel sostegno nei nostri confronti e invece il popolo veneto ha dimostrato di essere tutto dalla nostra parte.»
L'indipendentista veneto Rocchetta: "Non sono terrorista. Ecco la mia storia: Vengo dal Pc e Lotta Continua." In una lettera inedita mandata a "L'Espresso", il leader della Liga Veneta ed ex deputato finito in manette si racconta. E spiega: «Mai stato in Ordine Nuovo, sono antimilitarista», scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Tra le 24 persone finite in carcere e accusate dal Ros e dai pm di Brescia di «terrorismo ed eversione», Franco Rocchetta è di certo il nome che colpisce di più. Fondatore della Liga Veneta, ex sottosegretario agli esteri nei primi anni '90, è un politico conosciutissimo in Veneto per le sue idee secessionistiche e irredentiste. «Un patriota», l'ha subito definito Mario Borghezio. Per la procura, invece, farebbe parte de "L'Alleanza", un gruppo che avrebbe progettato «varie iniziative, anche violente, finalizzate a sollecitare l'indipendenza del Veneto e di altre parti del territorio nazionale dallo Stato italiano». Tra le iniziative documentate dall'inchiesta dei carabinieri, persino «la costruzione di un carro armato, sottoposto a sequestro, da utilizzare per compiere un'azione eclatante a Venezia in piazza San Marco». Chi scrive ha avuto numerosi contatti con Rocchetta negli ultimi mesi: l'ex ideologo dei lumbard, considerato dalla base un mito alla stregua di Gianfranco Miglio, s'era offeso perché in un inchiesta lo avevo definito vicino all'estrema destra. Ecco come si raccontava in una lunga lettera che ha spedito al giornale qualche settimana fa. «Gentile Fittipaldi, ho sempre manifestato e posto in atto idee e comportamenti ispirati al dialogo ed al bene comune, antimilitaristi e democratici, non sono mai stato né nazionalista né estremista. Fin da ragazzino, sempre curioso, e desideroso di informarmi su tutto attraverso ogni persona ed ogni canale, ho espresso simpatia ed ammirazione per i sistemi federali; la mia opposizione ai miti fascisti ed al mito della Grande Guerra (come di ogni altra guerra) mi ha provocato problemi con i professori già al tempo delle Scuole Medie. Problemi poi aumentati quando ho iniziato a tradurre quelle posizioni in scritte murali». Rocchetta non crede nell'unità nazionale nemmeno da adolescente. «A diciassette anni, nel 1964, sono indagato perché i Carabinieri hanno intercettato alcune mie lettere di solidarietà inviate ai familiari di attivisti sudtirolesi per la libertà. Nell’Inverno 1969-1970 ho organizzato a Venezia e nel Veneto una serie di manifestazioni ed eventi clamorosi contro la svendita coloniale del territorio e della salute degli operai e della popolazione, eventi accompagnati dalla diffusione capillare, lungo distanze enormi, di scritte murali e di manifesti a stampa che denunciavano l’attiva complicità dell’intero gruppo dirigente veneto della DC in tali crimini : in conseguenza di tutto ciò è stato avviato un processo-monstre, determinato da querele e controquerele, denunce e controdenunce, il "processo Rocchetta"». L'ex sottosegretario nega, più volte, qualsiasi vicinanza all'estrema destra, accuse che gli vengono rivolte in varie biografie. «Le uniche forze politiche alle quali nel corso della mia intera vita sono stato iscritto» chiosa «sono il PRI veneto, il PCI (per il quale per anni ed anni ho stilato a mano dazebao lunghissimi in veneto ed in altre lingue, ancora oggi ricordati) e Lotta Continua. Ho lasciato il PCI quando i suoi maggiori esponenti veneti hanno iniziato a sostenere che "è un grave errore parlare di popoli spagnoli, giacché", dicevano, "esiste un unico popolo spagnolo" : le stesse parole, gli stessi concetti, la stessa posizione del franchismo...Ho collaborato con Lotta Continua anche in Portogallo, negli anni della Rivoluzione incruenta, svolgendovi servizio sanitario volontario. Sono diventato amico di parecchi degli artefici di quella così pacifica rivoluzione». Rocchetta partecipa alla nascita delle prime «radio libere» del Veneto, ed da vita alla Łiga Veneta negli anni '80: «L’ho fatta crescere e la ho difesa da ogni attacco, golpe, infiltrazioni e guerre. Sono anche Cofondatore della Lega Nord nel 1989, e ne sono stato eletto Presidente federale nel 1991 e nel 1994, battendo democraticamente in entrambi i congressi i candidati sostenuti da Umberto Bossi anche con vari ricatti rivolti ai congressisti. Non condividendo l’escalation antidemocratica della Segreteria, né l’accettazione dei fiumi di denaro che la sommergevano, nell’Estate del 1994 ho lasciato la Lega di mia iniziativa». Rocchetta in alcuni ritratti sui giornali è stato considerato vicino anche al movimento fascista Ordine Nuovo, qualcuno lo definì anche affiliato ad Avanguardia nazionale. Questo perché il leader della Liga nel 1968 partecipò a un viaggio con vari leader post-fascisti nella Grecia dei Colonnelli. Lui spiega così la sua partecipazione: «Al viaggio degli studenti greci cui mi aggrego perché estremamente a buon mercato (studenti non ostili al regime, e quindi liberi di andare e venire) è collegata una combriccola di studenti di destra italiani che più eterogenea non sarebbe potuta essere : chi vagheggiava Dante citandone le terzine a memoria, chi questo o quel calciatore, chi il Papa, chi gli Imperatori, chi i mistici europei od indiani; venivano dalla Calabria, da Roma, dal Veneto, molti di essi senza nemmeno il denaro per mangiare e per spostarsi, e si salvarono grazie a più collette. Una volta in Grecia, qualcuno può aver incontrato dei referenti politici, il grosso si disperse nelle locande e nei postriboli, io ne approfittai per visitare i luoghi sognati al ginnasio e al liceo. Una gita sgarruppata, dove ognuno si mosse a suo piacimento. I nomi di un paio dei partecipanti rimbalzeranno negli anni a venire collegati a cronache tristi od anche tragiche». L'accusa di essere state un ordinovista ha creato a Rocchetta, racconta lui, un bel po' di magagne: «Quando avevo già lasciato la Lega (che con me mai era stata di destra) e la politica da vari anni, nel 1997, sono stato aggredito e colpito alla testa con spranghe e pietre da ragazzotti esaltati anche dalle parole di un professore, Angelo Ventura (uno storico dell’Università di Padova), il quale (così come già un altro storico, Giuseppe Galasso) mi aveva pochi giorni prima definito anche alla radio «ordinovista» solo perché lo aveva «letto da qualche parte», come poi mi disse con candore sconcertante, senza cioè preoccuparsi minimamente di effettuare una qualche verifica storica. Eppure, nel giro di poche settimane, come frutto rasserenante di quell’aggressione tanto crudele quanto idiota, mi si sono avvicinati comportandosi da allora da amici Luca Casarini e Beppe Caccia». Sarà proprio con Casarini che nel 1999 Rocchetta va a Belgrado per una sorta di missione diplomatica. «Ho così organizzato una colonna di auto che ha raggiunto Belgrado e la Serbia meridionale tra le bombe ed i missili, le macerie, le devastazioni, le perdite in vite umane e gli incendi (e da lì ho proposto a Michele Santoro la nota trasmissione televisiva da un ponte sul Danubio presidiato da scudi umani volontari) : bene, a quella missione di pace e di dialogo hanno partecipato, assieme a diplomatici e giornalisti, proprio Beppe Caccia e Luca Casarini, con don Vitaliano della Sala e Gianfranco Bettin». Di recente, Rocchetta stava tentando di ridare slancio al movimentismo indipendentista del Veneto. Con metodi, sostiene la procura, poco ortodossi. Per lui, oggi, si sono aperte le porte del carcere.
VENETO RAZZISTA E SECESSIONISTA.
Mandorlini in versione ultras canta con i tifosi veronesi "Ti Amo Terrone. I supporters gli rispondono: «Salerno vaffa...». Acquisito il filmato, la Figc deferisce l'allenatore, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Continua ben oltre i 180 minuti dei play-off di Lega Pro la sfida tra Verona e Salernitana segnata in giugno da violenti scontri tra diverse fazioni ultras. A rinfocolare gli animi il giorno della presentazione del nuovo Hellas Verona, la squadra allestita dalla società gialloblù per affrontare la serie B dopo aver strappato la qualificazione proprio ai danni della Salernitana, l'allenatore Andrea Mandorlini ha lanciato un coro dai toni vagamente razzisti. Il tecnico ravennate, che ha guidato il Verona alla vittoria nella finale degli spareggi, si è presentato ai suoi tifosi festanti domandando il silenzio necessario per dare il là alla canzone. «Mi sembra giusto rendere omaggio a degli avversari leali, sportivi e anche simpatici» ha esordito Mandorlini. Interrotto dai fischi del pubblico l'allenatore ha provato a riprendere il filo del discorso: «Quindi tutti insieme, mi raccomando, pronti...», ma è stato interrotto dai cori di sfottò anti-granata: «Salerno vaffa...». «Così non va bene» li ha ripresi il tecnico intonando infine il coro d'«omaggio» ai terroni, per cui cercava inizialmente l'ispirazione: «Tutti insieme, ti amo terrone, ti amo terrone, ti amo...». Citazione degli Skiantos di «Italiano terrone che amo», cui Mandorlini ha aggiunto un pensiero a giocatori e staff di natali meridionali: «Maietta (nativo di Cariati, Cosenza) ha aperto un chioschetto qui». L'allenatore del Verona ha poi voluto rispondere alle polemiche e alle accuse di razzismo rivoltegli, spiegando che si è trattato di una canzone goliardica: «Ma quale coro. Ho solo intonato una canzoncina (Ti amo terrone, ndr) assieme a due ragazzi della squadra, Maietta, calabrese, ed Esposito, napoletano. Era una canzone goliardica, ma quale razzismo. Anzi, all'inizio del mio intervento davanti ai tifosi ho voluto rendere omaggio alla Salernitana. Ci sono le immagini televisive che lo possono testimoniare. Nessun razzismo, anzi, quando i tifosi hanno intonato cori offensivi nei confronti dei nostri avversari li ho zittiti». A poche ore dal fattaccio la Procura federale ha aperto un procedimento di carattere disciplinare sul comportamento del mister del Verona. È già stato acquisito agli atti il filmato che documenta quanto avvenuto; nelle prossime ore Mandorlini sarà interrogato dagli uomini della Procura della Figc per raccogliere tutti gli elementi utili e assumere le decisioni conseguenti.
La Lega difende il mister Mandorlini. Tosi: «Non c'è stata nessuna intenzione razzista», scrive Matteo Fontana su “Il Corriere del Veneto”. Un coro che scatena la bufera. Su Andrea Mandorlini, che, durante la presentazione ufficiale dell’Hellas, in via Sogare, martedì sera, ha preso il microfono ed ha intonato le parole «Ti amo terrone», dedicandole alla Salernitana, avversaria nella finale dei playoff di Prima Divisione del Verona. Estratto del ritornello della canzone «Italiano terrone che amo», storico successo degli Skiantos. Un tormentone che accende polemiche, che produce immediate accuse di razzismo. O meglio, rinnova determinati toni roventi. Perché, tra Mandorlini e Salerno, sono volati fulmini e saette, nei giorni caldi che hanno deciso la B. Prima di tutto, però, ecco la replica dell’allenatore gialloblù, in merito alla vicenda: «All'inizio del mio intervento ho reso omaggio agli avversari. Anzi, ho addirittura zittito il coro offensivo contro la Salernitana. E ci sono anche le immagini che ho già visto girare in internet che confermano questo. Quella canzoncina, era solo goliardia, tant'è che, come sempre si può vedere nelle immagini della serata, l'ho cantata in compagnia di Maietta e Esposito, il primo calabrese, l'altro napoletano doc». C’è il retroscena noto, dietro agli sfottò. Perché Mandorlini, prima della gara d’andata con la Salernitana, aveva criticato certi articoli in cui, dalla Campania, si osservava che o i granata andavano in B oppure la società spariva (ed è quel che è poi successo): «Reclamano aiuti, ma li hanno già avuti», disse, all’epoca, il timoniere dell’Hellas. Da Salerno, piovvero macigni, con tanto di una manifestata intenzione di sporgere querela ai danni di Mandorlini. La settimana successiva, tensione ancora più alta, con Mandorlini ritratto, sulla pagina Facebook di un blogger- giornalista locale, con una pistola alla tempia e, sopra, la scritta «Sono un uomo di m…». L’autore, dopo, fece precipitosamente marcia indietro, adducendo la giovane età e l’inesperienza a scusante per il poco discutibile gestp. E, a Salerno, il clima fu ancora più bollente. Una sorta di caccia a Mandorlini, negli spogliatoi dell’Arechi, dopo che la partita di ritorno, persa per 1-0 dal Verona, che partiva dal vantaggio del 2-0 di gara 1, aveva sancito la promozione dell’Hellas in B e la fine della speranze della Salernitana. In sala stampa fu possibile al mister ravennate rilasciare solo poche dichiarazioni, prima che venisse fuori il putiferio. Adesso, a sostenere Mandorlini (che ora rischia il deferimento), arrivano le parole di Flavio Tosi, sindaco di Verona presente, pure lui, al vernissage dell’Hellas e immortalato piuttosto divertito durante i cori: «Credo che se in uno stadio del Sud venisse intonato il coro "Ti amo polentone" nessuno al Nord si offenderebbe. Penso che Mandorlini, nell'intonare il ritornello di una vecchia canzone non avesse minimamente intenzioni razziste. Come, del resto, nemmeno i numerosi giocatori originari del Sud Italia che giocano nel Verona». Commento deciso anche per Lorenzo Fontana, europarlamentare leghista che era in via Sogare e che spiega: «Sono assolutamente allibito. Il coro incriminato era inequivocabilmente ironico, come dimostrato dal fatto che due giocatori dell’Hellas Verona di origine meridionale, il calabrese Domenico Maietta ed il campano Gennaro Esposito, intonavano divertiti lo stesso coro assieme al tecnico Mandorlini». A Salerno, invece, non l’hanno presa per niente bene. Sulla sua pagina di Facebook, il sindaco della città campana Vincenzo De Luca (con cui per altro sono ottimi i rapporti con Tosi) si rivolge direttamente all’allenatore gialloblù: «Caro Mandorlini, ma è proprio così difficile comportarsi in maniera civile e responsabile? Ma è proprio così difficile ricordarsi che lo sport dovrebbe essere una vera e propria festa ispirata al rispetto dell'avversario e ai valori della correttezza e della lealtà sul campo e fuori dal campo?». Segue un profluvio di commenti. Da quelli più diplomatici, come Antonio Rofrano che urge De Luca a chiedere «al suo collega Tosi dei chiarimenti in merito»; a quelli più arrabbiati, come Alfonso Coscia, «1000 Mandorlini non fanno un uomo», oppure Davide Di Stefano: «De Luca- Tosi= ipocrisia... Salerno odia Verona e così sempre sarà» Anche sui siti tradizionalmente più frequentati dai tifosi dell’Hellas il tema è dibattuto senza interruzioni: «Mandorlini è stato ironico. E aveva pieno diritto di esserlo visto come si erano comportati giocatori e giornalisti della Salernitana. Poi ha fatto della goliardia, sapendo di avere metà giocatori del Verona che sono del Sud», scrive Ziga su hellastory.net. Per Enrico, tuttavia, «l’uscita di Mandorlini è stata inopportuna. L’allenatore, visto il ruolo che ricopre, farebbe meglio ad evitare certe uscite ». Facy aggiunge: «Ovvio che è stata una goliardata, anche se mi è parsa di cattivo gusto». Botta e risposta. E, dunque, per una volta, Mandorlini, idolo gialloblù, proclamato «Santo subito» dallo striscione comparso proprio nella serata dell’Olivieri, in un certo senso divide il popolo dell’Hellas. Con Nict che, dal canto suo, si sfoga ed annota: «Questi sono i problemi? Non è stato razzismo, i tanti giocatori meridionali del Verona sono sempre stati incitati. A certa gente non interessa che Mandorlini sia stato aggredito, a Salerno. Si sono fatti una certa idea di Verona, e questa rimarrà per sempre».
Veneto razzista. Mi arriva un sms, da un mio amico scrittore che sta a Roma: “Leggete Repubblica! Fate qualcosa!”, scrive Roberto Ferrucci. Lì per lì non capisco e chiedo: “Cosa?”. “Ci sono tre pagine sul Veneto razzista”. E mi ritrovo a rispondergli che è così, sì. Questa terra, la mia terra, è oggi il territorio più intollerante, verbalmente violento, del nostro paese. Gli rispondo e rabbrividisco nel rendermi conto che si tratta di una constatazione agghiacciante. Come se anch’io non potessi far altro che prenderne atto, allargare le braccia e voltarmi dall’altra parte. Poi non è proprio così, lo so. Di questa deriva scrivo da anni. In un libro – Andate e ritorni – ne tracciavo i presupposti, gli accenni evidenti già sul finire degli anni novanta. E ne ho scritto anche qui, di recente. Solo che quel che ho provato ieri, leggendo quel sms, è stato un misto di impotenza e rassegnazione. Come se non ci fosse più spazio, in me, per l’indignazione, la rabbia. Come se quei sentimenti, messi sotto assedio dalla propaganda cialtrona, dalla disinformazione demagogica, avessero alzato bandiera bianca. Ho letto il reportage di Fabrizio Ravelli, su Repubblica, impeccabile, vero. Ho letto lo smarrimento sconcertato di Ilvo Diamanti, che non ha più chiavi di lettura per interpretare questa orrida ondata di intolleranza. La tristezza dello storico Franzina, che pensa di andarsene, fuggire da questo Veneto irriconoscibile, inaccettabile. Cosa che da tempo, pur vivendo nell’isola felice di Venezia, lontana dalle turpitudini del profondo Veneto, sto meditando anch’io. Prima, però, credo di avere il dovere morale di raccontarlo, il Veneto razzista.
Storie di razzismo antimeridionale. Una testimonianza di una meridionale trapiantata in Veneto. «Che importa che muoia: tanto è un terrone!». Avevo anagraficamente ventisette anni, ma scarsa esperienza della realtà: avevo sempre studiato. Per questo, quando sono entrata, proveniente da Lecce, in una scuola superiore di San Donà di Piave ho impiegato un po’ di tempo a capire. Io tenevo le mie lezioni di lettere, ero stimata dai miei alunni e dai loro genitori, ma quando mi recavo a supplire in classi diverse dalle mie, in cui non avevo “l’arma” del voto facevo fatica a farmi ascoltare. Non era soltanto questo: le mie entrate e le mie uscite erano accompagnate da risatine. Non mi pareva di essere ridicola: certo non ero alta, portavo gli occhiali, ma sapevo il fatto mio. Ero aliena da ogni pregiudizio giacché, a causa dell’asma della mia sorellina, fin dagli anni cinquanta, la mia famiglia aveva sempre frequentato le Dolomiti: Faé di Longarone, Laggio, Auronzo. Avevamo molto sofferto per la tragedia del Vajont in cui avevamo perduto amici e conoscenti. Bambina ero venuta da turista nel Veneto e, conseguita la laurea, tornavo per lavorarci: mi sembrava logico e normale. Non ero forse italiana tra italiani? Probabilmente a causa di questa buona fede impiegai un po’ di tempo a capire le risatine. Lo capii quando, passando per il corridoio, durante un intervallo, sentii un “Concettina, ah Concettina” pronunciato con un accento che voleva scimmiottare quello di un immaginario meridione. Restai molto colpita dalla scoperta di essere una terrona e di essere oggetto di scherno. Mi tornò in mente di quando un mio cuginetto, colpito a sei anni da un tumore al cervello - erano gli anni 50 - era stato portato a Milano per essere curato; era stato poi ricondotto a casa dove morì implacabilmente per il brutto male. Ricordo che i genitori, nonostante il dolore della perdita atroce, raccontavano a noi famigliari che un medico di quell’ospedale di Milano aveva detto ad un collega, riferendosi al loro piccolo e alla sua incurabile malattia: “Che importa che muoia: tanto è un terrone!” Nel corso della mia permanenza nel Veneto, dove ho messo su famiglia, ci sono stati presidi che mi hanno elogiata dicendomi che ero di “sangue buono” nonostante le origini. Altri che hanno affermato nei collegi dei docenti che da Roma in giù regna l’ignoranza più completa. Ho appreso tanti luoghi comuni sul Meridione che hanno piano piano costruito questa leggenda nera di cui io ero parte: sono stata intimamente umiliata. Il massimo della vicinanza umana l’ho percepita in frasi come: “Tu, però, sei diversa! E poi oramai sei Veneta!” Poi è venuta la Lega e la situazione è peggiorata ulteriormente: il pregiudizio strisciante è diventato aperto insulto e razzismo. Le trasmissioni delle radio o delle televisioni locali, i siti di queste organizzazioni sono spaventose per il nazileghismo di cui grondano. Ora ho sessant’anni, sono andata in pensione, osservo con minore sofferenza questo fenomeno doloroso. Da questo nasce il mio desiderio di dire agli italiani attenzione: là dove voi credete di votare per un dirigente liberista come Berlusconi o per un politico conservatore come Fini, in realtà date forza ad una formazione ed una mentalità- il leghismo- che vorrebbe epurare il sud e, per ora, lo riempie di insulti e di minacce di morte. Pensate bene quando voterete: questa destra non è la destra di nazioni come la Francia o la Germania. E’ una destra che vomita odio e per la quale il concetto di identità è sempre più circoscritto. Non c’è verso di far comprendere che il sud non è rappresentato soltanto da Mastella e Cuffaro. Concetta Centonze. San Donà di Piave (VE).
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente. L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est, scrive “Globalist”. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Il comitato referendario Plebiscito.eu ha annunciato la data in cui si terrà il referendum di indipendenza del Veneto: si voterà domenica 16 marzo dalle ore 7 alle ore 22 e da lunedì 17 a venerdì 21 marzo dalle ore 9 alle ore 18. L’indizione della Votazione Elettronica segue l’approvazione della Risoluzione 44/2012 da parte della Regione Veneto e di tutti i Comuni e province del Veneto che hanno approvato il percorso referendario per l’indipendenza del Veneto. Il quesito che sarà posto a tutti i cittadini veneti residenti con diritto di voto sarà il seguente: “VUOI CHE IL VENETO DIVENTI UNA REPUBBLICA FEDERALE INDIPENDENTE E SOVRANA?”. Ogni cittadino potrà votare con un Sì, oppure con un No.
Veneto, da oggi referendum per l'indipendenza. Zaia: "Attento Renzi, vogliamo scappare". Luca Zaia, governatore veneto, la saggezza pop dice che nel cuore d’ogni veneto ghe xè on Leon, miga on cojon, scrive Francesco Specchia su "Libero Quotidiano".
Da oggi on line fino al 21 marzo 2014 - giorno dello spoglio in piazza dei Signori a Treviso - c’è il «Plebiscito per l’Indipendenza del veneto».
«Eviterei le domande: va a votare? O Cosa ne pensa del Plebiscito?».
E allora, perdoni, cosa le chiedo?
«Per carità, ben venga il Plebiscito, è la terza o quarta volta che si tenta di farlo; e solo la Lega ha raccolto nei gazebo 100mila firme. Ma è l’iniziativa di un partito che si chiama appunto “Plebiscito 2013”, costola di un altro partito , “Indipendenza veneta”. Bisogna fare delle riflessioni. Il sospetto è che la gente voglia l’indipendenza perché, strangolata dalla crisi chiede tassazioni più basse, mi piacerebbe che pensassero all’indipendenza come movimento culturale, tipo Catalogna o Scozia».
Diciamolo: dovevate votare l’indipendenza in Consiglio regionale, ma c’eravate solo voi 20 leghisti e pochi altri. Ed è saltato.
«Tecnicamente per fare un referendum sul tema ci vuole una legge regionale, e un Consiglio che voti la legge; l’anno scorso non la votò e la fece tornare in commissione, perché quella legge non aveva la maggioranza e non sarebbe passata». Ma sarebbe stata comunque incostituzionale: «La Repubblica è una e indivisibile»
articolo 5 della sacra Carta...
«Vero, però il diritto di autodeterminazione e il diritto internazionale ci danno ragione, e noi avremmo fatto volentieri scoppiare il dibattito sul referendum. Ma, fosse stato fatto così, da qualcuno per vezzo, non avrebbe avuto efficacia giuridica. La verità è che è importantissimo seguire quel che avviene in Catalogna».
In Catalogna? Intende al referendum omologo di Artur Mas?
«Sì, loro sono avantissimo: dobbiamo capire se sull’indipendenza riescono ad aprirci un varco. La loro deadline è il 9 novembre 2014. Se l’indipendenza la ottiene Barcellona, seguendo il loro metodo potrebbe ottenerla Venezia».
Il premier Renzi si è espressamente dichiarato per il contro-referendum.
«Renzi, come tutti da Roma, ci guarda dall’alto in basso, crede che stiamo al Luna Park. Ma il fermento indipendentista è sempre più forte, e non dipende dalla gente del nord sempre più strozzata, dipende da Roma. Matteo l’ha detto chiaramente di non credere alle regioni, anzi fosse per lui le abolirebbe. É un neocentralista che ha un ideale di sviluppo fordista; noi siamo quelli del distretto industriale diffuso. Fosse per Renzi la Bavaria industriale autonoma non esisterebbe. Lui giustifica questa cosa affermando che “ci sono regioni non virtuose”; io rispondo: “ma scusa, perché non punisci quelle?”. La verità è che ci vogliono le palle».
Una visione testicolare della politica che richiama la Lega bossiana, e un po’ i toni odierni del suo segretario Salvini, oserei...
«Salvini sta facendo un buon lavoro. Ma è Renzi che deve avere il coraggio di dire: che metà d’Italia -il sud- è tecnicamente fallita, e bisogna mandare i curatori fallimentari. Vendere le auto blu non risolve il problema, e neanche tassare le rendite finanziarie; è vero che in Germania le aliquote sono al 26%, ma lì hanno la pressione fiscale al 46% , da noi è al 68%..».
Però il governo, oggi, lavora in direzione opposta al federalismo come lo volevate voi (che, tra l’altro non ebbe un gran successo). La trasformazione del Senato è diversa dal modello di Miglio, la cancellazione del titolo V° non ne parliamo.
«Guardi, il Veneto è la regione più identitaria d’Italia: 7 persone su 10, trasversalmente pensano e parlano in Veneto. Il federalismo, per noi, era un passaggio obbligatorio, una forma di educazione. Abbiamo bussato alla parta con i fiori in mano, ci siamo puliti i piedi sullo zerbino, ma non ci hanno aperto. A ’sto punto, la porta noi la sfondiamo. Ormai siamo al Big bang delle istituzioni, le rivoluzioni nascono dalla fame; e ci siamo, alla fame. Il Veneto può scappare. Perchè siamo incazzati: abbiamo perso 85mila posti di lavoro, siamo quelli che ogni anno lasciano a Roma 21 miliardi di tasse, e ci ignorano...».
Però, ora, guarda caso, il ritorno ai regionalismi tentano di cavalcarlo in molti. Grillo, per dire, evoca la «Repubblica di Venezia», roba sua, Zaia. O no?
«Grillo non si capisce cosa voglia; se vuole l’indipendenza venga a firmare ai gazebo, ma non penso che i suoi siano d’accordo».
A Treviso, però nell’ex «Zaiastan» il sindaco è renziano del Pd...
«Onore ai vincitori. Ma io non ho problemi nel mio rapporto con gli elettori. Votano per me ancora 6 su 10. La verità, veda, è che la ricreazione è finita».
Questo lo dice anche Renzi.
«Questo lo tolga...».
Flavio Tosi e le tangenti del vicesindaco: bufera giudiziaria a Verona. L'ex vice del primo cittadino ed ex assessore all'edilizia Vito Giacino è finito in galera per "concussione continuata". E con lui la moglie, che mascherava le mazzette del marito con finte consulenze legali. Una storiaccia che sta incrinando la storia d'amore tra Tosi e la città, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. La città di Romeo e Giulietta è finita in mano a Bonnie & Clyde: il vicesindaco, re dell’edilizia, e la sua appariscente mogliettina, arrestati con l’accusa choc di concussione continuata. Sei anni di tangenti, intascate da lui e lei, secondo l’accusa, con tariffe da malaffare sistematico: chiedevano il pizzo in percentuale, da 10 a 40 euro al metro quadro. Uno scandalo surriscaldato da ricatti, tradimenti, dossier anonimi, videotrappole e troppi soldi facili, che sta incrinando la storia d’amore tra il votatissimo Flavio Tosi e la sua Verona. La bufera giudiziaria è scoppiata proprio mentre il sindaco leghista si preparava al salto nazionale, con tanto di fondazione politica per diventare l’anti-Renzi, il leader pulito di una destra moderna. Ma ora la sua giunta sembra un fortino assediato: arresti, interdizioni, raffiche di inquisiti, imprenditori e dirigenti che denunciano appalti d’oro e assunzioni clientelari nelle società comunali o addirittura confessano tangenti milionarie. Va detto subito che Tosi, personalmente, non è indagato. Ma al centro dei tanti scandali c’è la sua cerchia più fidata. La botta più forte è arrivata il 17 febbraio 2014, giorno dell’anniversario della Tangentopoli milanese. Vito Giacino, ex berlusconiano diventato l’uomo forte della giunta Tosi, cioè vicesindaco e assessore all’urbanistica e all’edilizia, entra in carcere per «concussione continuata dal 2008 al 2013». Sua moglie, Alessandra Lodi, avvocato, è agli arresti domiciliari: mascherava le mazzette al marito con finte consulenze legali. L’inchiesta parte da un micidiale anonimo che ha svelato il trucco delle parcelle alla consorte, pagate da almeno sette aziende in affari col comune. Sentito dalla polizia giudiziaria, un imprenditore immobiliare, Alessandro Leardini, ha già confessato di aver dovuto versare 690 mila euro a quella coppia di denari: 510 mila in contanti, altri 180 mila coperti con le fatture della moglie del politico. Ed era solo un anticipo: il vice di Tosi reclamava un altro milione e 170 mila euro. «Giacino ha utilizzato l’ufficio pubblico come moltiplicatore del profitto personale», spiega il giudice Guido Taramelli nell’ordinanza che bolla i coniugi come «professionisti del crimine». Ne è passata di acqua sotto i ponti dell’Adige da quando Tosi sembrava non sbagliare un colpo. Vinte le elezioni del 2007 con l’appoggio in extremis di Berlusconi, il leghista fedele a Maroni è stato tra i primi a divorziare dal cerchio magico di Bossi, ancor prima che si scoprissero le ruberie del tesoriere Belsito, e nel 2012 ha scaricato pure Forza Italia, riconquistando la città scaligera con il 60 per cento dei voti. Ora la festa è finita. Tra la folla assiepata sulle scalinate bianche del Comune, per assistere all’infuocato consiglio dove il sindaco è costretto a difendere «l’amico Giacino», con tutti gli altri inquisiti, in nome del «garantismo», spicca una distinta signora coi capelli bianchi: «Credevamo in Tosi, siamo molto delusi». Suo marito sta già con gli indignati: «In galera!». In coda c’è pure il mite ex sindaco di centrosinistra, Flavio Zanotto, che commenta: «Era ora che la procura cominciasse a fare pulizia». In città tutti sanno che Giacino era l’assessore più votato e più potente: il successore designato di Tosi. Le motivazioni dell’arresto (68 pagine) sono devastanti. C’è il superassessore che incontra di nascosto il costruttore taglieggiato (e altri imprenditori citati dall’anonimo) con tecniche da film di mafia: telefonini spenti, nomi di fantasia sulle agende, un faccendiere che recapita messaggi orali, il politico che depista le indagini consegnando istruzioni scritte, che i magistrati definiscono «pizzini». C’è un fiume di denaro nero: pacchi di contanti riversati perfino sui conti delle mamme o della nonna. Ci sono le vacanze a Praga, le cene a Venezia e Mantova, gli alberghi di lusso a Milano e Roma che il politico si faceva innegabilmente pagare dal costruttore. E poi c’è lei, la moglie avvocato, che a 35 anni incassa parcelle da 806 mila euro nel solo triennio di crisi 2010-2012, però non lavora mai: non ha uno studio legale, è ospite di una collega ma non ha le chiavi e nemmeno la password del computer, le poche consulenze effettive gliele scrivono altri avvocati, gli imprenditori la pagano solo perché è la moglie del politico che controlla tutti gli affari edilizi. E che affari: «I piani urbanistici di Giacino stanno seppellendo Verona sotto una colata di cinque milioni di metri cubi di cemento», spiega l’architetto Giorgio Massignan, che ha presentato con Italia Nostra un esposto contro «i troppi favoritismi a pochi privati». Guariente Guarienti, l’avvocato più noto in città, prevede nuove tempeste: «Ai tempi di Tangentopoli Verona ha avuto il record nazionale di arrestati in rapporto alla popolazione, ma dopo aver confessato e patteggiato si sono quasi tutti riciclati nel centrodestra. La giunta Tosi ha solo creato una nuova leva di affaristi». Michele Bertucco, capogruppo del Pd a Verona, autore dell’esposto che ha fatto scoppiare lo scandalo, ora chiede i nomi dei finanziatori del sindaco: «Il sistema è al capolinea. Il caso Giacino non si può liquidare come affare di famiglia: un uomo solo non basta a manovrare tutta l’urbanistica. Tosi ha il dovere della trasparenza: nel 2013 è stato l’unico candidato che si è avvalso della facoltà di tenere segreti i suoi finanziatori elettorali. Ora i cittadini vogliono la verità». Nelle intercettazioni è la stessa lady Giacino a diventare un riscontro vivente alle accuse: confessa ai suoi cari che l’amore è finito, resta insieme al marito solo perché «il lavoro me lo porta lui», mentre «io non saprei come mantenermi con 30 mila euro all’anno». Prima che lui diventasse assessore, «non avevamo i soldi per pagare l’affitto», mentre ora la coppia ha un tenore di vita «da favola». Eppure ritira in banca appena 126 euro al mese (con punte massime di 1462): per la procura è la riconferma che vivevano da sultani con il nero delle tangenti. Che hanno permesso a Vito & Ale di comprarsi, tra l’altro, un super-attico da 1,7 milioni di euro, incompatibile con i redditi ufficiali. Facendolo ristrutturare, con un incredibile sconto del 26 per cento su fatture già emesse, dalla chiacchieratissima Soveco spa, l’impresa che nell’era di Giacino è entrata nell’olimpo delle maxi-opere, nonostante gli stretti legami con un pregiudicato calabrese. Proprio i sospetti di agganci mafiosi sono al centro di un’inchiesta giornalistica di Report che ha scatenato il caos senza essere ancora andata in onda. Prima filtrano sulla stampa veronese voci di «dimissioni preventive» di Marco Giorlo, assessore di origini calabresi tradito da un’intervista. Tosi risponde denunciando alla procura un reporter di razza come Sigfrido Ranucci, videoregistrato di nascosto da un leghista che lo accusa di ordire un complotto politico a luci rosse. Un’inedita «querela preventiva» che fa salire al record di 70 le denunce della giunta Tosi contro giornalisti di mezza Italia. Ma ha l’effetto-boomerang di sdoganare una ridda di pettegolezzi irriferibili non solo sui Giacino’s, ma anche sulla vita privata di Tosi e consorte, che vivono in città separate: lei, Stefania Villanova, è un’impiegata della Regione promossa ai vertici della sanità veneta. Il sindaco continua a controllare tutte le leve del potere cittadino con i suoi fedelissimi, sfidando le accuse di lottizzazione partitica. Paolo Paternoster, segretario provinciale della Lega, è anche presidente dell’Agsm (luce e gas) e del polo fieristico (svendite di immobili pubblici). Stefano Zaninelli, ex consigliere delle Ferrovie per meriti padani, è il “tecnico” direttore dell’Atv (trasporti). Andrea Miglioranzi, ex estremista di destra e poi capogruppo della lista Tosi, è presidente dell’Amia (rifiuti). Ma ora la procura indaga anche sulle assunzioni clientelari: una Parentopoli che ricorda la Roma di Alemanno. La magistratura ha già decapitato l’Agec, l’azienda che gestisce le case popolari: l’ex direttore è stato arrestato per corruzione, altri otto dirigenti sono accusati di aver pilotato a favore di due «imprese amiche» l’appalto da 28 milioni di euro per le mense scolastiche. Cinque inquisiti hanno già patteggiato. E subito dopo la condanna sono stati tutti riammessi in servizio: lo stipendio lo pagano i veronesi.
GIORNALISTI. COSA NON SI FA PER SPUTTANARE? PAGARE…..LE FONTI.
La Rai paga per "sputtanare" Tosi?
La puntata di Report su Verona non è ancora andata in onda, ma Flavio Tosi ha già sporto querela, scrive Alessio Corazza su “Il Corriere della Sera”. Ieri mattina il sindaco si è presentato in procura, per un colloquio con il procuratore Mario Giulio Schinaia, cui ha affidato una denuncia per diffamazione nei confronti del giornalista Sigfrido Ranucci, che sta lavorando alla trasmissione della Rai in questi giorni. Ne ha dato notizia lui stesso in una conferenza stampa, ieri pomeriggio a Palazzo Barbieri. In due distinte registrazioni (una audio e una video, entrambe allegate alla denuncia) carpite dal cantautore ed ex leghista Sergio Borsato, contattato dallo stesso Ranucci per ottenere un video compromettente su Tosi, il giornalista - sostiene il sindaco di Verona - fa affermazioni di una «gravità inaudita». Tra le altre cose, «ha affermato di poter utilizzare fondi riconducibili alla Rai, per costruire una trasmissione con il chiaro intento diffamatorio, per distruggere, con notizie false, politicamente e personalmente un avversario politico, attraverso una trasmissione della televisione pubblica di Stato». Un riferimento, questo, alla trattativa che si coglie dalle registrazioni per l’acquisto del video in questione. «Ho piena fiducia in Sigfrido Ranucci - ribatte l’autrice di Report, Milena Gabanelli - In 17 anni di Report non abbiamo mai pagato un informatore e mai lo pagheremo. Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto. Per questo video ci sono stati chiesti dei soldi. Si è fatto intendere, come normalmente avviene in questi casi, una eventuale disponibilità, al solo fine di poter vedere i contenuti di questa registrazione». Gabanelli assicura in ogni caso che «nessun acquisto avrebbe in ogni caso avuto seguito. Sta di fatto che il video non lo abbiamo mai visto e nulla abbiamo mai comprato. Gli incontri-trappola organizzati da Tosi li abbiamo registrati anche noi e se sarà necessario a tempo debito verranno trasmessi integralmente. Al contrario di ciò che sostiene Tosi, Report non è una trasmissione politica e non ha simpatie o antipatie politiche, noi facciamo il nostro lavoro investigativo, le verifiche, e alla fine ciò che viene trasmesso sono solo le evidenze». Nuova controreplica di Tosi: «Dalle registrazioni risulta chiaramente e in modo inconfutabile che è vero esattamente il contrario ». Ovvero il video «dal contenuto diffamatorio» non è stato proposto al giornalista, «ma è stato lui a cercare di chiedere insistentemente di acquistarlo con fondi Rai che sarebbero stati utilizzati in maniera irregolare come lui stesso descrive ». Infine, il sindaco invita la Gabanelli a presentarsi in procura «e a fornire immediatamente alla stampa la documentazione in suo possesso». Secondo Tosi, il giornalista di Report ha contattato Borsato «presumendo che avesse documenti contro di me e che fosse mio nemico». L’ex leghista e cantautore vicentino sarebbe stato agganciato tramite un leghista dissidente di Rovigo. Borsato ha finto di avere il video e di essere motivato a divulgarlo dall’intento di annientare politicamente Tosi. Ha incontrato due volte Ranucci, in un bar a Vicenza e in un ristorante a Roma ed ha registrato tutto. Tra le altre cose, si sente il giornalista affermare di avere rapporti con tre diverse procure (Verona, Padova e Venezia) e di avere accesso al massimo canale investigativo del Veneto. Ma le affermazioni che Tosi ritiene «gravissime» sono altre: «Dice che io avrei rapporti con la ’ndrangheta, che avrei ricevuto in regalo dei rolex d’oro, che avrei partecipato a festini hard, ricevuto soldi sporchi per la campagna elettorale. Cerca un filmato compromettente con il sottoscritto, afferma che la ’ndrangheta ha questo filmato e con questo mi ricatta. Tutte cose false». Di qui la querela «preventiva ». «Non è la prima volta che ci succede - spiega Gabanelli - non ci interessano storie hard su Tosi, ma solo questioni di interesse pubblico. Continueremo a lavorare alla puntata».
Ciak, si gira e rigira. Verona set di un film a
puntate giornaliere. Con continui colpi di scena. L'Amministrazione comunale, a
guida Flavio Tosi, nell'occhio...dei cicloni, scrive Enrico Giardini su
“L’Arena”. Dopo l'arresto dell'ex vicesindaco Vito Giacino e della moglie
Alessandra Lodi in un'inchiesta per concussione e nuova corruzione, e il caso
dell'assessore Marco Giorlo che minacciava le dimissioni dopo un'intervista
rilasciata a un videogiornalista di Report giovedì della settimana prima, il 21
febbraio 2014 a mezzogiorno il sindaco ha depositato in Procura una denuncia per
diffamazione contro il giornalista Sigfrido Ranucci della trasmissione della Rai
Report, diretta da Milena Gabanelli. L'esposto — una querela per diffamazione —
consegnato nelle mani del procuratore capo Mario Giulio Schinaia, è stato
accompagnato dalle registrazioni di file audio, di un'ora e mezza, e video, di
un'ora, consegnati anche alla stampa insieme con la trascrizione. Materiale che
secondo Tosi «prova il tentativo del giornalista di Report di costruire notizie
false e diffamatorie nei miei confronti, cercando di acquisire la necessaria
documentazione con metodi illeciti, e con l'uso di denaro pubblico», come ha
detto nella conferenza stampa convocata in Comune. Ma quale sarebbe questo
tentativo? Secondo quanto riferito dal sindaco — raccontando una vicenda
svoltasi dal 6 febbraio in avanti — Ranucci, in questi giorni in città per
svolgere un servizio sull'Amministrazione Tosi (da mandare in onda dal 30 marzo;
è lui ad aver intervistato anche l'assessore Giorlo) avrebbe contattato tramite
alcuni intermediari Sergio Borsato, un ex leghista residente in provincia di
Vicenza, ritenendo che potesse accedere a copie di alcuni filmati. Questi
proverebbero che la N'drangheta, l'organizzazione criminale calabrese, ha
rapporti con Tosi, che avrebbe fatto diversi regali fra cui un orologio Rolex.
Uno dei filmati sarebbe un video hard con Tosi protagonista. Il sindaco ha
raccontato poi che Borsato, contattato dal giornalista che riteneva fosse un
nemico di Tosi, lo ha a sua volta chiamato per informarlo. E successivamente ha
registrato con una microtelecamera due incontri con il giornalista (l'ultimo,
quello di un'ora e mezza, il 14 febbraio) presente un'altra persona, per
trattare la consegna del materiale. Questo d'accordo con Tosi, quindi, per
smascherare le intenzioni dell'autore del servizio. «Questo materiale ovviamente
non esiste», dice il sindaco, «non c'è alcun filmato. Dalla trascrizione delle
immagini e delle conversazioni si ricava che l'intervistatore pagherebbe con
soldi pubblici questi video e inoltre che l'obiettivo politico da colpire è il
sottoscritto. Inoltre, addirittura il giornalista dice di avere contatti diretti
con alcune procure e con i Ros». Stando ad alcuni passaggi, verrebbero offerti
dai 10 ai 15mila euro per comprare questo materiale, che secondo il testo
avrebbe a disposizione, fra gli altri, anche il leghista Maurizio Filippi,
presidente del Parco Star. «In sintesi», spiega ancora Tosi, «un programma di
inchiesta della Rai, pagato con i soldi dei cittadini, ha cercato di costruire
una trasmissione per distruggere una persona ritenuta evidentemente un
avversario politico». Da noi contattato al telefono, il giornalista Sigfrido
Ranucci così replica: «Noi non abbiamo mai chiesto soldi per Report. Invece ci
erano stati chiesti da Borsato. Noi abbiamo la registrazione completa degli
incontri avuti con lui e quelli diffusi ieri sono stati manipolati. A noi poi
non interessano notizie sulla vita privata di Tosi, ma avevamo voci di un
filmato in cui si parla di spartizione di appalti pubblici a Verona. Per quanto
riguarda i presunti nostri contatti con le Procure e i Ros», prosegue Ranucci,
«li abbiamo millantati perché la persona che avrebbe avuto a disposizione i
filmati diceva di essere stata minacciata. E andiamo avanti». E Milena
Gabanelli, conduttrice di Report, ha diffuso una nota di agenzia in cui dice che
«non è la prima volta che ci arriva una querela preventiva. Mi preme chiarire
che in 17 anni di vita di Report non abbiamo mai speso un solo euro per pagare
un informatore. Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti
pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto. Per questo video ci
sono stati chiesti soldi».
Aggiunge la Gabanelli: «Si è fatto intendere, come normalmente avviene in questi
casi, una eventuale disponibilità, al solo fine di poter vedere i contenuti di
questa registrazione. Nessun acquisto comunque avrebbe in ogni caso avuto
seguito. Sta di fatto che il video non lo abbiamo visto e nulla abbiamo mai
comprato. Gli incontri-trappola organizzati da Tosi, li abbiamo registrati anche
noi e se sarà necessario a tempo debito verranno trasmessi, ma integralmente. Al
contrario di ciò che sostiene Tosi», conclude la giornalista, «Report non è una
trasmissione politica e non ha simpatie o antipatie politiche, noi facciamo il
nostro lavoro investigativo, le verifiche, e alla fine ciò che viene trasmesso
sono solo le evidenze». In serata il sindaco Tosi ha controreplicato: «La
documentazione audio e video allegata alla denuncia che ho presentato in Procura
è integralmente quella che ci è stata fornita. E risulta chiaramente e in modo
inconfutabile che è vero esattamente il contrario di ciò che la signora
Gabanelli afferma». Tosi invita la giornalista «a presentarsi subito alla
Procura della Repubblica e a fornire immediatamente alla stampa la
documentazione in suo possesso».
L'incontro tra il giornalista che lavora per conto di Report e l'esponente leghista è tutto filmato e trascritto, continua “L’Arena”. Il giornalista cerca in particolare un filmino a luci rosse che metta in difficoltà il sindaco Tosi tanto che afferma: «L'obiettivo è Flavio». Il colloquio tocca molti punti delicati. Vediamoli.
RELAZIONI PERICOLOSE. Il giornalista afferma di avere «filmati» su incontri «con il capo mafia di Crotone Vrenna» in occasione delle trasferte del sindaco in Calabria. Poi afferma di «averlo beccato» al «bar Filò con uno che gestisce tutta una catena di nightclub in Romania». Poi fa anche i nomi delle famiglie calabresi che avrebbero contatti con Verona e regalerebbero Rolex d'oro al sindaco: «Le famiglie calabresi Giardino, Papalia della Soveco, Paglia» e in questo contesto rientra anche l'intervista fatta all'assessore Giorlo («i calabresi festeggiano con Giorlo in Comune, abbiamo la documentazione») e che infatti nei giorni scorsi ha creato un altro caso in Giunta. E poi viene citato anche un tale Furfa, sempre calabrese.
I RICATTI. Contro Tosi il giornalista punta a raccogliere di tutto. «Ma lo sai che è già ricattato da due persone» e fa i nomi di un leghista che avrebbe foto compromettenti. E poi escort e festini a luci rosse in zona Filippini con esponenti della giunta.
LE PROCURE. Il giornalista assicura di avere fonti di prima mano e che su questi temi lavorano «la Procura di Verona, Venezia e Padova». L'obiettivo è dichiarato: «Quando tu esci che c'ha i contatti con i calabresi, prende in soldi in nero, prende i rolex dal campo degli appalti, i festini delle escort, quello che dice che è ricattabile... all'indomani di sta roba... hai buttato il fosforo, cioè tutto bruciato». Ma l'obiettivo è Flavio o qualcuno attorno a lui? Risposta: «L'obiettivo è Flavio».
LA CILIEGINA. Sulla torta manca la ciliegina: il presunto filmato. E parte la trattativa per 15 mila euro. Facendo fattura a terze persone. «Va fatta una fattura con qualcuno che ha una partita Iva». La consegna del cd con il video era prevista per oggi. Però il regalo sarà diverso.
Tosi in una conferenza stampa nel municipio di Verona, ha consegnato copia dei file audio e video di due incontri tra Ranucci e Borsato avvenuti a Padova e a Roma. Copia dei file audio e video è stata consegnata ovviamente anche in Procura: alcuni passaggi salienti delle conversazioni registrate di nascosto con il cronista di Report sono pubblicate su tgverona.it. Tosi ha spiegato che "Ranucci era alla ricerca di un video da comprare, nel quale ci sarebbe la prova dei miei contatti con la 'ndrangheta". "Ha detto - ha aggiunto - che ci sono indagini di tre Procure - Venezia,Verona e Padova -, di avere fonti investigative di altissimo livello; ha parlato in modo esplicito e ripetuto del comandante del Ros del Veneto, dei servizi segreti. Ha fatto affermazioni gravissime, dichiarando che la 'ndrangheta mi avrebbe regalato Rolex d'oro, organizzato festini hard, raccolto fondi per la campagna elettorale. Per questo era alla caccia di questo fantomatico filmino con il quale la 'ndrangheta mi ricatterebbe". Tosi ha poi spiegato che nell'incontro con l'ex militante leghista "Ranucci ha parlato delle primarie del centrodestra ed ha affermato ripetutamente che l'obiettivo è Flavio Tosi. Sostiene di avere un rapporto assolutamente paritario con Milena Gabanelli, che Report è una 'repubblica a parte' e che pur non potendo usare fondi Rai, dichiara di poter acquistare il presunto filmino ricorrendo a fondi "paralleli". "Per questo abbiamo consegnato tutto alla Procura - ha concluso -, non so se quella di Verona risulterà competente, ma intanto l'indagine farà il suo corso e i magistrati valuteranno se ci sono gli estremi anche per altri reati".
Tosi affonda la corazzata Report con un video-esca, scrive Alessandro Ambrosini su “Notte Criminale”. Offerti 15.000 euro da fondi "paralleli" della Rai per creare uno scoop che eliminasse Tosi dalla scena politica. Tutta la trattativa registrata. Querela per diffamazione nei confronti del giornalista. Quante volte abbiamo visto svelare retroscena inquietanti dai giornalisti di Report? Quante volte abbiamo sentito Milena Gabanelli parlare di etica, di equidistanza politica, di bisogno di rigore nell’informazione? Tante, mai abbastanza. Vero è, che lo stesso rigore, alcuni dei suoi giornalisti non sempre l’hanno usato, non sempre hanno tenuto comportamenti corretti nei confronti dei loro colleghi, che erano anche fonti. Il confine tra l’eticamente corretto e la scorrettezza è una linea di demarcazione che spostano volentieri a seconda del bisogno, a seconda dell’occasione. Oggi non ci sono colletti bianchi o politici corrotti sul banco degli imputati. Oggi, come migliaia di altre volte, sul banco degli imputati finisce proprio la trasmissione della Gabanelli e uno dei loro giornalisti: Sigfrido Ranucci. Oggi, non è la solita querela. Il film che viene trasmesso lascia poco all’immaginazione. Nelle prime ore del pomeriggio, il sindaco di Verona Flavio Tosi ha portato la querela per diffamazione al Procuratore della Repubblica Mario Giulio Schinaia, allegando registrazioni di file audio video di una certa gravità. Queste provano il tentativo del giornalista di Report di costruire delle notizie false e diffamatorie a scapito del sindaco scaligero, cercando di acquisire il materiale necessario con metodi illeciti e con l’uso di denaro pubblico. Andiamo nel dettaglio: Da giorni, Sigfrido Ranucci, si trovava nella città scaligera per fare un servizio sull’amministrazione locale e i presunti scandali in cui è stata investita ultimamente. Alla ricerca di un punto debole, o di qualcuno che volesse togliersi qualche sasso dalla scarpa, contattò Sergio Borsato, ex leghista dell’ala bossiana. Il giornalista chiese del materiale. Informazioni che potessero mettere in difficoltà il sindaco veronese ma, vista la finalità della richiesta, l'ex militante padano avvertì Tosi. Dopo aver concordato il video- bluff, Borsato si incontrò due volte con Ranucci, a Roma e Padova. Con una microtelecamera. Durante questi briefing, l’ex leghista, affermò di essere in possesso di un video che avrebbe provato i rapporti di Tosi con la ‘ndrangheta, festini hard e tutto quello che poteva far cadere l’amministrazione. Esca succulenta che, proprio nella microtelecamera troverà l’amo più letale. Queste registrazioni audio-video con microtelecamere, come ben sapete, sono una delle armi più usate da molti giornalisti per riuscire a “rubare” qualche indiscrezione lontano dai microfoni. Cose che si vedono spesso nei servizi in tv e che molte volte hanno generato buoni risultati. Ma questa volta, a finire nella rete, è finito Sigfrido. Con tutte le scarpe. Nel video il giornalista di Report cercò di acquisire il materiale che gli poteva permettere di confezionare lo scoop nei confronti del sindaco:«L’obiettivo è Flavio», questo era il target da colpire. Il colloquio toccò molti punti delicati. Presunte relazioni pericolose con la 'Ndrangheta, presunti ricatti nei confronti del sindaco, incontri hard e relative foto compromettenti. Infine, la richiesta e la trattativa per la consegna del presunto filmato hard in cambio di 15 mila euro. La costruzione di un finto scoop su un finto-video, esilarante. In queste registrazioni sono poi svelate, dallo stesso Ranucci, i rapporti con tre Procure venete ( Venezia, Verona e Padova) e di avere fonti investigative di primissimo livello. Più volte parlò esplicitamente del comandante del Ros del Veneto e dei servizi segreti. Affermazioni di una gravità inaudita per ruolo e implicazioni. Un fiume calmo ma in piena, questo è il sindaco Tosi che ha continuato dicendo: “Ha fatto affermazioni gravissime, dichiarando che la 'ndrangheta mi avrebbe regalato Rolex d'oro, organizzato festini hard, raccolto fondi per la campagna elettorale. Per questo era alla caccia di questo fantomatico filmino con il quale la 'ndrangheta mi ricatterebbe”. Un suicidio quasi in diretta per il coautore della Gabanelli con cui dichiarò di avere un rapporto paritario all’interno della redazione, almeno a quanto afferma. Parlò di una “repubblica a parte”quando spiegò la struttura della trasmissione. Struttura che possiede fondi “paralleli” la cui provenienza è data da distrazioni all’interno del servizio pubblico televisivo. Un bluff? Un momento di mitomania? Fatto sta che quel video-esca era pronto a comprarlo. E’ un fatto. Report non ha fatto attendere molto la sua replica, anche se la difesa è un po’ debole. Un comunicato della stessa conduttrice all’Ansa ribatte:« Non è la prima volta che ci arriva una querela preventiva. Mi preme chiarire che in 17 anni di vita di Report non abbiamo mai speso un solo euro per pagare un informatore. Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto. Per questo video ci sono stati chiesti soldi. Si è fatto intendere, come normalmente avviene in questi casi, una eventuale disponibilità, al solo fine di poter vedere i contenuti di questa registrazione. Nessun acquisto comunque - aggiunge Gabanelli - avrebbe in ogni caso avuto seguito. Sta di fatto che il video non lo abbiamo visto e nulla abbiamo mai comprato. Gli incontri-trappola organizzati da Tosi, li abbiamo registrati anche noi e se sarà necessario a tempo debito verranno trasmessi, ma integralmente. Al contrario di ciò che sostiene Tosi, Report non è una trasmissione politica e non ha simpatie o antipatie politiche, noi facciamo il nostro lavoro investigativo, le verifiche, e alla fine ciò che viene trasmesso sono solo le evidenze». Più decisa la controreplica di Tosi che sempre tramite l’agenzia stampa ribatte « La documentazione audio e video allegata alla denuncia che ho presentato oggi al Procuratore della Repubblica di Verona e che ho diffuso alla stampa è integralmente quella che ci è stata fornita. Da essa risulta chiaramente e in modo inconfutabile che è vero esattamente il contrario di ciò che la signora Gabanelli afferma - aggiunge Tosi - che il video dal contenuto diffamatorio non è stato proposto al giornalista di Report Sigfrido Ranucci ma che è stato lui a cercare di chiedere insistentemente di acquistarlo con fondi Rai che sarebbero stati utilizzati in maniera irregolare come lui stesso descrive. Invitiamo la signora Gabanelli - conclude Tosi - a presentarsi domani alla Procura della Repubblica e a fornire immediatamente alla stampa la documentazione in suo possesso». Una brutta storia per la trasmissione d’inchiesta più seguita e più pungente della televisione italiana. Una vicenda che rischia seriamente di minare la credibilità acquisita negli anni. Anni che hanno visto Report essere l’innesco per fare affiorare malaffare e corruzione nel nostro Paese. Sarà la magistratura a chiarire il tutto. Sarà un vaso di Pandora che si aprirà dopo questo scandalo o ci sarà un capro espiatorio ? Passerà tutto per un bluff o tutto rimarrà soffocato tra il nuovo Governo Renzi e il Festival di Sanremo?
GENTE VENETA. P(L)ADRONI A CASA NOSTRA? CHI SI E' E DA DOVE SI GIUNGE.
Il verdetto della Corte dei conti, a lungo atteso sul Canal Grande, è arrivato. Ed è una mazzata, scrive Marco Bonet su “Il Corriere Veneto”. Micidiale per la Lega Nord, che potrebbe pagare molto caro (quasi 2 milioni di euro) il ritardo nell’invio degli scontrini ai magistrati contabili, ma tremenda anche per gli altri gruppi del consiglio regionale, che complessivamente risultano aver speso in modo «irregolare» ben 512 mila euro. Soldi che andranno restituiti alle casse di Palazzo Ferro Fini, stando alla lettera della legge, ma che potrebbero non bastare: la sanzione, infatti, prevede anche la mancata erogazione ai gruppi «colpevoli» dei contributi previsti per quest’anno. Stiamo parlando di 3 milioni di euro. Il caso della Lega, che pure avrebbe potuto spicciarsi (e vedremo perché) certo rivela profili paradossali. Una breve cronistoria aiuta a capire. Il 29 aprile, una decina di giorni dopo aver ricevuto i rendiconti dei gruppi, la Corte scrive al governatore Luca Zaia chiedendo che vengano spedite anche le «pezze giustificative » delle spese, ritenute così come carenti e insufficienti. Il 27 maggio Zaia invia tutti gli scontrini, le fatture e i carteggi richiesti, tranne quelli del suo partito, il Carroccio, che lamenta di non poterne disporre dal momento che sono sottoposti a sequestro giudiziario, dopo l’esposto alla Procura di Venezia del consigliere Santino Bozza ed i controlli della Guardia di finanza negli uffici al Ferro Fini. I padani chiedono una proroga, che viene negata, e i termini scadono il 29 maggio, come previsto. Due giorni dopo Zaia riscrive alla Corte, spiegando che i suoi hanno depositato proprio il 29 maggio in Procura la richiesta di poter fotocopiare le pezze d’appoggio, che arrivano sul tavolo dei magistrati contabili soltanto il 7 giugno, accompagnate dalla «preghiera» del governatore di riaprire l’istruttoria perché davvero la Lega era gravata da una «impossibilità oggettiva» di anticipare i tempi. La Corte, inflessibile, si chiede infatti perché, se la sua richiesta di spedire le integrazioni è arrivata in consiglio il 30 aprile, i leghisti si siano attivati in procura solo il 29 maggio, un mese dopo. Risultato: «La Sezione accerta l’inadempimento da parte del Gruppo Liga Veneta-Lega Nord dell’obbligo di regolarizzare il rendiconto sull’impiego dei contributi finanziari erogati a carico del bilancio della Regione ». Una colpa punita dalla legge 213 del 2012 (varata dal governo Monti per il contenimento dei costi della politica dopo lo scandalo di Franco Fiorito nel Lazio) con lo stop ai finanziamenti di quest’anno (627 mila euro) e con l’obbligo di restituire tutte le somme «non regolarmente rendicontate», che nel caso di specie ammontano al totale e cioè a un milione 171 mila euro. Stessa sorte, se la legge verrà applicata fino in fondo, toccherà pure agli altri gruppi, costretti a rinunciare all’intero contributo 2013 (anche quelli, come ad esempio Giuseppe Bortolussi, che risultano disallineati di appena mille euro: complessivamente stiamo parlando di 3 milioni 60 mila euro) ed a restituire tutte le cifre giudicate «irregolari» dalla Corte, che potete leggere riassunte per partito nel grafico qui sotto. Non ce n’è uno che si salvi (il neonato Futuro Popolare, escluso dall’elenco, è costituito da ex Idv e Udc). I giudici hanno passato al setaccio con puntiglio tutte le voci dei rendiconti, basandosi su due criteri: l’effettiva riconducibilità della spesa al consigliere e la sua «inerenza» all’attività politica del gruppo. Insomma, quei soldi sono stati spesi per un «interesse pubblico »?. La risposta è negativa per moltissime consulenze e collaborazioni (156 mila euro solo per il Pdl, altri 108 mila per il Pd), giudicate «troppo generiche» e comunque attribuite a persone «non qualificate», per diverse spese telefoniche e di cancelleria, e addirittura per stampe e fotocopie. Ma è sui rimborsi spese legati all’attività politica (quelli, a ben vedere, su cui poggiavano gli scandali scoppiati in giro per l’Italia) che la Corte non ha concesso alcuna attenuante, dai ristoranti agli alberghi, dai parcheggi al taxi e via di questo passo. «Il Collegio ritiene che non possa costituire prova della riconducibilità oggettiva all’attività del gruppo la semplice affermazione di aver consumato un pasto o di essersi recato in un determinato luogo (nella maggior parte dei casi neppure contenuta in una dichiarazione a firma del consigliere)» scrivono i giudici. Circostanza «tanto più grave ove si consideri che proprio tali spese potrebbero essere connesse alle attività già coperte dalla diaria». Parole che risuonano come bastonate nella tonnara degli scontrini, delle fatture e delle pezze. Subito rispediti al mittente.
Si è scritto tanto dello scandalo che ha travolto la Lega Nord, alcune volte con competenza ed onestà intellettuale, ma il più delle volte propinando il solito corollario di inutilità e gossip, scrive Emanuele Bellato. Comunque il quadro che emerge dalle indiscrezioni sull’inchiesta è sicuramente squallido: si parla di un vorticoso giro di soldi e di investimenti all’estero, di versamenti ai famigliari del Senatùr e al cosiddetto Sindacato Padano di Rosy Mauro. Proprio per questi motivi l’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, è indagato per riciclaggio, appropriazione indebita e truffa aggravata ai danni dello Stato. Inoltre la magistratura indaga sui rapporti del tesoriere Belsito e la ‘ndrangheta. Non mancano nemmeno le intercettazioni ad inchiodare i “furbetti”, e poi le “gole profonde”: da Nadia Dagrada, segretaria amministrativa del Carroccio ad Alessandro Marmello, autista del giovane rampollo di casa Bossi (soprannominato “Trota”), che hanno già “vuotato il sacco”. Le dimissioni di Bossi senior e junior (quest’ultime tardive) più che un esempio da imitare rivelano una certa fragilità nel sostenere una causa ed una posizione troppo scomoda. Se l’informazione fa più o meno bene il suo dovere, lo stesso non può dirsi per i partiti dell’arco parlamentare. PDL, PD, UDC nell’attaccare ferocemente l’avversario in difficoltà hanno ritrovato una verginità che non gli appartiene. Viene in mente il detto: “il bue che dice cornuto all’asino”. Nel frattempo, la santa trinità - Alfano, Bersani, Casini - nell’indifferenza più totale, ha approfittato per approntare una riforma elettorale fondata, come ha giustamente criticato Vendola, “sulla salvaguardia del trasformismo e del gattopardismo” e cosa ancor peggiore ha dato il via libera alla manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, avallando di fatto il licenziamento discriminatorio sotto mentite spoglie. Il PD si ritaglia un ruolo addirittura grottesco nell’autoassegnarsi una vittoria inesistente. In Toscana hanno persino stampato dei manifesti “tragicomici” con su scritto “Vince il lavoro, vince il PD”. Il trionfalismo regna sovrano anche nelle vuote dichiarazioni del segretario Bersani e nelle mail inviate dal gruppo dei DeputatiPD.it. Questo il testo: “Grazie al Pd evitato colpo di mano sull'articolo 18. […] Sono state apportate correzioni che avvicinano la regolamentazione italiana dei licenziamenti senza giusta causa a quanto avviene in altri paesi europei. Aspettiamo di vedere le norme che verranno presentate in Parlamento ma, da quanto hanno detto il presidente Monti e il Ministro Fornero, è stato recepito il modello tedesco che prevede la possibilità di reintegrazione dei lavoratori per ogni caso di ingiusto licenziamento, anche per ragioni economiche”. A smentire i tanti “Pinocchio” del PD è lo stesso Monti che sul reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa dichiara: “avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”. E’ dura ammetterlo, ma questi tecnici stanno riuscendo nell’impresa mancata da Berlusconi, ovvero schiavizzare i lavoratori, privarli dei diritti fondamentali, o più semplicemente umiliarli. E poco importa se Confindustria si lamenta, è nel gioco delle parti. Ma ritorniamo a parlare della Lega. Adesso tutti sembrano accorgersi delle anomalie del Carroccio. Tutti si indignano per i favoritismi al “Trota”. Finanche dentro alla Lega i “maroniani” o “barbari sognanti” scalpitano in cerca di notorietà al grido di “pulizia, pulizia, pulizia”. Ma dove erano questi signori fino a ieri? Esistono decine di libri sulle malefatte della Lega. Tra i più significativi, vale la pena di citare alcuni titoli: “Un Po di contraddizioni. Il libro verde della Lega” a cura di Roberto Busso, Stefano Catone, Andrea Civati, Giuseppe Civati e Marcello Volpato; “Inganno Padano. La vera storia della Lega Nord” (La Zisa, 2010) di Fabio Bonasera e Davide Romano con prefazione di Furio Colombo; “Razza Padana” (Bur, 2008) di Adalberto Signore e Alessandro Trocino; “Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere. Dichiarazioni e scandali di un partito” (Newton Compton, 2010) di Eleonora Bianchini; “Lega Nord. Un paradosso italiano in 5 punti e mezzo” (Laruffa, 2011) di Luigi Pandolfi; “Avanti Po” (Il Saggiatore, 2010) di Paolo Stefanini; “Dossier Bossi-Lega Nord” (Kaos, 2011) di Michele de Lucia; “LegaLand. Miti e realtà del Nord Est” (Manifestolibri, 2010) di Sebastiano Canetta ed Ernesto Milanesi; “Metastasi” (Chiare Lettere, 2010) di Gianluigi Nuzzi; “Lo spaccone. L'incredibile storia di Umberto Bossi il padrone della Lega” (Editori Riuniti, 2004) di Rossi Giampieto e Simone Spina; “Umberto Magno. La vera storia del'imperatore della Padania” (Aliberti, 2010) di Leonardo Facco. In tutti questi libri si parla delle contraddizioni del partito padano, degli sperperi di denaro pubblico, delle collusioni con la malavita organizzata, della tangente Enimont, del fallimento della banca Crediteuronord, degli investimenti esteri: dal villaggio in Croazia alla Tanzania, del clientelismo, dei doppi e tripli incarichi, passando per le provocazioni xenofobe e razziste. Ma il libro più profetico ed illuminante è indubbiamente: “Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei quattro anni sul Carroccio” (Oscar Mondadori 1994) di Gianfranco Miglio. Si tratta di un libro datato, ormai introvabile se non in qualche bancarella dell’usato, mai più ristampato dalla casa editrice di proprietà della famiglia Berlusconi forse per compiacere il leader del Carroccio, quando l’alleanza tra il Cavaliere e il Senatùr sembrava inossidabile. In questo volumetto, dedicato “ai miei amici leghisti della base”, il giurista e politologo lombardo tratteggia un ritratto impietoso di Bossi, tacciandolo come primitivo, imbroglione, geloso. Il professor Miglio, a dispetto di chi tuttora lo vuole inserire nel Pantheon degli ideologhi della Lega o gli dedica poli scolastici, senza aver mai letto un suo libro, scriveva del leader leghista: “Chi ha avuto rapporti continuati con lui (Bossi, ndr), sa che il suo primo e fondamentale difetto è la mancanza di sincerità. Beninteso: in politica esistono delle occasioni (fortunatamente rare) in cui il dovere di dire la verità si attenua; ma Bossi mente sempre, e anche gratuitamente: molte volte si vantò con me, divertendosi, di avere imbrogliato un avversario, o anche un compagno di strada. Può darsi che questa brutta abitudine sia un retaggio degli anni difficili, in cui la “lotta per la vita” fu per lui particolarmente dura, e lo costrinse a sviluppare la furbizia, che egli considera quindi una virtù”. (pp.37, 38). Continuando nella lettura si viene a conoscenza che il metodo di selezione della classe dirigente, vedi il “cerchio magico” o il tesoriere, non è un difetto attribuibile alla recente malattia ed alla presunta perdita di lucidità: “Dovendo scegliere fra una persona integra ma scomoda, e un’altra più maneggevole perché dotata di una buona coda di paglia, ha quasi sempre optato per la seconda. Anche perché qui si è rivelato un altro suo difetto incoercibile: la gelosia. Bossi è sempre stato morbosamente geloso di chi ottenesse, fra i “leghisti”, una simpatia e un credito eguali, se non addirittura superiori, a quelli a lui tributati. (pag.40) […] E naturalmente, avendo adottato un criterio selettivo “a rovescio” di quel genere, il segretario non solo impedì a molte persone qualificate di entrare nella Lega, ma riuscì a circondarsi di una squadra di “colonnelli”, tutti (si fa per dire) meno “dotati” di lui: magari, presi uno per uno, brava gente (e in attesa dell’occasione favorevole per mostrare la loro autonomia), ma consapevoli di dovere la loro fortuna politica esclusivamente alla fiducia del capo, e quindi pronti a ripetere come pappagalli le sue parole d’ordine. (pag.41). Miglio nutriva seri dubbi anche sulle reali aspirazioni federaliste dei vertici leghisti (...Il “federalismo” era per il segretario e per i suoi accoliti uno strumento per la conquista del potere, una specie di “piede di porco” con il quale scardinare le difese degli avversari - pag.48), ma questa è un’altra storia. Concentriamoci piuttosto sulla questione morale. Forte era la delusione dell’inventore di Bossi, o se non altro della persona che più ha contribuito a dare pensiero e spessore ad un partito animato solo dal sentimento della protesta. Miglio stese “sette comandamenti” per la Lega lombarda, con la relativa interpretazione. Il punto 5 ordinava: “Là dove, e quando, i leghisti prenderanno responsabilità di amministrazione e di gestione, esercitare su di loro un controllo morale. Espellere senza pietà i disonesti, gli incapaci e coloro i quali rompono la solidarietà del gruppo. A questo fine, far firmare a ogni leghista, che assume un pubblico incarico, una lettera in bianco di dimissioni. Dare la massima pubblicità a queste operazioni di controllo”. Commento: “Questa regola diventò sempre più importante man mano che i rappresentanti del movimento entrarono nelle pubbliche amministrazioni. L’espediente della lettera di dimissioni in bianco era da parte mia un’ingenuità. Piuttosto avrei dovuto raccomandare il rigore morale nella gestione (soprattutto finanziaria) delle strutture della Lega sul territorio. Con il passare del tempo, mi accorsi infatti che il controllo economico delle organizzazioni periferiche era potenzialmente un punto molto debole”. (pp.19, 20). Era già tutto scritto, dunque c’è poco da stupirsi, sia da una parte che dall’altra della barricata. Inutile dipingere Bossi come il “Caro Leader” di nordcoreana memoria vittima di un complotto, o consideralo solo ora come il “male assoluto”. I campanelli d’allarme suonavano già da un pezzo ma nessuno ha voluto ascoltarli. Speriamo almeno che sia altrettanto profetico il futuro immaginato dal vituperato professor Miglio: “La politica non la si fa certo con le belle maniere e con i ‘minuetti’; ma quando saremo emersi da questa vicenda, ci renderemo conto che il bullo di Cassano Magnano ha rappresentato il momento più clamoroso - ma anche il più triviale - della crisi. Un’esperienza che un Paese serio non dovrebbe ripetere più”. (pag.71).
Se il Nord è tradito dalla sua classe dirigente. Gli arresti di Venezia, Padova e Verona alla luce del libro di Filippo Astone su corruzione e clientelismo scrive
L’Agec di Verona, l’Ater a Venezia di Padova, le inchieste aperte a Venezia che hanno decapitato i vertici del Consorzio che ha in concessione i lavori del Mose. E poi, per chi ha un po’ di memoria storica, la vicenda delle quote latte, delle banche fallite della Lega, le indagini sulla sanità lombarda che hanno travolto la giunta Formigoni, quelle sulla Banca Popolare di Massimo Ponzellini a Milano. Ma non sarà che il Nord e la sua classe dirigente sono uguali al resto del Paese e che hanno né più né meno degli altri saccheggiato i loro territori imponendo i metodi di quella “Roma ladrona” che tanto avevano sbandierato a tutela della loro specificità? E non è questa classe dirigente, che da Berlusconi e la Lega scende per li rami del governo degli ultimi venti anni, ad essere una della cause principali della disfatta oggi dell’economia? La domanda sorge legittima se si guarda la serie di inchieste giudiziarie che hanno messo a nudo metodi di governo da competere e a volte da fare impallidire quelli della tanto deprecata Prima Repubblica. Ma viene tanto più spontanea se si legge un libro di recente dato alle stampe dal titolo significativo: “La disfatta del Nord, corruzione, clientelismo e malagestione” edito da Longanesi. A scriverlo un giornalista torinese, Filippo Astone, che già fece rumore a suo tempo con un pamphlet sulla Confindustria e la sua “casta” economica. «Con poche eccezioni – scrive nella sua premessa – le classi dirigenti del Settentrione hanno gestito in modo pessimo e, talvolta, perfino criminale, sia i loro territori sia l’intero Paese che si sono così “meridionalizzati” nel senso peggiore che si può dare a questo termine. Hanno così travolto le attese, le speranze e anche la creduloneria di buona parte dei ceti operosi e produttivi che per quasi vent’anni hanno ingenuamente creduto che il terzetto Berlusconi Bossi Formigoni potesse liberarli dei problemi strutturali che ostacolano le loro attività». Vien male a leggere tutto insieme il racconto di questi anni che squaderna non solo le cifre del fallimento economico di una classe dirigente che dice di rappresentare il Nord, ma anche apre uno squarcio su un mondo di malaffare le cui cifre battono di gran lunga quelle della prima Tangentopoli. Già perché, argomenta Astone, da soli«i numeri che la magistratura contesta ai ciellini Pierangelo Daccò e Antonio Simone, 70 milioni di euro, ipotizzando eventuali complicità con Roberto Formigoni, sono pari all’intera cifra della tangente Enimont che travolse Bettino Craxi e Arnaldo Forlani e con essi i partiti della prima Repubblica». Sulla scena del libro sfilano, nel racconto dell’ ultimo ventennio, esponenti politici della Lega lombarda e veneta di ieri, come Umberto Bossi, e di oggi, come Roberto Maroni e Flavio Tosi. I loro riferimenti diretti nel mondo finanziario, Giampiero Fiorani e Massimo Ponzellini. E poi tutto il mondo lombardo che gira intorno all’ex presidente della Regione, Formigoni, in un capitolo titolato significativamente “Comunione e fatturazione”. Nepotismo, appalti di favore, tangenti, malamministrazione che produce milioni di perdite per il contribuente, nulla è risparmiato al Nord di un Paese che, a guardare i protagonisti del mondo politico di oggi, sembra mitridatizzarsi al veleno della corruzione e del sistematico intreccio tra correnti (neanche più partiti), malaffare e saccheggio della cosa pubblica.DA DOVE SI GIUNGE. Gian Antonio Stella ha scritto "L'ORDA. Quando gli albanesi eravamo noi". Rizzoli, Milano ottobre 2002. Quando gli "albanesi" eravamo noi, ci linciavano come ladri di posti di lavoro, ci consideravano "nonvisibilmente negri" nelle sentenze in Alabama, ci accusavano di essere tutti criminali rinfacciandoci di rappresentare quasi la metà dei detenuti stranieri di New York. Quando gli albanesi eravamo noi, vendevamo i nostri bambini agli sfruttatori assassini delle vetrerie francesi e agli orchi girovaghi. Gestivamo la tratta delle bianche riempiendo di ragazze dodicenni i bordelli di tutto il mondo. Espatriavamo illegalmente a centinaia di migliaia oltre le Alpi e gli Oceani. Seminavamo il terrore anarchico ammazzando capi di Stato e poveri passanti ed eravamo così sporchi che a Basilea ci era interdetta la sala d'aspetto di terza classe. Quando gli albanesi eravamo noi, ci pesavano addosso secoli di fame, ignoranza, stereotipi infamanti. Quando gli albanesi eravamo noi, era solo ieri. Tanto in Svizzera pochi anni fa tenevamo ancora tremila figli nascosti che frequentavano scuole clandestine perchè ai papà non era consentito portarsi dietro la famiglia. Nella ricostruzione di Gian Antonio Stella, ricca di fatt, personaggi, avventure, documenti, aneddoti, storie ignote, ridicole o sconvolgenti, c'è finalmente l'altra faccia della grande emigrazione italiana. Quella che meglio dovremmo conoscere per capire, rispettare ed amare ancor di più i nostri nonni, padri, madri e sorelle che partirono. Una scelta fatta per raccontare noi stessi in questi anni di confronto con le orde di immigrati. Per raccontare quando eravamo noi gli immigrati degli altri e come tali eravamo diversi.
Veneto 1930: tracce di medioevo. Nella foto dell'archivio del "Gazzettino", marito e moglie davanti al loro "casòn", l'abitazione tradizionale delle campagne venete. Siamo già nel 1930, il treno è stato inventato da 105 anni, il telegrafo da 79, il telefono da 74, il fax da 65, la metropolitana elettrica di Londra da 40, il cinema da 35, l'automobile Mercedes da 30, l'aereo da 27, la radio da 24. Eppure dal nostro paese partono altre 280 mila persone in un anno nonostante il freno del fascismo e nelle terre che diventeranno pochi decenni dopo la "locomotiva d'Italia" c'è chi vive ancora come nel medioevo. Poco è cambiato da quel 1877 in cui il municipio di Padova stimava che su 3187 case coloniche del circondario poco meno di un terzo erano casoni. Cioè: "Gabbie di legname a quattro pareti piane, collocate sopra muriccioli a secco, rifoderati da canne di sorgo turco, dentro e fuori spalmate di creta: superiormente un'intelaiatura di legno a forma di piramide, colle facce esterne intessute e coperte di strame o di paglia, un uscio che permetta l'entrata della gente e dentro l'angusto ambiente un focolare, cui sovrasta una qualsiasi via d'uscita per il fumo, una o due finestrelle, difese da impannate od anco da vetrate; pavimento la nuda terra".
Come si viveva al nord nel 1877. Nel 1877 il municipio di Padova stimava che su 3187 case coloniche del circondario poco meno di un terzo erano "casòn". Cioè:"Gabbie di legname a quattro pareti piane, collocate sopra muriccioli a secco, rifoderati da canne di sorgo turco, dentro e fuori spalmate di creta: superiormente un'intelaiatura di legno a forma di piramide, colle facce esterne intessute e coperte di strame o di paglia, un uscio che permetta l'entrata della gente e dentro l'angusto ambiente un focolare, cui sovrasta una qualsiasi via d'uscita per il fumo, una o due finestrelle, difese da impannate od anco da vetrate; e come pavimento la nuda terra". A "Porto Tolle (Polesine) vi sono casi di 10 o 11 persone che abitano in una stessa stanza", alla periferia di Rovigo si possono trovare due famiglie in un solo locale", a Contarina "in 30 vani abitano 120 persone". Per non parlare di Comacchio: "Il 95% delle abitazioni è senza latrina: tutte le acque di rifiuto scolano nei cortili e ristagnano a poca distanza, i rifiuti vengono gettati nei canali che sono la fogna scoperta della città. Sono rare le famiglie dei braccianti che abbiano più di un vano; per cui la vita domestica si conduce nella più sordida sporcizia e nella promiscuità più scandalosa". Una parte dell'Italia, anche di quella oggi ricca, viveva ancora senza avere in casa l'acqua corrente. Nel Veneto del “1961”, uno strascico di miseria, ricorda il sociologo Ulderico Bernardi, su 100 case 48 erano senza l'acqua corrente, 52 senza il gabinetto, 72 senza il bagno, 15 senza la luce elettrica, 81 senza il gas a rete, 86 ignoravano cos'erano i termosifoni..."Edoardo Pittalis, nel libro "Dalle Tre Venezie al Nordest", spiega che secondo i rapporti sanitari lungo il Terraglio, la strada per Treviso, su 6.362 abitanti ci sono 541 pellagrosi. L'ospedale di Mogliano accoglie malati da tutto il Veneto, alla fine dell'Ottocento si registrano nella regione oltre 10 mila morti per pellagra". Era la malattia delle tre "d": dermatiti, diarrea, demenza. La malattia della fame, dovuta all'eccessivo consumo di polenta. Il Ministero dell'Agricoltura Industria e Commercio intorno al 1879 è costretto a riconoscere, pur con le censure apportate alle inchieste, che " la miseria cresce di anno in anno"....
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
VENETI DIVERSI DAGLI ALTRI?
In Veneto si fa, ma non si dice. Lo rivela “Il Corriere della Sera”. Scoperti dalla Guardia di finanza in Veneto oltre 2.300 falsi poveri che usufruivano dell'esenzione dal pagamento del ticket sanitario. Il controllo è stato svolto, per ora, in cinque Ussl sulle 22 esistenti nella regione, con un bacino d'utenza di circa 1.200.000 assistiti residenti in 183 comuni delle province di Venezia, Belluno, Padova, Treviso e Vicenza. I finanzieri proseguiranno gli accertamenti per verificare altre 8 mila posizioni di persone fisiche dichiaratesi «disoccupate». Il report di analisi, condotto su 30 mila prestazioni in esenzione per «disoccupazione e reddito» nel biennio 2009-2010, ha evidenziato appunto 2.300 prestazioni elargite nei confronti di cittadini con redditi superiori alla soglia prevista per godere del beneficio e 10 mila prestazioni rese nei confronti di assistiti rivelatisi non disoccupati, nei confronti dei quali le fiamme gialle compiranno ulteriori accertamenti per escludere ulteriori condotte fraudolente.
Ma di non solo truffe si ciba il ricco nord-est. Vi è anche l’evasione fiscale. In Veneto sparisce il 22,4% del reddito. E lo racconta “La Repubblica”. Un Paese unito nel nome dell'evasione fiscale: nascondere una parte o la totalità del reddito agli occhi dello Stato è un' attività diffusa su tutto il territorio italiano. Ma gli evasori non sono tutti uguali: c' è chi si accontenta di truffare il fisco solo in parte, e chi mette via ogni remora pur di accumulare entrate senza versare le tasse. Al Nord come al Sud, anzi al Nord un po' di più. Contrariamente a quanto si pensa per via della maggiore diffusione dell'economia sommersa, il picco dell'evasione si raggiunge nel Settentrione. La regione che sottrae più ricchezza ai fini dell'Irpef è il Veneto, che nasconde in media il 22,4 per cento dei suoi redditi, la più virtuosa è la Sardegna dove l'evasione si contiene al 13,7%. Fra i due estremi, c'è il ritratto di un Paese che si attrezza in mille modi per ingannare il fisco quando il contribuente non versa la ritenuta alla fonte: dalle prestazioni professionali in nero agli scontrini mai emessi. A differenziare il fenomeno in base al territorio ci ha pensato lo Svimez, l'associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, in uno studio che calcola le percentuali del reddito dichiarato rispetto a quello disponibile nel 2008 (al netto delle prestazioni sociali e delle quote esenti, più diffuse al Sud). Il Paese in complesso ne esce male anche se, contrariamente ai luoghi comuni, la quota di reddito nascosto è più alta al Centro-Nord, con il 19,3 per cento, che al Sud (il 18). Al Veneto (22,4), nella classifica dei meno virtuosi, seguono le Marche (22 per cento di ricchezza evasa). Ma a parte un intermezzo fra il terzo e quarto posto - Basilicata (21%) e Calabria (20,6 per cento, pari merito con l'Emilia Romagna) - è l'Italia del Centro Nord a dominare la parte alta della graduatoria. Lombardia e Sicilia, regioni con notevoli differenze nel livello di vita, evadono quote simili (17,6 per cento la prima, 17,2 la seconda). Quanto a virtuosismo, alza la media settentrionale solo la Liguria (14,7 per cento di reddito evaso). L'andamento non cambia di molto se si considerano le percentuali di reddito dichiarato rispetto al Pil: il Mezzogiorno dichiara il 51,2 per cento rispetto al 49,5 del Centro-Nord. E non sembra che nel breve periodo le posizioni possano invertirsi visto che - secondo una indagine di Contribuenti.it - nei primi mesi del 2010 l'evasione era data in aumento soprattutto in Lombardia e in Veneto. Commenta lo Svimez: «Non cadiamo nella tentazione di etichettare il Centro Nord come terra di evasori fiscali - si legge nello studio -. Ma questi dati mostrano comunque che non si può attribuire questa stessa etichetta al Mezzogiorno: la realtà è che l'Italia non ha raggiunto l'unità economica, ma è unificata dall'evasione». Secondo i ricercatori dell'associazione una precisazione però va fatta: «Le informazioni della Guardia di Finanza - che non riguardano tutti i contribuenti, ma solo quelli sottoposti a controllo fiscale - indicano che nel Mezzogiorno ci sono più evasori che nascondono importi modesti». Al Centro Nord si verifica il caso opposto: «Al limitato numero di evasori corrisponde una massa imponibile non dichiarata rilevante». In sostanza, conclude lo studio Svimez «si può figurare un'evasione per sopravvivenza al Sud ed una evasione per accumulazione di ricchezza al Nord».
A tal rigurdo Antonio Melli dice la sua Su “La Vera Cronaca”: Il Veneto leghista campione di evasione fiscale. Se li sentite parlare con quelle voci stridule ed inequivocabili, non pensereste mai che dietro quelle urla folkloristiche si nasconde una realtà completamente opposta al senso politico ingabbiato in esse. Parlano soprattutto della Padania, antica terra laboriosa dove il senso civico bene si amalgama con l'onestà sociale. Salvo poi a scoprire che in questo territorio si annida un'evasione fiscale che non conosce vergogna e che fa del Veneto una regione dove la pratica dell'illegalità fa quasi parte del Dna di molti dei suoi abitanti. Parlano i numeri. É Venezia la culla dell’evasione in Veneto dall’alto dei suoi 384 milioni maturati nei primi quattro mesi dell’anno. La provincia veneziana è seguita a distanza da Vicenza, con 250 milioni, Verona con 222 e Padova con 59. Fanalino di coda Belluno con 13. Città che risulta essere "virtuosa" anche per quanto riguarda l’Iva, il lavoro nero e i lavoratori irregolari. Il quadro del resto del Veneto è invece alquanto pesante: complessivamente da gennaio ad aprile l’ammontare dell’evasione è stato di 1 miliardo e 34 milioni di euro. Pesante anche "l’ammanco" dell’Iva: 242 milioni e mezzo di euro in quattro mesi, sempre con Venezia in vetta alla classifica con quasi 93 milioni, seguita da Vicenza con 51 e Padova con 49. Anche in questo caso Belluno ha fatto registrare la cifra più bassa, 1 milione e mezzo di euro. Ma non c’è solo l’ evasione. La Guardia di finanza ha anche scoperto 975 lavoratori in "nero" o irregolari, sempre nel periodo che va da gennaio ad aprile 2010. Quello del lavoro nero è un fenomeno che presenta caratteri diversi e differenze numeriche macroscopiche da provincia a provincia. La provincia con più violazioni è quella di Treviso, dove sono stati scoperti 352 lavoratori del tutto "in nero" o irregolari; poi seguono Verona (149), Venezia (130), Vicenza (119) e Rovigo (115). Ma c’è anche chi è virtuoso, come Belluno dove le posizioni irregolari sono risultate essere appena 16. Sul fronte imprese e professionisti, quelli risultati completamente sconosciuti al Fisco sono stati 288; il maggior numero è stato scoperto a Venezia (83), Verona (57) e Vicenza (47). Detto questo, non vediamo proprio quali basi etiche la Lega Nord ed i suoi adepti vogliono suggerirci per adempiere alle loro richieste di federalismo fiscale, senza attendere i giusti tempi per un'approfondita analisi dei processi che esso andrebbe ad innescare. Forse sarebbe meglio che continuassero a preoccuparsi di combattere gli immigrati clandestini che, seppur a costo di lacerazioni culturali senza precedenti nella storia del nostro Paese, rappresentano per loro il terreno ideale su cui continuare a consolidare il loro potere politico. Perchè è solo a quello che essi mirano.
E poi per ripicca contro il Sud c’è chi diventa leghista. Interessante, però è il pensiero di Emanuele Bellato su “Il Popolo Veneto”. Si è scritto tanto dello scandalo che ha travolto la Lega Nord, alcune volte con competenza ed onestà intellettuale, ma il più delle volte propinando il solito corollario di inutilità e gossip. Comunque il quadro che emerge dalle indiscrezioni sull’inchiesta è sicuramente squallido: si parla di un vorticoso giro di soldi e di investimenti all’estero, di versamenti ai famigliari del Senatùr e al cosiddetto Sindacato Padano di Rosy Mauro. Proprio per questi motivi l’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, è indagato per riciclaggio, appropriazione indebita e truffa aggravata ai danni dello Stato. Inoltre la magistratura indaga sui rapporti del tesoriere Belsito e la ‘ndrangheta. Non mancano nemmeno le intercettazioni ad inchiodare i “furbetti”, e poi le “gole profonde”: da Nadia Dagrada, segretaria amministrativa del Carroccio ad Alessandro Marmello, autista del giovane rampollo di casa Bossi (soprannominato “Trota”), che hanno già “vuotato il sacco”. Le dimissioni di Bossi senior e junior (quest’ultime tardive) più che un esempio da imitare rivelano una certa fragilità nel sostenere una causa ed una posizione troppo scomoda. Se l’informazione fa più o meno bene il suo dovere, lo stesso non può dirsi per i partiti dell’arco parlamentare. PDL, PD, UDC nell’attaccare ferocemente l’avversario in difficoltà hanno ritrovato una verginità che non gli appartiene. Viene in mente il detto: “il bue che dice cornuto all’asino”. Nel frattempo, la santa trinità - Alfano, Bersani, Casini - nell’indifferenza più totale, ha approfittato per approntare una riforma elettorale fondata, come ha giustamente criticato Vendola, “sulla salvaguardia del trasformismo e del gattopardismo” e cosa ancor peggiore ha dato il via libera alla manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, avallando di fatto il licenziamento discriminatorio sotto mentite spoglie. Il PD si ritaglia un ruolo addirittura grottesco nell’autoassegnarsi una vittoria inesistente. In Toscana hanno persino stampato dei manifesti “tragicomici” con su scritto “Vince il lavoro, vince il PD”. Il trionfalismo regna sovrano anche nelle vuote dichiarazioni del segretario Bersani e nelle mail inviate dal gruppo dei DeputatiPD.it. Questo il testo: “Grazie al Pd evitato colpo di mano sull'articolo 18. […] Sono state apportate correzioni che avvicinano la regolamentazione italiana dei licenziamenti senza giusta causa a quanto avviene in altri paesi europei. Aspettiamo di vedere le norme che verranno presentate in Parlamento ma, da quanto hanno detto il presidente Monti e il Ministro Fornero, è stato recepito il modello tedesco che prevede la possibilità di reintegrazione dei lavoratori per ogni caso di ingiusto licenziamento, anche per ragioni economiche”. A smentire i tanti “Pinocchio” del PD è lo stesso Monti che sul reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa dichiara: “avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”. E’ dura ammetterlo, ma questi tecnici stanno riuscendo nell’impresa mancata da Berlusconi, ovvero schiavizzare i lavoratori, privarli dei diritti fondamentali, o più semplicemente umiliarli. E poco importa se Confindustria si lamenta, è nel gioco delle parti. Ma ritorniamo a parlare della Lega. Adesso tutti sembrano accorgersi delle anomalie del Carroccio. Tutti si indignano per i favoritismi al “Trota”. Finanche dentro alla Lega i “maroniani” o “barbari sognanti” scalpitano in cerca di notorietà al grido di “pulizia, pulizia, pulizia”. Ma dove erano questi signori fino a ieri? Esistono decine di libri sulle malefatte della Lega. Tra i più significativi, vale la pena di citare alcuni titoli: “Un Po di contraddizioni. Il libro verde della Lega” a cura di Roberto Busso, Stefano Catone, Andrea Civati, Giuseppe Civati e Marcello Volpato; “Inganno Padano. La vera storia della Lega Nord” (La Zisa, 2010) di Fabio Bonasera e Davide Romano con prefazione di Furio Colombo; “Razza Padana” (Bur, 2008) di Adalberto Signore e Alessandro Trocino; “Il libro che la Lega Nord non ti farebbe mai leggere. Dichiarazioni e scandali di un partito” (Newton Compton, 2010) di Eleonora Bianchini; “Lega Nord. Un paradosso italiano in 5 punti e mezzo” (Laruffa, 2011) di Luigi Pandolfi; “Avanti Po” (Il Saggiatore, 2010) di Paolo Stefanini; “Dossier Bossi-Lega Nord” (Kaos, 2011) di Michele de Lucia; “LegaLand. Miti e realtà del Nord Est” (Manifestolibri, 2010) di Sebastiano Canetta ed Ernesto Milanesi; “Metastasi” (Chiare Lettere, 2010) di Gianluigi Nuzzi; “Lo spaccone. L'incredibile storia di Umberto Bossi il padrone della Lega” (Editori Riuniti, 2004) di Rossi Giampieto e Simone Spina; “Umberto Magno. La vera storia del'imperatore della Padania” (Aliberti, 2010) di Leonardo Facco. In tutti questi libri si parla delle contraddizioni del partito padano, degli sperperi di denaro pubblico, delle collusioni con la malavita organizzata, della tangente Enimont, del fallimento della banca Crediteuronord, degli investimenti esteri: dal villaggio in Croazia alla Tanzania, del clientelismo, dei doppi e tripli incarichi, passando per le provocazioni xenofobe e razziste. Ma il libro più profetico ed illuminante è indubbiamente: “Io, Bossi e la Lega. Diario segreto dei miei quattro anni sul Carroccio” (Oscar Mondadori 1994) di Gianfranco Miglio. Si tratta di un libro datato, ormai introvabile se non in qualche bancarella dell’usato, mai più ristampato dalla casa editrice di proprietà della famiglia Berlusconi forse per compiacere il leader del Carroccio, quando l’alleanza tra il Cavaliere e il Senatùr sembrava inossidabile. In questo volumetto, dedicato “ai miei amici leghisti della base”, il giurista e politologo lombardo tratteggia un ritratto impietoso di Bossi, tacciandolo come primitivo, imbroglione, geloso. Il professor Miglio, a dispetto di chi tuttora lo vuole inserire nel Pantheon degli ideologi della Lega o gli dedica poli scolastici, senza aver mai letto un suo libro, scriveva del leader leghista: “Chi ha avuto rapporti continuati con lui (Bossi), sa che il suo primo e fondamentale difetto è la mancanza di sincerità. Beninteso: in politica esistono delle occasioni (fortunatamente rare) in cui il dovere di dire la verità si attenua; ma Bossi mente sempre, e anche gratuitamente: molte volte si vantò con me, divertendosi, di avere imbrogliato un avversario, o anche un compagno di strada. Può darsi che questa brutta abitudine sia un retaggio degli anni difficili, in cui la “lotta per la vita” fu per lui particolarmente dura, e lo costrinse a sviluppare la furbizia, che egli considera quindi una virtù”. (pp.37, 38) Continuando nella lettura si viene a conoscenza che il metodo di selezione della classe dirigente, vedi il “cerchio magico” o il tesoriere, non è un difetto attribuibile alla recente malattia ed alla presunta perdita di lucidità: “Dovendo scegliere fra una persona integra ma scomoda, e un’altra più maneggevole perché dotata di una buona coda di paglia, ha quasi sempre optato per la seconda. Anche perché qui si è rivelato un altro suo difetto incoercibile: la gelosia. Bossi è sempre stato morbosamente geloso di chi ottenesse, fra i “leghisti”, una simpatia e un credito eguali, se non addirittura superiori, a quelli a lui tributati. (pag.40) […] E naturalmente, avendo adottato un criterio selettivo “a rovescio” di quel genere, il segretario non solo impedì a molte persone qualificate di entrare nella Lega, ma riuscì a circondarsi di una squadra di “colonnelli”, tutti (si fa per dire) meno “dotati” di lui: magari, presi uno per uno, brava gente (e in attesa dell’occasione favorevole per mostrare la loro autonomia), ma consapevoli di dovere la loro fortuna politica esclusivamente alla fiducia del capo, e quindi pronti a ripetere come pappagalli le sue parole d’ordine. (pag.41) Miglio nutriva seri dubbi anche sulle reali aspirazioni federaliste dei vertici leghisti (...Il “federalismo” era per il segretario e per i suoi accoliti uno strumento per la conquista del potere, una specie di “piede di porco” con il quale scardinare le difese degli avversari - pag.48), ma questa è un’altra storia. Concentriamoci piuttosto sulla questione morale. Forte era la delusione dell’inventore di Bossi, o se non altro della persona che più ha contribuito a dare pensiero e spessore ad un partito animato solo dal sentimento della protesta. Miglio stese “sette comandamenti” per la Lega lombarda, con la relativa interpretazione. Il punto 5 ordinava: “Là dove, e quando, i leghisti prenderanno responsabilità di amministrazione e di gestione, esercitare su di loro un controllo morale. Espellere senza pietà i disonesti, gli incapaci e coloro i quali rompono la solidarietà del gruppo. A questo fine, far firmare a ogni leghista, che assume un pubblico incarico, una lettera in bianco di dimissioni. Dare la massima pubblicità a queste operazioni di controllo”. Commento: “Questa regola diventò sempre più importante man mano che i rappresentanti del movimento entrarono nelle pubbliche amministrazioni. L’espediente della lettera di dimissioni in bianco era da parte mia un’ingenuità. Piuttosto avrei dovuto raccomandare il rigore morale nella gestione (soprattutto finanziaria) delle strutture della Lega sul territorio. Con il passare del tempo, mi accorsi infatti che il controllo economico delle organizzazioni periferiche era potenzialmente un punto molto debole”. (pp.19, 20) Era già tutto scritto, dunque c’è poco da stupirsi, sia da una parte che dall’altra della barricata. Inutile dipingere Bossi come il “Caro Leader” di nordcoreana memoria vittima di un complotto, o consideralo solo ora come il “male assoluto”. I campanelli d’allarme suonavano già da un pezzo ma nessuno ha voluto ascoltarli. Speriamo almeno che sia altrettanto profetico il futuro immaginato dal vituperato professor Miglio: “La politica non la si fa certo con le belle maniere e con i ‘minuetti’; ma quando saremo emersi da questa vicenda, ci renderemo conto che il bullo di Cassano Magnano ha rappresentato il momento più clamoroso - ma anche il più triviale - della crisi. Un’esperienza che un Paese serio non dovrebbe ripetere più”. (pag.71)
Appare strano che si diventi leghisti per differenziarsi dai meridionali, pur avendo se non di più, almeno gli stessi difetti. A parlare di mafia nel Nord Est italiano si fa peccato, però…..ne parla Lorenzo Frigerio ed “Il Fatto Quotidiano”. La presenza della criminalità mafiosa in Veneto fu ufficialmente ammessa soltanto nel corso dell'ultimo decennio. Fino ad allora si sostenne che la regione fosse tutt'al più affetta da fisiologici problemi di criminalità locale. Agli inizi degli anni Ottanta, la vertiginosa ascesa della "mala del Brenta" e la contemporanea scoperta dei traffici di armi e droga e delle operazioni di riciclaggio delle cosche furono le drammatiche realtà in cui si imbatterono improvvisamente le forze dell'ordine e l'opinione pubblica.
VENETO MAFIOSO.
Anni Sessanta-Settanta: l'apprendistato criminale con la mafia siciliana. Così come è accaduto per Lombardia e Toscana, la diffusione del modello criminale mafioso fu dovuto essenzialmente alla presenza, anche se non particolarmente nutrita rispetto ad altre regioni, dei membri delle cosche, in esecuzione di un provvedimento di soggiorno obbligato. La maggior parte dei mafiosi che soggiornarono in Veneto proveniva dalle fila di Cosa Nostra: tra i nomi più noti, Salvatore Contorno, Gaetano Fidanzati, Antonino Duca e Gaetano Badalamenti. Cresciuti alla scuola criminale dei siciliani nel periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, i malavitosi veneti, nei due decenni successivi, s'imposero autonomamente e si distinsero per la ferocia e l'abilità nel controllare i traffici criminali transitanti nella regione. Sempre negli stessi anni, fu convogliata verso il Veneto un'ingente quantità di denaro sporco, proveniente dai numerosi traffici illegali delle mafie e destinato a costruire ed alimentare un sofisticato circuito di riciclaggio, che s'innestò in modo parassitario sul sistema economico legale di una regione tra le più produttive e all'avanguardia dell'intero paese.
Anni Ottanta: esordio con rapine e sequestri per Maniero. Il più clamoroso esempio della capacità di assimilare il modello mafioso e di calarlo nella realtà veneta fu costituito dalla cosiddetta "mala" o "mafia del Brenta". Rapine, sequestri di persona, traffici di droga ed armi, estorsioni: furono queste le principali attività dell'organizzazione guidata dal veneziano Felice Maniero e con basi logistiche nella Riviera del Brenta, tra Venezia e Padova. Nei primi anni di attività, gli uomini di Maniero misero a segno gli spettacolari colpi all'Hotel "Des Bains" al Lido di Venezia (1982) e alla stazione ferroviaria di Mestre (1982) e furono i protagonisti del celebre assalto all'aeroporto di Venezia (1983): i 170 chili di oro rubato presso il caveau della dogana aeroportuale sancirono, infatti, la definitiva consacrazione della banda veneta nel panorama criminale. La mala del Brenta dimostrò la sua potenza, portando a termine contemporaneamente i sequestri Rosso Monti, Andreatta e Bonzado. La terribile fama guadagnata sul campo dal sodalizio criminale veneto si alimentò ulteriormente negli anni successivi: sfruttando abilmente una serie di accordi stipulati con le cosche mafiose per la gestione dei proventi criminali nel nord est, oltre alle rapine, gli uomini di Maniero si dedicarono con profitto al traffico di droga, al controllo del gioco d'azzardo clandestino e al rafforzamento delle pratiche dell'estorsione e dell'usura.
Anni Ottanta-Novanta: la Mala del Brenta, una organizzazione mafiosa. In diverse circostanze, la mala del Brenta diede prova di sapere esercitare un efficace controllo del territorio, imponendo la propria legge. Nel periodo di massima potenza, l'organizzazione, composta inizialmente da una quarantina di elementi, arrivò a contarne quasi quattrocento, tra effettivi e fiancheggiatori a vario titolo. I successi criminali della mafia del Brenta furono possibili grazie alla riuscita integrazione al proprio interno di elementi locali e di esponenti delle tradizionali cosche e grazie anche all'adozione di un modello organizzativo e comportamentale tipicamente mafioso, compresa l'eliminazione di testimoni scomodi e di membri della banda divenuti inaffidabili. Nonostante i numerosi arresti, compreso quello dello stesso Maniero, e una feroce faida interna per la supremazia, scoppiata durante la sua carcerazione, gli affari per la mala del Brenta non subirono flessioni. Dalle carceri di massima sicurezza e dai suoi nascondigli di latitante, "Faccia d'Angelo" continuò a dirigere le operazioni e le attività dei suoi uomini. Sul finire degli anni Ottanta, alle molte attività della banda si aggiunse anche il contrabbando di armi con la ex Iugoslavia, grazie al rapporto di amicizia stretto tra Maniero e il figlio di Franjo Tudjman, destinato poi a diventare il presidente della repubblica croata. Durante il processo, che si aprì il 27 novembre 1993 nell'aula bunker di Mestre e che vide alla sbarra Maniero insieme ad altri 109 imputati, fu ricostruito l'intero percorso criminale della mala del Brenta e furono circostanziate accuse pesantissime: dagli omicidi alle rapine, dalle estorsioni e l'usura al riciclaggio, dal traffico di eroina ai sequestri di persona, per finire con l'accusa più grave, e per certi versi esaustiva, di associazione mafiosa. Le condanne nei confronti dei membri della mafia del Brenta furono esemplari e l'organizzazione fu spazzata via, grazie soprattutto alle rivelazioni di Maniero che fece arrestare più di trecento persone.
Anni Ottanta - Novanta: Verona, la "Bangkok italiana". Dagli inizi degli anni Ottanta oggetto di attenzioni criminali mafiose, nel giro di una quindicina di anni, Verona diventò un punto di snodo dei traffici di droga così cruciale da conquistarsi il triste soprannome di "Bangkok d'Italia". A rendere la città scaligera una piazza strategica per il circuito del narcotraffico europeo contribuì in primo luogo la sua posizione geografica nevralgica, perché centrale lungo le rotte dell'est, del Mediterraneo e del nord Europa; in secondo luogo furono rilevanti gli accordi stipulati tra le mafie italiane e le associazioni criminali mediorientali, su tutte la mafia turca, per il passaggio attraverso gli stessi canali, oltre che della droga, anche di armi leggere e pesanti, di componenti per la fabbricazione di ordigni nucleari e di segreti dell'industria bellica. All'interno di questo patto trovarono spazio numerosi soggetti, in gran numero incensurati e insospettabili, che, singoli o associati con altri criminali, si dedicarono allo spaccio al minuto dell'eroina turca, dell'hascisc e della cocaina colombiana che le organizzazioni siciliane, campane e calabresi fornivano loro, disinteressandosi completamente delle modalità di organizzazione del traffico e ritagliandosi invece ampi margini di utili. Questo scenario davvero inquietante venne alla luce quando, dopo molti mesi di minuziose indagini, in data 14 giugno 1994, scattò a Verona, e contemporaneamente negli altri capoluoghi veneti e in tutta Italia, una vasta operazione delle forze dell'ordine che portò all'esecuzione di 183 mandati di cattura, di cui 66 in carcere. L'operazione "Arena", che scompaginò le fila di questa rete di narcotrafficanti, fu possibile grazie allo sviluppo delle intuizioni investigative che furono alla base della famosa indagine avviata un decennio prima da Carlo Palermo, giudice istruttore di Trento, il quale, nello svelare i meccanismi e i retroscena degli scambi tra droga ed armi, individuò Verona tra le città coinvolte nel traffico.
Anni duemila fino a tutt’oggi. Dalla mafia autoctona al gemellaggio con quella d'importazione. La criminalità organizzata in Veneto sta diventando la nuova Banca di riferimento. “Per gli imprenditori in crisi di liquidità chiunque porti soldi è ben accetto, anche il camorrista o l’affiliato alla ‘ndrangheta, che diventa l’ultima speranza prima del suicidio”. E di suicidi per crisi il Veneto se ne intende, vista la decina di casi degli ultimi sei mesi. Le parole sono di Giuseppe Pisanu, presidente della Commissione parlamentare antimafia chiusa a Venezia. E stando alle relazioni presentate dai prefetti, che riportano indagini svolte dai carabinieri dei comandi provinciali, Ros e Dia, emerge uno ‘spaccato’ in cui lentamente sembra farsi largo sempre più la ‘ndrangheta a ovest e la Camorra ad est della regione. La criminalità calabrese “striscia silente e senza far rumore – dice il colonnello Sergio Raffa, comandante regionale della Direzione investigativa antimafia – è difficile scoprirla perché allaccia rapporti con le imprese locali e molto lentamente le svuota, se ne appropria”. La mappa segnata dalle relazioni è quello di un “quadrilatero” che collega Verona, Vicenza, Modena e Reggio Emilia. Stando alle elaborazioni delle forze dell’ordine presentate in commissione emerge a Verona un gran numero di pregiudicati calabresi affiliati alle cosche. Una presenza che ‘interagisce’ marcando a fondo la società e l’economia. Un dato rilevante è stato portato a conoscenza della commissione: le cosche che si fanno la guerra al sud, in Veneto creano una sorta di alleanza. La ‘ndrangheta è particolarmente attiva nel settore del ciclo del cemento, e, stando alle relazioni, le varie aziende ‘contigue’ alle famiglie calabresi che in terra d’origine si combattono a suon di spari, nel veronese e nel vicentino cooperano insieme, perchè l’obiettivo è far girare i soldi. E così l’ovest del Veneto appare come una piccola Calabria in miniatura, in cui c’è spazio per tutti e dove si pulisce il denaro che viene dalla droga. Si ripropongono così i Dragone e i Grande Aracri di Cutro, gli Anello-Fiumana di Filadelfia, i Vrenna-Ciampà Bonaventura di Crotone, i Papalia-Italiano di Delianuova, i Morabito-Pangallo-Marte di Africo Nuovo, i Bellocco di Rosarno i Piromalli-Molè di Gioia Tauro. E proprio a quest’ultima cosca la Guardia di Finanza Calabrese ha inferto un duro colpo. Nel giugno del 2011 si è chiusa l’indagine ‘Panama’ contro il narcotraffico, la procura antimafia di Reggio Calabria emette 18 ordinanze di custodia cautelare in carcere: tre di queste persone, calabresi di origine, sono residenti a Sommacampagna, Bussolengo e Peschiera (Verona). Un mese dopo la Dia veneta sequestra 3milioni di euro a Domenico Multari, detto ‘Gheddafi’, originario di Cutro e affiliato ai Dragone. Il calabrese è residente a Zimella, sempre nel veronese, e in sette anni di ‘soggiorno’ al nord aveva dichiarato 40mila euro di reddito, mentre viveva in una villa con un sistema di sorveglianza di ultima generazione. L’allarme sulle infiltrazioni criminali in Veneto lo aveva dato anche il Ministro per il Rapporti con il Parlamento Piero Giarda due giorni fa, rispondendo in aula al question time del parlamentare padovano del pd Alessandro Naccarato. Il caso sollevato è quello del fallimento della società Edilbasso, leader dell’edilizia nel padovano. Naccarato ha espresso “particolari perplessità” riguardo al fatto che nella società Faber, che tiene in piedi il ramo ‘sano’ della Edilbasso al fine di pagare i creditori, sono coinvolte persone che hanno avuto ruoli importanti nell’inchiesta “Tenacia” sulla ditta lombarda Perego Strade srl, e che ha consentito l’arresto di Salvatore Strangio, poi condannato in primo grado a Milano a 12 anni per associazione mafiosa. L’anello di congiunzione tra quell’inchiesta e le vicende della ditta padovana si chiama Giovanni Barone, consulente finanziario di 43 anni, romano di nascita e calabrese di adozione, che della Perego strade fu il liquidatore e che per qualche mese ha avuto il 65% delle quote della Faber. Ora nella compagine societaria della Faber appare con il 10% un’altra persona legata alla Perego, ovvero Adriano Cecchi, che della Perego è stato sindaco della società in liquidazione. Cecchi e Barone non sono indagati, ma di Barone il gip milanese scrisse: “Barone è il soggetto, talvolta discusso e contestato da parte dei calabresi tagliati fuori dalla gestione diretta di Perego, al quale viene affidata la sistemazione delle società decotte”. Il consulente finanziario ha precedenti di polizia per reati contro la pubblica amministrazione, resistenza e violenza, falso in genere, falsa attestazione, omessa custodia di armi. “Il fronte della guerra alla criminalità organizzata si è spostato al Nord – commenta Maino Marchi, membro della commissione parlamentare e presente a Venezia – e il Veneto è un terreno florido per la criminalità che ha soldi da investire, solo adesso il Parlamento sta procedendo al recepimento della normativa europea sui tempi certi di pagamento, il rischio è che questa regione si svegli tra vent’anni e si ritrovi come la Lombardia e la Liguria”. Nel frattempo, assieme alla ‘ndrangheta che si insinua, ci sono inchieste già note alle cronache e che riguardano invece napoletani vicini alla Camorra. Come svela l’inchiesta “Serpe”, un’associazione di stampo mafioso dedita all’usura smantellata dai carabinieri e dalla Dia nel 2011, che faceva capo ad una società padovana del campano Mario Crisci, che avrebbe prestato denaro ad usura, con tassi fino al 180%. Vittime i piccoli imprenditori, albergatori o gestori di chioschi, minacciati anche con armi. Una quota degli utili, come ricostruito dal pm Roberto Terzo, andava a Casal di Principe. 23 gli imputati ammessi al rito abbreviato. E poi ancora l’operazione Manleva dei carabinieri con i fratelli napoletani Catapano a spolpare le aziende in crisi del padovano. Camorra e ‘ndrangheta non sono più un tabù per il Veneto, ora che c’è bisogno di soldi, e ora che le banche chiudono le borse, gli imprenditori del Nordest hanno trovato una pericolosa strada per rimanere in vita. Almeno finchè i boss glielo consentiranno.
"Parlare di mafia in Veneto? Ma se qui la mafia non c'è". Quante volte si è detto e ripetuto: e in Veneto si lavora sodo. Eppure qui sono stati mandati al confino personaggi che hanno contribuito a scrivere alcune delle pagine più importanti della mafia. Qui sono arrivati "Totuccio" Contorno, Salvatore Badalamenti, nipote di quel "Tano" che fece ammazzare Peppino Impastato. Qui Giuseppe Madonia ha potuto condurre i propri business, con la complicità di alcuni imprenditori locali. Ma il Veneto non ha solo importato mafia: l'ha pure creata. In nessun'altra regione italiana, al di fuori di quelle meridionali, è nata un'organizzazione con le caratteristiche del 416 bis. Il Veneto l'ha avuta e l'ha chiamata Mala del Brenta.
Questo è il sunto del libro “A casa nostra. Cinquant’anni di mafia e criminalità in Veneto” di Danilo Guarretta e Monica Zornetta.
Il clan Lo Piccolo puntava a Nordest. Aveva messo gli occhi su una serie di operazioni edilizie a Chioggia (Venezia) e nella zona termale di Abano (Padova). Sono gli sviluppi dell'indagine palermitana che, tra l'altro, ha condotto all'arresto dell'avvocato Marcello Trapani, che continuava a tessere le fila per conto dei Lo Piccolo. Obiettivi: mettere le mani sul Palermo calcio e, soprattutto, «diversificare» al Nord.
Ecco l'articolo pubblicato il 25 settembre 2008 su Nuova Venezia, Mattino di Padova e Tribuna di Treviso.
La mafia in Veneto. Infiltrazioni: un'emergenza nazionale. Lo si sospettava. Meglio, lo si temeva. Bastava ascoltare gli allarmi lanciati da Roberto Saviano, autore di «Gomorra». O prendere sul serio le analisi del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: «La criminalità organizzata è ormai una realtà anche al Nord. E’ nelle regioni più ricche che cerca la maggiore redditività ai suoi investimenti». Bene, se ce ne fosse stato bisogno, ecco la prova provata: la mafia sta arrivando (è arrivata?) pure nel ricco Nordest. Il clan palermitano dei Lo Piccolo aveva messo gli occhi sulla riqualificazione del porto di Chioggia e puntava ad aggiudicarsi una serie di interventi edilizi nella città lagunare così come nella zona termale di Abano. Affari per diversi milioni di euro, messi in piedi con una rete di collusioni in sede locale.
Cosa nostra ha mille vite, come i gatti. E come lo stesso clan dei Lo Piccolo. Salvatore, erede di Bernardo Provenzano, è stato arrestato, insieme con il figlio Sandro, il 5 novembre 2007, dopo 25 anni di latitanza. Qualche giorno prima, per l’esattezza il 25 settembre, aveva fatto in tempo a costituire la società «Petra», quella che appunto doveva operare a Chioggia. Non solo il clan cercava di riorganizzarsi, ma non aveva cessato le mire espansioniste.
Per il Nordest è un brutto risveglio. È vero che la mafia del Brenta di Felice Maniero aveva provato a muoversi in collegamento con le famiglie del Sud. Ma sono vicende che si perdono negli anni e nelle cronache. Il tentato sbarco a Chioggia è un segnale forte, mette in evidenza una precisa strategia: la mafia, prima azienda italiana con 90 miliardi di fatturato (più dell’Eni, per intenderci), pari al 7 per cento del Pil (dati contenuti nel rapporto Sos impresa della Confesercenti), segue l’odore dei soldi. E nel Veneto, finalmente avviato a realizzare le grandi infrastrutture, di soldi da qui ai prossimi 10-20 anni ne gireranno parecchi.
Qualcuno, se vuole, può continuare a pensare che cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta siano problemi del Mezzogiorno. Di più, il cancro del Mezzogiorno, il vero freno al suo sviluppo, il motivo per cui le regioni meridionali non sono appetibili al capitale privato. Non è così. La mafia è un’emergenza nazionale e come tale va affrontata. Perché la piovra, in epoca di globalizzazione, va a caccia di affari ovunque. Figurarsi se si ferma al Sud. A Varese e in Brianza, di recente, è stato scoperto un traffico di rifiuti tossici, l’ultimo megabusiness della malavita. A Milano si sta discutendo sull’opportunità di creare una commissione che vigili sugli appalti dell’Expo 2015, dopo che la Procura di Busto Arsizio ha aperto un fascicolo sui rischi di infiltrazione mafiosa. Ora la storia di Chioggia.
Deve reagire lo Stato, certo. Ma anche per le associazioni degli imprenditori (in primis i costruttori dell’Ance) e dei commercianti è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti: bisogna scoprire ed espellere chi ha collusioni mafiose. È la scelta compiuta da Ivan Lo Bello, presidente della Confindustria siciliana. Occorre estenderla a tutte le categorie. E a tutta Italia.
Ma la MAFIA è solo quella che ci convincono che sia, o esistono altre mafie, più subdole ed impunite ??
Esiste una mafia della prostata? Sì, esiste, ed è una mafia potentissima. Non potrebbe essere altrimenti in una gerontocrazia come quella del nostro Paese, dove l’autorità politica, giudiziaria, militare, economica e religiosa è incarnata da persone che nella migliore delle ipotesi hanno superato i 50 anni, più spesso i 60, quasi sempre i 70.
Ai vertici della cupola vi sono gli urologi, che hanno fra le mani, letteralmente, quanto di più intimo appartenga a un uomo. Depositari di reconditi segreti, testimoni di virilità declinanti, ancore di salvezza in patologie tanto frequenti quanto angosciose, a cominciare dai tumori, sono i medici ai quali i maschi si rivolgono meno volentieri. Perciò conviene farseli amici per la vita. Non è un caso che Giovanni Paolo II ricorresse all’urologo di un ospedale distante 520 chilometri dal Vaticano. O che il riservatissimo presidente della più importante banca popolare italiana, oggi defunto, e il presidente di una catena di quotidiani locali si facessero vedere a cena nei ristoranti soltanto col primario di urologia della loro città. O che Indro Montanelli si fosse fatto operare a Verona, anziché a Milano o a Roma, da un luminare trentino.
La Marsilio sta esaminando un j’accuse allucinante che svela le malefatte di questa mafia della prostata. Come autore della casa editrice, ho potuto leggerlo in anteprima. Ne sono rimasto sconvolto. Per ovvi motivi di esclusiva non mi è concesso riferire i dettagli - nomi e cognomi, località, date - implacabilmente elencati in quello che è destinato a diventare un libro-scandalo di 250 pagine, corredato da 140 fotografie che tolgono il fiato, tutte scattate in ambito ospedaliero.
Autore dell’esplosivo memoriale è un famoso chirurgo. Lo chiamerò professor X. Curriculum eccezionale. È titolare di cattedra universitaria e direttore di una delle più importanti cliniche urologiche del Nord Italia. L’incipit testimonia che sa incidere anche con la penna, oltre che col bisturi: «Fin quando diranno bugie su di me, io dirò la verità su di loro». «Loro» sono: il suo maestro oggi in pensione ma tutt’altro che a riposo, alcuni dei suoi medici, la sua caposala, più vari comprimari. Si sono coalizzati e l’hanno trascinato sul banco degli imputati con le accuse di abuso in atti d’ufficio, interruzione di pubblico servizio e mobbing. Il chirurgo s’è accorto troppo tardi che era lui, in realtà, la vittima designata di un mobbing alla rovescia orchestrato allo scopo di provocarne la morte professionale per via giudiziaria.
Il direttore della clinica è stato annientato perché s’è rifiutato di far vincere il concorso per professore associato a un medico del suo staff che non possedeva i titoli necessari, ma che ciò nonostante in ripetute occasioni aveva affermato: «Quel concorso è il mio concorso!». Il professor X non ha tenuto nel minimo conto il fatto che anche il suo maestro avesse pubblicamente dichiarato che l’«aspirante naturale» e il «candidato naturale» del concorso per associato era il medico poi bocciato.
La qualità scientifica e didattica del raccomandato è risultata nettamente inferiore a quella degli altri concorrenti e ciò a giudizio di una commissione indipendente formata come d’uso da quattro professori universitari esterni eletti su base nazionale. Di qui la vendetta contro il professor X che la presiedeva.
Fra l’altro il candidato scartato era reduce da ben 17 concorsi nelle principali città d’Italia, con poco invidiabili risultati: in 12 non s’era nemmeno presentato, in 3 s’era ritirato, in 2 lo avevano dichiarato non idoneo.
Il professor X è stato massacrato dalla mafia della prostata. Condannato a una lunga pena detentiva e al pagamento di una provvisionale stratosferica, non è finito in galera solo perché è incensurato e nel frattempo ha interposto appello. Nel suo caso la giustizia ha funzionato egregiamente: indagini a tappeto; decine di persone interrogate; confronti all’americana; spazio mediatico solo alle tesi dell’accusa; mai un articolo di giornale sul suo interrogatorio, sulle sue ragioni, sulle testimonianze a suo favore; 13 udienze in appena 7 mesi e subito la sentenza. La conclusione era sorprendentemente già scritta nel primo servizio apparso su un quotidiano locale quando fu emesso l’avviso di garanzia: pubblicato nel settembre 2006, anticipava la requisitoria che il pubblico ministero avrebbe pronunciato soltanto tre anni dopo.
È un miracolo che il professor X, noto come una persona corretta ed equilibrata, abbia mantenuto i nervi saldi. Solo un uomo di spessore morale poteva sopportare una prova tanto aspra e alla fine trovare dentro di sé le forze per mettere nero su bianco un dossier nel quale i concorsi truccati, le carriere fatte e disfatte a tavolino, i pazienti rovinati in sala operatoria, i medici che percepiscono lo stipendio senza presentarsi in reparto, rappresentano il meno. A lasciare interdetti sono gli effetti perversi che una fitta ragnatela di amicizie è in grado di determinare: nel caso specifico, una macchinazione che ha distrutto la reputazione del professionista, reo di non essersi piegato allo strapotere, tuttora intatto, del barone della medicina che lo ha allevato e voluto come proprio successore sulla cattedra universitaria. Nel loro ultimo colloquio in presenza di un testimone, tre anni fa, il maestro, uomo di poche parole, aveva concluso lapidario: «Non è il primo e non sarà l’ultimo esempio di parricidio». Sentendosi rispondere: «Vi sono altrettanti esempi di padri che uccidono i figli».
L’anziano urologo che divora le proprie creature - lo chiamerò professor Y - è nato in un paesino della Sicilia. Potrebbe sembrare una trascurabile casualità geografica. Sennonché di questo stesso paesino sono originari: 1) il procuratore capo in servizio all’epoca dei fatti; 2) un maresciallo dei carabinieri, in passato fedele collaboratore del magistrato, che s’è molto interessato all’andamento del concorso e che trascorre le sue giornate battendo i corridoi dell’azienda sanitaria per raccogliervi confidenze, delazioni, lettere anonime; 3) un amico del professor Y strettissimo parente di uno dei tre giudici del collegio che ha condannato il professor X; 4) la famiglia del medico che ha vinto il concorso. Da notare che la prima persona presentata dal professor Y al professor X fu il compaesano carabiniere: «Questo è il maresciallo (...). Ricordalo bene, perché qualsiasi problema tu abbia lui può risolverlo». S’è visto. Allora andavano d’accordo, maestro ed erede.
A proposito di Parentopoli. Il professor Y aveva deciso fin dal 1990 chi gli sarebbe succeduto sulla cattedra e in clinica: suo cognato. Purtroppo per lui, una vicenda imprevista gli ha mandato a pallino il piano: il predestinato ha avuto una crisi mistica, che lo ha portato non solo a disinteressarsi della famiglia e del lavoro, ma anche a mettere a repentaglio la salute dei malati e il buon nome dell’ospedale. Infatuatosi d’un santone che si spaccia per guaritore, ha smesso di operare, ha abbandonato l’attività ambulatoriale, ha cominciato a distribuire immaginette votive agli ammalati e ai loro parenti (e persino agli specializzandi e agli studenti di medicina durante le lezioni), ha ripetutamente invitato i familiari di pazienti con patologie neoplastiche o malformazioni congenite a rivolgersi al guru piuttosto che ricorrere alle cure dei chirurghi. Contro di lui, essendo pur sempre il cognato dell’influente professor Y, non è mai stato preso alcun provvedimento, nonostante si presentasse in reparto solo occasionalmente e solo per connettersi a siti religiosi su Internet. Ciò significa che ha continuato per anni a percepire lo stipendio senza prestare servizio: non operava, non visitava, non faceva il «giro» degli ammalati.
Ai tempi d’oro, il professor Y era impegnatissimo in una casa di cura privata. Di solito vi si tratteneva fino alle 10 o alle 11 del mattino. Intanto in ospedale i suoi medici lo aspettavano sotto il vigile controllo della caposala, poi diventata uno dei testimoni d’accusa contro il professor X. Nel suo libro quest’ultimo documenta inoltre come il maestro sia «sempre stato molto vicino al mondo militare: usualmente un’auto dell’Esercito lo accompagnava in aeroporto per i suoi viaggi privati e lo riportava a casa al ritorno». Il professor Y, benché fuori ruolo, s’è tenuto per quattro anni lo studio che aveva occupato da monarca assoluto per un quarto di secolo. Nei Paesi europei, quando un direttore raggiunge i limiti d’età, saluta e lascia definitivamente il reparto. Non esiste scappatoia che gli consenta di continuare l’attività assistenziale.
Ma come funzionava la clinica quand’era diretta dall’illustre cattedratico oggi a riposo? Leggiamo il memoriale: «Accerto che un professore a contratto della scuola di specializzazione (di cui era direttore in quel momento il professor Y) non è laureato! Appurato il fatto attraverso un colloquio col diretto interessato, lo invito a dimettersi per motivi familiari e a prendersi almeno una laurea breve. Scopro che ci sono irregolarità gravi negli atti operatori relativi ai pazienti privati del professor Y che vengono operati in endourologia. Il professor Y non ha mai fatto endourologia, branca che richiede una specifica competenza, perciò i suoi pazienti privati venivano operati dal dottor Z, anche se sull’atto operatorio figurava come chirurgo il professor Y». Inutile dire che il dottor Z è il candidato bocciato al concorso. «D’altro canto il professor Y operava per interposta persona pazienti ricoverati in regime ordinario che secondo la normativa vigente non avrebbe potuto operare. Ma tant’è: per il dominus si chiude un occhio, e spesso tutt’e due».
In sala operatoria non accadeva solo questo. Nel j’accuse sono elencati episodi terrificanti: «Paziente operato dal professor Y in endoscopia per una resezione di prostata. Un’erezione improvvisa impedisce l’intervento. Usualmente in simili casi si inoculano alfastimolanti diluiti nei corpi cavernosi del pene. Il professor Y iniettò una fiala intera senza diluizione, provocando una grave crisi ipertensiva con conseguente emorragia cerebrale. L’incidente fu interamente coperto. Paziente operata dal dottor (...) in endourologia di chirurgia percutanea per calcolosi renale: morta per intossicazione d’acqua per un difetto di tecnica. Caso indifendibile. Eppure il conseguente strascico giudiziario, grazie al professor Y, si concluse a sfavore della vittima, tanto che la sentenza è riportata su Internet come esempio di ribaltamento della verità». E ancora: «Nefrectomia parziale su paziente privato (dozzinante). Un chirurgo seziona accidentalmente l’uretere lombare, lo “sistema” con una uretero-anastomosi ma non referta l’evento sull’atto operatorio. Il paziente, tuttora ignaro - temo - dell’accaduto, sviluppa una stenosi serrata dell’uretere che richiede plurimi trattamenti successivi. Insomma, una sequela agghiacciante, è l’unico termine appropriato, di complicanze maggiori, sulle quali nessuno ha fiatato, tanto meno la caposala del gruppo operatorio».
Il professor X è stato riconosciuto colpevole di abuso in atti d’ufficio per aver allontanato temporaneamente dalla sala operatoria il dottor Z, che dopo la bocciatura al concorso aveva diffamato il suo superiore e il reparto. Dalla campagna denigratoria al procedimento penale, il passo è stato breve. «Ma se in un processo quattro testimoni dicono che ci sono stati disagi, lamentele, attese, senza ricordare con precisione quando, come e quante volte, e se questi episodi non trovano alcun riscontro in documenti pubblici come la cartella clinica degli ammalati, l’atto operatorio e la scheda anestesiologica, le impressioni di tali testimoni costituiscono una prova? E qualora la risposta fosse affermativa, tale prova mantiene il suo valore anche se altrettanti o più testimoni negano i presunti eventi?», si chiede il condannato nel suo libro. È precisamente ciò che è accaduto nell’aula del tribunale. Il pubblico ministero, nella sua requisitoria, anziché circostanziare le accuse s’è limitato, in assenza delle citate prove documentali e in presenza delle sole testimonianze generiche, a parlare di un «coro di anime» sollevatosi contro l’imputato, aggiornamento poetico del «vox populi, vox Dei». Arrivando a concludere che costui non ha «per nulla a cuore l’interesse dei malati».
Adesso il destino del professor X è nelle mani del direttore generale dell’azienda ospedaliera, che ha già avviato un procedimento per «l’eventuale allontanamento del docente universitario». Il direttore generale ha ben presente che le cliniche di mezzo mondo farebbero carte false per assicurarsi mani e testa del professor X. Ma ha anche ben presente un’altra cosa: il Pm che ha sostenuto l’accusa contro il professor X è, guarda caso, lo stesso che qualche anno fa ha avviato un’inchiesta sulla realizzazione di una struttura ospedaliera. A quanto pare il fascicolo sulla congruità e sulla trasparenza delle procedure adottate per l’appalto sarebbe stato aperto in seguito a una segnalazione del maresciallo camminatore compaesano del professor Y. E a tutt’oggi non è dato sapere quale direzione abbiano preso le indagini.
A questo punto il lettore si chiederà perché il professor X non abbia smascherato a tempo debito la mafia della prostata, come mai abbia tollerato le storture di cui era venuto a conoscenza. La risposta è leale: «Nella vita immagini sempre che certe cose possano accadere solo agli altri. Se stavolta nel tritacarne ci sono finito io, qualcosa vorrà pur dire. Si vede che il destino doveva assegnarmi un compito: far sì che i principi di prudenza, diligenza e perizia si applichino non solo ai medici ma a tutti coloro, magistrati in primis, dalle cui decisioni dipendono molte vite. Non mi sottrarrò al mio destino».
Quando la coscienza bussa alla porta, puoi far finta di non essere in casa. Il professor X le ha aperto.
Nessun nome nell'anticipazione del quotidiano “Il Giornale" - «chiamerò l'autore dell'esplosivo memoriale professor X», si è coperto Lorenzetto - ; ma ovunque informazioni, dettagli, riferimenti. Sia sul luogo dei fatti, sia sulle identità delle persone prese di mira dalle accuse. Accuse pesantissime: errori medici, morti sospette, coperture e silenzi compiacenti.
Il mistero, però, è durato poco. E' bastato incrociare alcuni dati contenuti nel pezzo per mostrare con chiarezza chi fosse il demiurgo. Chi si nascondesse, insomma, dietro al «professor X». «Curriculum eccezionale, titolare di cattedra universitaria e direttore di una delle più importanti cliniche urologiche del Nord Italia», ricamava Il Giornale. Che poi aggiungeva. «Il professore è stato trascinato sul banco degli imputati con le accuse di abuso d'ufficio, interruzione di pubblico servizio e mobbing. (…) Ed è quindi stato condannato a una lunga pena detentiva e al pagamento di una provvisionale stratosferica; ma non è finito in galera solo perché è incensurato e nel frattempo ha interposto appello». Poteva bastare. Un solo soggetto era in grado di combaciare con l'identikit tracciato: è Walter Artibani, ordinario di Urologia al Bo, condannato il 17 luglio 2009 dal Tribunale di Padova ad un anno e sei mesi di carcere, con la sospensione condizionale subordinata al pagamento di una provvisionale di 300mila euro. Per abuso d'ufficio e mobbing. E forse proprio la condanna avrebbe convinto il luminare a scrivere il libro.
TANGENTOPOLI VENETA.
4 giugno 2014, tutta Italia ne parla. Mose, 35 arresti per tangenti: anche il sindaco di Venezia. Chiesta la custodia cautelare per l'ex governatore Galan, gli atti dovranno essere trasmessi al Senato. Un centinaio di persone nel registro degli indagati, scrive “La Repubblica”. Imprenditori e tanti politici. Una raffica di arresti clamorosi. Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, del centrosinistra, è finito in manette con le accuse di corruzione, concussione e riciclaggio. L'inchiesta è quella della Procura di Venezia sugli appalti per il Mose e sull'ex ad della Mantovani Giorgio Baita, già colpito da un provvedimento di custodia cautelare lo scorso febbraio. In manette anche l'assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso, di Forza Italia. Le persone finite in manette sono in tutto 35 persone, un altro centinaio gli indagati. Tra gli arrestati anche il consigliere regionale del Pd Giampiero Marchese, gli imprenditori Franco Morbiolo e Roberto Meneguzzo nonchè il generale in pensione Emilio Spaziante. E una richiesta di arresto è stata formulata per il senatore di Foza Italia Giancarlo Galan. Trattandosi di un parlamentare, gli atti dovranno essere tramessi al Senato. Galan è coinvolto per il periodo in cui è stato presidente della Regione Veneto . Gli arresti partono da una partono da una inchiesta della Guardia di finanza di Venezia avviata circa tre anni fa. I pm Stefano Ancillotto, Stefano Buccini e Paola Tonino (Dda) avevano scoperto che l'ex manager della Mantovani Giorgio Baita, con il beneplacito del proprio braccio destro Nicolò Buson, aveva distratto dei fondi relativi al Mose, le opere di salvaguardia per Venezia, in una serie di fondi neri all'estero. Il denaro, secondo l'accusa, veniva portato da Claudia Minutillo, imprenditrice ed ex segretaria personale di Galan, a San Marino dove i soldi venivano riciclati da William Colombelli grazie alla propria azienda finanziaria Bmc. Le Fiamme gialle avevano scoperto che almeno 20 milioni di euro, così occultati, erano finiti in conti esteri d'oltre confine e che, probabilmente, erano indirizzati alla politica, circostanza che ha fatto scattare l'operazione di questa mattina all'alba. Dopo questa prima fase, lo stesso pool, coadiuvato sempre dalla Finanza, aveva portato in carcere Giovanni Mazzacurati ai vertici del Consorzio Venezia Nuova (Cvn). Mazzacurati, poi finito ai domiciliari, era stato definito "il grande burattinaio" di tutte le opere relative al Mose. Indagando su di lui erano spuntate fatture false e presunte bustarelle che hanno portato all'arresto di Pio Savioli e Federico Sutto, rispettivamente consigliere e dipendente di Cvn, e quattro imprenditori che si spartivano i lavori milionari.
La Laguna degli scandali. Fatture gonfiate. Consulenze fasulle. E arresti eccellenti. Ma l'inchiesta sul consorzio concessionario per la realizzazione del Mose, non è ancora conclusa. E rischia di arrivare a Roma, scrive
Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Adesso tocca alla politica. Devono emergere le responsabilità di chi ha creato questo mostro giuridico che si chiama Consorzio Venezia Nuova». La frase non appartiene agli inquirenti che negli scorsi sei mesi, da febbraio a luglio, hanno arrestato vertici, azionisti e fornitori del raggruppamento di imprese incaricato di realizzare le dighe mobili a protezione della Serenissima. Sono le parole di un politico, Massimo Cacciari, sindaco di Venezia per tre mandati. Avendo trascorso un quarto di secolo a fare la vox clamantis in deserto, non ci credeva più neanche lui che il mostro della Laguna sarebbe andato in crisi dopo avere inghiottito e distribuito nel suo vasto organismo oltre 4 miliardi di euro su un investimento complessivo che arriva a 5,5 miliardi. E chissà poi se il mostro è davvero in crisi. Tutto dipende da quanto la magistratura vorrà, o potrà, approfondire un contesto di fatture gonfiate, consulenze fasulle, massi comprati dalle cave istriane al prezzo di diamanti e pagamenti che si perdono dietro società croate, austriache o sanmarinesi e fiduciarie made in Italy. Di sicuro, l'arresto dell'ex presidente e direttore generale Giovanni Mazzacurati, lo scorso 12 luglio, è stato assorbito in anticipo. L'ingegnere padovano, 81 anni di cui 31 trascorsi all'interno del consorzio, si è dimesso il 28 giugno, ufficialmente per motivi di salute. Tempi, modi e protagonisti dell'avvicendamento al vertice del Consorzio sono all'insegna delle ingerenze denunciate da Cacciari e del cambiare perché nulla cambi. Mazzacurati è stato sostituito alla presidenza dal vicentino Mauro Fabris, perquisito con altre cento persone mentre Mazzacurati finiva agli arresti. Di mestiere, Fabris farebbe il consulente d'azienda. Ma forse è un po' più noto come parlamentare irrequieto, capace di attraversare per tre legislature (1996-2008) ogni fase del centrismo (Margherita, Udr, Ccd, Udeur) prima di abbracciare il credo berlusconista e di consolarsi, dopo la mancata candidatura alle politiche del 2008, con la presidenza della Lega pallavolo femminile e un incarico da commissario per il tunnel del Brennero firmato dal ministro di allora, Altero Matteoli. Qualcuno gli ha chiesto se il suo sponsor per la nomina al Consorzio fosse il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi oppure lo stesso premier Enrico Letta, nipote del sottosegretario berlusconiano Gianni che in Laguna ha comandato a lungo attraverso i suoi emissari Angelo Balducci e Fabio De Santis, prima che i processi alla Cricca li portassero in carcere nel 2010. Stroncando ogni sospetto di patronage politico, Fabris ha replicato che il Consorzio Venezia Nuova (Cvn) è composto da imprese private (Mantovani, Condotte, Mazzi, Lega coop), che sono stati gli azionisti del Cvn a sceglierlo e che il sindaco di New York, Michael Bloomberg, gli ha già chiesto le planimetrie del Mose perché pensa di adottarle contro le piene del fiume Hudson. In un momento di pessimismo, ha aggiunto che il Consorzio potrebbe sciogliersi subito dopo la fine dei lavori, prevista nel 2016, e affidare non si sa a chi la fase più delicata dei primi anni di attività di un sistema sul quale molti tecnici qualificati hanno espresso gravi perplessità. Il fatto che il vicentino Fabris sia stato scelto da un gruppo di imprenditori privati mostra come in una delle opere più ambiziose e costose in corso in Italia un lobbista sia più competitivo di un ingegnere o di un manager. Del resto, per l'ex deputato, ex senatore ed ex sottosegretario ai Lavori pubblici è un ritorno sui luoghi dove la sua carriera ebbe inizio circa un quarto di secolo fa. Nella seconda parte degli anni Ottanta Fabris è stato il primo portavoce in quota Dc del Consorzio allora guidato da Luigi Zanda, prima di essere sostituito da Franco Miracco, al tempo di sinistra e poi riciclatosi come eminenza grigia dell'ex governatore regionale ed ex ministro Giancarlo Galan. In un contesto local-nazionale dominato dai virtuosi del trasformismo, il mostro raffigurato da Cacciari ha avuto una testa per ogni forza politica che l'ha nutrito. Quindi, ha avuto tutte le teste possibili fin dai tempi della Prima Repubblica, quando la legge speciale su Venezia del 1984 stabilì che il Cvn, in quanto concessionario unico dello Stato, lavorasse con fondi pubblici messi a disposizione dal Cipe. Lo schema è sopravvissuto a ogni polemica, a ogni restrizione di spesa sulle infrastrutture e a una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea perché il sistema Mose-Cvn era sospettato di essere un monopolio. Per anni, Mazzacurati si è speso in una spola continua tra palazzo Morosini, la splendida sede del Consorzio nel sestiere di San Marco, e palazzo Chigi mentre Piergiorgio Baita reggeva di fatto l'operatività del Cvn a nome dell'azionista di maggioranza Mantovani. Baita, che per molti resta il custode dei segreti del Mose, è finito in carcere a febbraio. Durante la sua detenzione, la Mantovani lo ha rimpiazzato con un ex questore di Treviso, Carmine Damiano, giusto per dare un segnale di buona condotta al committente statale che, peraltro, non ha mai smesso di tenere in cima alle priorità infrastrutturali il Mose chiunque fosse il premier, Romano Prodi o Silvio Berlusconi, Mario Monti o Enrico Letta. In sede regionale, si è vista la stessa continuità e i referenti non sono cambiati da quando Galan ha lasciato la giunta al leghista Luca Zaia dopo avere comandato in Veneto dal 1995 al 2010. Renato Chisso, ex socialista assessore alle Infrastrutture fedelissimo di Galan, è stato confermato anche nella nuova giunta. Al momento, il sistema politico è rimasto fuori dai provvedimenti della magistratura. Ma la diga sembra fragile e l'acqua alta, stavolta, potrebbe arrivare fino a Roma.LA CUPOLA DEGLI APPALTI.
La Cupola del Mose. Inchiesta a Venezia su una rete di ufficiali che proteggevano gli affari sporchi del Mose. Sotto indagine per tangenti un alto ufficiale della Finanza. E gli inquirenti sospettano fondi neri per centinaia di milioni di euro, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. La cupola degli appalti in Veneto aveva una super-copertura: una rete di controspionaggio guidata da un generalissimo della Guardia di Finanza. Un comandante di rango nazionale, con un passato nei servizi segreti, che poteva impartire direttive e farsi trasmettere informazioni sensibili da schiere di graduati senza destare sospetti. I magistrati di Venezia, con una squadra di fidati investigatori della stessa Guardia di Finanza, stanno scoperchiando una nuova Tangentopoli con centinaia di indagati. Con un troncone d’indagine che punta contro un network di pubblici ufficiali sospettati di aver messo in vendita un servizio illegale di protezione dalle inchieste giudiziarie. Non le solite mazzette per addomesticare verifiche fiscali, insomma, ma una corruzione programmata per fermare sul nascere ogni possibile istruttoria. A libro paga c’era e forse c’è tuttora una rete di funzionari di varie forze di polizia, con agganci nei servizi e in agenzie private, in grado di spiare le procure, allertare gli intercettati, falsificare o far sparire documenti compromettenti e trafugare atti giudiziari. In settembre era stato arrestato il vicequestore bolognese Giovanni Preziosa, accusato di aver intascato circa 160 mila euro proprio per spiare le indagini venete. Ora i pm sono risaliti ai livelli più alti. E sotto accusa c’è un generale a tre stelle delle Fiamme gialle, sospettato di essersi fatto consegnare pacchi di banconote in contanti. Almeno mezzo milione di euro. I costi e i rischi di una corruzione di tale livello si spiegano con l’importanza del movente: impedire ai magistrati di scoprire un colossale sistema di malaffare gestito da un cartello di aziende collegate alla politica. Al centro delle indagini c’è il Mose, la più grande opera pubblica varata in Italia: un enorme sistema di dighe mobili, che dovrebbe proteggere Venezia dall’acqua alta ma dopo più di trent’anni non è ancora in funzione. Gran parte delle indagini sono per ora segrete, ma il quadro disegnato dalle prime confessioni è già chiaro: il Mose è diventato una monumentale fabbrica di denaro nero. L’inchiesta conta già più di cento indagati, venti arrestati e fatture dichiaratamente false per più di 30 milioni, ma finora si è vista solo la punta dell’iceberg. La Guardia di Finanza ha scoperto altre “cartiere” in Svizzera, Austria, Canada, oltre che in Italia, e indaga su possibili fondi neri per «centinaia di milioni di euro». I più importanti sponsor istituzionali del duo di imprenditori sotto inchiesta per i fondi neri sono sicuramente Galan, governatore in carica dal 1995 al 2010, il suo assessore Renato Chisso, rimasto in carica con il presidente leghista Luca Zaia, l’europarlamentare Lia Sartori e il super-tecnico Silvano Vernizzi di Veneto Strade. Tra le sponde a sinistra, più del modesto contributo finito alla fondazione VeDrò di Enrico Letta, pesa il ruolo delle cooperative rosse. E tutta l’inchiesta è nata dai controlli su Lino Brentan, amministratore in quota Pd dell’autostrada Padova-Venezia, arrestato nel gennaio 2012 per corruzione.
Sul Mose piovono gli arresti. All'arresto eccellente di Piergiorgio Baita a marzo, relativamente al contestato progetto di paratie mobili contro l'acqua alta in laguna, si aggiunge quello, ancora più clamoroso di Giovanni Mazzacurati, numero uno del consorzio Venezia Nuova, scrive Gianfrancesco Turanosu “L’Espresso”. Aggiornamento del 12 luglio 2013. L'arresto di Giovanni Mazzacurati, numero uno del Consorzio Venezia Nuova, è una svolta clamorosa, anche se non inattesa, dell'inchiesta sulle dighe mobili a salvaguardia della laguna veneziana. Forse lo stesso Mazzacurati aveva previsto il cambio di passo di un'indagine in corso da tempo. Il 28 giugno, l'ingegnere di 81 anni aveva abbandonato le cariche di presidente e direttore generale del Consorzio. Non è bastato ad evitargli il carcere. Il Consorzio, un raggruppamento di società private finanziate con i fondi statali della legge speciale per Venezia, era già stato colpito dall'arresto di Piergiorgio Baita, il manager ed azionista della Mantovani, l'impresa edile azionista di maggioranza del Consorzio. Insieme a Mazzacurati, la scorsa notte sono stati arrestati gli imprenditori chioggiotti che per conto del Consorzio Venezia Nuova trasportavano in laguna dalla Croazia i massi che servono ad ancorare le paratoie mobili. Grazie a queste pietre, sovaffatturate e pagate a peso d'oro per creare fondi neri fra l'ex Jugoslavia e l'Austria, la Guardia di finanza sospetta che siano state distribuite tangenti per milioni di euro. Qui di seguito l'inchiesta "Affari e grandi opere, la cricca veneta", del 20 marzo 2013. Dighe e arresti sono arrivati insieme il 28 febbraio. Giustizia a orologeria? A Venezia avranno usato un cronometro da gara. Nello stesso giorno in cui sbarcavano a Porto Marghera le prime paratoie anti-inondazione del Mose, l'acqua alta giudiziaria ha messo in crisi l'ecosistema politico-affaristico che per venticinque anni ha governato la laguna e buona parte del Veneto grazie ai finanziamenti pubblici per il Mose (5,7 miliardi di euro), realizzato dal Consorzio Venezia Nuova (Cvn), e per altri grandi opere. L'inchiesta per associazione a delinquere e frode fiscale è stata battezzata "Chalet", traduzione beffarda del cognome dell'arrestato più in vista, Piergiorgio Baita, amministratore delegato della Mantovani, l'azionista di riferimento del Cvn, e uomo forte del consorzio presieduto da Giovanni Mazzacurati. L'ingegner Chalet, 64 anni, è sopravvissuto alla prima Repubblica, alla Democrazia cristiana che lo ha lanciato, agli arresti e ai processi di Tangentopoli. Ha prosperato durante il lungo regno alla Regione di Giancarlo Galan (1995-2010). Ha brindato alle infinite iniziative promozionali dell'opera insieme a Silvio Berlusconi, all'ex ministro Altero Matteoli, al veneziano Renato Brunetta, ai sindaci di centrosinistra che hanno amato il Mose, come Paolo Costa, o che ci si sono rassegnati, come Massimo Cacciari. Per rafforzare il consenso ha distribuito sponsorizzazioni e sostegni finanziari a pioggia tra il teatro della Fenice e la Reyer di basket, tra una tornata di Coppa America di vela (5 milioni di euro) e un milione versato al Marcianum, il centro studi della Curia voluto dall'ex patriarca di Venezia Angelo Scola. Baita ha vissuto grandi stagioni sotto la protezione di Gianni Letta ma si è adattato molto bene al successore di Galan, il leghista Luca Zaia che, colmo di meraviglia per quanto accade sotto gli occhi di tutti da anni, adesso vuole allestire una commissione di inchiesta sui metodi della Mantovani e delle imprese sue alleate. Sulla metodologia di questo gruppo di potere che in poco tempo è diventato dominante sulle infrastrutture venete si è dilungata anche Claudia Minutillo, 48 anni, arrestata assieme a Baita e al faccendiere bergamasco William Ambrogio Colombelli, ex consigliere della Nuova Garelli di Paolo Berlusconi con villa a Santa Margherita Ligure, barca a Portofino e "cartiera" a San Marino, dove la sua Bmc consulting emetteva fatture false intestate al Consorzio Venezia Nuova in cambio di una provvigione ragionevole: su 10 milioni di euro, lui se ne teneva 2. Il resto veniva ritirato da Minutillo nelle sue frequenti visite al Titano e distribuito. Distribuito a chi, hanno chiesto i giudici. A differenza del molto taciturno Baita, difeso dall'avvocato Piero Longo (lo stesso di Silvio Berlusconi ), Minutillo ha risposto nel corso di sei ore di interrogatorio secretato e - si presume - in modo convincente, visto che è tornata a casa agli arresti domiciliari. Il carcere femminile della Giudecca, per quanto dotato di una sua aura romantica, non faceva per la manager abituata all'eleganza nel vestire e allo shopping di qualità nelle boutique di Venezia e Padova. Da quello che Minutillo ha dichiarato dipende il futuro dell'inchiesta. L'acqua alta ordinaria degli inverni in laguna potrebbe diventare uno tsunami considerato che Minutillo è stata segretaria di Galan per cinque anni dopo che nel 2001 la precedente factotum, Lorena Milanato, era stata spedita a Montecitorio dove tuttora si trova. Nel 2005, su precisa richiesta della signora Galan, Minutillo è stata spostata al servizio di un altro potente locale, Renato Chisso. Ex socialista transitato nel Pdl, Chisso è stato assessore ai trasporti e alle infrastrutture sotto Galan e tale è rimasto sotto Zaia. Il suo potere, semmai, si è accresciuto e la continuità con il governo locale precedente è stata garantita. Chiusa l'esperienza da Chisso, Minutillo è stata promossa amministratore delegato di Adria Infrastrutture, una società creata a sua misura grazie ai capitali della Mantovani nel 2006, lo stesso anno in cui la giunta regionale, il Consorzio e Mantovani incominciavano a foraggiare la Bmc di San Marino («Io creo carta straccia, capito?», urla al telefono Colombelli alla Minutillo, «in sei anni vi siete portati a casa otto milioni!»). Adria va subito alla grande. Conquista gli appalti regionali per la superstrada Treviso-Mare e per il passante Alpe Adria. Ma anche prima di fare il salto di qualità il soprannome di "dogaressa" la diceva lunga sulla reale influenza di Minutillo nelle vicende politico-affaristiche del Veneto. Questo spiega perché il toto-nomi dell'interrogatorio alla Giudecca tiene sveglia parecchia gente. Nessuno, a cominciare dai magistrati, crede che la cresta complessiva sia stata di soli 10 milioni. E nessuno crede che l'unica cartiera per creare i fondi neri sia stata la Bmc consulting che Colombelli, prima dell'arresto, ha tentato invano di vendere a Baita per 3 milioni di euro (risposta eloquente di Baita a Colombelli: «Io non posso come gruppo prendere una società che produce carta, è pericoloso»). A dirla tutta, nessuno crede alla tesi con cui gli enti locali, il Consorzio, le imprese e i sindacati tentano di arginare l'allagamento dell'operazione Chalet. Questa tesi collettiva è: se Baita ha sbagliato, ha sbagliato per suo conto. E soprattutto, non buttiamo via il bambino con l'acqua sporca, visto che si può sempre non sapere. Così la famiglia padovana Chiarotto, che controlla la maggioranza della Mantovani attraverso Serenissima Holding e che è stata arricchita da Baita (100 milioni di euro di utili a riserva), ora minaccia azioni di responsabilità contro l'ingegnere che è anche azionista dell'impresa con il 5 per cento, anche se la Finanza ha proposto il sequestro della quota. Galan dice di averlo appena conosciuto e Chisso tace. Persino la Cgil locale ammonisce che i 900 posti della Mantovani vanno salvaguardati e che, arrestato il doge Baita, il Mose deve andare avanti. Tanto più che sono in arrivo altri 250 milioni di euro di finanziamenti tra il denaro dello Stato e il contributo anticipato dalla Banca europea degli investimenti (Bei). Eppure l'intraprendenza dell'ingegnere Chalet ha lasciato tracce evidenti. Il "tavolino" degli appalti lagunari è una fetta consistente di prodotto interno lordo regionale e si può solo tentare di ipotizzare una stima. Il perno, si è detto, sono i lavori per il Mose gestiti dal Cvn. È un progetto varato un quarto di secolo fa con il sistema degli affidamenti interni. Significa che le imprese socie del Consorzio, cioè la Mantovani, la Condotte di Duccio Astaldi, la Fincosit del veronese Alessandro Mazzi, la Ccc (Lega coop) e altre minori, ricevono dallo Stato il denaro per realizzare il Mose e appaltano i lavori a se stesse, con una quota di gare minima che l'Ue ha più volte e invano contestato. Il Mose, e i suoi prezzi in continua espansione rispetto a preventivi e a prezzi fintamente bloccati, ha consentito ottimi margini di guadagno alle imprese soprattutto perché, a differenza di altri grandi opere sbandierate nel libro berlusconiano delle illusioni, le dighe mobili hanno ricevuto le rate di finanziamento dal Cipe con una puntualità senza uguali. Il terzetto alla guida del Cvn, ossia Mantovani-Condotte-Fincosit sotto la guida di Baita, ha reinvestito gran parte dei suoi utili in iniziative infrastrutturali in Veneto e in qualche partecipazione monetizzata dagli enti locali in ristrettezze finanziarie, come la quota dell'autostrada della Venezia-Padova. Il cerchio magico, di cui faceva parte anche Adria Infrastrutture guidata da Claudia Minutillo, si è aggiudicato commesse per centinaia di milioni di euro con il timbro altrettanto magico del project financing: i privati mettono i soldi al posto dello Stato al verde e, in cambio, incamerano affitti e pedaggi legati all'opera. Sotto l'insegna del project financing Mantovani & friends si sono assicurati la realizzazione dell'ospedale e del passante stradale di Mestre, la sublagunare che dovrebbe collegare le isole veneziane con l'aeroporto di Tessera, gestito dagli amici della Save-Finint Enrico Marchi e Andrea De Vido. Il flusso di denaro consentito dalle delibere del Cipe ha permesso agli amici della Serenissima di guadare l'Adda e di inserirsi nell'appalto per la "piastra" di Milano Expo grazie alla continuità politico-territoriale con l'ex governatore Roberto Formigoni e all'assenso del sindaco di centrosinistra Giuliano Pisapia, che ha confermato la sua fiducia alla Mantovani anche dopo l'arresto di Baita. Ma il territorio di riferimento resta a Nordest. L'ultima perla della collezione è un colosso da 2,5 miliardi di euro progettato nelle acque di fronte a Venezia. Insieme all'autorità portuale, presieduta dall'ex sindaco ed ex presidente della commissione Infrastrutture dell'Ue Costa, Mantovani è in prima fila per costruire il porto offshore otto miglia a largo di Chioggia. La nuova struttura è pensata per le navi portacontainer che adesso vanno a Marghera mettendo a rischio l'equilibrio della laguna, mentre le navi passeggeri che attraccano in piazza San Marco potranno continuare le loro crociere fino al centro storico. Il porto offshore prevede un meccanismo di finanziamento misto. Ci sono fondi della Mantovani, che si incarica dei lavori, e soldi in arrivo dal Cipe, cioè dalle casse dello Stato. Con Baita fuori dai giochi, il progetto andrà avanti con un nuovo manager da designare nei prossimi giorni. Si parla di una successione in famiglia con il timone della Mantovani affidato a Giampaolo Chiarotto, 46 anni, figlio del patriarca Romeo, classe 1929. Ma la caduta di Baita, l'uomo degli equilibri tra politica e impresa, ha già provocato il primo intoppo grave nel quieto vivere lagunare. Poche ore dopo gli arresti, la Mantovani e il sindaco Giorgio Orsoni sono entrati in guerra, con minacce di azioni di risarcimento incrociate, per l'operazione che avrebbe cambiato faccia al Lido di Venezia. In sostanza, il Comune aveva ceduto l'area dell'Ospedale al Mare al fondo Real Venice 2, gestito da Est Capital dell'ex assessore alla Cultura cacciariano Gianfranco Mossetto e partecipato dal trio Mantovani-Condotte-Fincosit. Al posto dell'ospedale doveva sorgere un quartiere residenziale con una megadarsena per diportisti da oltre 1500 posti e un investimento da 250 milioni di euro. Il fondo ha versato una caparra di 32 milioni al Comune che, con questi soldi, avrebbe provveduto a costruire il nuovo palazzo del Cinema. Poi sono sorte discordie su chi doveva bonificare l'area dell'ospedale. La nuova darsena è saltata e il palacinema è stato sostituito dal progetto di un palazzo dei congressi che Est capital avrebbe realizzato con la caparra rispedita al mittente da Orsoni. Ancora due giorni dopo l'arresto di Baita, l'accordo tra le parti era dato per fatto. Invece, niente. La parola torna al giudice civile che darà il suo verdetto sulla controversia entro dieci giorni. Prima, però, verrà il turno del tribunale penale che, in sede di riesame, stabilirà se Baita può tornare libero o se l'inchiesta "Chalet" è appena incominciata. Di sicuro, non sarà un lavoro facile come dimostra la scelta di un nome in codice che, di solito, si riserva a operazioni contro il crimine organizzato. In questo caso è stato necessario perché gli inquisiti, dopo le prime perquisizioni della Guardia di finanza risalenti a due anni fa, avevano attivato una manovra di controspionaggio attraverso due ex agenti segreti per sapere a che punto erano le indagini. Stavolta non è stato sufficiente ma basta a spiegare il livello delle protezioni di cui godeva e gode la cricca lagunare. Quella che per bocca di Baita si vantava: «Il bello del Mose è che i lavori si fanno sott'acqua».
E anche dalla Laguna spunta la cricca. I costi saliti alle stelle. I collaudi milionari del giro Balducci. I dubbi della Corte dei Conti. E ora sui lavori del Mose scatta anche un'inchiesta della Procura di Padova, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Venezia è una città unica al mondo. Nulla di quanto accade in Laguna sarebbe possibile altrove. Undici miliardi di euro dello Stato vengono gestiti da esseri mitologici che sono in parte funzionari pubblici, in parte imprenditori privati, in parte controllori, in parte controllati. In piazza San Marco dovrebbero esserci il centauro o la chimera, non il leone. Quanto a destra e sinistra, sono buone a indicare la strada verso il bàccaro dietro l'angolo. La gondola è bipartisan. Se no c'è l'elicottero, come il 9 giugno, quando il governatore regionale di fresca nomina Luca Zaia ha guidato l'ennesima visita sui cantieri del Mose, il sistema di paratie mobili che dovrebbe proteggere la città dall'acqua alta. Lo schema si ripete dal 1987, quando i potenti erano Gianni De Michelis, Carlo Bernini e Franco Cremonese. Centinaia di invitati, effetti speciali e atmosfera da cinegiornale Luce. Segue rinfresco e ospitalità nei migliori alberghi del centro. Proprio le fatture degli hotel sarebbero fra le scartoffie che la Guardia di Finanza sta controllando negli uffici del Consorzio Venezia Nuova (Cvn), concessionario unico delle opere di salvaguardia. Gli uomini delle Fiamme Gialle hanno parlato di una semplice verifica fiscale che procede da oltre due mesi. In realtà, dall'inizio dell'anno è in corso un'indagine "very discreet" della Procura di Padova su alcuni fatti e personaggi del Consorzio. L'inchiesta riguarda un giro di denaro che parte da San Marino e arriva fino in Europa dell'Est, per l'esattezza in Slovacchia, con imprese di costruzione locali che sarebbero la sponda di businessmen italiani. Non è la prima volta che il Consorzio attira l'attenzione degli investigatori. Il Cvn è la sala comandi di un sistema che ha una sola legge. Non è la politica a dettare l'agenda degli appalti ma gli appalti a dettare l'agenda ai politici. "Mi ero occupato del Consorzio da magistrato", dice il senatore Pd Felice Casson, "ma sono decenni che la questione si rinnova di continuo. Il Mose è garantito da ogni manovra economica. È una rendita a vita. Il caso del concessionario unico è ormai singolare in Europa. Si tratta di una realtà autonoma impermeabile al potere politico e ai controlli. Ed è del tutto indifferente chi stia al governo". Indifferente al governo centrale, s'intende, perché gli equilibri in sede locale contano parecchio. E qui c'è stata una rivoluzione. Dopo 15 anni di governo del forzista Giancarlo Galan (1995-2010) il neopresidente Zaia vuole rimettere in discussione tutto il sistema che aveva i suoi capisaldi in Enrico Marchi della Save (aeroporto di Tessera) e in Nicolò Ghedini, con il sostegno operativo di Piergiorgio Baita della Mantovani nel mondo delle imprese di costruzione e di Renato Chisso negli uffici dell'assessorato ai Trasporti. Zaia ha confermato Chisso assessore ma lo considera una quinta colonna di Galan e si mostra freddo sia con il neosindaco veneziano Giorgio Orsoni, sia con l'altro ex sindaco Pd Paolo Costa, che presiede l'Autorità portuale e che si intendeva bene con Galan. L'impressione è che Zaia si trovi in una fase di studio e fatichi a fare il salto di qualità dalla fiera del prosecco alle sottigliezze secolari della politica in Laguna dove già chi viene da Mestre è considerato un semibarbaro. In più, c'è la mina vagante per eccellenza. Renato Brunetta, veneziano docg, vuole a tutti costi rientrare dalla porta del Canal Grande dopo essere stato buttato fuori dalla finestra con la sconfitta elettorale subita da Orsoni. A fine giugno, il ministro per la Pubblica amministrazione ha annunciato a Palazzo dei Dieci Savi, dove ha sede il Magistrato alle Acque, un nuovo testo della legge speciale su Venezia con tempi ristrettissimi, settembre. L'uscita di Brunetta ha trovato un sostenitore inatteso nello stesso Orsoni. "Brunetta è una risorsa", ha detto il sindaco alla "Nuova Venezia": "Abbiamo un'assoluta condivisione di intenti. La nuova legge non deve annacquare la specialità di Venezia ma esaltarla". Non se ne sentirebbe il bisogno. Venezia è già anche troppo speciale. Il modello è stato criticato duramente dalla Corte dei Conti. I giudici amministrativi hanno sparato a zero sul Consorzio in un provvedimento di 50 pagine che ha sottolineato come i soli costi del Mose siano schizzati dal 1,5 a quasi 4,7 miliardi di euro. Molto criticato anche il ricorso a collaudi e consulenze esterne affidati "con scarsa trasparenza e un rapporto sbilanciato a favore del concessionario". Questo accadeva a febbraio del 2009, cioè dieci mesi prima che Angelo Balducci e Fabio De Santis fossero incaricati in una delle commissioni di collaudo del Mose (dicembre 2009). I due cervelli della cricca avrebbero dovuto essere i controllori. In realtà, la loro nomina è frutto di un accordo spartitorio fra centro e potere periferico. Una cosa che suona all'incirca così: noi veneti gestiamo i soldi del Cipe, sia quelli di Venezia sia quelli del sistema regionale, voi romani prendete la vostra fetta sotto forma di collaudi, consulenze e parcelle legali. I soldi girano a tutti i livelli. Sono cifre a otto zeri per le società, a sei zeri per gli incaricati dei collaudi del Mose, nominati dal Magistrato delle Acque di Venezia (Mav), una struttura che affonda le sue radici nel Cinquecento, e che oggi è il braccio operativo del ministero delle Infrastrutture. Una delle competenze principali del Mav è la nomina delle commissioni di collaudo del Mose. Ce ne sono sei di cui quattro principali da tre membri ciascuna per i lavori alle bocche di porto e due per le opere complementari, da due componenti ciascuna. Finora il Cvn ha speso 26 milioni di euro in collaudi. Quando nel febbraio del 2010 Balducci e De Santis sono stati arrestati, il presidente del Mav Patrizio Cuccioletta, è intervenuto prontamente. Balducci e De Santis sono stati sostituiti con il provveditore alle Opere Pubbliche di Bari Francesco Musci e con il commissario governativo per l'autostrada Roma-Latina Vincenzo Pozzi, indagato per le consulenze milionarie distribuite quando presiedeva l'Anas. Il romano Cuccioletta, nominato da Balducci collaudatore dell'aeroporto di Perugia realizzato da Bruno Ciolfi, socio di Diego Anemone, è presente nelle intercettazioni della cricca con il fratello Paolo, architetto. Cuccioletta è alla sua seconda esperienza al Mav dopo un passaggio alla Regione Lazio con la giunta Storace. Il primo giro si era concluso con una rimozione disposta dall'allora ministro Nerio Nesi per le frequenti assenze, gli affidamenti al Cnv con procedure d'urgenza e il restauro lussuoso dell'alloggio di servizio. Molto più solido, evidentemente, è il rapporto tra Cuccioletta e l'attuale numero uno delle Infrastrutture, Altero Matteoli. Alla richiesta de "L'espresso" di conoscere chi sono oggi i componenti delle commissioni di collaudo il Mav non ha ritenuto di rispondere. Il Consorzio, men che meno. La trasparenza in Laguna è un concetto relativo. Solo per capire chi c'è dentro Venezia Nuova bisogna districarsi in un labirinto di sigle, di altri consorzi e di intestazioni fiduciarie. Il socio di riferimento, con circa un terzo delle quote, è l'Impresa Mantovani di Venezia, controllata dalla Serenissima holding della famiglia Chiarotto di Padova. La Mantovani-Serenissima è un miracolo nel desolato panorama dell'economia nazionale. In sei anni è passata da poco più di 100 milioni di ricavi a circa 600 milioni e 3,2 miliardi di portafoglio lavori insieme alle consociate. Il regista e comproprietario (5 per cento) di questo gruppo è il veneziano Baita, 62 anni, già braccio destro dell'ex presidente regionale democristiano Cremonese e oggi manager dai mille incarichi e dai mille progetti. Baita ha navigato bene attraverso alcune disavventure giudiziarie iniziate con la prima Tangentopoli e arrivate fino a dicembre del 2009 con la prescrizione in appello della condanna per il disastro del Poetto, la spiaggia cagliaritana coperta di fango dalla Mantovani. Nel Cvn Baita ha alleati di livello nazionale come Astaldi, Condotte, Grandi Lavori Fincosit, Mazzi e i consorzi della Lega delle cooperative (Ccc). Oltre al Mose, il gruppo Mantovani-Serenissima holding ha un piede in ogni opera importante del Veneto. Per amore di brevità, vanno citati il Palazzo del Cinema, l'autostrada Nogara-Mare, la sublagunare Tessera-Arsenale, il passante e l'ospedale di Mestre, il passante Alpe Adria, l'ospedale al mare, il depuratore a Fusina, il petrolchimico di Porto Marghera, l'Arsenale di Venezia, la Metroveneta e il Grande raccordo di Padova. Il progetto dell'autostrada Nuova Romea, invece, è stata appena ceduto per motivi buon vicinato all'eurodeputato Pdl Vito Bonsignore. La maggior parte di queste infrastrutture, dal valore complessivo di vari miliardi di euro, sono segnate dal magico marchio del project-financing. In pratica, lo Stato mette i soldi per partire e poi arrivano i privati. Se non arrivano, pazienza. L'importante è che i lavori fervano, non che servano. Sulla stessa efficacia del Mose ci sono dubbi. Ogni tanto un illustre studioso, in genere straniero, esprime incertezze o pareri negativi sulla tenuta delle dighe. Bisognerà aspettare la prima acqua alta dopo la fine dei lavori (2014) e vedere che succede. Intanto, la festa continua.
Expo 2015, arresti nella capocordata. E' finito in manette Piergiorgio Baita, ad dell'azienda che si è aggiudicata molti dei lavori milanesi. Con lui anche l'ex segretaria del Pdl Giancarlo Galan, Claudia Minutillo, socia di alcune imprese del gruppo. L'Espresso aveva denunciato la presenza nella cordata Mantovani di una società legata a Cosa Nostra, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Guai giudiziari per la Mantovani spa, l'impresa capocordata dell'appalto principale per Expo 2015 a Milano. Piergiorgio Baita, 64 anni, amministratore delegato della società, è stato arrestato dalla guardia di finanza di Venezia e Padova nell'ambito di un'indagine che riguarda l'attività della Mantovani in Veneto. Arrestata anche Claudia Minutillo, ex segretaria del leader del Pdl veneto, Giancarlo Galan, e socia-amministratrice con Baita di alcune imprese del gruppo. Stesso provvedimento per Nicolò Buson, responsabile amministrativo della Mantovani spa, e William Colombelli, presidente di una società di San Marino che secondo le indagini ha svolto la funzione di "cartiera" per le false fatturazioni. Colombelli è anche console onorario in Italia del piccolo Stato "off-shore". L'accusa per tutti loro è associazione per delinquere finalizzata all'evasione fiscale mediante l'emissione di fatture false. L'inchiesta della Procura di Venezia, che ha richiesto gli arresti, riguarda anche altre società coinvolte con la Mantovani nella costruzione del Mose, il sistema di paratie mobili contro l'acqua altra a Venezia, e nei più importanti lavori pubblici realizzati in Veneto con il sistema del project financing. Lo scorso autunno l'Espresso aveva denunciato la presenza nella cordata della Mantovani per l'Expo di una società, la Ventura spa, già in affari con Cosa nostra. Soltanto dopo l'inchiesta giornalistica, la prefettura di Milano aveva escluso la Ventura dall'appalto da 272 milioni di euro, il più redditizio finora assegnato. Nell'indagine veneta, i finanzieri dei nuclei di polizia tributaria hanno accertato che, a partire dal 2005, la società di San Marino, Bmc Broker, ha emesso fatture false per oltre 10 milioni di euro nei confronti delle società del gruppo Mantovani, indicando nell’oggetto attività tecniche che in realtà venivano svolte da altre società italiane. In altri casi, l’attività oggetto d’incarico alla Bmc Broker è invece risultata assolutamente inesistente (ad esempio la ricerca di partner commerciali con i quali invece erano già da tempo in corso strette relazioni). Le fatture false venivano poi pagate tramite bonifico bancario su conti bancari a San Marino e, a stretto giro, gli importi venivano prelevati in contanti per la quasi totalità, escluso il corrispettivo che veniva trattenuto a titolo di commissione da Colombelli, e riconsegnati a Baita e alla Minutillo in Italia e all’estero.
COSA SUCCEDE A BELLUNO.
QUANDO GLI "ONESTI" TRADISCONO. SINDACI ARRESTATI.
Il sindaco di Cortina d'Ampezzo, Andrea Franceschi è stato arrestato dalla Guardia di Finanza di Belluno, scrive “Il Corriere della Sera”. L'arresto è avvenuto nel pomeriggio in esecuzione di un'ordinanza emessa dal gip di Belluno Giorgio Cozzarini, su richiesta del pm Antonio Bianco. Franceschi è stato posto agli arresti domiciliari. Tre le ipotesi di accusa: turbata libertà del procedimento di scelta del contraente, violenza privata e abuso d'ufficio. L'inchiesta, in cui figurano altri quattro indagati, è quindi centrata su diversi episodi. Turbativa d’asta. Secondo l'ipotesi d'accusa, il sindaco cortinese in concorso con un assessore e con il titolare di una società - poi aggiudicataria della gara - avrebbe turbato il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando e degli atti amministrativi inerenti il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani del Comune di Cortina d'Ampezzo. Violenza privata. Franceschi è accusato anche di violenza privata in concorso con un assessore. Dopo aver acquisito la notizia dell'avvenuta pubblicazione del bando di gara per l'appalto rifiuti «di contenuto non coincidente con quello "pre-ordinato"», secondo quanto sostenuto dall'accusa, «avrebbe fatto pressioni affinchè la responsabile dell'Ufficio lavori pubblici del Comune revocasse il bando per sostituirlo con altro in linea con quanto preventivamente determinato». Fatto poi che non si sarebbe verificato per il rifiuto di una funzionaria. Abuso d’Ufficio. Altra accusa è l'abuso d'ufficio in concorso con un assessore. Dopo aver individuato il professionista che si sarebbe dovuto occupare di redigere gli atti di gara, «allo scopo di esautorare il preposto ufficio tecnico dei lavori pubblici del Comune, avrebbe proceduto ad emettere un'apposita delibera mediante la quale veniva assunta la decisione di indire futuri bandi di appalto inerenti la raccolta rifiuti del Comune di Cortina d'Ampezzo e pertanto individuare ed incaricare un tecnico esterno ai funzionari comunali per collaborare a redigere gli atti tecnici di gara». Violenza privata. Infine, c'è un presunto caso di violenza privata e abuso d'ufficio in concorso con due assessori, perché abusando della funzione pubblica ricoperta, «avrebbe esercitato pressioni sul Comandante della polizia Locale per limitare i controlli sulla velocità a mezzo telelaser e contro la guida in stato di ebbrezza». Franceschi avrebbe inoltre minacciato lo stesso comandante di degradarlo a vigile urbano. Vicenda riconducibile alla volontà di evitare malcontento tra i cittadini nel periodo pre-elettorale per le amministrative del maggio dell'anno scorso, che avevano poi confermato in carica lo stesso Franceschi. Oltre al sindaco Andrea Franceschi (arrestato e ai domiciliari) risultano indagate quattro persone. Si tratta dell'assessore all'Ambiente e vicesindaco di Cortina Enrico Pompanin, dell'assessore all'Urbanistica - Lavori Pubblici ed Edilizia Privata Stefano Verocai, di una dipendente del Comune, Stefania Zangrando, e di Teodoro Sartori, titolare dell'azienda che avrebbe turbato il procedimento amministrativo di scelta per la gara d'appalto dei rifiuti che si era poi aggiudicata. I fatti al centro dell'inchiesta della procura bellunese abbracciano un periodo di tempo che va dall'agosto 2010 al maggio 2012. Due i procedimenti sotto la lente della magistratura: l'appalto per i rifiuti e le pressioni esercitate sul comandante della Polizia Locale per gli autovelox. L'inchiesta è iniziata a fine del 2011 dopo la denuncia della funzionaria a capo del lavori pubblici che era entrata in contrasto con il sindaco Franceschi ed era stata poi licenziata e per questo aveva avviato una vertenza di lavoro.
Il sindaco di Cortina d'Ampezzo, Andrea Franceschi, è stato arrestato dalla Guardia di finanza di Belluno e ora si trova ai domiciliari. scrive “La Repubblica”. L'inchiesta è iniziata a fine del 2011 dopo la denuncia della funzionaria a capo del lavori pubblici che era entrata in contrasto con il sindaco Franceschi ed era stata poi licenziata e per questo aveva avviato una vertenza di lavoro. Riconfermato con il 54,3% dei consensi sindaco di Cortina nel maggio 2012 il leader della civica 'Progetto per Cortina' è un economista bocconiano e albergatore per tradizione familiare. Tra i suoi cavalli di battaglia la difesa della residenzialità e il no a nuove costruzioni per seconde case. Franceschi, appena uscito lo scorso anno dalla 'crociata' di Capodanno contro gli ispettori dell'Agenzia delle Entrate, a caccia di ospiti e imprenditori locali 'furbetti' (''siamo vittime di un'operazione mediatica'') subito dopo il voto del 6-7 maggio non aveva fatto in tempo a festeggiare. Il 22 maggio, assieme ad altre sei persone, era stato iscritto nel registro degli indagati per abuso d'ufficio e turbativa d'asta per l'attività svolta dal 2009. A far scattare le indagini era stato un esposto dell'ex responsabile dell'ufficio lavori pubblici che aveva segnalato alcune presunte irregolarità in alcuni bandi comunali, tra cui quelli per l'appalto rifiuti. Di quel periodo anche le accuse di violenza privata per le presunte pressioni esercitate sui vigili per evitare l'installazione in città di autovelox. Nel settembre 2012, Franceschi era tornato alla ribalta della cronaca per aver bloccato i lavori edili in un cantiere del padre. A gennaio 2013, poi, è stato rinviato a giudizio per diffamazione nei confronti della ex responsabile dei Lavori Pubblici del Comune Emilia Tosi definita ''una che in un'azienda privata dura cinque minuti''.
COSA SUCCEDE A PADOVA.
PADOVA EX CITTA' GIOIELLO.
Padova, l'ex città gioiello oggi è da salvare. Le guerre tra poveri. Le gang di ogni colore. La tolleranza zero. I senza casa. E gli studenti che non vengono più. L’ex città gioiello vive il suo momento più difficile, scrive Roberto Di Caro su “L’Espresso”. Accade tutto in un paio di minuti, zona Stazione, le sei di sera. In tre si sottraggono al controllo di Carabinieri in borghese e Polizia locale in divisa e cane antidroga. Urla, tafferuglio, un corpulento nigeriano di 28 anni stende a pugni in pancia due militi, viene bloccato a terra, verrà fermato, gli altri scappano. Il fotografo documenta, le immagini stanno in queste pagine. Sono sempre più frequenti blitz del genere, da quando nel giugno scorso a Padova è stato eletto sindaco Massimo Bitonci, Lega Nord, parole d’ordine sicurezza, lotta al degrado e all’immigrazione clandestina. Ha scalzato un centrosinistra che per dieci anni su sicurezza e mano forte aveva capitalizzato voti e immagine, con il “muro della legalità” eretto dal sindaco-sceriffo Flavio Zanonato attorno ai sette palazzi verdino sporco di via Anelli, regno di spacciatori, prostitute e papponi. Il muro non c’è più, il ghetto è svuotato e chiuso, la storia no: 125 privati, vittime alcuni e altri che speculando han comprato a due soldi, fanno sì che Comune e Ater non raggiungano il 75 per cento di proprietà necessaria a riqualificare o abbattere. Quale malessere sfilaccia la città del Santo e del Petrarca, di Freda e Ventura e di Toni Negri? Il centro nobile, fra il Giotto degli Scrovegni e il Caffè Pedrocchi, dove la guerra è con gli studenti che lo invadono ogni mercoledì notte: «Vivaddio, l’università si apre alla città, 20 mila giovani sono emigrati in tre anni!», per la neuropsichiatra Beatrice Dalla Barba, Padova 2020 scissione a sinistra dal Pd; o «bevono, urlano, pisciano, spaccano vetri, peggio degli extracomunitari», per Pierluigi l’anziano taxista pro-Bitonci. Le periferie, poi. La Guizza a sud, linde villette fascia medio-alta a fianco dei palazzoni popolari disastrati di via Brofferio dove usuali sono i furti in appartamento. Mortise a est, case Ater dove cornicioni e tubature cadono a pezzi, ma un anno fa il Comune gli ha fatto dipingere quattro enormi murales, «forse per dare un’allure di Bronx: 25 mila euro di spesa, pare», è il sarcasmo di Alain Luciani, capogruppo lista Bitonci sindaco, che qui ci vive. A nord, l’Arcella, 40 mila abitanti, trafficanti albanesi, tunisini per lo spaccio al dettaglio: ma Silvestrin il gallerista, Gharazeudine il pizzaiolo, Bellon il parrucchiere, la Allegretto della gioielleria, Associazione botteghe di via Buonnarroti, ti mostrano fioriere, panchine e nuova illuminazione: «Ne abbiamo abbastanza di veder dipinta l’Arcella come un ricettacolo di delinquenza: è piena di stranieri integrati e onesti, comprano come gli italiani, i bambini vanno a scuola, episodi deprecabili accadono dappertutto, comunque ci siamo noi a vigilare». Come mai, rattoppata una falla nel tessuto sociale, subito se ne apre un’altra, non nel marasma delle metropoli Roma o Napoli dove non sai dove mettere le mani ma in una città di 200 mila anime, in parte ancora opulenta, nell’operoso Veneto? Le Cucine popolari di via Tommaseo, due sale per mangiare, docce, lavanderia, ambulatorio, all’ingresso un caotico viavai, sono ricettacolo di una disparata umanità. Operai rumeni senza cantiere, badanti moldave e ucraine senza più nessuno cui badare. Italiani con i capelli ondulati anni Sessanta, con una casa ma senza un soldo, che qui mangiano un pasto a 2 euro e mezzo o un piatto unico a 50 centesimi. Senzatetto ospitati negli 82 posti dell’Asilo notturno del Comune e altri trecento da Africa, Asia, Est Europa. Persone che dormono su una panchina, sotto un viadotto, in edifici abbandonati o in case scassinate alla bisogna (sì, capita, specie alla Stanga). Il tossico che urla e mostra i pugni. La sballata che torva ti avverte, i giornalisti non ci piacciono. E lui, Hassan, somalo di 26 anni, che apre la cartella e mostra un pacco di diplomi di italiano, informatica e quant’altro, sul cellulare le foto sue di quand’era a Torino, con il console somalo, il sindaco Fassino, la ministra Kyenge: progetti per i connazionali, non foto-opportunity. È a Padova da 8 mesi. Dove dorme? «Sotto dei cartoni, dove trovo un posto libero». Le Cucine esistono da 130 anni, sono della Diocesi, contano su tredici operatori, cento volontari a turno e lei, suor Lia, minuta, capelli bianchi, dedizione totale ma anche la durezza necessaria a fronteggiare situazioni ardue: dove ora parliamo, un tunisino ha sgozzato un connazionale, storia di soldi e droga. Dice suor Lia che «arrivano sbandati a tutte le ore, la gente che cerca di sopravvivere sulla strada è tanta e senza riferimenti certi, ciò che noi riusciamo a dare è una goccia in un mare di bisogno». Non è tenera nemmeno verso quanti, «generosi e disponibili al volontariato, appena proponi servizi d’accoglienza vicino a casa loro firmano petizioni contro: aiutiamoli, ma un passo più in là». Quadro fosco: «Dirigo le Cucine da vent’anni. Vedo oggi tornare molti che avevamo sistemato allora. Senza niente. E hanno perso anche la speranza». Lì dentro entrano spacciatori, bisogna poterli identificare, ha dichiarato il sindaco Bitonci. Non si schedano gli affamati, gli ha risposto secco Antonio Mattiazzo, arcivescovo di Padova e teologo. Esci, giri l’angolo, al muro un manifesto di CasaPound: «Veneto crocifisso. Stop invasione. Basta porgere l’altra guancia». Sono 32 mila, a Padova, gli stranieri regolari, altrettanti nel resto della provincia. 32 i rifugiati e richiedenti asilo entro il Progetto nazionale Sprar. 103 i minori stranieri non accompagnati, ospitati in istituti cattolici, costo per il Comune 850 mila euro. Meno di 200 i profughi in gestione alle cooperative, 34 euro al dì dalla Prefettura: ma arrivano, scappano, altri li sostituiscono. «Ora però siamo saturi, i bandi sono esauriti, le amministrazioni non ci aiutano», ha dichiarato nel bilancio di fine anno il prefetto Patrizia Impresa, elencando un lieve calo dei furti in casa, il crollo del consumo di cocaina che costa troppo e il folle aumento di eroina, tre volte tanto, 20 euro a dose, fumata o sniffata. Ma gli irregolari, i clandestini? Se lo chiedi al prefetto cala il gelo, niente cifre a casaccio. Altri 30 mila, secondo stime ufficiose. Incontrarli è facilissimo. Anche cacciarli dagli edifici che occupano e sbarrare gli accessi, salvo ritrovarli tre giorni dopo nello stesso posto, però all’addiaccio. Tipo Elena, incinta, e Sabrina, con problemi ai polmoni. Romene, sui trent’anni. All’ex Laboratorio di chimica agraria di corso Australia. Di che vivono? «Elemosine. Se no di quello che troviamo nei cassonetti». Lo stesso al decrepito ex-Macello, senza vetri alle finestre. E all’ex-Foro Boario, 15 zingari serbi e 30 romeni. «Certo, operiamo con politiche aggressive, ma nel pieno rispetto delle regole», rivendica Bitonci, alle spalle un bel dipinto della Battaglia di Lepanto con la flotta musulmana in rotta; e difende il suo nuovo regolamento di polizia, divieto di accattonaggio anche non molesto, di vendita alcolici sotto i 18 anni anziché i 16 di legge, di consumo cibi e bevande per strada se non nelle vicinanze dei dehors. E la regola che, nell’assegnazione di case popolari, privilegia chi a Padova risiede da 20 anni. «L’amministrazione si accanisce su piccole situazioni di grave disagio ma non ha un’idea né un progetto per accoglienza e assistenza. Non che il centrosinistra abbia fatto molto di più, chiacchiere a parte», attacca Nicola Grigion di Razzismo Stop. Ti porta prima a vedere quattro palazzi Ater in via Strattico, «42 alloggi vuoti, ma in provincia tra pubblico e privato sono 40 mila»: al centro una serra subito eretta per incassare i fondi europei. Poi nella sede di una società di meeting fallita, occupata un anno fa da 55 eritrei, somali, sudanesi, ghanesi, ivoriani, battezzata Casa dei diritti Don Gallo: «Vedi quei pancali usati? Ci fanno poltrone, le vendono a 70 euro». Tanta gente che arranca. Guerra tra poveri. Aree dove le regole vanno ripristinate, ma regole che quando le applichi generano ingiustizia e assurdità. Vai da don Albino Bizzotti, fondatore trent’anni fa di Beati i costruttori di pace: «Due zingare, Sue Ellen e Jamaica, vendono piantine fuori dall’ospedale. Sequestro e multa di 5.164 euro. Devono andare a rubare?» Nella sede dei Beati, un magazzino pieno di roba da mangiare: assistono 3.200 famiglie. Anziani soli. Immigrati senza nulla. Sinti e rom. «Per loro siamo il punto di riferimento principale». Lo conferma Elvis Seferovic, quando vai a trovare lui e la sua famiglia, 16 adulti e 38 bambini, fra le otto roulotte e le baracche, povere all’esterno curatissime all’interno, sotto un cavalcavia fra due tangenziali in via Bassette: su terreno privato, uno dei 12 campi nomadi in città, due soli comunali. «Ferrivecchi. Da aziende in Veneto e Friuli raccogliamo e smontiamo lavatrici, stufe e frigoriferi per un po’ di rame e ottone. Non abbiamo avuto niente dal Comune né abbiamo mai chiesto niente», ti dice attorno a un falò. Affitta, vivi come un padovano, gli ha detto il sindaco. «In un alloggio popolare riusciremmo a pagare il canone, ma quale privato affitta a una famiglia con otto figli? E a che prezzo?»
GENITORI IN GUERRA, FIGLI CONTESI ED AFFIDAMENTO FORZOSO. RAPIMENTO DI STATO.
Basta costringere il genitore inadempiente a rispettare la decisione del giudice, a scanso di conseguenze penali ex art. 388 c.p.. Ma tant'è ognuno in Italia fa quello che vuole ed a pagarne le conseguenze sono sempre i più deboli: in questo caso il bambino.
Un "comportamento che non è sembrato adeguato rispetto a un contesto ambientale ostile e difficile che doveva suggerire altre condotte". Così il sottosegretario all'Interno Carlo De Stefano definisce quello tenuto dagli agenti in occasione dell'esecuzione del provvedimento del giudice minorile nei confronti del bambino di Cittadella. Mercoledì sera 10 ottobre 2012 nella trasmissione Chi l'ha visto? è andato in onda un video nel quale si vedeva un ragazzino preso dagli agenti di polizia, tenuto per le mani e le gambe mentre cerca di divincolarsi. Renato Schifani ha chiesto chiarimenti al capo delle forze dell'ordine, Antonio Manganelli, che ha espresso "profondo rammarico" e scuse ai familiari, e disposto un'inchiesta interna. "Le immagini hanno creato sgomento in tutti noi italiani. l video, trasmesso all'autorità giudiziaria, è stato girato dalla zia. Dieci anni. Il bimbo di 10 anni è stato prelevato davanti alla scuola elementare di Cittadella, nel padovano, in esecuzione di un'ordinanza della sezione Minori della Corte d'Appello di Venezia. Lui ha opposto resistenza, perché voleva restare con la madre. Il piccolo è al centro di un'aspra contesa fra i genitori separati. Dopo anni di liti e conflitti, il giudice ha deciso di affidarlo a una struttura protetta. Gli agenti sono andati alla scuola - come è stato precisato - perché i tentativi fatti in passato presso la casa materna e dei nonni, erano falliti.
Tre minuti di impotenza. Scrive “La Repubblica”. Un bambino preso dagli agenti di polizia, tenuto per le mani e le gambe mentre cerca di divincolarsi. Il video, andato in onda ieri sera nella trasmissione Chi l'ha visto? su Raitre, ha indignato l'Italia. E oggi Renato Schifani ha chiesto chiarimenti al capo delle forze dell'ordine, Antonio Manganelli, che ha espresso "profondo rammarico" e scuse ai familiari, e disposto un'inchiesta interna. "Le immagini hanno creato sgomento in tutti noi italiani. I bambini hanno diritto a essere ascoltati e rispettati - ha detto il presidente del Senato - e ogni provvedimento che li riguardi deve essere posto in essere con la prudenza e l'accortezza imposti dalla loro particolare situazione minorile. Comportamenti come quello al quale abbiamo tutti assistito, meritano immediati chiarimenti ed eventuali provvedimenti". Anche il presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, ha chiesto al governo di riferire al più presto, dopo le richieste di informativa e delle interrogazioni parlamentari presentate da deputati di vari gruppi. Il video, ora trasmesso all'autorità giudiziaria, è stato girato dalla zia, che urla di lasciare stare il bimbo, di ascoltarlo. Dieci anni. Una piccola tuta celeste tra le mani degli agenti che lo portano a braccia verso un'auto, prelevandolo davanti alla scuola elementare di Cittadella, nel padovano, in esecuzione di un'ordinanza della sezione Minori della Corte d'Appello di Venezia. Lui ha opposto resistenza. Voleva restare con la madre. Il piccolo è al centro di un'aspra contesa fra i genitori separati. Anni di lotta, dissapori e il giudice ha deciso di affidarlo a una struttura protetta. Gli agenti sono andati alla scuola - come è stato precisato - perché i tentativi fatti in passato presso la casa materna e dei nonni, erano falliti. Ad agosto e settembre per non essere portato via dalla madre, il bimbo si era nascosto sotto al letto. Secondo la spiegazione ufficiale, dopo il rigetto della Corte d'Appello sul ricorso presentato dalla madre per sospendere il provvedimento di affidamento al padre, la polizia "ha individuato il plesso scolastico e deciso fosse il solo luogo idoneo all'esecuzione del provvedimento". La scuola, si legge nella nota diffusa dalla questura, è stata considerata anche su indicazione di un consulente della stessa Corte d'Appello, un posto "neutro e, quindi, idoneo all'esecuzione". Durante il prelevamento del bimbo il padre era presente. Ma l'unica difesa della zia che urla ai poliziotti di lasciarlo stare, resta il telefonino. Le immagini che lei riprende mentre urla. Tre minuti in cui il piccolo è strattonato, infilato nell'auto di servizio, piegato, tenuto con la forza. Mentre dice: "Non respiro, zia, aiutami". Tre minuti in cui tenta di divincolarsi dalla stretta di un uomo che lo tiene per le spalle e di un altro che gli stringe le caviglie. Infine la zia rivolge domande a un'altra donna, che le risponde di essere un ispettore e di non essere tenuta a darle spiegazioni: "Sono un ispettore di polizia. Lei non è nessuno". La questura di Padova in una conferenza stampa ha chiarito: "L'ispettrice si riferiva al fatto che secondo quanto previsto dalla legge il provvedimento sul minore può essere comunicato solo al padre e alla madre", inoltre "il bambino ieri è stato visitato dal pediatra, ora è sereno, gioca e sta bene". La madre è andata a trovarlo subito, ieri sera, nella casa famiglia dove è stato portato il bambino: "Mio figlio - ha spiegato Ombretta Giglione - è in comunità perché la Corte d'Appello di Venezia ha emesso un decreto sulla base del fatto che al bambino era stata diagnosticata la Pas, sindrome da alienazione parentale. Secondo la Pas, se il bambino non viene prelevato dalla famiglia materna e resettato in un luogo neutro, come una sorta di depurazione, non potrà mai riallacciare il rapporto con il padre. Tutto questo in base a una scienza spazzatura che arriva dall'America". "In Italia - ha proseguito - ci sono modi più civili per far riallacciare i rapporti tra padre e figlio. Leonardo vedeva suo padre in incontri protetti una volta alla settimana, ogni settimana". "Ieri sera sono andata nella casa famiglia nella quale è stato portato mio figlio, ma mi hanno impedito di vederlo. Ero con il pediatra e ho chiesto che il bambino venisse visitato perché, visto il modo barbaro con il quale è stato trascinato via da scuola, aveva sicuramente riportato qualche trauma, ma, soprattutto, volevo accertarmi del suo stato psicologico. Ma non mi è stato permesso", ha concluso. Insieme ai nonni e altre mamme, questa mattina Ombretta Giglione ha organizzato una protesta con dei cartelli davanti alla scuola: "I bambini non sono né bestie né criminali, liberatelo". E ancora "i bambini vanno ascoltati". Una protesta in pochi, ma le reazioni in Italia si sussegono da ore. "E' incivile che il nostro bambino sia stato portato via in questo modo", ha detto piangendo la madre mentre i nonni hanno spiegato: "Da sei anni mia figlia vive un incubo e noi con lei", ha spiegato Alfonso Giglione, 62 anni. "Mia figlia ha ricevuto 23 querele dal suo ex marito, tutte archiviate. Il bambino vive con lei e non vuole vedere il padre che è percepito dal piccolo come troppo autoritario. Quello che è successo ieri è incredibile". Secondo gli accordi della separazione, il padre poteva vederlo una volta alla settimana in colloqui protetti e trascorreva con lui due fine settimana al mese. Ma ha ottenuto recentemente dal tribunale dei minorenni un'ordinanza che stabilisce la necessità dell'allontanamento dalla casa materna del bimbo. Secondo quanto stabilito dal giudice della Corte d'Appello della sezione Minori di Venezia, il rapporto con il padre è da recuperare e per questo gli agenti ieri, con il consulente tecnico del pubblico ministero e ai tecnici dei servizi sociali, lo hanno prelevato da scuola. "Anch'io sono rimasta sconvolta e turbata da quanto ho visto ieri - ha spiegato la dirigente scolastica Marina Zanon -. Abbiamo fatto uscire dalla classe i suoi compagni solo dopo quando il bimbo è stato portato in auto. Ho visto le immagini. La situazione in cui si trova il piccolo è drammatica". "Mio figlio ora sta bene, è sereno. L'importante è questo. Ho pranzato, giocato alla playstation e poi cenato con lui e l'ho messo a letto. Era anni che non lo facevo ed è stata una bella emozione", ha raccontato spiegando che suo figlio è "inserito provvisoriamente in una comunità adatta al suo recupero, prima di essere affidato a me". Ha sottolineato poi che la corte d'Appello di Venezia "ha emesso un provvedimento grave che ha portato alla decisione di far decadere la patria potestà della madre e il motivo di ciò è consistito nell'aver attuato un'ostruzionismo strenuo che ha impedito la frequentazione tra me e io mio figlio. Per cui, di fatto, - ha osservato - il bambino non l'ho più visto. Anche perché il comportamento della madre e dei suoi familiari ha cagionato al bambino una psicopatologia secondo la quale mio figlio è esposto a un rischio altissimo di patire dei disturbi mentali nel corso dell'evoluzione". Il padre, avvocato, evidentemente provato, ha raccontato che prima di arrivare a questa "sofferta decisione" ci sono stati altri quattro provvedimenti giudiziari e le decisioni prese sono state "ponderate e approfondite ed avanzate tutte le possibilità per convincere la madre del piccolo a cambiare atteggiamento, di seguire dei percorsi meno incisivi di quello finale ma sono andati sempre falliti". "Il bambino - ha ribadito - necessità di un sostegni di psicoterapeuti qualificati e finora non è stato possibile". "Ho salvato mio figlio. - ha ripetuto - e inevitabilmente i momenti difficili sono stati tantissimi. Io per primo avverto una pesantezza però ho la consapevolezza di fare il bene di mio figlio. Penso come padre di aver diritto a frequentarlo come mio figlio, ancor prima, ha diritto di frequentare me e quindi di avere un padre. Io e la mia famiglia - ha ricordato - siamo stati totalmente eliminati dalla vita di mio figlio per periodi lunghissimi. E' una situazione drammatica che non auguro a nessuno". Il padre ha dichiarato che dopo il periodo in comunità non eviterà alla madre di vedere suo figlio ricordando infine che "se i genitori si comportassero bene non ci sarebbe alcun bisogno della legge".
Tutta la verità sul bambino di Padova. Le immagini non possono non indignare, ma l'uso della forza arriva dopo mesi di inutili trattative. A 10 anni non puoi lottare contro due adulti. Sono più forti di te, anche se ti dimeni, se ti aggrappi a loro, se gridi e cerchi aiuto. Chiunque abbia visto le immagini di quanto accaduto a Cittadella, provincia di Padova, con questo ragazzino di 10 anni preso a scuola dalla Polizia e portato in una comunità in rispetto di un'ordinanza del Tribunale dei Minori di Venezia, non può stabilire d'istinto chi sia il buono (il bambino, la madre e la zia che ha ripreso la terribile scena?) ed il cattivo (il padre e la Polizia?). Questo si chiede “Panorama”. Ma poi bisogna saper andare oltre, capire perché si è arrivati a tanto, facendo alcune debite premesse:
- C'era una precisa sentenza del Tribunale dei Minori da rispettare
- Per 4 volte in passato la Polizia avrebbe bussato alla porta di casa della madre del bambino ma non gli sarebbe stata data la possibilità di eseguire l'ordinanza
- I giudici avrebbero sospeso la patria potestà della madre per motivi gravissimi
- Non è pratica abituale della Polizia usare la forza verso dei minori, in pubblico
- Quanto accaduto a scuola è solo un frammento di una vicenda complessa che va avanti da anni.
Premesso questo ecco cosa sarebbe successo da quando il Tribunale dei Minori di Venezia ha disposto l'affidamento del bambino al padre. Dal 25 Agosto al 10 ottobre per 4 volte gli agenti si erano recati a casa della mamma per eseguire il provvedimento. La prima volta si era rifugiato nella sua cameretta, rimanendo aggrappato alla rete del letto per ore. Anche le altre volte aveva opposto una resistenza così energica, disperata, da far sospendere l’esecuzione. Così si è pensato che a scuola ci sarebbe stata una situazione più favorevole. Il dirigente scolastico non ha consentito agli agenti di entrare in classe. Ha chiesto al maestro di far uscire il piccolo e di portarlo in aula magna. Ma lui ha capito che erano venuti a prenderlo. Il bambino così avrebbe cominciato ad urlare, ingigantendo gli effetti dell’intervento, trasformandolo in un evento pubblico. Visto il rifiuto ad uscire di classe, il direttore didattico ha preferito far allontanare gli altri compagni della quinta elementare. Aggrappato al suo banco è rimasto solo il bimbo, il cui comportamento scolastico viene considerato irreprensibile. Ad entrare sono stati gli assistenti sociali, il medico e il padre. Ma la reazione è stata molto violenta, l’alunno ha cominciato a piangere e ha cercato in tutti i modi di opporsi. Si è così arrivati all'uso della forza (me esisterà poi, in casi come questi, un metodo più delicato?). Il bimbo è stato letteralmente portato via da due agenti, visto che cercava di divincolarsi con altrettanto vigore dettato dalla disperazione. È a quel punto che intervengono anche un paio di agenti dell’Ufficio Minorenni della Questura. Due persone lo tengono per le gambe. Un altro lo afferra per le spalle, mentre lui tira calci. Cade a terra. Viene trascinato. Si dispera. Tutto inutile. Alla fine viene caricato su un’auto che si allontana. Il tutto quando ormai fuori dalla scuola si trovavano (un caso?) la madre e tutti i parenti di lei, avvisati forse da qualcuno dell'Istituto o che già avevano capito cosa sarebbe successo. A Cittadella sarebbero in molti addirittura a pensare che il video (la cui drammaticità resta) sia stato creato e girato "ad arte" ...Ed allora? Cosa resta? Resta l'indignazione per l'accaduto, perchè, in una maniera o nell'altra la situazione andava risolta in maniera diversa, meno traumatica (se possibile), di sicuro non nel cortile di una scuola.
"Il bambino non va mai diviso - sostiene il Prof. Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro - soprattutto perché lui per primo, per natura, ama entrambi i genitori e non vuole e non può scegliere tra uno e l'altro".
Ma lei condivide l'uso della forza?
"No, ma va anche detto che è difficile gestire una situazione come questa. Il bambino si trovava già da tempo in una situazione di conflitto, altrettanto grave. Perché interrompe, infastidisce, a volte compromette il suo normale processo di sviluppo e crescita. Anche perché lui è solo e si trova in mezzo ad una guerra che non è solo tra la mamma ed il papà ma tra due interi nuclei familiari".
Cosa fare per far superare l'accaduto al bambino?
"Innanzitutto deve trovare o nella comunità o in casa, una persona con la quale parlare, deve ritrovare l'equilibrio perduto. E c'è un'unica via per fare questo; far si che i genitori per primi trovino un loro punto di contatto e non di contrapposizione. Solo a quel punto comincerà ad uscire da quest'incubo, a ritrovare la sua tranquillità".
In Italia non si parla d'altro che del video riguardante il bambino che, in provincia di Padova, viene prelevato con la forza da scuola per essere consegnato al padre cui il tribunale lo aveva affidato; il ragazzo a dispetto di questa delibera, continuava a stare con la madre e da ciò ne deriva un'ordinanza del Tribunale di Venezia. Ad intervenire è la polizia (in maniera tutt’altro che garbata) che lo porta via dalla madre stessa avendo i giudici stabilito che la patria potestà debba andare unicamente al padre del ragazzo. – scrive Gianfranco Battaglia su “La Vera Cronaca”. Immagini di un dramma familiare che si produce in modo violento su una vittima innocente e che hanno fatto il giro dei media suscitando lo sdegno generale portando ancora una volta alla ribalta le molteplici complessità di un fenomeno ricorrente. Quello dell’affidamento dei figli, ovvero la potestà genitoriale sui figli minorenni in situazioni di non convivenza dei genitori. In base alle norme recenti modificate dalla legge n. 54 dell’8 Febbraio 2006, nel nostro ordinamento è stato introdotto il cosiddetto concetto di affidamento condiviso in base al quale, in caso di separazione o divorzio, è sempre il giudice a scegliere il coniuge a cui affidare i figli facendo esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di questi ultimi ma “Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”. In sostanza si garantisce comunque un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e per fare ciò la norma ha stabilito che le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute siano assunte di comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente. Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di un assegno periodico. Questo per quanto riguarda l’affidamento congiunto: il giudice infatti ha anche facoltà di valutare la possibilità di affidare i figli ad uno solo dei genitori determinando i tempi e le modalità della loro presenza fissandone misura e modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento. In questo caso pur rimanendo immutati i doveri verso i figli e la titolarità della potestà genitoriale, il suo esercizio compete soltanto al genitore che ne ottiene l’affidamento. È questo il caso dell’affido esclusivo, nello stabilire il quale il giudice dovrebbe sempre fare esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale dei figli. Anche nel caso di affido esclusivo, le decisioni di maggiore interesse sono adottate da entrambi i genitori di comune accordo e, nella pratica, anche il genitore non affidatario ha il diritto e il dovere di partecipare e vigilare sull'educazione e istruzione del figlio, partecipando alle decisioni importanti che riguardano quest'ultimo. Il coniuge al quale sono affidati i figli ha diritto a percepire un contributo economico, da parte del coniuge non affidatario, per il loro mantenimento. L’affido esclusivo era la regola prima della modifica avvenuta con la suddetta legge n. 54 dell’8 Febbraio 2006, che ha introdotto l’affido condiviso. Fin qui la parte regolamentativa: nella realtà dei fatti, come sempre, le cose prendono spesso un’altra piega. Caratterizzata da litigi, minacce, ritorsioni e figli usati come strumenti di ricatto nei confronti dell’altro coniuge; oltre che da un dato di fatto: salvo rare eccezioni, quando a prevalere non è l'affido congiunto i figli vengano quasi sempre affidati alla madre come avevamo denunciato in passato delle pagine del nostro giornale (La realtà sommersa dei padri separati senza diritti). Realtà, quest’ultima, molto diffusa ne nostro Paese al punto che la Corte Europea, in passato, aveva richiamato le istituzioni italiane per la violazione dei diritti umani perpetrata a danno dei padri separati. Nella stragrande maggioranza dei casi infatti, l’assegnazione dei figli (e della casa) va alla madre, con tutte le conseguenze che ciò implica. Il caso di cronaca del bambino di Padova da cui siamo partiti è un esempio esplicativo del dramma realtivo alla problematica dell'affidamento dei figli minori; si parla di un bambino conteso tra genitori, di battaglie a colpi di istanze, ricorsi, delibere, di un affidamento combattuto. E, soprattutto, di un esito che ha visto (e potrebbe continuare a vedere) il bambino stesso quale maggiore vittima di una folle storia e di una legge come sempre poco efficace.
Come il piccolo Leonardo: in 2 anni 30 bambini tolti di peso alle famiglie. Altro che eccezione, sempre più spesso viene diagnosticata l'alienazione parentale scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'auto della polizia che sgomma allontanandosi a sirene spiegate. All'interno una bimba di 4 anni. La piccola è stata appena tolta alla madre. Davanti al commissariato di Ischia la gente urla indignata: «Così si trascinano via i boss, non i bambini», «Dovete vergognarvi»; una parente accusa: «Hanno preso la bambina afferrandola per i capelli».
Divampano le polemiche per il modo in cui è stata sottratta, scrive Gennaro Savio.
ISCHIA, PER ORDINE DELLA MAGISTRATURA SOTTRATTA FIGLIA ALLA MADRE ED ESPLODE LA DURA PROTESTA DEI FAMILIARI. Sta facendo il giro di tutte le Redazioni giornalistiche italiane, la notizia dei forti momenti di tensione e di esasperazione che si sono vissuti tra i parenti di una bambina di appena 5 anni e le Forze dell'Ordine che questa mattina martedì 28 dicembre 2010 hanno eseguito l'ordine della Procura della Repubblica di Napoli, di sottrazione della piccola alla madre. Ad eseguire la sentenza, si sono recati a casa della piccola che sin dalla nascita ha vissuto con la mamma, gli agenti della Polizia Municipale di Napoli, coadiuvati dalla Polizia di Stato che hanno provveduto a trasferire la bambina in Commissariato. Secondo la ricostruzione dei parenti della bambina, la sottrazione sarebbe avvenuta con modi bruschi che avrebbero traumatizzato la piccola, di qui la rabbia esplosa proprio all'esterno del Commissariato di Polizia assediato da amici e parenti della famiglia. "Si deve sapere quello che è successo, gridavano in coro, hanno picchiato persino le donne. Hanno strappato la bambina dal proprio letto. Hanno violato i diritti umani, civili dei minori". Intorno alle ore 13,30 si è giunti all'epilogo della triste mattinata. Gli agenti della Polizia Municipale di Napoli, accompagnati dagli uomini della Polizia di Stato di Ischia, hanno lasciato il Commissariato di via delle Terme tra le urla e le proteste dei parenti della piccola che è stata trasferita a Napoli e che sicuramente ricorderà questo Natale, che per i bambini dovrebbe essere magico e gioioso, come il giorno più brutto della sua vita e che di sicuro l'ha costretta a crescere troppo in fretta. Quello che ci ha stupito e non poco, è stato vedere le macchine delle Forze dell'Ordine allontanarsi con la bambina verso il porto d'Ischia a sirene spiegate. Dopo una lunga mattinata di forti tensioni e in cui ci è stato riferito che la bambina continuava a chiedere della madre con cui è cresciuta e durante la quale all'esterno del Commissariato c'è stato anche chi è svenuto, almeno quest'ennesimo trauma dell'assordante suono delle sirene le poteva essere risparmiato. Abbiamo letto negli occhi della madre e dei parenti della piccola, la sofferenza, la tristezza, lo strazio e la disperazione tipica di chi effettivamente ama qualcuno che ti viene sottratto. Noi non entriamo nel merito della sentenza emessa dai Giudici anche perché non abbiamo gli elementi per farlo ma anche questa mattina, così come abbiamo potuto testimoniare durante i tragici abbattimenti delle prime case di necessità della povera gente, abbiamo dovuto constatare la sofferenza di persone semplici e affettuose verso la bimba portata via e per questo ci auguriamo di cuore che sulle labbra della piccola, di sua madre e dei loro parenti possa ritornare a splendere presto il sorriso. La piccola portata via a sirene spiegate.
Il filmato è su Youtube, risale al 28 dicembre 2010, e, per certi versi, ricorda quello del «rapimento» di Leonardo davanti alla scuola di Cittadella. Un caso umano - quello di Leonardo (e dei suoi genitori) - subito diventato un tormentone mediatico, con tutte le distorsioni che ciò comporta. Merito o colpa (dipende dai punti di vista) di quel video che documenta la scena e che ha rapidamente monopolizzato i programmi della «tv del dolore», oltre ad essere cliccato in rete da milioni di persone. Ma per un dramma videodocumentato, ce ne sono decine che - orfani del traino emotivo delle immagini choc - si consumano nell'indifferenza dei media. Cos'è più grave: il troppo clamore o il troppo silenzio? Sono le due facce di un'informazione sempre più spesso «malata».
Riflettori spenti sul resto d'Italia. Leonardo e i suoi «fratelli». Almeno una trentina negli ultimi anni. Piccolissimi, più grandicelli, a volte adolescenti. E questi ultimi, forse, sono i meno sfortunati: per loro infatti il traguardo della maggiore età e più vicino; e con esso la libertà di scegliere in prima persona se stare con mamma o papà, o se mandarli al diavolo entrambi. Su tutti il trauma di allontanamenti dalle modalità a volte violente e il velo nebuloso di una patologia-fantasma: PAS, misteriosa sigla che sta per «sindrome da alienazione genitoriale». Tradotto: quando un genitore fa in mondo che il figlio odi l'altro genitore. La scienza, sull'argomento, è divisa. C'è chi dice che sia una malattia «inventata» di cui non c'è traccia in letteratura scientifica, altri sostengo che il rischio è concreto. Tanto concreto che, da un po' di tempo a questa parte, sono sempre di più i piccoli tolti alla mamma o al padre perché considerate vittime potenziali di questa specie di lavaggio del cervello.
PAS, una sindrome che divide la scienza. Leonardo, il ragazzino di 10 anni suo malgrado protagonista del «video della vergogna», è diventato il simbolo del cortocircuito tra istituzioni e famiglia. Un braccio di ferro assurdo, con i provvedimenti del giudice sempre disattesi da una madre cui, alla fine, è stata tolta anche la potestà genitoriale. E un padre che trascina per le gambe il figlio e poi giura: «L'ho salvato dai suoi rapitori». In mezzo le urla strazianti di Leonardo e quelle inquietanti di una zia e di un nonno trasformati in guardie del corpo del nipote. Ma prima di Leonardo hanno vissuto disavventure analoghe (anche se ogni caso è una storia a sé) decine di altri bambini, soprattutto nel Nord e Sud Italia. Scorrendo i dati del sito alienazione.genitoriale.com si rimane senza parole: caso di Modena, caso di Thiene (Vicenza), caso di Potenza, caso in Sicilia, caso di Treviso, caso di Ivrea, caso di Pontremoli (Massa Carrara), caso di Roma, Caso di Castelfranco Emilia (Modena), caso in Veneto, caso di Torino, caso di Belluno, caso di Trieste, caso di Santa Maria al Bagno (Lecce, caso di Sezze (Latina), caso di Trento, caso in provincia di Padova, caso di Cremona, caso di Nichelino (Torino). Poi un ulteriore elenco in cui la parola PAS non viene citata espressamente, anche se i consulenti psichiati rimandano più o meno esplicitamente alle caratteristiche della Parental Alienation Syndrome: ci riferiamo ai casi di Cologno Monzese, al caso di Simona Pletto, alla sentenza della Corte d'Appello di Napoli e al caso di Ischia. Capitolo a parte per i «casi di sottrazione internazionale» nei quali la PAS viene evocata, anche se non rappresenta l'elemento determinante per la sottrazione del minore a uno dei due genitori. Numerosi gli esempi: dal caso di Marinella Colombo a quello di Alessia Ravarotto; dal caso della piccola Elise al caso Guareschi: dal caso Liam McCarty al caso Coffari; dal caso Ruben Bianchi al caso Ogliaro; per finire col caso Maoloni.
Intanto zia e nonno sono stati denunciati, così riporta ADN Kronos.
Tre in tutto le persone denunciate per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale: tra queste un genitore di uno dei compagni del ragazzo. Il sottosegretario all'Interno De Stefano riferendo nell'Aula della Camera sulla vicenda: "Comportamento Polizia non adeguato". E aggiunge: "Quanto accaduto richiede che vengano espresse le scuse del governo". Continuano le polemiche per il caso del bimbo di 10 anni di Padova portato via con la forza dalla polizia dalla sua scuola a Cittadella, in Provincia di Padova. La questione è finita oggi alla Camera con il sottosegretario all'Interno Carlo De Stefano che, come fatto ieri dal capo della polizia Antonio Manganelli, ha chiesto scusa a nome del Governo per "la scena del trascinamento del fanciullo". Riferendo in Aula sulla vicenda, De Stefano ha aggiunto che "è stata già disposta un'inchiesta interna" sull'intervento della Polizia, "volta a verificare, con puntualità ed obiettività, le cause di un comportamento che, senza voler anticipare alcun giudizio, non è sembrato adeguato rispetto a un contesto ambientale piuttosto difficile ed ostile, che avrebbe potuto suggerire diverse modalità operative". "Del resto - ha sottolineato - la crudezza di quelle immagini offusca e rischia di far dimenticare tutte le volte che le forze di polizia, con pacatezza, sono intervenute e si sono schierate a tutela delle persone più fragili e indifese". Intanto in queste ore scatterà la denuncia per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale a carico di tre persone che hanno tentato di impedire il trasferimento del ragazzino. La segnalazione è stata fatta al Tribunale di Padova a carico della zia del ragazzino, che ha anche girato il filmato di denuncia, del nonno e di un genitore di uno dei compagni del ragazzo. Nel frattempo è stato inviato alla Procura un video, girato dalla polizia Scientifica, con le immagini del bimbo di Cittadella, prelevato a forza da scuola dal padre a cui è stata data potestà assoluta con l'aiuto di alcuni agenti. Sarà la Procura a valutare se ci sono condotte che possono integrare la resistenza e l'oltraggio a pubblico ufficiale. Insieme al video la polizia ha inviato all'autorità giudiziaria una comunicazione scritta in cui sono segnalate tutte le condotte presenti. Il sottosegretario De Stefano ha ricostruito l'episodio, a partire dalla comunicazione, inviata la mattina del 10 ottobre dal padre del bambino all'ufficio Minori della Questura di Padova, per informarlo del rigetto da parte della Corte di Appello di Padova, del ricorso con il quale la madre aveva chiesto la sospensione del provvedimento di allontanamento dall'ambiente familiare materno. Il responsabile dell'ufficio Minori ha quindi contattato i Servizi sociali del Comune, incaricati di eseguire il provvedimento, che hanno deciso di intervenire immediatamente, per evitare che la madre del minore, come già accaduto due volte in passato, rendesse impossibile dar seguito alla decisione del giudice. Si è quindi stabilito di recarsi nella scuola, ritenendo l'area antistante l'istituto "il luogo più idoneo per l'intervento", in quanto "ambiente neutro rispetto alla casa familiare, dove i precedenti tentativi erano stati vanificati dalla resistenza del bambino, fortemente supportato dai componenti la famiglia materna, in particolare la zia ed il nonno". Il personale della Polizia, dei Servizi sociali e il padre del bambino si sono quindi recati nella scuola, decidendo, dopo un contatto con la direttrice, di far uscire il minore dall'aula "per prepararlo all'accompagnamento". Questi si è però rifiutato di uscire, per cui sono stati allontanati gli altri alunni. Lo psichiatra e lo psicologo, viste le resistenze del minore, hanno chiesto l'intervento del padre, perché conducesse il figlio all'autovettura dei Servizi sociali, con la quale sarebbe stato accompagnato alla comunità di accoglienza. Nel corridoio, ha riferito ancora De Stefano, "la reazione del minore è diventata ancora più energica, sfociando in manifestazioni a carattere violento anche nei confronti del genitore e degli operatori intervenuti". Uscito dall'ingresso secondario dell'edificio scolastico, ha invocato "con urla l'intervento dei familiari della madre", giunti "muniti di telecamere". A questo punto due agenti della Polizia hanno tentato "di fronteggiare i familiari", mentre un terzo operatore ha cercato "di aiutare il padre a condurre il figlio nell'autovettura". Nonostante la resistenza "sempre più accesa dei familiari", gli agenti sono quindi riusciti "ad allontanarli dal veicolo, consentendone la partenza". Di fronte alla protesta dei familiari nei confronti della Polizia, chiedendo "l'esibizione di provvedimento di diniego della sospensiva, un ispettore capo ha replicato, con espressioni assolutamente non professionali, che il grado di parentela con il minore non giustificava la richiesta". Sul caso è arrivato anche il commento del ministro dell'Interno, Anna Maria Cancellieri che, parlando da Palermo, ha sottolineato come ''la vicenda del bambino di Padova ha molto colpito l'emotività. Il capo della polizia ha aperto un'inchiesta per conoscere bene i fatti e prima di parlare bisognerebbe sapere bene tutto e sapere come si sono sviluppati i fatti. L'unica cosa che so è che la vera vittima è il bambino''. Per quanto riguarda i servizi sociali e il ruolo svolto dalle forze dell'ordine in casi come questi, il ministro voluto ribadire la professionalità della Polizia femminile che da sempre si occupa dei minori. "Io voglio i fatti. Per giudicare bisogna conoscere. E noi non conosciamo abbastanza per sapere. C'è un video, è vero. Ma non c'è il pregresso e il contesto, è un video parziale. Lasciamo che la magistratura faccia la sua parte e la polizia faccia la sua inchiesta''. "Prima di esprimere giudizi, che hanno l'effetto di un vero e proprio linciaggio nei confronti degli agenti e di rimando nei confronti della Polizia - ha detto il segretario nazionale dell'Associazione funzionari di polizia (Anf) Enzo Marco Letizia -, si attenda l'esito delle indagini condotte sia dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza che dalla Magistratura, volte ad accertare la coerenza dei comportamenti con le disposizioni di legge sul caso del bimbo conteso a Cittadella". "Difendere i diritti dei bambini - ammonisce Letizia - deve rappresentare sempre e comunque un dovere e una priorità per tutti gli operatori impegnati nella tutela dei minori. Difendere i diritti dei bambini significa anche salvaguardare il loro futuro, custodendo i valori della legalità, il rispetto delle leggi, la ricerca della verità", ammonisce.
Bambini contesi. Scenata pianificata? Ascolta l'audio che imbarazza la madre di Padova. L'avvocato della signora, nel 2011, spiegava a un bimbo conteso dai genitori di "fare i capricci" in presenza della polizia, così riporta “Libero Quotidiano”. Il caso del bambino di Padova "rapito" della polizia continua ad essere al centro di dibattiti e discussioni. Smorzato l'impatto emotivo delle immagini, che sono state per quanto possibile metabolizzate, iniziano a farsi strada anche delle domande, più o meno scomode. Il tema, quello delle separazioni con bimbi contesi, è delicatissimo. Risulta naturale, ora, interrogarsi sul perché madre e zia, nel momento dell'esecuzione del provvedimento giudiziario, fossero lì. Risulta naturale interrogarsi sul perché siano state prontissime nell'immortalare tutto con un telefonino. Certo, la scarsa umanità dei poliziotti ha colpito; hanno fatto il loro dovere, ma andando oltre quel "minimo di violenza" necessaria per raggiungere l'obiettivo. Altrettanto certo, madre e zia non volevano rispettare il provvedimento di un giudice, e hanno fatto di tutto per ostacolare i poliziotti e, di conseguenza, hanno fatto di tutto per sottoporre il loro bimbo a uno choc terrificante. Le due donne hanno sfidato le istituzioni, e i poliziotti hanno dovuto ricorrere alla violenza.
Il ruolo degli avvocati - Un'altra domanda che inizia a fare capolino è quella relativa al ruolo che possono avere gli avvocati in vicende come questa. Che fanno, i legali? Fanno da pacieri o, piuttosto, esasperano le situazioni? Ma entrando nello specifico della vicenda del bimbo di Padova si scopre che l'avvocato Andrea Coffari, che assiste la signora Ombretta, madre del bimbo, ha una storia piuttosto particolare. In giovane età accusava di pedofilia il padre, che poi fu giudicato per ben due volte innocente da un tribunale. L'avvocato Coffari ha poi subìto una pesante sconfitta nella veste di difensore delle parti civili al processo di appello per il caso dell'asilo Sorelli di Brescia: il caso fu riconosciuto del tutto insussistente (al pari della più nota vicenda di Rignano Flaminio, dove la principale accusatrice degli insegnanti era Barbara Lerici, che con Coffari ha combattuto e combatte molte battaglie sull'abuso dei minori).
Quando "imbeccava" i bambini - Inoltre, semplicemente "googlando" il nome Andrea Coffari, il motore di ricerca ci consegna molte informazioni su come l'avvocato sia stato coinvolto in diversi processi che, con sentenze definitive, hanno stabilito che i suoi assistiti avevano presentato false denunce di casi di pedofilia e maltrattamenti fisici e psicologici ai danni di minori. Certo, questo non significa nulla, però può aiutare a far luce sul contesto nel quale si è arrivati alla tragedia psicologica filmata da madre e zia. Ben più significativo, al contrario, un audio trasmesso a La Fine del Mondo, la trasmissione radio condotta da Selvaggia Lucarelli su M2o. Nella registrazione, Coffari, al teatro comunale di Sant'Orense, il 12 marzo 2011, getta una luce inquietante sulle modalità con le quali difende i suoi assistiti: il legale "imbecca" i minori contesi, li "indirizza" nei comportamenti, spiega loro che cosa fare per "dimostrare" la volontà di voler stare con un genitore piuttosto che con l'altro. Per inciso, esiste una norma deontologica che vieta agli avvocati di avere contatti con i bimbi, ed è prassi di tutti i tribunali ascoltare le testimonianze dei minori senza i legali preventi. Eppure Coffari narra la vicenda di un bambino, Matteo, una vicenda per molti versi simile a quella di Padova, e di quello che suggerì al piccolo di dire in presenza dei poliziotti che si sarebbero presentati per affidarlo al padre, come aveva stabilito un provvedimento giudiziario: "Se tu hai detto che non ci vuoi andare, devi farglielo capire. Fai i capricci, come li fai per le figurine". E i capricci li fece, "con forza, con violenza. Minacciò di buttarsi giù dalle scale. E nessuno venne a prendere questo bambino".
Su Dagospia alcune considerazioni:
1- TIBERIO TIMPERI METTE IL DITO NELLA PIAGA DI TANTI PADRI CUI VIENE NEGATO IL FIGLIO- 2- “DICIAMOCELA FUORI DAI DENTI: LA SOCIETA’ METTE LA DONNA, LA MADRE, SEMPRE, OVUNQUE E COMUNQUE, AL CENTRO DELLA FAMIGLIA. COME SE TUTTE LE MAMME FOSSERO BUONE A PRESCINDERE E I PADRI CATTIVI... CHIEDIAMOCI PIUTTOSTO, SE UN GENITORE CHE OSTACOLA I RAPPORTI CON L'ALTRO, SIA UN BUON GENITORE. CHIEDIAMOCI PERCHÉ IN ITALIA CI VOGLIANO CINQUE ANNI, COME IN QUESTO CASO, PER ATTIVARE LA SENTENZA”- 3- “E PENSIAMO A QUANTE MANIPOLAZIONI POSSANO ESSER STATE FATTE IN QUESTI CINQUE ANNI, SU UN MINORE. BISOGNA PREVEDERE IL CARCERE PER QUEI GENITORI CHE DISATTENDONO I PROVVEDIMENTI DEI GIUDICI. RISPETTARE I PADRI CHE VOGLIONO FARE I PADRI, IN NOME DELL'ARTICOLO 3 DELLA COSTITUZIONE E DELLE PARI DIGNITÀ SOCIALI”-
1- TRAGEDIA COMMEDIANTE, SINDROME MAMMISMO scrive Tiberio Timperi. La vicenda di Padova, è una vicenda dolorosa. Complessa. Vasta. Non ho volutamente visto le immagini di quanto accaduto. Pornografia vera. Scioccante. Dei sentimenti. Ancora più alti e sacri perché di un bambino. Ma non ho voglia di discutere sull'opportunità e la liceità di mandare in onda quelle immagini. I fatti: una madre decaduta dalla patria potestà da cinque anni. Ed altrettanti, inutili, tentativi di eseguire una sentenza. Un padre che lotta contro l'ostruzionismo della madre. Non sappiamo i motivi che hanno portato la Corte d'Appello ad esprimere questa sentenza. Non ci interessano. Ma li rispettiamo. Come e più del solito. Perché vanno contro l'orientamento culturale dominante. Ma sopratutto perché relativi ad un bambino. Che, secondo le parole del padre e del questore di Padova, soffrirebbe di sindrome da alienazione parentale. Anzi, diciamocela fuori dai denti: sindrome della madre malevola. Negata ed osteggiata da un certo mainstreaming che mette la donna, la madre, sempre, ovunque e comunque, al centro della famiglia. Come se tutte le mamme fossero buone a prescindere e i padri cattivi... Ma non è la lotta di genere che mi interessa. Torniamo a Padova. Andiamo oltre l'impatto emotivo delle immagini, riprese ad arte, per costruire il caso. Chiediamoci piuttosto, se un genitore che ostacola i rapporti con l'altro, sia un buon genitore. Chiediamoci perché in Italia ci vogliano cinque anni, come in questo caso, per attivare la sentenza. E pensiamo a quante manipolazioni possano esser state fatte in questi cinque anni, su un minore. Bisogna costruire alternative coraggiose. Introdurre patti prematrimoniali e divorzio immediato. Prevedere il carcere per quei genitori che disattendono i provvedimenti dei giudici. Rispettare i padri che vogliono fare i padri, in nome dell'articolo 3 della Costituzione e delle pari dignità sociali. Certi giudici, certi avvocati e certi consulenti hanno un orientamento culturale vecchio e superato che sta generando mostri. Un atteggiamento da rottamare. Adesso.
2- TIMPERI: "IN QUEI MOMENTI SI PERDE LA TESTA", scrive Francesco Maesano. In Italia c'è questo orientamento culturale. Favorisce le madri mentre i padri scompaiono", denuncia Tiberio Timperi, giornalista, da anni impegnato nella lotta per veder riconosciuti i suoi diritti da genitore.
Ha visto le immagini del bambino trascinato sul selciato dagli agenti?
Sì, e le dico: la colpa non è dei padri o delle madri ma della giustizia che arriva sempre quando è tardi.
Tardi per cosa?
Si tratta di un caso di sindrome da alieneazione parentale: alla madre è decaduta la patria potestà da 5 anni. Un bambino che ha queste reazioni mostra i segni di una evidente manipolazione. Perchè la giustizia non è intervenuta prima? Sono passati cinque anni dopo aver disposto l'allontanamento. Queste cose vanno fatte subito.
E perchè non si fanno?
C'è troppa gente che mangia su queste cose. La filiera è troppo lunga. C'è un giro da un miliardo di euro. Pensi solo ai consulenti incaricati dai giudici. Dovrebbero essere super partes ma a volte si conoscono tra loro.
Qualche esempio?
Senza fare nomi. Due consulenti romani, molto bravi, molto conosciuti. Lavorano insieme da anni. Accade che uno dei due sia chiamato dal giudice come consulente della Corte e che l'altro venga assunto da una delle due parti. C'è un conflitto di interessi o sbaglio? Sono la mafietta di un ambiente che non si può toccare.
Che propone?
Per iniziare basterebbe introdurre patti prematrimoniali e velocizzare il divorzio. Poi ci vogliono leggi draconiane per il genitore che delinque che ora confida nella lentezza della giustizia. Voglio la galera per il genitore che non rispetta la legge.
Così non si rischia di esacerbare la conflittualità?
Questa è una emergenza sociale. Il problema non sono i padri o le madri, è il paese a essere impreparato. Esiste un problema giustizia e di realizzazione dell'articolo 3 della Costituzione. Quando il giudice dà il bambino al padre fa notizia. Guarda caso quelle immagini le ha diffuse la zia materna.
A prescindere da chi le ha diffuse e dai diritti dei genitori, non crede che portare via un bambino di peso sia in ogni caso eccessivo?
Ho capito! Ma cosa deve fare un genitore? O va fuori di testa e passa alla violenza fisica, che è sempre esecrabile, o non sa che fare.
3- "CHE ERRORE MANDARE GLI AGENTI MA A VOLTE UN GIUDICE È COSTRETTO", scrive Elsa Vinci. La polizia a scuola, il bimbo che scappa. Strilli, urla e pure un video-shock. Per "salvare" un bambino dalla madre bisogna farlo soffrire così? Io non credo che l'allontanamento con la forza possa avere un buon effetto.
Sono momenti che si preparano con cura nel tempo ». Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minori di Roma, non apprezza il ricorso alla polizia e preferisce considerare «i provvedimenti eseguiti a scuola solo eventi eccezionali».
La disperazione del bambino ha fatto il giro di tv e web. Lui senza difesa contro gli agenti. Si fa così?
«Quello che si è visto è da evitare. Di solito un bambino va a prenderlo l'assistente sociale, uno psicologo con cui parla da mesi, che conosce benissimo. Una figura di cui si fida. Il ricorso alla polizia è previsto ma sconsigliato. Personalmente preferisco escluderlo. Se diventa indispensabile, deve avvenire con modi e in luoghi che rendano l'evento meno traumatico possibile».
Invece sono andati a scuola.
«Per i bambini la scuola è un luogo sicuro, un allontanamento del genere mette in crisi questo concetto. Vale per lui e per i suoi compagni. Purtroppo l'intervento in classe si sarà reso necessario perché in passato ci sono stati tentativi falliti. A volte il giudice è costretto. La madre non aveva più la patria potestà, la Corte d'appello di Venezia ha deciso per la scuola perché a casa non è stato possibile prendere il bambino ».
Il trauma dell'allontanamento da un genitore si pone in ogni caso. Il tribunale come cerca di gestirlo?
«Il ragazzino va assolutamente rassicurato: la separazione non è per sempre. Non si perde né la mamma né il papà. Il magistrato dispone percorsi psicoterapeutici adeguati, il minore viene accompagnato da un'équipe multi professionale. Di solito io nomino un giudice onorario che segue il piccolo per mesi, ci parla spesso, può andarlo a trovare a scuola, cerca di fargli capire il perché. Assistenti sociali e psicologi gli fanno comprendere che se cambierà casa questo non vuol dire che la mamma non ci sarà più.
Potrà continuare a vederla, a sentirla, a giocare con lei».
Ma se il figlio con il padre non ci vuole stare?
«Il bimbo deve fare conoscenza col papà e in questo percorso lo si accompagna. Si deve trovare lo spazio nella sua testa per far entrare il padre».
Questo bambino soffre di sindrome da alienazione parentale. Come si fa a tenere in equilibrio il diritto di tutti?
«Non vuole vedere il padre perché alienato verso di lui probabilmente dall'influenza dell'altro genitore. Si deve lavorare con personale specializzato. Tanto più adesso che ha subito un trauma, che resterà per sempre. E non dimenticherà mai».
SANITA’ DA PADRE IN FIGLIO.
Ma altri aspetti sono da approfondire: Sanità di padre in figlio.
Un gruppo di professori a tirare le fila dei concorsi medici in tutta Italia. E a pilotare i vincitori. Così le cattedre si regalano in famiglia. A danno dei malati. Ora una indagine della Procura mette nel mirino le università di Novara, Padova e Udine.
Una fitta rete di amicizie, come la tela di un ragno: pochi baroni che condizionano interi settori della sanità. Dal cuore del Nord-Est. Epicentro i due policlinici di Udine e Padova, due prestigiose università.
A Padova gli inciuci baronali sono arrivati al punto che un uomo navigato come il professore di Chirurgia Ermanno Ancona, già vicesindaco della città e ascoltatissimo dal già governatore Giancarlo Galan, che ne ha fatto il suo consigliere numero uno per le faccende medico-scientifiche, aveva scritto il 10 maggio 2008 ai colleghi una lettera assai imbarazzante: "Non possiamo nascondere la testa sotto la sabbia e dire che non esiste nella nostra Facoltà la questione etica. Non è la prima volta che alcuni colleghi aprono le porte dei propri gruppi di lavoro a figli od altri discendenti stretti, creando per loro un percorso accademico agevolato rispetto a quello degli altri comuni collaboratori. Quel che è certo è che questo costume umilia tutti gli altri docenti o aspiranti docenti che operano all'interno della struttura perché è la prova dell'esigua valutazione che si dedica al valore ed al merito all'interno della nostra facoltà. Ebbene è giunto il momento per dire che questo costume deve essere allontanato dalla Facoltà di Medicina di Padova prima di diventare uno degli argomenti di scandalo". Profetiche le parole del consigliere di Galan. Perché di lì a poco ecco arrivare il siluro. Che parte da lontano.
E precisamente dalle 19 dell'otto novembre 2007 quando Antonio Ambrosiani, direttore della clinica di Ginecologia e ostetricia dell'ateneo, si trova contemporaneamente a cena al nono piano dell'Hotel Le Royal Meridien di Shanghai, ospite della Sigo, la società italiana di ginecologia e ostetricia, di cui era presidente, e in sala operatoria per un intervento di 'taglio cesareo complesso'. Lo attesta un documento firmato da Erich Cosmi, medico della clinica, in cui compare Ambrosiani come primo operatore del cesareo. E qui iniziano i guai, perché le foto attestano, invece, che Ambrosiani è a Shanghai e il procuratore di Padova, Orietta Canova, indaga. La Asl licenzia in tronco Gianfranco Fais, il medico responsabile delle sale parto che ha firmato i registri, e sospende il professore.
Ma la macchina giudiziaria è partita. E avvia il ciclone di concorsopoli.
Che arriva a Padova e ad Ambrosiani partendo da Novara dove il procuratore capo, Francesco Saluzzo, ha aperto un'inchiesta sul sistema di consorterie che sovraintende all'assegnazione delle cattedre di ginecologia e ostetricia in buona parte del paese. Protagonista è ancora Ambrosiani insieme a Nicola Surico, direttore di Ginecologia e ostetricia dell'ospedale universitario di Novara e professore ordinario alla facoltà di medicina della città. Secondo la procura, però, le riunioni di un gruppo di una trentina di medici avvenivano a Padova, in particolare nell'antica Biblioteca della facoltà. Qui si sarebbero prese le decisioni sui concorsi. La Procura lavora su una serie di fax e mail. Come quella in cui, nel 2003, il professore di Padova scrive: "Carissimo, ti ricordo i nostri candidati". O ancora: "Elezioni professori ordinari-concorso a un posto di professore ordinario presso l'Università degli studi di Milano-Bicocca, il 'nostro candidato' Antonio Cardone". Che vinse. I documenti racconterebbero di una conventicola di professori legati ad Ambrosiani capaci di pilotare i concorsi di professore ordinario in Ostetricia e ginecologia un po' in tutt'Italia: da Foggia a Milano, da Brescia a Parma, a Roma. A Foggia nel 2005 su cinque commissari , quattro erano membri del gruppo della Biblioteca; a Milano nel 2006, cinque su cinque.
E per prima cosa, i figli: Guido Ambrosiani è professore ginecologo a Padova nella stessa clinica del padre. La figlia di Surico, Daniela, invece, vince nel 2005 il concorso per ricercatrice di ginecologia proprio all'università di Novara, dove il padre è ordinario. I tre commissari di concorso che la assumono provengono tutti, caso rarissimo, da Padova. Ha un bel da predicare Ancona: così fan tutti.
Anche nella vicina Udine dove va in scena la saga della famiglia Bresadola: tre membri all'università, altri tre in ospedale. È dal 2005 che Daniele Franz, ex deputato di An, denuncia lo scandalo e considera:"Essere parente o affine del professor Fabrizio Bresadola risulta essere condizione non necessaria, ma sufficiente per ottenere un impiego nell'ambito del mondo accademico ed in particolare nella facoltà di medicina e chirurgia". Fabrizio è il capostipite: fino a un anno fa era anche presidente dell'azienda ospedaliera Santa Maria della Misericordia di Udine e dal '97 dirige la clinica di Chirurgia generale ed è professore ordinario al dipartimento di Scienze chirurgiche. Insieme a lui lavorano il figlio Vittorio e la di lui moglie, Maria Grazia Marcellino, che ha trovato posto, anche lei, nella medesima clinica. E, per non fare differenze tra figli, ecco l'altro figlio di Fabrizio Bresadola, Marco, che è un filosofo. Ma ha la cattedra a medicina, Storia della medicina.
Curioso che Vittorio sia professore associato di chirurgia toracica e abbia conseguito l'idoneità alla selezione di professore associato nel 2001 quando in commissione, a Siena, sedeva Dino De Anna, collega del padre a Udine e coautore, insieme a Vittorio, di venti lavori presentati alla commissione di cui egli stesso fa parte. Questo non si può fare, anche se nel valutare il collega Vittorio, il professor De Anna afferma che i lavori sono "in massima parte attribuibili allo stesso candidato". D'altra parte Dino De Anna è impegnato a far politica: due volte senatore per Forza Italia, fratello dell'assessore regionale Elio, fino a pochi mesi fa presidente della Provincia di Pordenone.
De Anna fa politica e Bresadola l'accademico, ma entrambi sono nati alla stessa scuola, all'ombra del grande chirurgo ferrarese Ippolito Donini (il cui figlio Annibale, per inciso, è professore di Chirurgia a Perugia). Suo allievo era anche Alberto Liboni, oggi professore di Chirurgia a Ferrara. Dove Liboni, nel 2006, gestisce un concorso di associato di chirurgia generale: della commissione fanno parte Fabrizio Bresadola e Mario Trignano, allievo di Bresadola e professore a Sassari. Chi vince la prova? Paolo Zamboni e Vincenzo Gasbarro che lavorano presso l'istituto di chirurgia generale di cui è direttore Liboni. Bresadola scrive del vincitore: "Di alto profilo l'attività operatoria". Paolo Zamboni è disabile e non opera più da circa dieci anni.
«Non sono un veggente». È scritto così nella mail pubblicata dal Giornale il 12 gennaio 2009 che ha riaperto la «parentopoli» nell’università di Padova svelando con un mese d’anticipo che un concorso bandito dall’università di Padova era tagliato su misura per il figlio dell’ex rettore, come un abito di sartoria. Ma negli austeri corridoi dell’ateneo dove insegnò anche Galileo Galilei i veggenti ci sono, eccome. E la persona apparsa nella sfera di cristallo è sempre la stessa: Federico Milanesi, rampollo dell’ultimo «magnifico» del Bo.
Accadde un anno e mezzo fa, nel luglio 2008. Allora come oggi, qualcuno aveva previsto che il giovane fonico avrebbe presto trovato un posto nell’organico di ateneo. Il veggente non era un disoccupato anonimo frustrato dal potere delle baronie, ma un membro del corpo accademico patavino. Le cose andarono così. L’Ordine dei giornalisti collaborava con l’università di Padova (il rettore allora era Vincenzo Milanesi, padre di Federico) per un Master in comunicazione. Nel maggio 2008 erano emersi «elementi ostativi» che avrebbero pregiudicato ulteriori collaborazioni. Ma a luglio una seconda verifica cancellò ogni remora.
La nuova convenzione prevedeva, tra l’altro, la nomina di tre «tutor» per i laboratori radiotelevisivi: l’Ordine indicò Silvia Menetto, giornalista di Radio24, e Virgilio Boccardi, storica firma Rai in pensione, mentre l’ateneo segnalò il giovane Federico Milanesi come tecnico fonico a 12 ore settimanali. Il figlio del rettore in carica. Fatalità, nel giro di poche settimane è proprio lui a vincere il concorso bandito dal Bo e a prendere servizio l’1 dicembre 2008 con un contratto a termine di due anni.
Il professor Ivano Paccagnella, direttore del Master, spiegò così al Gazzettino l’arcano: «Dovevamo dimostrare di avere una professionalità capace di far funzionare la nuova cabina fonica. L’unica persona che in quel momento conoscevo era proprio il giovane Milanesi che aveva dato all’ateneo consulenza gratuita per scegliere la strumentazione». Ecco come si fa carriera nelle università italiane: basta essere figli del rettore e fornire consigli gratis. «Con il senno di poi - aggiunse Paccagnella - posso dire di aver commesso un macroscopico errore. Ma tutto è stato fatto in buona fede».
La procura aprì un fascicolo sulla faccenda, archiviato in breve. Ma lo scandalo fu grande. Il direttore dei laboratori del Master diede le dimissioni per protesta. L’Ordine dei giornalisti tolse l’appoggio. Milanesi jr ottenne un altro incarico: egli infatti approdò a Radio Bue, l’emittente del Bo (il bue in dialetto veneto) che pochi mesi prima aveva cominciato a trasmettere musica, interviste e lezioni. Ad accogliere il giovane fonico fu il responsabile del progetto radiofonico nonché supervisore delle pubbliche relazioni dell’ateneo. Cioè il professor Gianni Riccamboni, preside di Scienze politiche e soprattutto uno dei pro-rettori di Milanesi, suo collaboratore tra i più stretti e fidati.
Nel Servizio relazioni pubbliche il magnifico rampollo trovò ottima compagnia. Trovò Silvia Riccamboni, figlia del professor Gianni. E anche Luisa Mazzarolli, figlia di Leopoldo Mazzarolli, famoso giurista nonché docente di diritto pubblico comunitario a Padova. Prima di essere sistemata alle relazioni pubbliche, Luisa aveva ottenuto un contratto a tempo determinato al Servizio cerimoniale di ateneo. Prima un’assunzione a tempo, poi quella definitiva: lo stesso «cursus honorum» accomuna i discendenti degli accademici padovani che fanno carriera nell’università.
L’elenco di «figli di» negli illustri organici padovani è sterminato. Padri che dirigono scuole di specializzazione dove i figli si perfezionano e si piazzano a vita; cattedre trasferite per diritto ereditario; intrecci familiari che si ramificano da una facoltà all'altra. Dinastie come gli Ortolani, i Cortelazzo, gli Opocher, i Tiengo, i Babighian, i Patrassi, i Cagol, i Pietrobon e decine di altri. A questo elenco ora si aggiunge la schiatta dei Milanesi. Le ambizioni politiche di Vincenzo sono di vecchia data: fece di tutto per ottenere una proroga all’ateneo; quando la prospettiva sfumò, si disse che avrebbe corso per la poltrona di sindaco se il Pd avesse scaricato Zanonato. Si parlò di lui come possibile eurodeputato.
Alla fine il «magnifico» è rimasto appunto un «semplice docente» ma con parecchia voce in capitolo. Il suo successore, infatti, è Giuseppe Zaccaria. Che era il pro-rettore vicario. Sua figlia ottenne un dottorato-sprint all’università di Palermo senza neppure spostarsi dalla città del Santo perché il corso di studi era organizzato in consorzio con l’università di Padova.
«Egregio dott. Giangrande, mi rivolgo a Lei dato che leggo che Lei dichiara di scrivere i Suoi libri basandosi su fonti autorevoli e accreditate. Mi auguro quindi che, avendo Lei a cuore la verità, voglia darmi una mano a mettere la parola fine su un collegamento che lega il mio nome e il mio cognome al falso. Da anni, anche “grazie a Lei” il mio nome e cognome sui motori di ricerca (Luisa Mazzarolli) è collegato ad articoli piuttosto fuorvianti. “Padova, parentopoli all’università. Quel posto previsto 18 mesi fa…”. L’articolo in realtà si riferisce a tutt’altra persona (Federico Milanesi). Nell’articolo il mio nome e cognome è citato scrivendo: “…..Luisa aveva ottenuto un contratto a tempo determinato al Servizio…... Prima un’assunzione a tempo, poi quella definitiva:……. Questa notizia è falsa e tendenziosa, come scrissi in una lettera inviata, e pubblicata, dal quotidiano locale che per primo scrisse calunnie sul mio conto. Altri quotidiani hanno poi preso la notizia senza curarsi minimamente di svolgere delle minime verifiche. Lei pure ha citato in un Suo libro la notizia pari, pari….e così io continuo ad essere collegata a fatti che non mi appartengono. Lavoro dal 1996, assunta con un regolare concorso pubblico a tempo indeterminato. Nel 2005, dopo quasi 10 anni di servizio nella Pubblica Amministrazione, mi sono avvalsa della mobilità tra Enti pubblici, diritto riconosciuto a tutti i lavoratori. Al Servizio Cerimoniale dell’Università di Padova non sono mai stata a tempo determinato; (caso mai per un determinato tempo, concetto “leggermente” diverso). Nessuna carriera, nessun “ cursus honorum”. Già a suo tempo essere citata erroneamente mi dispiacque molto, avrei infatti, potuto sfruttare molto bene la mia parentela, come han fatto in molti, ho invece vinto un regolare concorso pubblico a tempo indeterminato presso un Ente Pubblico e, dopo anni, per mobilità sono arrivata all’università, mio padre era già in pensione. Tutto lecito e alla luce del sole; mi sembrò paradossale essere stata trascinata in uno scandalo nel quale non c’entravo…adesso a distanza di anni, grazie ai motori di ricerca mi ritrovo ancora collegata a delle notizie fasulle…Mi appello a quanto Lei scrive: al fatto che Lei ricerca la verità…. ecco la verità sul mio conto gliel’ho scritta e per questo Le chiedo la cortesia di rimuovere i collegamenti da Google, di togliere le pagine o le parti in modo che io non continui ad essere accostata a una notizia non vera. Mi scuso di essermi dilungata, non so se vorrà essermi in qualche modo d’aiuto, ma se lo farà gliene ne sarò molto grata, altrimenti pazienza. Sono stanca.....non sono una che fa la voce grossa, vedo furbi ovunque, intere dinastie anche di figli di impiegati…(non ci sono solo i figli dei prof, sa?): aver agito onestamente ed essere ripagati così, mi rende triste e mi sento stupida perché allora, era meglio sfruttare le occasioni...e i cognomi. A disposizione per ulteriori chiarimenti, la ringrazio per l’attenzione, con i migliori saluti. Luisa Mazzarolli».
La versione tout court della dr.ssa Luisa Mazzarolli, a rettifica doverosa dell’articolo, è stata inserita in calce al pezzo per esigenze di giustizia. Sbianchettare dalla mia inchiesta nomi e circostanze riportati da altri giornali non equivale a cercare ed affermare la verità. Sarebbe paradossale, poi, da parte mia, nell’affermare la verità, censurare un articolo. Si fa opera di trasparenza se a quelle notizie, spesso false, si contrappone la versione delle persone citate e diffamate, le cui parole, quasi sempre vengono ignorate o stravolte. Io, oltre che far parlare direttamente i diretti interessati denigrati, penso di non poter far di più, tenuto conto che i miei scritti hanno una certa credibilità ed un certo seguito, anche internazionale. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.
MUSICA. DA PADRE IN FIGLIA.
Polemiche al concorso del conservatorio di Padova: vince la figlia del direttore. Leonora Armellini ha i titoli per ottenere il contratto, ma le viene contestata l'inopportunità di presentarsi nella scuola del padre. "Mi attaccano perché mi sono candidato con i 5Stelle - replica lui - tutti i criteri anti corruzione sono stati rispettati", scrive Enrico Fero il 13 novembre 2018 su "La Repubblica". Quando a 12 anni vinse il suo primo concorso di pianoforte dissero che era merito del padre, anch'egli musicista. Oggi Leonora Armellini, 26 anni, ha tenuto più di 500 concerti in tutto il mondo, da New York a San Pietroburgo, da Parigi a Londra. Ma ha vinto un concorso al Conservatorio Pollini di Padova, dove il padre Leopoldo Armellini, ancora lui, sempre lui, è direttore. Questo ha fatto scoppiare una polemica che quasi certamente sfocerà in reclami e richieste di accesso agli atti. "Se non mi fossi candidato con il Movimento 5 Stelle alle elezioni del 4 marzo sicuramente nessuno avrebbe niente da recriminare ora", dice lui, che nonostante gli 84 mila voti nel collegio di Padova non è riuscito a entrare in Parlamento. Il mese scorso il Conservatorio Pollini indice un concorso per docenti di “Pratica e Lettura Pianistica/Pianoforte Complementare”. È un corso di fascia pre accademica, tecnicamente un contratto di co.co.co. "Parliamo di 25 euro l'ora, per un massimo di 80 ore", spiega Armellini per rispondere agli attacchi che in questi giorni stanno venendo un po' da tutte le angolazioni. Al concorso si presentano 98 giovani intenzionati a cogliere questa opportunità, che non assicura sostentamento ma chi vive di pianoforte deve in qualche modo costruirsi un reddito. Viene istituita una commissione terza, facendo attenzione a escludere chi rientra fino al quarto grado di parentela con i candidati. I criteri di valutazione sono tre: attività artistica svolta, esperienza di insegnamento e titoli di studio. Tra tutti i 98 la spunta lei, Leonora Armellini, la figlia del direttore che nel Conservatorio di Padova ha anche la madre docente. Quarta arriva Sara De Ascaniis, anche lei figlia di due docenti del Pollini. Ma le critiche sono tutte per Leonora. "Questione di opportunità", dicono i più. "Dal punto di vista normativo e legale sono state rispettate le normative anti corruzione" evidenzia il padre Leopoldo. "La commissione era terza, nominata da un terzo. Mi è stato detto che la candidatura è inopportuna. E allora io chiedo a questi paladini della correttezza: mia figlia non può avvalersi dei propri diritti di cittadina italiana? Mia figlia, a 17 anni, prendeva l'aereo e andava da sola ad Amburgo a fare lezione con la sua insegnante. Una ragazza con una personalità del genere, a 26 anni, non può avere autonomia di scelta? Se io avessi cassato la sua domanda, avrei commesso reato". Ma allora, con un curriculum del genere e con esperienze simili all'estero, come mai non ha fatto un concorso ad Amburgo? O a Milano? O a Roma? Insomma, perché proprio a Padova? "Evidentemente la sua città le deve essere interdetta", sentenzia Armellini. Effettivamente la giovane ha un curriculum di indiscussa eccellenza. Domenica scorsa era a Varsavia, invitata a suonare al primo concerto di Chopin in occasione del centesimo anniversario dell'indipendenza della Polonia. Ha suonato due volte al Quirinale e ha fatto una dozzina di dischi. Ma ora è semplicemente la "figlia di...". Una delle tante. "Ho l'impressione che se non mi fossi candidato, nulla sarebbe successo" ripete il direttore del Pollini. "A Padova questa candidatura ha dato fastidio a molti. Pensare che ho sempre votato Pd, fino a che Franceschini non ha massacrato i beni culturali". Ora ci sono dieci giorni di tempo per ricevere ricorsi e reclami. Tutti saranno presi in esame dalla commissione e, solo alla fine, la graduatoria sarà aggiornata. "Mi si spezza il cuore" continua e lo ha ripetuto nei giorni scorsi anche sul suo profilo Facebook. "Massacrate me ma lasciate stare mia figlia".
COSA SUCCEDE A ROVIGO.
DI CHI FIDARSI?
Il comandante dei carabinieri che vende telefonini (in nero). È il capo del Nucleo investigativo di Rovigo. Esposto in procura, scrive Roberta Polese su “Il Corriere della Sera”. Un capitano dei carabinieri che, nel tempo libero, vende cellulari e altro materiale tecnologico usato o, come dice lui, di aziende che li ritirano dai leasing: tutto lecito? O solo inopportuno visto che l’ufficiale in questione – Giovanni Liaci, origini salentine e residenza a Sottomarina nel Veneziano, responsabile del Nucleo investigativo dell’Arma di Rovigo – è un militare graduato con compiti operativi di contrasto al crimine e alla criminalità organizzata? Sulla vicenda ha aperto un’inchiesta il procuratore aggiunto di Padova Matteo Stuccilli: si tratta di un cosiddetto “fascicolo atti relativi”. Liaci non è indagato (almeno per ora) e il magistrato si è limitato a ordinare verifiche e accertamenti proprio ai carabinieri padovani. Il “doppio lavoro” di Liaci, infatti, è stato svelato da una giornalista-cliente che ha acquistato due palmari dal militare nei giorni scorsi. L’appuntamento tra i due che già si conoscevano – anche nel maggio del 2010 erano avvenuti dei precedenti acquisti nel mercatino dell’usato di Brugine – è avvenuto all’uscita dell’autostrada A 13 nel territorio di Boara Pisani. Il capitano ha proposto i due cellulari a 50 euro l’uno, rassicurando la cliente che non erano di provenienza illecita: «Sono di aziende che li ritirano dai leasing e li danno a me, niente di illegale, tranquilla» aveva garantito. La scena è stata ripresa dal fotografo al seguito della giornalista. Poi quest’ultima si è presentata dalla Guardia di finanza, consegnando i palmari, prima di recarsi in procura dove ha presentato un esposto che ha messo nei guai Liaci.
Antefatto. Capita, girando per i mercatini dell’antiquariato, di trovare, tra vestiti usati e mobili vecchi, un banchetto zeppo di cellulari e palmari. Era il febbraio del 2010 e dietro quel banchetto seminascosto a Brugine, nel Padovano, c’era un uomo molto esperto di tecnologie. Quell’uomo non era un uomo qualunque, ma un carabiniere. E non un carabiniere qualunque, ma un ufficiale dei carabinieri in servizio a Rovigo: il capitano Giovanni Liaci, comandante del Nucleo investigativo, con un ruolo operativo nelle delicate operazioni di contrasto all’illegalità. La sua presenza era stata segnalata da diverse fonti, non restava che verificarla. E così è stato fatto. Insospettiti da questa anomala presenza e «armati» di un registratore mp3, captiamo le prime conversazioni e cerchiamo di capire da dove arriva la merce. Il tutto senza lasciar intendere che conosciamo lui e il suo ruolo. «Non ho tutto qui con me, se cerchi qualcosa di particolare chiamami e i telefonini te li porto io a Padova », dice Liaci, pugliese di nascita, residente a Sottomarina (Venezia). Passa il tempo e a maggio del 2010 organizziamo un primo scambio davanti alla stazione di Padova. Due palmari al costo di 50 euro l’uno. Gli apparecchi sono senza scatola, senza garanzia e vengono venduti senza scontrino. Il nostro obiettivo è fare un’inchiesta giornalistica, non commettere un reato (quello, eventualmente molto grave, di ricettazione), e chiediamo da dove arrivino i palmari. «Sono di aziende che li ritirano dai leasing e li danno a me, nulla di illegale, tranquilla», rassicura Liaci. In ogni caso consegniamo i cellulari alla Guardia di finanza pochi minuti dopo averli presi. Passano due anni, le voci sul business parallelo del capitano Liaci continuano ad arrivare e noi torniamo a indagare. Una decina di giorni fa lo contattiamo nuovamente al telefono, con una scusa chiediamo di poter avere altri due palmari. Gli spieghiamo che ne vogliamo uno per uso personale, e uno per uso famigliare. Dopo qualche sms e una mail in cui ci indica le specifiche degli acquisti, contrattiamo il prezzo. «Per una buona macchina vai sui 150 euro». «Troppi soldi», rispondiamo. «Ok, allora ho un HP che fa al caso tuo, uno per te e uno per tuo marito, se vuoi ci vediamo anche domani». L’appuntamento lo prendiamo noi: sabato alle 10.30, uscita dall’autostrada A13 di Boara Pisani, parcheggio del supermercato Toys. Liaci arriva con la sua Bmw, parcheggia poco lontano. Giaccone grigio, occhiali, sciarpa. Non sa che dietro le vetrine del negozio c’è un fotografo pronto a riprendere lo scambio. Nella nostra borsa c’è un Ipad che registra ogni parola. L’incontro dura una decina di minuti. Liaci apre il bagagliaio della sua macchina e ci regala anche una bottiglia d’olio. Poi inizia a parlare di tutte le specifiche tecniche dei palmari. «Ho i soldi solo per pagartene uno». «Va bene, prendine due, uno lo mostri a tuo marito, poi ne parliamo ». Chiediamo ancora conferma sulla provenienza lecita dei palmari, e il comandante del Nucleo investigativo ci rassicura ancora: nulla di rubato, tutto legale. E ancora una volta, come due anni prima, Liaci intasca i 50 euro senza ricevuta. Assieme ai palmari, senza involucri o scatole, ci dà anche i caricabatteria con la spina, uno per l’auto e una custodia. Tutto a 50 euro, con la promessa di rivedersi per il saldo dei 50 euro dell’altro palmare, che ci lascia in prova. Il bagagliaio resta aperto e dentro vediamo che c’è una stampante e altro materiale tecnologico. Vedendoci incuriositi ci spiega che quella mattina deve fare altri giri, vedere altre persone. Noi abbiamo la merce, lui ha i soldi. Ci salutiamo. Tutto è registrato e fotografato. Per inciso: Liaci non ha commesso reati se, come dice, i cellulari non sono proventi di furto. Si tratta invece di un caso di opportunità, di rilevanza sociale del protagonista e di una parte di reddito in nero non dichiarato. Un ufficiale dei carabinieri non può avere un secondo lavoro, perché riveste un ruolo di riferimento non solo nella lotta all’illegalità, ma anche all’irregolarità. A nostra tutela tutto il racconto dei tre episodi (l’avvistamento a Brugine, il primo scambio alla stazione di Padova e l’ultimo di sabato scorso a Boara Pisani), si trovano in un esposto depositato ieri alla procura della Repubblica di Padova, indirizzato al procuratore capo Mario Milanese.
L'Arma nel mirino. Il capitano vende cellulari al mercato. Comandante dei carabinieri fotografato mentre smercia telefonini in nero, scrive Cristina Degliesposti su “Il Resto del Carlino”. «SAPEVO chi avevo di fronte. Sapevo che lei era una giornalista, anche se voleva farmi credere di lavorare nel settore tessile. E avevo visto pure il fotografo». Così Giovanni Liaci, capitano dei carabinieri e comandante del Nucleo investigativo di Rovigo, commenta l’articolo pubblicato ieri dal Corriere. Un articolo che lo ritrare, con tanto di sequenza fotografica, intento a vendere palmari a una giornalista sotto mentite spoglie, senza scontrini o fattura. Una vendita in nero, stando a quanto riportato dalla testata, che dal 2010 aveva iniziato a tenere d’occhio il capitano. «La giornalista? Sì, la conosco», afferma Liaci raggiunto al telefono in tarda mattina. Ieri non era al lavoro, non a causa dell’articolo pubblicato ma per impegni già fissati da tempo. «Non ho ancora letto i giornali — dice —. Non commento finché non so quello di cui stiamo parlando. Però ho già ricevuto molti messaggi e telefonate di solidarietà». Liaci non si addentra nel merito di quanto ricostruito dal Corriere, ma non smentisce nemmeno i particolari di quanto scritto dalla testata. Salvo dire: «Ero fuori dall’orario di servizio». «Rivesto una posizione che non è quella di un normale cittadino — aggiunge —. Ci sono le sedi idonee dove rispondere. Credo che la giornalista si sia assunta una grossa responsabilità». Nell’articolo uscito ieri, la cronista del Corriere scrive di aver notato per la prima volta il capitano Liaci in un mercatino dell’antiquariato a Brugine (Padova), nel febbraio 2010. Lo aveva visto dietro a un banchetto di telefonini e palmari, nella veste quindi di venditore. Instaura un contatto e dopo qualche mese, a maggio, si accordano per la vendita di due palmari, a 50 euro l’uno. Lo scambio avviene davanti alla stazione dei treni di Padova e, stando alla cronista, i telefonini vengono consegnati senza scatola né ricevuta di vendita. Secondo le registrazioni fatte dalla cronista, Liaci l’avrebbe rassicurata sulla provenienza della merce: nulla di illecito, ma prodotti di leasing aziendali dismessi. I contatti si interrompono, ma stando alla giornalista le voci sulla presunta attività parallela di Liaci continuano. Così, la cronista organizza un altro acquisto, avvenuto sabato in un parcheggio di Boara Pisani fuori dall’A13. Una ‘transazione’ da 50 euro per un altro telefonino (più uno lasciato in prova), senza scontrini, ma documentata da una carrellata di foto poi pubblicate sulla testata e dalle registrazioni audio. A tutela dell’inchiesta svolta, la cronista e la testata hanno depositato un esposto alla Procura di Padova.
ROVIGO MAFIOSA.
"La mafia anche in Polesine". L'intervista di Cristina Degliesposti su “Il Resto del Carlino” al giudice Negri: "Il nostro territorio non è immune".
«Anche il Veneto non è immune alle infiltrazioni mafiose. Ci sono già stati diversi casi che lo dimostrano. Ma mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata». Cita Tito Livio il giudice del Tribunale di Rovigo Carlo Negri, consulente della Commissione parlamentare antimafia dell’ultima legislatura. «Si aspetta che il fenomeno esploda in maniera eclatante anziché fare prevenzione», incalza Negri, da sempre in aperto contrasto con l’«atteggiamento negazionista piuttosto radicato anche a Rovigo. Mi viene in mente il periodo in cui si parlava di investimenti della famiglia Brusca in Polesine. Rovigo è un pezzo d’Italia e bisogna mettersi nell’ottica che, se un ‘investimento’ conviene, ci si mette un secondo a trasferirsi in Polesine».
Giudice Negri, quali prove ci sono della presenza di infiltrazioni mafiose nel territorio?
«Il Veneto non è nuovo a ‘ospitare’ latitanti, è un territorio che si presta a confondersi tra i tanti senza che nessuno se ne accorga. basti pensare alla cattura di Madonia a Vicenza o l’inchiesta Aspide della procura di Padova (su una presunta banda di estorsori legata al clan dei Casalesi)».
E in Polesine?
«Per quella che è la mia esperienza, la criminalità organizzata ha radici culturali profonde. La provincia di Rovigo non è terra che dà impulso a organizzazioni del genere, ma le può ‘importare’. Subisce un fenomeno parassitario».
In che senso?
«L’usuraio si ferma alla riscossione degli interessi della propria attività, la criminalità organizzata invece entra lentamente nel tessuto economico. Acquisisce aziende, ha il monopolio dei prezzi grazie a una disponibilità di liquidità incredibile e fornisce manodopera sottocosto. A questo si aggiunge l’uso dell’intimidazione e della violenza. E in questo monopolio d’azione può arrivare a esprimere rappresentanti politici nelle amministrazioni che controllano gli appalti».
Ha seguito inchieste a Rovigo che presentano questo disegno?
«No, ma è vero che se da un lato la criminalità organizzata non è nella cultura del Polesine, i cittadini del nord sono anche quelli che, per paura, difficilmente denunciano casi di estorsione».
Ci sono settori che rischiano più di altri?
«L’edilizia e il caporalato in campagna sono realtà che si possono prestare a un territorio come Rovigo. Faccio fatica a pensare che Rovigo sia immune rispetto alle altre zone d’Italia, mentre non credo che siano stati fatti grandi investimenti immobiliari. Non è un territorio che si presta, ad esempio, all’acquisto di complessi alberghieri».
In Procura avete mai avviato attività specifiche?
«Purtroppo si fa fatica a causa dell’organico. Dietro all’incendio di un capannone o alla compravendita anomala di mezzi potrebbero celarsi attività legate alla criminalità organizzata, ma andrebbero fatte analisi più approfondite che, in queste condizioni non possiamo fare».
Cosa invece potrebbero fare le istituzioni o altri soggetti?
«Le pubbliche amministrazioni dovrebbero pagare i propri debiti con i fornitori, ma i direttori di banca dovrebbero anche segnalare alla Prefettura i casi in cui vengono sospesi crediti o dove risultano problemi nella gestione dei bilanci. Questo aiuterebbe a intervenire tempestivamente sulle aziende che affrontano momenti di difficoltà, prima che ricorrano ad altri canali di accesso al credito».
La certificazione antimafia è uno strumento efficace?
«Se non gestito bene rischia di fermare l’imprenditore onesto, ma non il mafioso».
PUBBLICA SICUREZZA
Se il pirata della strada è un vigile urbano.
A Rovigo un agente della polizia locale ha investito una donna ed è scappato senza prestare soccorso, scrive Chiara Sarra su “Il Giornale”. Una donna attraversa sulle strisce pedonali. Un'automobilista non la vede. La investe e scappa. Una storia come tante, diventata ormai tristemente ordinaria. Ma stavolta alla guida non c'era un cittadino qualsiasi, magari in stato di ebbrezza, ma un vigile urbano. È successo intorno alle 18 in un viale trafficato di Rovigo, sotto gli occhi di numerosi testimoni. Protagonisti sono Mirella Rondina, 85 anni, e un agente della polizia locale a bordo della Fiat Panda in dotazione dei vigili urbani. "Ha investito la signora", racconta al Gazzettino, una 17enne, "Abbiamo sentito il botto e visto l’anziana alzata da terra e poi finire sull’asfalto andando a sbattere contro un’auto in sosta. Sono stati momenti incredibili: la Panda della polizia locale si è fermata poco dopo. Il vigile è sceso e stava telefonando. Si è guardato intorno e subito è risalito in auto andandosene senza attendere i soccorsi e verificare le condizioni della donna". A chiamare il 118 è quindi un passante. L'ambulanza è arrivata tempestivamente, ma i soccorsi sono serviti a poco: circa tre ore dopo la donna è morta. Alla polizia stradale non resta che fare i rilievi sul luogo dell'incidente. E, tra i pezzi di carrozzeria e il racconto dei testimoni, stavolta ci vuol poco a risalire al pirata della strada.
Investe un’anziana che sta attraversando un viale del centro di Rovigo sulle strisce pedonali, ma invece di fermarsi a prestare soccorso scappa. La donna è morta poche ore dopo l’incidente. L’ennesimo caso di automobilista pirata, però, questa volta ha come protagonista un agente della polizia locale. Tutto è avvenuto sotto gli occhi di numerosi testimoni che, increduli, hanno riferito quanto avvenuto: «Ha investito la signora, si è fermato poco dopo ed è sceso parlando al telefono. Poi è risalito in auto, andandosene senza aiutare la donna», racconta una 17enne che stava chiacchierando con un’amica su una panchina vicina al luogo dell’investimento. Sono le 18 e viale della Pace è molto trafficato. Mirella Rondina, 85 anni, residente a pochi metri dal luogo dell’incidente, attraversa la strada sulle strisce pedonali, rialzate, ben segnalate e illuminate. Forse per andare nella struttura sanitaria privata Centro Medico. L’85enne è quasi arrivata sul marciapiede opposto quando da destra viene investita da una Fiat Panda della Polizia locale. «Abbiamo sentito il botto e visto l’anziana alzata da terra e poi finire sull’asfalto andando a sbattere contro un’auto in sosta. Sono stati momenti incredibili: la Panda della polizia locale si è fermata poco dopo. Il vigile è sceso e stava telefonando. Si è guardato intorno e subito è risalito in auto andandosene senza attendere i soccorsi e verificare le condizioni della donna». Ci sono molti altri testimoni e uno di loro chiama il 118. Dal vicino ospedale arriva un’autoambulanza del Suem che trasporta la donna al Pronto soccorso. Ha diverse ferite. Morirà dopo tre ore, verso le 21. Sul luogo dell’incidente arrivano una volante e poi una pattuglia della Polizia stradale di Badia Polesine. I poliziotti iniziano ad effettuare i rilievi, raccolgono pezzi di vetro e carrozzeria dell’auto pirata e iniziano a sentire i testimoni. In poco tempo il mosaico si completa: l’investitore è un agente della polizia locale alla guida di un’auto di servizio. Una volante viene inviata al comando di viale Oroboni, dove giunge anche il comandante Sabrina Patanella. Nel parcheggio si trova subito l’auto con i segni dell’investimento e si scopre chi è il vigile che poco prima si trovava alla guida: sono circa le 19 quando in uno degli uffici inizia l’interrogatorio dell’agente.
Poliziotti, tre anni a chi dormiva.
Da un’inchiesta de “L’Espresso”. Condanne pesanti a Rovigo per 22 agenti di Pubblica Sicurezza beccati grazie al Gps: in teoria erano in servizio, invece ronfavano beatamente nelle loro auto, parcheggiate nelle zone più tranquille della città.
Come nella commedia di Woody Allen "Il Dormiglione", 22 agenti della Polizia di Stato della questura di Rovigo si era ibernati durante le ore di servizio. Al momento di prendere servizio cadevano in letargo, in un lungo sonno notturno. Forse i sedili delle Volanti non erano comodi letti, ma ci si adattava piuttosto che sorvegliare le strade buie e fredde della città. Intanto, il servizio di pattuglia per le strade di Rovigo era sospeso fino alle luci dell'alba. E non era uno sporadico abbiocco di uno sparuto numero di poliziotti, ma una dormita collettiva durata mesi e mesi, tra la fine del 2007 e l'inizio del 2008. Tutti assegnati alle Volanti. Il giudice, Mirko Stifano, ha infatti usato la mano pesante: 22 condannati con pene da nove mesi a tre anni e sette mesi. Le accuse vanno dalla truffa al falso in atto pubblico. Una sola assoluzione, per l'agente in sala operativa che avrebbe, secondo il pm Ciro Savino, coperto due colleghi. Un problema di sicurezza poiché in servizio esterno c'erano 30 agenti e 22 sono stati beccati a dormire. Gli avvocati degli agenti hanno annunciato appello e respingono ogni accusa: i loro assistiti avrebbero solo fatto piccole soste per fare pipì o bere un caffè per tenersi svegli. Pare che gli agenti siano stati incastrati dall'occhio del satellite, cioè spiati con gps delle auto di servizio. Tenevano le radio collegate con la centrale, che registrava con il gps le posizioni delle auto, mentre gli agenti schiacciavano un sonnellino. E il satellite ha documentato le soste delle auto fuori dalle zone di competenza e rientri immotivati in questura nel cuore della notte. Il gps ha registrato, inoltre, che le Volanti si trovavano in aree cittadini più tranquille, o in un cantiere dell'Anas lungo la statale 16, dove i poliziotti sostavano a volte più di tre ore. Oltre a ciò, nelle schede degli obiettivi controllati non veniva segnato nulla, oppure perlustrati luoghi che non potevano essere raggiunti, poiché l'auto era ferma da tutt'altra parte. Per incastrare i poliziotti dormiglioni sono state utilizzate intercettazioni ambientali e le "cimici" nascoste nelle volanti, che hanno registrato i dialoghi fra gli agenti con gli spostamenti sospetti. L'inchiesta era partita quasi per caso, da una vicenda che vedeva implicato un poliziotto che avrebbe chiesto soldi per evitare controlli in un locale trasformato in un market della cocaina. L'accusa si rivelò falsa, ma intanto era partita una seconda inchiesta interna alla questura sulle lunghe assenze delle volanti nel pattugliamento della città. Poliziotti che controllavano, dunque, altri poliziotti. Gli agenti condannati sono stati da tempo trasferiti presso altre questure. Non è un fatto nuovo quello di dormire in servizio. Due anni fa furono le Iene a svelare i sonnellini notturni nelle vie di Roma di poliziotti e vigili urbani, dal Vaticano all'ambasciata americana, dal Parlamento alla Fontana di Trevi. Venivano svegliati da Giulio Golia delle Iene che portava ai dormiglioni una Moka piena di caffè.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Allucinante! Da “Il Corriere della Sera” si scopre che a Rovigo vi è un ampio fenomeno di assenteismo dei dipendenti pubblici, altro che Italia meridionale. L’inchiesta sulla sede locale della Regione La Procura: a giudizio 77 impiegati su 100. Salvi i dirigenti.
Tre impiegati su quattro della sede rodigina della Regione Veneto, indagati dalla Procura per truffa, dovranno affrontare la richiesta di rinvio a giudizio. Al termine delle indagini sono 77 su cento i lavoratori accusati di assenteismo per i quali l’azione giudiziaria procede. Sono 23 invece le posizioni archiviate. Tra questi, ad esempio, i dirigenti, che hanno dimostrato di non aver bisogno di autorizzazioni per i loro spostamenti. Altri dipendenti hanno saputo invece difendersi dall’accusa dimostrando che erano al lavoro in altri uffici della Regione, con regolare permesso. Un’altra parte di archiviati, poi, per la propria difesa ha utilizzato gli stessi filmati interni del palazzo della Regione acquisiti dalla Guardia di Finanza, convincendo la Procura della loro estraneità all’accusa di truffa. Non è stata invece contestata l’associazione a delinquere, che pure era al vaglio della Procura perché era stato ipotizzato che gli impiegati potessero aver formato dei «gruppi » in accordo tra loro per assentarsi dall’ufficio a turno, coprendosi l’uno con l’altro. Secondo l’inchiesta partita a inizio 2010 da un circostanziato esposto di un impiegato, i dipendenti pubblici per diversi mesi avrebbero timbrato regolarmente i loro cartellini, salvo poi uscire dalle rispettive sedi anche per diverse ore. Questo per fare la spesa o per svolgere impegni privati, sempre durante l’orario di lavoro. La conseguenza più diretta e immediata di questo, secondo l’impostazione della Procura, si è vista nei tempi di smaltimento delle pratiche burocratiche di competenza degli uffici rodigini della Regione. Ovvero Genio civile in larghissima parte più l’Ispettorato dell’agricoltura e l’Urp, l’Ufficio relazioni col pubblico. L’attesa degli utenti nell’ottenere una risposta si sarebbe dilatata a dismisura. Innumerevole il materiale raccolto dalle Fiamme Gialle rodigine dirette dal comandante Roberto di Tullio: perquisizioni negli uffici del personale; circa 170 ore di videoriprese e fotografie di impiegati assenteisti che timbrano ed escono dalla sede, spesso pochi minuti dopo aver strisciato il tesserino di servizio nell’apposita macchinetta. In più c’è l’acquisizione di tabulati, delle tessere magnetiche, dei fogli di presenza, dei permessi e ordini di uscita. A inchiodare i dipendenti della Regione in servizio a Rovigo nel cosiddetto «Palazzo di vetro» di viale della Pace ci sono anche gli esami degli hard disk del videoregistratore. Nel mirino della Procura sono finite anche le cosiddette «missioni esterne», ovvero gli incarichi fuori sede affidati dai dirigenti ai dipendenti per lo svolgimento del loro incarico.
Rovigo, l'inchiesta è nata da denunce interne, cento indagati. Gli inquirenti valutano l’associazione a delinquere.
Impiegati della Regione fotografati e videoripresi dalla Guardia di Finanza mentre rientravano al lavoro nella sede del cosiddetto «palazzo di vetro» a Rovigo con le borse della spesa in mano. Picchi di assenteismo particolarmente pronunciati nei giorni con le bancarelle del mercato in centro città, ovvero il martedì e il giovedì mattina. Sono alcuni degli aspetti della inchiesta della Procura di Rovigo che vede, al momento, iscritti nel registro degli indagati per truffa ai danni dello Stato quasi cento dipendenti della Regione distaccati a Rovigo. Considerato che negli uffici presi in esame dall’indagine vi lavorano 115 impiegati, negli inquirenti c’è il sospetto che non si tratti solo di comportamenti adottati individualmente e in questa fase stanno valutando se vi siano gli estremi per contestare anche un reato molto pesante come l’associazione a delinquere. Per lo meno nei casi più gravi, ovvero quelli di assenze particolarmente prolungate dal posto di lavoro e immotivate, c’è l’impressione che si siano formati dei veri e propri «gruppi» di impiegati e si siano messi d’accordo per assentarsi dall’ufficio a turno e coprendosi l’uno con l’altro. Le fiamme gialle stanno, ad esempio, cercando di appurare se dietro alle uscite dal posto di lavoro ci fosse una sorta di «organizzazione» deputata a pianificare le assenze dall’ufficio secondo parametri ben precisi. Una traccia in tal senso l’hanno fornita, a inizio 2010, le segnalazioni interne arrivate alla Guardia di Finanza. Una serie di lamentele riguardanti l’aggravio di carico di lavoro causato, secondo chi si è rivolto alle fiamme gialle, dal comportamento scorretto dei colleghi che timbravano il cartellino salvo poi uscire a piacimento. A quel punto l’indagine è scattata facendo ricorso a diverse tipologie. Sono state acquisite le immagini della videosorveglianza interna del palazzo di vetro da sei piani dove ci sono il Genio civile che occupa quattro piani più l’Ispettorato dell’agricoltura e l’Urp. Oltre a ciò, i finanzieri hanno anche piazzato delle proprie telecamere e scattato foto che immortalano i lavoratori che tornano in ufficio dopo esser stati al supermercato. Hanno eseguito dei controlli sul campo, con un militare in borghese, osservando i comportamenti dei dipendenti dentro e fuori gli uffici. E’ stato appurato che le assenze duravano in certi casi anche per diverse ore, e con punte particolarmente alte nei giorni del mercato settimanale a Rovigo, che è di martedì e giovedì. Proprio in quei due giorni, secondo gli inquirenti, il viavai dal palazzo di vetro verso le bancarelle era più intenso del solito. Col proseguire degli accertamenti si sono aggiunte altre tappe. Vale a dire le perquisizioni negli uffici del personale, circa 170 ore di videoriprese e fotografie di impiegati assenteisti. A questo materiale vanno aggiunti l’acquisizione di tabulati, delle tessere magnetiche, dei fogli di presenza, dei permessi e ordini di uscita. Sono state passate al setaccio le cosiddette missioni di servizio, ovvero i compiti di lavoro da svolgere all’esterno. A inchiodare i dipendenti della Regione in servizio a Rovigo nel cosiddetto «palazzo di vetro» di viale della Pace ci sono anche gli esami degli hard disk del videoregistratore. A tirare le somme di questa indagine piuttosto complessa, che entro febbraio dovrebbe concludersi, sarà il magistrato Sabrina Duò che la sta coordinando. A questo punto è facilmente ipotizzabile che non tutti gli indagati avranno le stesse contestazioni penali, visto che il quadro è molto articolato e i livelli di responsabilità sono diversificati. Toccherà al sostituto procuratore rodigino, poi vagliare un’ipotesi di reato come quella dell’associazione a delinquere.
Il palazzo dei fannulloni. Da “Il Resto del Carlino” e “Il Gazzettino” del 20 luglio 2011.
C’era chi andava a fare la spesa, soprattutto al mercato settimanale del martedì, chi entrava e usciva per più brevi commissioni o per un caffé. Chi invece si faceva timbrare il cartellino e non si vedeva in ufficio se non per qualche ora o chi addirittura usciva immediatamente dopo aver timbrato il cartellino, giustificando l’assenza come ‘missione’. Sono ben 101, su 115, i dipendenti della Regione Veneto della sede di viale della Pace, a Rovigo, che saranno chiamati a rispondere davanti ai giudici, a vario titolo e con diversa responsabilità, di truffa allo Stato e falso in atto pubblico per decine di episodi di presunto assenteismo. La Procura di Rovigo ha infatti chiuso nei giorni scorsi l’inchiesta, coordinata dal sostituto procuratore Sabrina Duò, che ha passato al setaccio il comportamento, sul luogo di lavoro, dei dipendenti del palazzo di vetro di Rovigo.
Le indagini, condotte dalla Guardia di Finanza, erano partite da alcune segnalazioni e lamentele all’inizio del 2010. Per verificare gli episodi di allontanamento dei dipendenti dal luogo di lavoro le Fiamme Gialle hanno monitorato tramite riprese video e fotografiche gli spostamenti del personale della Regione per diversi mesi. Oltre 170 ore di filmati che avrebbero accertertato che molti dipendenti, in pratica la maggior parte, d’abitudine si allontanavano dall’ufficio più volte nell’orario di lavoro. I finanzieri hanno poi proseguito l’indagine incrociando ai filmati e alle fotografie, una serie di documenti che vanno dai tabulati meccanografici, ai badge magnetici (i cartellini), ai fogli di presenza, agli ordini di uscita e i permessi, svolgendo esami tecnici anche sul materiale informatico, come ad esempio l’hard disk del videoregistratore.
Tutto il materiale era stato formalmente richiesto con decreto del magistrato alla Regione Veneto a luglio dell’anno scorso, quando le indagini già andavano avanti da alcuni mesi, ed era stato acquisito anche grazie alla collaborazione dei dirigenti e degli amministratori di palazzo Balbi a Venezia, come confermato anche dal vicepresidente della Regione Marino Zorzato, in qualità di responsabile delle risorse umane. Un lavoro certosino, quello delle Fiamme Gialle, che ha richiesto tempo ma che alla fine ha portato per ben 101 dipendenti all’accusa di truffa allo Stato e falso in atto pubblico. Due soltanto, nel corso dell’indagine le posizioni archiviate, dato che le indagini erano partite dall’esame di 103 posizioni. Ora toccherà ai giudici valutare la rilevanza di ogni singolo caso e ai dipendenti spiegare i motivi delle assenze, si sia trattato di pochi minuti o di ore, e dell’uso quantomeno disinvolto del cartellino.
Assenze ingiustificate anche di sei ore in una giornata lavorativa di otto. Finte missioni, shopping, visite al mercato settimanale e mille altre occupazioni. Tutto pur di non lavorare. Sono 101, su un totale di 115, i dipendenti assenteisti della sede di Rovigo della Regione Veneto a cui in questi giorni stanno arrivando gli avvisi di chiusura indagini nell'inchiesta della guardia di finanza di Rovigo, coordinata da sostituto procuratore Sabrina Duò, per truffa ai danni dello Stato e falso in atto pubblico.
Un fenomeno di vaste proporzioni che era continuato indisturbato fino alla metà del 2009, quando alcuni colleghi degli indagati, stanchi di sobbarcarsi anche il lavoro altrui, avevano denunciato i comportamenti truffaldini. Così era venuto alla luce un sistema di scambio di badge e di timbrature fatte per altri, con dipendenti che si allontanavano anche più volte nell'orario di ufficio, immediatamente dopo aver registrato l'ingresso e timbrato il cartellino. Oppure personale che si assentava per ore in missioni inesistenti che nessuno aveva autorizzato. Altro che pausa caffè. Presto era stato chiaro che non si trattava di fenomeni isolati, ma di un sistema ben collaudato e ripetuto, cui partecipava la quasi totalità dei dipendenti degli uffici di viale della Pace, dove hanno sede anche il Genio civile e l'Ispettorato per l'agricoltura.
Nel corso dell'inchiesta sono state analizzate a una a una le posizioni dei dipendenti degli uffici rodigini: un lavoro certosino delle fiamme gialle e della Procura che si è concluso nei giorni scorsi e che ha comparato le entrate e le uscite dei dipendenti, con i permessi, le missioni, i timbri di cartellino, le uscite per servizio, i tabulati meccanografici, le badge card e tutto quanto potesse in qualche modo giustificare l'assenza dal posto di lavoro. Il risultato finale è stato quasi un "en plein".
Complessivamente gli accertamenti hanno interessato 103 persone. Solo in due casi gli investigatori hanno accertato la perfetta regolarità e la corrispondenza tra le ore lavorate e quelle registrate con le relative timbrature del cartellino. Per tutti gli altri sono state accertate assenze dal posto di lavoro ingiustificate che vanno da poco più di un quarto d'ora fino a sei su otto ore lavorative. Ora i 101 indagati avranno tempo venti giorni per presentare memorie difensive e chiedere di essere sentiti dal pubblico ministero. Dopo di che il magistrato potrà procedere alle richieste di rinvio a giudizio.
L'inchiesta è stata lunga e articolata. Gli inquirenti, attraverso le riprese video e fotografiche, centinaia e centinaia di ore di filmati, avevano ricostruito i movimenti dei dipendenti. Da quelle riprese le conferme: molti si allontanavano anche più volte nell'orario di ufficio. Tanti appaiono nei filmati mentre rientrano con le borse della spesa: il fenomeno dell'assenteismo raggiungeva le punte massime il martedì e il giovedì, i giorni di mercato in città. Ma evidentemente gli indagati trovavano anche altri modi per impiegare il tempo, visto che le assenze spesso si protraevano per ore.
MAGISTROPOLI
Violante ad Alfano: ispettori in Procura a Rovigo: «Bloccano la centrale».
Alfano dovrebbe mandare gli ispettori ad indagare sui pm di Rovigo, rei, a quanto pare, di aver bloccato la trasformazione della centrale Enel di Porto Tolle a olio combustibile in una a carbone, meno inquinante secondo Luciano Violante. È questo il "consiglio" che l'ex presidente della commissione Antimafia ha dato, durante Cortina Incontra, al Guardasigilli Angelino Alfano. La notizia è riportata oggi sulle pagine del Fatto Quotidiano.
L'articolo di Peter Gomez riporta il ragionamento di Violante il quale, secondo il giornalista, fa intendere come l'organo giudiziario nel caso di Rovigo sia diventato un organo di governo. I magistrati della procura rodigina, spiega Violante, avrebbero «intimidito la commissione impatto ambientale» che avrebbe dovuto dare il via libera agli interventi, con l'emanazione di un decreto nel quale si chiedeva di far avere ai giudici le decisioni che sarebbero state prese al riguardo, presentando, sempre secondo Violante, altro se non «una richiesta di sequestro futuro» (Violante con questo intervento ha citato il suo libro "Magistrati"). E secondo l'ex presidente Antimafia, anche nel momento in cui il problema è passato nelle mani del ministero dell'Ambiente, i pm rodigini avrebbero proseguito sulla stessa strada, domandando al ministro «il provvedimento emesso».
A questo punto però Gomez fa presente che Violante è "animatore e presidente" di Italia Decide, associazione che vede, fra i propri fondatori, proprio Enel spa, la perseguitata dai magistrati di Rovigo. Dopodiché il giornalista riporta la vicenda processuale della centrale di Porto Tolle, dando un perché al presunto "accanimento" dei magistrati contro lo stabilimento concettualizzato da Violante: "mentre si moltiplicavano gli esposti e i ricorsi al Tar dei comitati cittadini (contro la centrale n.d.r) - scrive Gomez -, i pm di Rovigo hanno cercato di capire se installare una centrale a carbone comportasse dei rischi". Questo, riporta sempre il Fatto, anche alla luce della segnalazione, da parte dei consulenti tecnici della procura che hanno esaminato la documentazione, "dell'esposizione da parte di Enel di dati ritenuti non reali che portano a elaborazioni viziate". E sarebbe stato proprio questo, per Gomez, a suscitare la richiesta contestata da Violante dei pm al ministero dell'Ambiente.
Foto e «lista di viaggio»: la festa della giudice che imbarazza Rovigo. Gli invitati potevano versare, in vista della festa, denaro per lei in agenzia: una sorta di lista di nozze per un viaggio in una meta paradisiaca. All'evento hanno partecipato consulenti tecnici del tribunale, legali, notai, scrive Virginia Piccolillo il 2 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". C’è un nuovo caso che fa rumore a Rovigo e crea imbarazzo in Tribunale perché coinvolge un magistrato. A pochi giorni dalla sospensione decisa dal Csm del sostituto procuratore Davide Nalin — coinvolto nella vicenda del consigliere di Stato Francesco Bellomo sulle aspiranti toghe che frequentavano i corsi della sua scuola, costrette a indossare minigonna e tacchi a spillo — nei corridoi del palazzo di giustizia non si parla d’altro che di una festa memorabile. Degli invitati e degli esclusi, in entrambe le categorie molti frequentatori abituali del tribunale. E della «lista di viaggio» in favore della festeggiata: Alessandra Paulatti, giudice della sezione civile. Al party per i 64 anni della magistrata, in una discoteca, raccontato in qualche post su Facebook, subito rimosso su sua richiesta, ha partecipato la Rovigo che conta: magistrati, avvocati, notai, consulenti del tribunale. Qualcuno in maschera, inclusa la stessa giudice. Alcuni sono arrivati con un cadeau, altri invece hanno accolto di buon grado l’idea della giudice di aprire una sorta di «lista di nozze» presso un’agenzia della città, per un viaggio in una meta paradisiaca. E qui si è subito accentrato il chiacchiericcio sulla opportunità dell’iniziativa. Giacché il regalo consisteva in un contributo, ovviamente in denaro, alla realizzazione dell’iniziativa. E visto che tra gli ospiti c’erano consulenti tecnici del tribunale, legali, notai, c’è chi lo considera inopportuno. Anche se la magistrata è nota per comportamenti anticonvenzionali e qualcuno sottolinea i modi un po’ bruschi che caratterizzano alcune sue udienze. All’agenzia «Casa del Viaggio», in corso del Popolo a Rovigo, confermano l’esistenza della sottoscrizione per la giudice Paulatti. Ma un’impiegata chiarisce: «La lista è stata compilata. Ma adesso non si può più partecipare. È già chiusa. Del resto la festa c’è già stata almeno due settimane fa». A sentire i partecipanti ci si è divertiti molto. «È stata una festa molto simpatica, organizzata con gusto ed allegria. C’era una grande torta a forma di giardino fiorito. E anche la maschera della festeggiata voleva ricordare un’aiuola. Non si è andati oltre. Ma non mi citi perché anche io frequento per lavoro il tribunale», riferisce un avvocato, chiedendo il riserbo per «motivi di opportunità». Un’esigenza molto diffusa. In tribunale è tutto un «zitti, zitti». Mostrano foto ma non vogliono che si pubblichino. Per evitare che si possano sovrapporre i piani: quello festaiolo e quello della dialettica in aula. A maggior ragione nessuno ammette di aver partecipato alla sottoscrizione per il viaggio. Il desiderio di far cosa gradita potrebbe essere equivocato, spiegano, con il tentativo di ammorbidire quel suo carattere non facile. Ma proprio da qui nasce l’imbarazzo. Non giova certo il momento. La cittadella giudiziaria veneta è ancora sotto choc per il caso Nalin. Il giovane sostituto, che faceva parte del pool antiviolenza di genere, è stato prima messo cautelativamente fuori ruolo dal Consiglio superiore della magistratura e ora indagato per stalking nei confronti della giovane borsista della Scuola di Bellomo. Secondo alcuni ospiti anche lui era nella lista degli invitati, ma non avrebbe partecipato proprio perché in piena bufera giudiziaria. I due magistrati hanno in comune un altro caso finito negativamente agli onori delle cronache: quello della bambina Eleonora Gavazzeni, nata tetraplegica a causa di errori in sala parto riconosciuti dalle perizie nel giudizio di secondo grado e, dopo 9 anni, ancora in attesa di un risarcimento. In primo grado Nalin non volle insistere per chiedere una consulenza tecnica, e le ginecologhe vennero assolte, ora deve pronunciarsi la Corte d’Appello di Venezia. Giudice del processo in sede civile la Paulatti, ricusata dal legale della famiglia Gavazzeni che le contestava «ostilità», decise poi di astenersi.
Rovigo, Nalin sospeso e messo fuori ruolo. Il Csm non crede al magistrato. Il pm si difende: "Provvedimento che non comprendo, lo impugnerò", scrive il 18 dicembre 2017 "Il Resto del Carlino". Sospeso il pm Nalin. Ieri il Csm ha emesso il suo verdetto, sospendendolo in via cautelare dalle funzioni e dallo stipendio e collocandolo fuori ruolo organico dalla magistratura. Il giovane sostituto procuratore di origine padovana, a Rovigo da quasi quattro anni, paga molto cara la sua vicinanza e la sua stretta collaborazione nella scuola e nella rivista ‘Diritto e Scienza’ con il consigliere di Stato Francesco Bellomo. “Finora – è la difesa di Davide Nalin – ho ritenuto opportuno non intervenire nel dibattito mediatico, pur essendo stato bersaglio di una campagna diffamatoria senza eguali, che mi ha fortemente addolorato ed i cui effetti hanno colpito non solo me, ma anche la mia famiglia e persino la mia funzione di magistrato. Tuttavia, anche per tutelare il mio ufficio di appartenenza, mi vedo costretto a rilevare che le affermazioni apparse sulla stampa sono completamente destituite di fondatezza, essendomi limitato, per un verso, a raccogliere confidenze di due amici, per altro verso, a partecipare ad attività scientifiche, esercitando così una facoltà riconosciuta ad ogni giurista. Non è affatto vero – prosegue – che mi sia prodigato per indurre ragazze ad assecondare richieste illecite del consigliere Bellomo. Non ho mai fatto nulla di tutto ciò, così come nulla che potesse essere letto come costrizione, men che meno facendo leva sulla mia figura istituzionale. Non posso credere che su mere illazioni si sia costruito tutto quanto ho letto in questi giorni, con una critica che, dapprima avente ad oggetto la mia persona, si è poi estesa addirittura al ruolo di pubblico ministero da me esercitato, mettendo in discussione il mio intero operato. Infine, ho saputo oggi di essere stato sospeso in via cautelare. Si tratta di un provvedimento che fatico a comprendere, che inevitabilmente impugnerò, continuando ad avere fiducia nella magistratura, alla quale ho dedicato la mia vita”.
Il Csm ha accolto tutte le richieste sanzionatorie avanzate pochi giorni fa dal Pg della Cassazione Pasquale Ciccolo, che ha dato il via all’azione disciplinare nei confronti del magistrato. Dal Pg, Nalin è accusato di aver fatto da “mediatore" tra Bellomo e una borsista per procurare al collega barese «indebiti vantaggi”, anche di “carattere sessuale”. Ciccolo nella sua requisitoria non ha fatto sconti. “Occorre evitare – le sue parole – che Nalin possa reiterare condotte gravemente scorrette e incompatibili con le funzioni giudiziarie» aveva scritto Ciccolo nel motivare la sua richiesta «perché si tratta di vicende di tale degrado da ledere non solo la personale credibilità del pm, ma anche quella dell’intera giurisdizione”.
Consiglio di Stato, minigonne obbligatorie e il divieto di matrimonio: scandalo alla scuola per futuri magistrati. Pugno duro - Verso la destituzione il consigliere Bellomo: gli strani criteri di selezione della sua scuola per futuri magistrati, scrive Carlo Tecce l'8 dicembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Clausola del fidanzato, divieto di matrimonio e obbligo di minigonne – “fino a un terzo della distanza dall’anca al ginocchio per le occasioni mondane” – scelta meticolosa delle calze e della marcatura del trucco. Una totale sottomissione al docente. Più che studi di formazione al concorso in magistratura, quelli della società Diritto e Scienza erano “addestramenti”, termine che rivendica il direttore scientifico Francesco Bellomo, quarantenne di Bari, ex magistrato ordinario, ora consigliere di Stato. Il contratto per i borsisti della scuola non rispetta la “libertà e la dignità della persona”, sottolinea invece il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (guidato da Alessandro Pajno) che ha approvato la destituzione, cioè la rimozione dall’incarico di Bellomo. Per rendere effettiva la sanzione più grave, però, occorre il parere dell’adunanza dei consiglieri. Ma il racconto che emerge dal dibattimento è inquietante. Palazzo Spada ha aperto un’istruttoria dopo l’esposto del padre di un’allieva. Ha ascoltato la figlia, in passato legata al consigliere, e un’altra ragazza. Ha esaminato gli articoli della rivista di Diritto e Scienza e le fonti – anche dei carabinieri – che hanno contribuito a ricostruire la delicata vicenda. Poi ha elaborato un documento finale – che il Fatto ha visionato – in un cui riassume i quattro addebiti disciplinari che “violano il prestigio della magistratura”. Il primo riguarda i rapporti – anche personali – fra il docente e le allieve e le imposizioni ineludibili per non perdere la borsa di studio: “Risulta che era il consigliere Bellomo a sottoporre a colloquio gli aspiranti a tale borsa di studio e a selezionarli. L’accesso alle borse di studio comportava per i borsisti la sottoscrizione di un vero e proprio contratto. Il contratto prevede numerosi impegni dei borsisti nell’interesse della società, tra cui la scrittura di articoli per la rivista Diritto e Scienza, la partecipazione a studi e convegni, la promozione dell’immagine della società. (…) È emerso che conteneva una clausola limitativa relativa a matrimonio e fidanzamento: decadenza in caso di matrimonio; fidanzamento consentito solo se il/la fidanzato/a risultasse avere un quoziente intellettuale pari o superiore a un certo standard; competeva al consigliere stabilire se i fidanzati o fidanzate dei o delle borsiste superassero il quoziente minimo necessario per essere fidanzati e/o ammessi/e (ciò appare particolarmente significativo). È stato poi dichiarato che, allegato a tale contratto, vi fosse un documento contenente il cosiddetto dress code, che prevede diversi tipi di abbigliamento dei borsisti a seconda delle occasioni. Per l’abbigliamento femminile si fa anche menzione alla diversa lunghezza della gonna, del tipo di calze e del tipo di trucco”. La “qualità” del fidanzato/a influiva sul percorso di formazione dei borsisti: “Dalla rivista giuridica della società si desumono le modalità e gli strumenti valutativi per attribuire il punteggio che consente di beneficiare delle borse di studio di fascia A e di fascia B. Per quanto riguarda il genere femminile, i criteri di scelta si riassumono in potere/successo; intelligenza; capacità di amare; bellezza; personalità. Per quanto riguarda, invece, i criteri di scelta del genere maschile: bellezza; femminilità; attitudine materna; intelligenza; eleganza”. E dopo la promozione o la bocciatura cosa succedeva? Una borsista, rivela una ragazza, aveva deciso di lasciare il fidanzato perché ambiva alla fascia A e Bellomo le aveva proposto di “sottoscrivere un contratto con il quale si impegnava a corrispondergli 100 mila euro se non avesse tenuto fede a questa decisione”. Il borsista era costretto a un vincolo di riservatezza assoluto, l’unico referente era Bellomo. E dunque il direttore scientifico poteva “esporre in pubblico la vita personale della borsista inadempiente”, durante le lezioni e negli articoli. È accaduto a un’ex allieva e fidanzata di Bellomo. Il relatore Sergio Zeuli “cita alcuni argomenti della vita della donna riportati nelle riviste, gli incontri con il suo fidanzato, i luoghi dove avvenivano questi incontri, anche di natura sessuale, le descrizioni degli incontri e tutta una serie di particolari intimi, sui quali per decenza evita di intrattenersi”. Per Palazzo Spada, Bellomo è colpevole pure di aver gestito la società Diritto e Scienza come un amministratore, ben oltre l’incarico di insegnamento, autorizzato dal Consiglio di Stato dal 2009 al 2016. E non solo. Ha tentato di sfruttare la sua posizione di magistrato per ottenere l’accompagnamento coattivo dai carabinieri dell’ex allieva e fidanzata per una “conciliazione” in caserma. Il consigliere Hadrian Simonetti, per sostenere la richiesta di destituzione, conclude l’intervento con l’implorazione del padre della ragazza: “Vi chiedo con il massimo rispetto, quale cittadino e quale padre, se un alto magistrato che appartiene a un organo così illustre della Repubblica possa accanirsi così, anche avvalendosi di una procedura apparentemente legale, nei confronti di una giovane ragazza in evidente stato di inferiorità. Mi chiedo se l’immagine del Consiglio di Stato sia compatibile con una scuola che pubblicizza con il nome di borse di studio contratti che si rilevano un capestro per i firmatari. Mi chiedo se l’immagine del Consiglio di Stato sia compatibile con un contratto/borsa di studio nel quale è imposta l’assoluta segretezza e dove si chiede fedeltà assoluta a una persona, dove si coartano scelte personalissime e diritti inviolabili della persona e dove uomini e donne sono classificati in esseri superiori e inferiori”. Il Consiglio di presidenza ha risposto con la punizione più severa. Adesso il Csm dovrà valutare la condotta di un magistrato, collaboratore del capo di Diritto e Scienza. Contattato dal Fatto per una replica, Bellomo ha spiegato che non può parlare finché non sarà chiuso il procedimento disciplinare.
Gogna per le “ribelli” e “trasgressività”: il codice-magistrate. I criteri della scuola di formazione giuridica del consigliere di Stato Bellomo. “Le minigonne? Lo dice anche Ichino”, scrive Marco Franchi il 10 dicembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il Consiglio di Stato ha aperto un’istruttoria dopo l’esposto di un padre di un’allieva, “vittima” del sistema Bellomo, ex magistrato ordinario, consigliere di Palazzo Spada e soprattutto dominus dei corsi di formazione per magistrati della società “Diritto e scienza”. Le regole – anzi i “contratti” – di “Diritto e scienza” prevedono per le borsiste obbligo di minigonna in determinate situazioni, valutazioni sugli standard dei fidanzati (alcuni quindi sono stati lasciati…) e norme sui matrimoni. Il tutto – secondo il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa – ha rappresentato una violazione del “prestigio della magistratura”. Bellomo dunque è stato proposto per la destituzione. Ecco una breve antologia del sistema-Bellomo.
Le regole, i fidanzati e la teoria di Darwin. Il codice di condotta di Bellomo è stringente: “Il borsista è vincolato alla fedeltà nei confronti del direttore”; “La scelta del partner (del borsista, ndr), applicando i dettami della teoria della selezione naturale, deve cadere sul soggetto che presenta le caratteristiche più vantaggiose. La preferenza deve essere dunque accordata al soggetto più dotato geneticamente”. E ancora: “La negazione dei criteri scientifici porta come inevitabile conseguenza che l’operatore orienti le proprie scelte verso il modello rispettivamente del fidanzato sfigato e della donna oggetto”. Una delle studentesse racconta: “C’era anche una clausola riguardante la scelta del fidanzato. Le borsiste avrebbero dovuto assegnare un punteggio algoritmico al loro fidanzato e confrontarlo con il punteggio assegnato da Bellomo. Se i due punteggi non coincidevano, prevaleva quello assegnato dal consigliere Bellomo”. Anche perché il borsista – sempre secondo il codice – “non potrà mantenere o avviare relazioni intime con soggetti che non raggiungano il punteggio di 80/100 se appartenente alla prima fascia, di 75/100 se appartenente alla seconda fascia. Il borsista decade automaticamente non appena contrae matrimonio”.
Che eleganza questo “dress code”. Il punto 4 del codice prevede, inoltre che “il borsista deve attenersi al dress code in calce e, comunque, deve curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurarne il più possibile l’armonia, l’eleganza, la superiore trasgressività”.
La “dottrina” del lavoro e il lodo iraniano. Proprio riguardo al dress code la difesa di Bellomo – sostenuta dal consigliere Birritteri nell’udienza del consiglio di presidenza della giustizia amministrativa che poi deciderà di rimuovere il magistrato – cita: “Pietro Ichino nel suo trattato del 2003, affronta proprio il problema del dress code e dice: ‘Accade che il datore di lavoro chieda al prestatore il rispetto di disposizioni circa l’abbigliamento o l’aspetto personale’. È chiaro che l’obbligo del prestatore di lavoro è perfettamente identico all’obbligo contrattualmente assunto da un borsista. (…) ‘Questo vale anche per la pattuizione dell’obbligo di portare abiti moderatamente-sexy, quando la particolarità dell’abito non sconfini nell’indecenza. Minigonne e camicie attillate – sempre la citazione di Ichino della difesa di Bellomo – non possono considerarsi di per sé lesive della dignità della persona’.” Ma la difesa di Bellomo va oltre: “Viviamo brutti tempi, mi preoccuperei più che delle minigonne delle giuste preoccupazioni delle hostess dell’Air France. Sapete perché hanno protestato? Perché la compagnia ha ripreso i voli per Teheran e non hanno apprezzato le hostess. La circolare interna della compagnia ha richiesto loro l’obbligo di indossare pantaloni, una giacca lunga e di coprire la testa e i capelli con un velo al momento dell’uscita dell’aereo. Preoccupazioni esattamente opposte. Ora dico: forse dovremmo preoccuparci di più di chi ci vuole mettere il burqa e il velo in testa anziché contestare un dress code”.
La gogna sulla rivista scientifica. Diritto e scienza è anche una pubblicazione curata dallo stesso magistrato ed è oggetto anche essa dell’incolpazione nei confronti di Bellomo. Ha ospitato contenuti difficilmente ascrivibili alla “scienza” giuridica. In particolare vi sono riportate le vicende personali di una borsista – indicata con nome e cognome – come gli incontri con un suo fidanzato, i luoghi dove avvenivano questi incontri, anche di natura sessuale, le descrizioni e tutta una serie di particolari intimi in evidente violazione della privacy. Sugli accadimenti della vita personale di questa donna si scatena poi una sorta di “caccia all’uomo”, nella quale vari lettori della rivista intervengono per commentare le scelte e i fatti personalissimi della borsista. Alla quale dedica risposte lo stesso Bellomo, scientificamente s’intende: “È vero, lei ha evidenti limiti che l’addestramento non ha risolto, ma dell’immensa quantità di donne che ho avuto, peraltro di elevata qualità media, lei è stata una delle poche, se non l’unica, a non avermi fatto sentire solo. Se perderla è il prezzo che pago per le pubblicazioni, è alto. Mi consolo con l’utilità didattica che hanno avuto. Lo sviluppo palesato dagli allievi, costretti ad applicare categorie scientifiche ad una storia di vita, è stato eccezionale”.
La scienza dell’amore: una e-mail. Sempre nel rispetto della scienza giuridica, così Bellomo presenta un numero della sua rivista del 2013: “Il 30 agosto ricevetti una e-mail. “Se è vero tutto quello che mi hai detto, noi dobbiamo stare insieme. (…) Dovremmo stare insieme, oggettivamente. I sentimenti possono mutare (…), ma la realtà non cambia. Seguire la via razionale non è stato uno sbaglio”. “Seguire la via razionale non è stato uno sbaglio…”. Per convincermi aveva impiegato la teoria delle “convergenze geometriche”, che io stesso avevo elaborato come versione moderna del mito platonico dell’anima gemella”. Però gli amanti – nel mondo reale – falliscono. La donna cambia idea, adduce “un episodio – scrive Bellomo – a suo giudizio gravissimo di cui ero stato responsabile, aggiungendo: ‘Non facciamoci altro male. Ti auguro ogni bene’”. Bellomo rimugina: “‘I sentimenti possono mutare (…), ma la realtà non cambia’. In un mese aveva cambiato idea su una cosa che non ammette mutamenti. E che lei stessa aveva definito immutabile”. I lettori di Diritto e scienza avranno capito di chi si tratta? Avranno indovinato chi ha infranto il codice?
LO SBERLEFFO Vedi alla voce “Ripubblica”, continua "Il Fato Quotidiano". “Minigonna imposta alle allieve, due magistrati rischiano il posto”. Lo leggiamo su Repubblica e proviamo uno strano senso di déjà vu. Dove l’abbiamo sentito già? Mistero. Andiamo avanti. “Un consigliere di Stato, Francesco Bellomo, già proposto per la destituzione dai suoi colleghi. (…) Due toghe – che avevano ricevuto distinte autorizzazioni per insegnare diritto alla scuola di formazione ‘Diritto e Scienza’ – avevano elaborato codici di comportamento lesivi della libertà dei partecipanti: Bellomo, il direttore, intrecciava diritto e rapporti con le studentesse”. E ancora: “Un codice di comportamento per guadagnare punti per il concorso da magistrato. Che prevedeva un rigido dress code, minigonne e tacchi a spillo, ben visibili nelle foto del sito. Niente matrimonio, fidanzati valutati per vedere se le aspiranti magistrate meritassero la fascia A o B. Rapporti sentimentali plurimi”. Tutto già letto. Ma dove? Ecco dove: sul Fatto Quotidiano del giorno prima. Altri giornali hanno ripreso lo scoop del nostro giornalista Carlo Tecce, citando la testata su cui era stato pubblicato. Repubblica invece no. Ripubblica e si dimentica la fonte.
Bellomo e il caso delle magistrate molestate: «È innamorata di me». Così il consigliere di Stato parlava delle aspiranti magistrate che seguivano il suo corso. La vita intima di una borsista con cui aveva avuto una relazione rivelata in ogni dettaglio ai lettori della rivista giuridica trasformata in chat, scrive Virginia Piccolillo il 10 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Si può discutere di diritto rendendo «caso» la vita intima di una donna da cui ci sentiamo traditi? E renderla oggetto di decine di numeri di una rivista giuridica, con nome, cognome, foto, mail. È davvero «Diritto e Scienza», o assomiglia più a una vendetta in chat? Il caso del consigliere di Stato, Francesco Bellomo, che secondo l’organo di autogoverno dello stesso Consiglio di Stato non deve più vestire la toga (manca il parere dell’adunanza), solleva nuovi interrogativi. Legati alla rivista del suo corso per aspiranti magistrati, che il Corriere ha avuto modo di sfogliare. Un quesito lo dovrà risolvere anche il CSM, su quel pm anti-violenza sulle donne, Davide Nalin che alla rivista collaborava senza nulla eccepire. Malgrado della borsista lui raccontasse tutto: «Pochi giorni dopo confessa di essersi innamorata di me. Sono abituato a sentirmelo dire e la mia reazione è sempre di neutralità, perché così sono costruito. Ma questa volta non resto indifferente». Disamina con i lettori la «mediocrità della vita» di lei. Racconta il punteggio algoritmico che le aveva chiesto di assegnare all’ex fidanzato con cui lei dopo un po’ si rivede. Rivela: «Lei intuisce l’abnormità della sua condotta e cerca di giustificare il perché aveva fatto l’amore ...».
La testimone. Di «violenza psicologica» parlano in molte. Dopo la testimonianza al Corrieredel padre che ha rivelato il dramma della figlia giunta «al limite del suicidio», un’allieva, «ancora terrorizzata da Bellomo, che sa tutto e vede tutto come l’occhio del Signore degli Anelli» e «ha il potere assoluto per farti passare o bocciare al concorso in magistratura», rivela dal di dentro quel clima. «All’inizio il corso sembrava normale. Poi iniziava la selezione. Lui aveva un gruppo, come una setta. Ti dicevano cose strane». Tipo? «“I borsisti sono una razza superiore perché saranno futuri giudici”. “Chi è contro Bellomo non sarà mai un giudice”, perché lui è potentissimo. E chiedevano: “Se ti invitasse a casa sua ci andresti?”». Poi la prova stile Weinstein: un incontro privato. «C’è chi dopo quella prova non è più tornata al corso — racconta ancora l’aspirante magistrato —. Chi tornava invece non era più uguale a prima. Super-minigonne, total black e non ti rivolgeva più la parola. Bellomo finita la lezione parlava solo con loro. Una ragazza l’abbiamo vista dopo essere diventata borsista baciarsi con lui in pubblico. Tu pensavi, ma che c’entra col diventare giudice? Però molti avevano pagato in anticipo. Altri temevano che non ti facesse passare l’esame».
La rivista. Del tutto anomalo il contenuto della rivista diretta da Bellomo. In un numero racconta l’antefatto di quello che definisce un «caso emblematico»: quando la borsista «supera la prima selezione, ma all’inizio della seconda, dopo un minuto, cade in contraddizione sul regolamento e la dichiaro inidonea». Poi, scrive, «al chiaro scopo di ottenere una seconda chance, lei adotta un look analogo a quello indicato nel dress code allegato al regolamento, non perdendo occasione per mettersi in evidenza. A marzo accetta tutte le condizioni, firmando il contratto di durata annuale». Tra le quali «fedeltà all’Agente Superiore». E il fatto che «i risultati dell’attività di addestramento possono essere oggetto di analisi nella rivista». Lui stesso rivela l’appuntamento una settimana dopo «non in occasione del corso. Lei si organizza tacendo ai genitori finalità del viaggio». Poi racconta «l’innamoramento» e il presunto «tradimento». E rivela fatti intimi per mesi. «Si succedevano i numeri della rivista — scrive lui stesso — per dimostrare la natura della fanciulla e la falsità della sua rappresentazione avevo messo in campo i massimi sistemi»: algoritmi, teorie sociali. «Aveva detto non avrò mai più contatti con lui. Il “mai” erano stati 6 mesi» scrive. E mette nero su bianco il ricatto: «Avevo prospettato la revoca della borsa di studio qualora lo avesse rivisto». Eppure per il pm Nalin non c’era «nulla di strano».
"L'HO DENUNCIATO E LUI MI HA MANDATO I CARABINIERI A CASA", scrive Giuseppe Baldessarro per "La Repubblica", l'11 dicembre 2017.
«Mia figlia sta meglio. Bene, ma non ancora benissimo. Ha ripreso a mangiare, e a studiare. Un'ora al giorno. Poca roba rispetto a quanto studiava in passato, ma è un altro passo verso la normalità».
Parla con voce titubante il padre che ha denunciato il consigliere di Stato Francesco Bellomo. Sua figlia, lui stesso e sua moglie, ora «vogliono dimenticare» e tornare alla vita normale. Mentre lui parla la moglie continua a dirgli «chiudi il telefono, non parlare con i giornalisti».
Come sta oggi sua figlia?
«È ancora in cura, entra ed esce dall' ospedale tutte le settimane. Fa sedute con gli psicologi, nonostante sia passato un anno dai fatti. Sta provando a raccogliere i cocci di una vicenda che ha lasciato macerie. Ma la prego, di più non mi faccia aggiungere. Questa storia le ha distrutto la vita e continua a lasciare per strada cicatrici che faticano a guarire. E ogni volta che se ne parla le ferite tornano a riaprirsi».
Sua figlia studia di nuovo?
«Ci sta provando, un po' per volta. Spero che ce la faccia. Tenga conto che lei, laureata alla Cattolica di Piacenza, è stata premiata come una delle 12 migliori allieve di tutti corsi, non solo quello di legge, e di tutta Italia. Ha fatto l'apprendistato come avvocato. Ha frequentato la scuola di Parma per due anni. Solo dopo è cominciata l'avventura di "Diritto e scienza". Ma ora noi vogliamo solo la sua serenità, passo dopo passo».
Quando ha deciso di denunciare Bellomo?
«Guardi, non posso aggiungere altro se non che mia figlia è stata sotto ricatto per troppo tempo».
Cosa ricorda dei carabinieri che bussavano alla sua porta?
«Sono venuti più volte, mandati da lui, volevano che mia figlia firmasse un atto di conciliazione. Sono venuti a maggio, e poi a ottobre, ma lei era in ospedale».
Cos' è successo quando sua figlia ha staccato i cellulari?
«Sì, ha cambiato il cellulare, ha cancellato l'account su Facebook, per non essere raggiunta in alcun modo, ma lui ce l'ha fatta lo stesso attraverso i carabinieri».
Bellomo ha fatto esposti contro lei e sua figlia chiedendo100mila euro di risarcimento.
«Solo 100mila? Voleva molto di più. Sta provando tuttora a distruggerle la vita. Ma quello che ho fatto lo rifarei ancora».
Cosa spera oggi?
«Di tornare alla nostra serenità. Ma è ancora troppo presto per dimenticare».
L'ASPIRANTE MAGISTRATA "COSÌ IL PROF MI MINACCIAVA", scrive Liana Milella per "La Repubblica" l'11 dicembre 2017. «Il consigliere Bellomo mi ha rivolto anche minacce dirette. C' è stato un periodo in cui aveva iniziato a trattare anche al corso e a parlare con me di autotutela. Prefigurava la possibilità che anche il mio caso sarebbe finito sulla rivista». Ecco il drammatico interrogatorio della studentessa che teme di finire, come le sue colleghe, su " Diritto e scienza", la rivista della scuola.
La clausola del fidanzato. «Ho iniziato a frequentare il corso nel 2014- 2015 a pagamento. Non avevo fatto domanda per la borsa di studio in quanto alcune clausola, come l'obbligo di segretezza, avevano destato in me perplessità. Avevo letto il caso di una collega che era stata sottoposta a due prove, un giro in macchina a velocità elevata e una passeggiata in una zona urbana connotata da microcriminalità». La studentessa descrive Bellomo «docente di tutte e tre le materie, diritto civile, penale, amministrativo, l'impressione è che lui facesse tutto». È il factotum di " Diritto e scienza". «Ho espresso perplessità sul dress code obbligatorio. Sulla clausola del fidanzato non sollevai obiezioni perché non ero fidanzata. Bellomo mi ha detto che potevo mantenere rapporti amichevoli con lui, studente dello stesso corso, facendomi capire che non raggiungeva il punteggio algoritmico sufficiente per poter avere una relazione sentimentale».
Le lacrime al ristorante. «Siamo andati a cena. Mi ha chiesto l'elenco dei miei ex. Ne è nata una discussione perché non gli avevo detto di aver avuto un incontro intimo con il mio ex. Bellomo si è alterato, io ho pianto. Quella sera, con un bacio, è iniziata la nostra relazione. Mi ha detto che era una grande opportunità per me e che se le cose non fossero andate bene ognuno sarebbe tornato alla sua vita». La relazione diventa morbosa. «Mi chiese di non avere più contatti con il mio ex. Dopo un contatto con lui Bellomo si è arrabbiato dicendomi "pacta sunt servanda"».
La rottura e gli attacchi di panico. Nell' aprile 2016 cominciano gli «screzi». Entra in scena il «mediatore» Nalin. «Quando mi fu detto che avrei dovuto parlare di cose intime con lui ho avuto un attacco di panico. Bellomo mi dice che stava chiudendo il numero della rivista che si era occupata del caso di un'altra ragazza e che c'era spazio anche per me. Protestai perché c'era il nome dell'interessata». La rivista era pubblica, ma poi lo fu «solo tramite codici e password». Bellomo «dice che i miei comportamenti fanno parte del medesimo disegno criminoso. Mi contesta il reato di truffa. Minaccia il trattamento sanitario obbligatorio e lo sputtanamento sulla rivista».
Le pressioni sull' Arma. Gli ufficiali dell'Arma applicano una vecchia norma e bussano più volta a casa della ragazza. Ma scrivono al procuratore di Piacenza Cappelleri: «In modo autoritario e in più occasioni Bellomo ha detto che la procedura doveva proseguire nel modo più assoluto e che non sarebbero più stati tollerati ritardi e/o omissioni. Ha anche prospettato una serie di accorgimenti per raggiungere lo scopo di notificare l'invito a comparire, contattare i vicini, i parenti, i familiari sulle utente a noi note».
La seconda ragazza. La storia si ripete con un'altra studentessa. «Bellomo invitò ciascuna borsista ad assegnare punteggi all' attuale o all' ex fidanzato. Era lui a stabilire se si potesse continuare a frequentarli e a rivedere i punteggi. Gli raccontai poco della mia privata perché mi resi conto che era solito commentarli con altre. Mi riprese perché avevo risposto solo il giorno dopo a un suo sms. Per il mio tenerlo a distanza mi disse che se avessi voluto crescere sul piano professionale avrei dovuto seguire le regole, fidandomi di lui. Attivai sul cellulare il " rifiuto di chiamata" per le continue insistenze a riprendere il rapporto personale. Uscì un articolo sulla rivista e mi riconobbi nella descrizione. Il mio nome era richiamato in una mail in terza persona».
La difesa del mediatore. È una sequela di niet l'interrogatorio del pm Nalin, in stretti rapporti con Bellomo. «Ero solo il coordinatore della rivista. Sapevo che lì sarebbero state analizzate vicende personali con metodo scientifico.
Ai corsisti era richiesta un'immagine ordinata, pulita, di bellezza globalmente intesa. Non ero a conoscenza di clausole su gonne corte. Mi sono offerto come mediatore quando i rapporti tra una studentessa e Bellomo sono divenuti tesi, Era convinta che Bellomo fosse l'uomo della sua vita ed era preoccupata per la situazione».
Il brillante magistrato sotto azione disciplinare. Il caso al consiglio di stato Le accuse su Bellomo: minigonne e tacchi per le sue corsiste, scrive Carmela Formicola l'11 Dicembre 2017 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Cappotti di pelle lunghi, stile Keanu Reeves in Matrix. E un po’ lo ricorda, per colori e postura. Francesco Bellomo, tuttavia, non è un divo di Hollywood ma un magistrato del Consiglio di Stato finito nell’occhio del ciclone per le sue attività di direttore scientifico di «Diritto e scienza». È l’uomo che alle corsiste avrebbe prescritto di imparare le differenze tra imputazione oggettiva e soggettiva, di leggere Sir Edward Coke e Cesare Beccaria, di indossare minigonne e tacchi a spillo. Sull’ultima «prescrizione» si sono accesi i riflettori dei media e una certa prouderie che, in tempi di molestatori alla gogna, divampa come focare e fanoje del periodo. Ma Bellomo non è un molestatore. È un brillantissimo studente di Giurisprudenza dell’Università di Bari, poi pubblico ministero (è stato uditore di Gianrico Carofiglio nei primi anni Duemila quando il famoso scrittore era ancora pm antimafia a Bari), giudice amministrativo quindi componente della terza sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato. Nel suo curriculum vitae, Bellomo dichiara con nonchalance di essere accreditato alla Wais (Wechsler adult intelligence scale) di un quoziente intellettivo pari a 188 (la media umana è pari a 100). Last but not the least, ultimo ma non ultimo, Bellomo è direttore scientifico di «Diritto e scienza», accorsata rivista on line nonché associazione che organizza corsi di alta formazione e prepara al concorso in magistratura. Nella sua attività di formatore, il brillante magistrato barese avrebbe introdotto nuove visioni, avrebbe ampliato lo spettro dei requisiti che fanno di una persona qualsiasi un uomo/una donna di legge. Anzi, soffermiamoci sulle donne di legge secondo il Bellomo pensiero. Belle e magre. Di minigonne e tacchi a spillo abbiamo già parlato. Alle corsiste vincitrici di borsa di studio, raccomandava inoltre di non sposarsi. Fidanzati? Sì, ammessi ma con riserva. Più che un codice di regole potrebbe sembrare un decalogo da setta segreta, ma Bellomo, già incalzato dai media nazionali, bolla la vicenda come «surreale» e «grottesca». Che con le donne Bellomo non abbia sempre avuto rapporti sereni, lo dimostrano alcune denunce/querele fatte dalle sue ex che sono state a loro volta controquerelate dal magistrato. Di cosa lo accusavano? Di qualcosa riconducibile a una presunta volontà manipolatoria. Plagio? Ma nessuna condanna è mai intervenuta a dar ragione alle fanciulle. E arriviamo a una data importante. Il 28 dicembre del 2016 il padre di una ragazza che frequenta i corsi di «Diritto e scienza» scrive alla Procura di Piacenza. La Procura invia gli atti al Consiglio di Stato che avvia un’azione disciplinare nei confronti di Bellomo. L’accusa: «Clausole contrattuali lesive dei diritti della persona». Il «contratto», con le prescrizioni di cui abbiamo già detto, sarebbe quello firmato dalle corsiste ammesse alle borse di studio. Il consiglio di presidenza del Consiglio di Stato, a un anno circa dall’esposto, non raggiunge una decisione unanime sulla destituzione di Bellomo dalla magistratura. La parola passa dunque all’assemblea di tutti i consiglieri, che deve ancora pronunciarsi. Al Consiglio superiore della magistratura pende invece un procedimento disciplinare nei confronti di Davide Nalin. Chi è costui? È pubblico ministero a Rovigo nonché componente della redazione della rivista «Diritto e Scienza» (della quale fanno parte anche Stefano Vitale, Federica Federici, Alessia Iacopini e la giovane giudice barese Valentina D'Aprile). Nalin viene chiamato in ballo da una ragazza che aveva frequentato il corso per il concorso in magistratura organizzato da «Diritto e Scienza». La ragazza sostiene che Nalin sia stato una sorta di «mediatore» tra Bellomo ed altre corsiste. Sarebbe stato lui a chiedere, ad esempio, foto intime o anche particolari intimi della vita delle ragazze. Ma lo avrebbe fatto - questo almeno riferisce l’«accusatrice» - per conto di Bellomo.
Sulla «vicenda Bellomo» indaga anche la Procura di Bari, scrive l'11 Dicembre 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Procura di Bari ha aperto un’indagine conoscitiva sulla vicenda relativa al giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo, di origini baresi, che avrebbe obbligato le allieve della sua scuola privata di formazione per magistrati «Diritto e Scienza» a presentarsi ai corsi in minigonna, tacchi a spillo e trucco marcato, pretendendo anche che non fossero sposate. Questo è quanto denuncia il padre di una studentessa: denuncia, presentata a Piacenza, che ha dato avvio fino ad oggi a un procedimento disciplinare nei confronti del consigliere e ad accertamenti sull'intera vicenda anche sul piano penale, come scritto da alcuni quotidiani. La scuola ha tre sedi in Italia, a Milano, Roma e Bari. Oggi i magistrati di via Nazariantz hanno aperto un fascicolo «modello 45», cioè senza ipotesi di reato né indagati, proprio per accertare eventuali condotte illecite commesse anche nel capoluogo pugliese.
Francesco Bellomo, il magistrato delle minigonne «imposte»: «Anche Einstein fu attaccato come me». Il consigliere di Stato: «Sono un genio, giudicatemi come uomo ma per 25 anni ho amministrato la giustizia in modo praticamente perfetto», scrive Virginia Piccolillo il 12 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera".
Consigliere Bellomo, ci spiega perché costringeva le borsiste al dress code con minigonna nera e tacchi?
«Sono tenuto al silenzio e fino a che non sarà finita non posso difendermi. Sono state scritte cose false. Il magistrato si giudica per quello che fa».
Che vuol dire?
«La giustizia è criticatissima e invece vi trovate davanti uno che per 25 anni l’ha svolta in maniera praticamente perfetta. Una volta che io esco dalle aule di giustizia torno una persona libera di esprimere le mie idee. Giudicatemi come uomo».
E il regolamento con vestiti succinti e obbligo di omertà?
«Ma quale omertà? Voi non ce l’avete il contratto. È tutto trasparente».
Allora lo mostri. Perché tanto segreto?
«Esistono delle clausole di riservatezza nel contratto che viene sottoscritto con la società che organizza i corsi. Come negli Stati Uniti».
Il Corriere però ha letto i suoi articoli.
«Visto che avete rubato quelle riviste cercate di capire il mio metodo innovativo».
Che problema c’è a leggere una rivista giuridica? Perché deve essere segreta?
«È riservata agli allievi del corso. Innanzitutto perché hanno pagato, e poi perché è un metodo che li avvantaggia nel superare l’esame».
È lei a scrivere che una borsista scartata venne ripescata dopo aver indossato a lezione il dress code.
«È una semplificazione. Il mio è un metodo scientifico di intendere la funzione della ragione nelle cose umane. Tutti i geni, anche Einstein, si sono dovuti difendere dagli attacchi di chi non ne conosceva le idee. Non avrei voluto divulgare le mie, ma sono venute fuori. Allora perché non dite che funzionano? Le mie allieve (e i miei allievi) hanno superato il concorso più di quelle di qualunque altro corso. E poi il dress code non è quello che scrivete».
Ma ci sono le foto.
«Quelli sono eventi. E il dress code non mi è stato contestato, mentre leggo che sono stato condannato per quello. Io non posso e non voglio parlare di quel procedimento di fronte al Consiglio di Stato. Ma se anche volessi, come nel processo di Kafka io, tutt’ora, le accuse non le conosco. Non mi hanno contestato nessuna clausola. Un uomo che ha fatto il pm in realtà complicate come la Sicilia, può essere censurato per un dress code?»
Anche per aver raccontato i rapporti sessuali che una borsista aveva con lei e con altri uomini.
«Bisognerebbe sapere se c’era il consenso».
C’era?
«Certo. Questa ragazza ha vinto il concorso, durante la pubblicazione della rivista. Non vi fate domande?».
Alcune ragazze raccontano di altre allieve selezionate per meriti che, una volta diventate borsiste, non parlavano più con nessuno e sembravano entrate in una setta.
«Non è vero niente. Non è scritto da nessuna parte. Io quando ero pm gli anonimi li cestinavo».
Allora può rassicurare le sue allieve che non denuncerà chi deciderà di parlare?
«Come posso rassicurarle di una cosa che non esiste?»
Temono che le faccia bocciare al concorso.
«Assurdo. Non ne ho il potere».
E allora come spiega quanto sta accadendo?
«Facciamo un esempio: due persone si incontrano, fanno l’amore, il giorno dopo l’uomo dice che è stato bello. La donna lo denuncia. Vogliamo capire come mai?».
Facciamone un altro: aspiranti attrici facevano un provino da Weinstein e venivano molestate.
«Non c’entro nulla con quel tipo di cose. Weinstein è un produttore che ti può bloccare la carriera. Io non sono la casta sono uno che ne sta completamente al di fuori e tutto questo ha un peso su ciò che sta accadendo. Ma quando potrò parlare si capirà tutto».
Francesco Bellomo, la borsista: «Così il pm delle pari opportunità mi spingeva a inviare foto intime». L’aspirante magistrata al corso di Bellomo. Il Pg: il suo collaboratore Nalin va sospeso, scrive di Virginia Piccolillo il 12 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Continue vessazioni di carattere anche sessuale», l’obbligo a «indossare minigonne e tacchi alti», il «timore ingenerato nelle ragazze dal direttore della Scuola, Francesco Bellomo, ma anche dal dottor Nalin». Nel sexgate delle toghe venerdì riflettori accesi sul pm anti-violenza di Rovigo, Davide Nalin. Mentre anche la procura di Milano valuta se aprire un’indagine, il Csm analizzerà la richiesta del Pg della Cassazione, Pasquale Ciccolo, di sospenderlo dall’attività di magistrato per il «grave» ruolo avuto nella vicenda: un po’ da «mediatore», un po’ da postino delle minacce di Bellomo alla borsista che finì in ospedale dallo stress, convincendo il padre ad appellarsi al Consiglio di Stato.
L’incolpazione. Nelle carte, inviate a tempo di record dal Consiglio di Stato, le parole della ragazza che aveva una relazione con Bellomo: «Il dott. Nalin prese a contattarmi per farmi comprendere gli errori logici che commettevo» (è il metodo «scientifico»-sessuale rivendicato alCorriereda Bellomo così: «Anche Einstein veniva attaccato da chi non lo capiva»). «Nalin — prosegue la ragazza — aveva assunto la veste di “mediatore”, e quando il nostro rapporto attraversava momenti critici, interveniva analizzando pacatamente le mie reazioni». Per lei non è un sostegno, ma un obbligo: «Quando mi è stato detto che avrei dovuto parlare di cose intime con Nalin ho provato un forte imbarazzo». Non accade una volta sola, ma «ogni volta che c’era un dissidio con il consigliere subito interveniva Nalin». Era gentile, dice, ma «contribuiva alla compenetrazione tra piano personale e professionale». Le evidenziava «errori logici». Ma non si parlava di matematica, ma di sesso forzato: «Ricordo una volta che Bellomo si è arrabbiato perché ho indugiato a inviargli una foto mia intima. Non era la prima volta che me la chiedeva. Gliene avevo inviate già altre. Subito dopo è intervenuto Nalin chiedendomi notizie del perché non volessi rispettare i patti con il consigliere». Ma il pm del pool Pari Opportunità sapeva? No, ma assicura la ragazza: «Dopo aver saputo mi ha invitato a inviare la foto».
«Ero terrorizzata». C’è di più: la minaccia della denuncia. «Aspiravo a superare il concorso in magistratura e non volevo la denuncia», dice la ragazza quando racconta perché rimane «terrorizzata» dall’arrivo dei carabinieri che, su pressione di Bellomo, le notificano l’avviso di conciliazione. Nalin fa leva su quel timore. Quando «alla richiesta di Bellomo di definire i giorni in cui trascorrere insieme le ferie, ho esitato perché sapevo che per ogni impegno preso con lui era derogabile solo per cause di impossibilità assoluta», riferisce, comincia «a contestarmi il reato di truffa» e a «spiegarmi che si trattava di un medesimo disegno criminoso».
Un «clima di soggezione psicologica», censura il Pg, che evidenzia le «vessazioni anche di carattere sessuale» e «lo stravagante, se non aberrante, regolamento (dress code) di cui Nalin era a conoscenza». Una condotta «grave» che per far avere «indebiti vantaggi sessuali a Bellomo», scrive il Pg, arreca un «irrimediabile» danno alla credibilità e all’immagine della magistratura che «non può ridursi a un trasferimento». Nalin deve essere sospeso.
Pg: pm può reiterare illeciti, scrive il 13 Dicembre 2017 "la Gazzetta del Mezzogiorno". Impedire che possa reiterare, cioè continuare a compiere, condotte «gravemente scorrette» e "incompatibili» con le funzioni giudiziarie; episodi di «tale degrado» da aver danneggiato non solo la sua personale credibilità di magistrato, ma quella dell’intera giurisdizione . E' per questo che il procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo ha chiesto alla sezione disciplinare del Csm - che deciderà venerdì prossimo - di sospendere con urgenza dalle funzioni e dallo stipendio e di collocare fuori ruolo il pm di Rovigo Davide Nalin, stretto collaboratore del consigliere di Stato Francesco Bellomo nella Scuola di formazione giuridica "Diritto e scienza». Bellomo - su ci pende una proposta di destituzione - è il giudice amministrativo che avrebbe obbligato le allieve a presentarsi ai corsi in minigonna, tacchi a spillo e trucco marcato e preteso anche che non fossero sposate, secondo la denuncia presentata dal padre di una studentessa. La ragazza, una borsista, aveva avuto una relazione con il consigliere di Stato e il Pg contesta a Nalin di aver fatto da «mediatore» per procurare «indebiti vantaggi di carattere sessuale» a Bellomo, quantomeno la prosecuzione di quel rapporto. Il tutto facendo leva sulla sua autorevolezza di magistrato e prospettando alla ragazza che se non avesse dato seguito alle richieste di Bellomo, come quella di mandargli una foto intima o di definire il periodo in cui passare insieme le ferie estive, avrebbe commesso reati che le avrebbero impedito di partecipare al concorso in magistratura. Condotte che sono particolarmente gravi per il Pg, anche considerato «il clima di soggezione psicologica» subito dalle studentesse che ambivano a entrare in magistratura «per la sottoposizione a continue vessazioni anche di carattere sessuale», e «lo stravagante se non aberrante regolamento (dress code) di cui Nalin era a conoscenza». Adoperandosi per far conseguire a Bellomo «ingiusti vantaggi», il pm di Rovigo ha "fortemente leso il rispetto della dignità umana» che assieme a correttezza e equilibrio, costituisce uno dei presupposti dell’esercizio delle funzioni giudiziarie. E a pesare c'è anche «l'allarme e lo sconcerto» che si sono diffusi nell’ambiente degli aspiranti magistrati, ai quali è stato fatto credere che il concorso di possa superare con metodi del tutto «estranei alla formazione tecnica, professionale e deontologica».
«Nel cerchio magico del giudice sembravano pronte per il night». Il magistrato e le corsiste Lo scandalo dei corsi per la magistratura con obbligo di minigonna Una delle studentesse di Bellomo: lui scostante, aveva le sue elette, scrive il 13 Dicembre 2017 Giovanni Longo su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Sembra di vederle quelle poltroncine rosa antico in velluto descritte da una delle corsiste. Chiede l’anonimato: per questo la chiameremo Maria. In una grande sala di un albergo barese, in corso Alcide De Gasperi, ci sono una sessantina di aspiranti magistrati come lei. Sono più donne che uomini. Qualcuno, nelle ultime file, chiacchiera un po’. Davanti, invece, siedono le più fortunate, meritevoli o chissà che. Giovani ragazze, magrissime, qualcuna in abiti succinti pendono dalle labbra di chi è di fronte: il consigliere di Stato Francesco Bellomo. Parlava «sempre con lo stesso tono, non era un grande oratore ma i ragionamenti che faceva ti aprivano la mente», racconta adesso Maria della periferia di Bari. Lei, che finora il concorso non lo ha superato, non sedeva avanti e non indossava abiti corti come alcune borsiste. La maggior dei corsisti, infatti, prendeva appunti e seguiva con attenzione. Come ha fatto lei. L’investimento era davvero significativo: circa 4.000 euro per i due anni di corso necessari alla preparazione al concorso in magistratura ordinaria. Più il costo dei libri. Scritti sempre da Bellomo, finito al centro dello scandalo su dress code e clausole sul quoziente intellettivo di fidanzati e fidanzate, accuse che il giudice respinge.
Maria, come si svolgevano i corsi?
«Lezione venerdì pomeriggio dalle 14 alle 19. Il sabato tutta la giornata. E poi c’erano i temi. Tutto molto faticoso».
Cosa ricorda del consigliere Bellomo?
«Un genio, con la capacità di farci spaziare in modo interdisciplinare. Il suo metodo era incredibile con le dispense e le correzioni che faceva lui personalmente, non gli assistenti. Anche se era anche scostante».
Un esempio?
«Un paio di volte ho provato ad avvicinarmi per fargli domande di carattere giuridico, ma sono stata allontanata, non prima di essere stata stata squadrata. In 30 secondi mi ha liquidato come se lo infastidissi. Non dava confidenza a nessuno».
Proprio a nessuno?
«Beh, ricordo la trasformazione di una ragazza dell’hinterland barese. I primi giorni era vestita normalmente e sedeva dietro. Dolcissima, bravissima, di punto in bianco indossava gonne cortissime, stivali, sembrava fosse pronta per salire sul cubo. Iniziò a sedersi in prima fila. Solo a poche elette il consigliere Bellomo dava confidenza, specie durante le pause».
Cosa accadeva?
«Dopo due ore ci si fermava per un caffè. Bellomo restava seduto al tavolino e prendeva un espressino in compagnia della borsista di turno, oppure se ne stava per conto suo».
Qual era la vostra reazione?
«Questa ragazza era un po’ “ghettizzata” dagli altri. I pettegolezzi su una relazione tra i due erano tantissimi. Non so se era vero, ma a me dispiaceva per lei e cercavo di starle vicino».
Cosa ricorda del professor Bellomo?
«Magrissimo, indossava sempre la stessa maglietta un po’ ingiallita, soprabito di pelle nera, jeans tagliati e stivali texani. Ricordo il riscaldamento al massimo nella sala perché lui aveva freddo, la voce monocorde, il volto inespressivo e l’intelligenza di gran lunga superiore rispetto alla media».
Le è mai venuto in mente di “adeguarsi” a quello che oggi viene descritto come il «dress code»?
«Ho avuto la sensazione che ci fosse qualcuno che lo faceva per compiacerlo. Della serie: “Chissà, se mi vesto anche io così posso essere considerata di più”. Io mi sono concentrata solo sulla mia presenza in quella sala: studio e basta».
Mai avuto il sospetto dell’esistenza di questi contratti?.
«Non mi sono accorta mai di nulla, onestamente e non potrei dire nulla in merito. Se quello che sto leggendo sui giornali fosse confermato, sarebbe gravissimo e le responsabilità sarebbero duplici».
In che senso?
«Non ci sarebbe solo quella di Bellomo perché il tema sarebbe la mortificazione di una funzione pubblica così importante come quella giudiziaria. Ma anche chi ha accettato quelle condizioni, in fondo, ha delle responsabilità perché hanno avallato tutto questo, svilendo se stesse».
"Dietro ogni donna c’è una prostituta". Raffaele Morelli ha parlato del caso Weinstein (ed è come se parlasse del caso Bellomo ndr) a Le Iene il 5 novembre 2017, scrive Giuseppe D'Alto, Esperto di Tv e Gossip, su "it.blastingnews.com" il 6 novembre 2017. "Dietro ogni donna c’è una prostituta". Nei giorni scorsi lo psichiatra Raffaele Morelli [VIDEO] aveva espresso questo concetto durante un’intervista radiofonica sul #caso Harvey Weinstein. Sulla questione sono tornate #Le Iene con l’inviato #Matteo Viviani che ha deciso di approfondire il discorso intervistando lo psicoterapeuta milanese. "Questo produttore non è uno stupratore ma un uomo che esercita la sua azione di dominio come modalità relazionale". Il sessantanovenne ha spiegato che fare l’amore è l’unico modo che il cervello ha per realizzare se stesso. "Quest'uomo non godeva ma voleva dominare e umiliare. In questo caso non è previsto l’innamoramento". Morelli ha sottolineato che una persona del genere vuole soltanto che la donna ceda alle sue richieste. Per lo psichiatra Weinstein è una persona profondamente triste. "L’ha mai visto ridere, guardi le donne che gli stanno vicino hanno il gelo negli occhi". Il professionista ha rimarcato che un personaggio simile vive un enorme disagio interiore.
"Molte attrici ritenevano di condurre le danze". Lo psicoterapeuta si è poi soffermato sulle vittime del produttore americano. "Molte donne ritenevano di condurre le danze, magari fingendo un orgasmo. Poi si sono trovate di fronte ad un uomo che non è uno stupratore ma un dominatore che incalza con meccanismi che non conosci". Raffaele Morelli ha precisato che i produttori sono persone molto acute ed abili nel cogliere le debolezze degli altri. "Se dovessimo portare in tribunale la violenza psicologica andrebbe alla sbarra il 90% del paese. Quante volte si dice un sì ad un capo invece di un no. Può capitare anche ad un uomo di essere accondiscendente di fronte a delle cose che non si condividono per nulla’. Per Morelli le ragazze che hanno ceduto alle avance di un uomo potente senza avere la forza di reagire non possono essere definite vittime di violenza sessuale. ‘Una persona che si è prostituita per il successo dopo anni si sente sporca. In ogni donna è presente il fatto di poter usare la seduzione per ottenere un vantaggio".
"La donna santa non esiste". Lo scrittore ha precisato che i vantaggi non devono essere necessariamente economici: "In alcuni casi possono essere anche affettivi". Lo psichiatra ha spiegato che l’essere umano fin dagli albori 'semina' l’idea che l’affettività sia legata ad un vantaggio. "A 21 anni sei dentro una psicologia sognante ed in questo stato sei più facilmente preda dell’uomo dominatore. In questo caso bisogna sapere che qualsiasi successo si voglia raggiungere deve basarsi sulle proprie capacità". Il professionista milanese ha sottolineato che Weinstein dovrebbe andare da un terapeuta bravo per imparare a riconoscere il suo lato malvagio e distruttivo. Morelli ha evidenziato che si fa bene a parlare di queste vicende: "Solo così si fanno capire i rischi che si corrono'. Per lo psicoterapeuta la donna santa non esiste: ‘Se esiste è una grave malattia". Per il sessantanovenne molte delle attrici che stanno parlando del loro passato sono esibizioniste. Le affermazioni di Morelli hanno diviso il web con reazione di sdegno e pesanti critiche nei confronti del noto psichiatra.
«Francesco Bellomo provò a baciarmi»: parla Rosa Calvi, ex studentessa del magistrato. Rosa Calvi, 28 anni, avvocata, racconta quel che subì al corso di preparazione per il concorso in magistratura. «Tra le prove che dovevo superare, andare in Ferrari con lui. Scappai via», scrive Claudio Rinaldi il 15 dicembre 2017 su "La Gazzetta del Mezzogiorno". Rosa Calvi ha denunciato il consigliere di Stato Francesco Bellomo. «Eravamo nella hall di un albergo nel quartiere Eur di Roma, quando ha provato a baciarmi sfiorandomi le labbra, ma io mi sono rifiutata». Rosa Calvi, avvocato di 28 anni, originaria di Cerignola, ha deciso di raccontare per la prima volta quello che ha subito tra ottobre e dicembre 2016, mentre seguiva il corso privato per aspiranti magistrati, tenuto dal Consigliere di Stato Francesco Bellomo. Il docente è finito al centro di polemiche dopo la denuncia del padre di una ragazza che al Corriere ha parlato di «continue vessazioni di carattere anche sessuale».
Perché ha scelto di seguire il corso del consigliere Bellomo?
«Perché da varie statistiche risultava quello con il maggior numero di studenti diventati poi magistrati».
Ha fatto richiesta per diventare borsista?
«No, pagai i 2318 euro previsti per l’iscrizione annuale».
Poi però riuscì a ottenere la borsa.
«Dopo le prime lezioni di ottobre, era previsto che ogni studente svolgesse un compito, valutato personalmente dal consigliere. Quando mi arrivò la correzione, il mio tema valeva undici e mezzo, abbastanza poco. Nonostante questo, dopo pochi giorni, mi arrivò una mail dalla segreteria della società Diritto e Scienza nella quale risultavo tra le candidate per la borsa di studio».
Cosa accadde al colloquio?
«Bellomo aveva individuato sette candidate, poi rimanemmo in tre. E fu in quel momento che per la prima volta vidi tutto quello che prevedeva il contratto da borsista. Sul sito web infatti c’era il regolamento con diritti e doveri, ma mancava la parte in cui veniva affrontato il codice di condotta e il dress code femminile. Ci diede 15 minuti per esaminare il contratto e poi scelse me, dandomi appuntamento al giorno dopo per la firma».
Cosa prevedevano il codice di condotta e il dress code?
«Clausole assurde come la numero 2 che imponeva di “mantenere una posizione di distacco rispetto ai comuni allievi” o la numero 3 che ordinava addirittura di non poter “mantenere o avviare relazioni intime con soggetti con un quoziente intellettivo più basso di 80/100”. Mi sembrò eccessivo in particolare per l’obbligo di minigonna per gli “eventi mondani”, ma decisi di affrontare comunque il colloquio il giorno dopo. Ero fiduciosa perché avevo a che fare con un magistrato, un Consigliere di Stato, non uno qualunque.
Durante il colloquio cosa successe?
«Mi chiese subito della mia vita privata: quanti fidanzati avevo avuto e cosa facevano. E poi disse che se decidevo di accettare, avrei dovuto perdere cinque chili entro marzo. Poi mi guardò in viso e mi disse: “Hai le borse sotto gli occhi, con un paio di punturine risolviamo la situazione”».
E poi?
«Subito dopo provò a baciarmi. In un attimo mi sfiorò le labbra e io lo evitai. Rimasi pietrificata. Andai subito via lasciandolo lì, nella hall dell’albergo».
Dopo cosa successe?
«Di lì in poi cominciò a contattarmi con sms e chiamate, proponendomi di seguire il suo corso il weekend successivo a Milano. Accettai perché non potevo credere che un magistrato potesse comportarsi in quel modo, ma quando mi parlò delle prove che dovevo affrontare per l’addestramento speciale, cambiai subito idea e decisi di non partire».
Di che prove parla?
«Erano previste alcune prove speciali come andare in Ferrari con lui ad alta velocità oppure passeggiare in una via di locali e scegliere il migliore. Mi sembrarono delle cose assurde e decisi che era il caso di restare a Roma».
Come la prese?
«Male. Arrivò persino a dirmi che così sarei rimasta nella mia vita mediocre».
Perché ha deciso di parlare solo ora?
«Ho il sogno di diventare magistrato da quando avevo otto anni. Mettermi contro un Consigliere di Stato avrebbe potuto precludere per sempre il mio futuro. Quando ho visto però la denuncia del padre della ragazza, ho pensato che non poteva rimanere una voce isolata. Non siamo noi che dobbiamo vergognarci di quello che è successo».
Toghe in minigonna, Bellomo a Rete 4: "Non ho baciato le studentesse, ma le mie fidanzate...", scrive Mercoledì 13 Dicembre 2017 Leggo. «Ho parlato singolarmente con le mie alunne: dicevo loro di riflettere sul contratto che firmavano. Una volta che si dichiaravano sicure, che avevano compreso i vari articoli, punto per punto, allora le accettavo. Discutevo con loro del contenuto, accettavano e sapevano. Parliamo di persone mature e superiori alla media, in grado di decidere». Ad affermarlo il giudice del Consiglio di Stato, Francesco Bellomo, finito al centro di un caso ed esposto al rischio destituzione per una vicenda di presunte pressioni su iscritte alla scuola per aspiranti magistrati da lui diretta. La storia sarà il tema della puntata di di «Dalla vostra parte», in onda stasera su Retequattro. Bellomo avrebbe obbligato le allieve della sua scuola privata «Diritto e Scienza» a presentarsi ai corsi in minigonna, tacchi, trucco e nubili. Circa le regole di abbigliamento date alle studentesse, il giudice afferma: «Sul dress code bisogna fare una distinzione in base ai luoghi: se lei va in una discoteca o ad una festa c'è un abbigliamento, in tribunale un altro tipo di vestiario. Io non ho obbligato nessuno a scegliere: sono state le studentesse. Andate ad intervistare le hostess che hanno una divisa». Quanto al rapporto con le studentesse, il togato risponde: «Una studentessa che si iscrive al mio corso, vuole fare qualcosa di particolare... è una sua scelta, non c'entra niente che io sia il loro direttore». «Non ho baciato nessuna studentessa: ho baciato le mie fidanzate». «E se una relazione finisce, sono libero di cominciarne un'altra». Impedire che possa reiterare, cioè continuare a compiere, condotte «gravemente scorrette» e «incompatibili» con le funzioni giudiziarie; episodi di «tale degrado» da aver danneggiato non solo la sua personale credibilità di magistrato, ma quella dell'intera giurisdizione. È per questo che il procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo ha chiesto alla sezione disciplinare del Csm - che deciderà venerdì prossimo - di sospendere con urgenza dalle funzioni e dallo stipendio e di collocare fuori ruolo il pm di Rovigo Davide Nalin, stretto collaboratore del consigliere di Stato Francesco Bellomo nella Scuola di formazione giuridica «Diritto e scienza». Bellomo - su ci pende una proposta di destituzione - è il giudice amministrativo che avrebbe obbligato le allieve a presentarsi ai corsi in minigonna, tacchi a spillo e trucco marcato e preteso anche che non fossero sposate, secondo la denuncia presentata dal padre di una studentessa. La ragazza, una borsista, aveva avuto una relazione con il consigliere di Stato e il Pg contesta a Nalin di aver fatto da «mediatore» per procurare «indebiti vantaggi di carattere sessuale» a Bellomo, quantomeno la prosecuzione di quel rapporto. Il tutto facendo leva sulla sua autorevolezza di magistrato e prospettando alla ragazza che se non avesse dato seguito alle richieste di Bellomo, come quella di mandargli una foto intima o di definire il periodo in cui passare insieme le ferie estive, avrebbe commesso reati che le avrebbero impedito di partecipare al concorso in magistratura. Condotte che sono particolarmente gravi per il Pg, anche considerato «il clima di soggezione psicologica» subito dalle studentesse che ambivano a entrare in magistratura «per la sottoposizione a continue vessazioni anche di carattere sessuale», e «lo stravagante se non aberrante regolamento (dress code) di cui Nalin era a conoscenza». Adoperandosi per far conseguire a Bellomo «ingiusti vantaggi», il pm di Rovigo ha «fortemente leso il rispetto della dignità umana» che assieme a correttezza e equilibrio, costituisce uno dei presupposti dell'esercizio delle funzioni giudiziarie. E a pesare c'è anche «l'allarme e lo sconcerto» che si sono diffusi nell'ambiente degli aspiranti magistrati, ai quali è stato fatto credere che il concorso di possa superare con metodi del tutto «estranei alla formazione tecnica, professionale e deontologica».
Nel nome, il destino, scrive Carlo Tarallo per "la Verità" il 10 dicembre 2017. Francesco Bellomo, quarantenne ex magistrato ordinario, originario di Bari, attualmente consigliere di Stato, rischia di finire in un mare di guai a causa (anche) del suo spiccato gusto estetico. Per Bellomo, infatti, la bellezza, sia degli uomini sia delle donne, era un elemento fondamentale per ottenere le borse di studio erogate dalla scuola di formazione giuridica avanzata «Diritto e scienza», di cui presiede il comitato scientifico. Come ha riportato ieri Il Fatto Quotidiano, Francesco Bellomo è a un passo dall' essere destituito dalla sua carica di consigliere di Stato, proprio a causa delle regole quanto meno bizzarre imposte agli allievi della scuola. Il Consiglio di presidenza del più alto organo di giustizia amministrativa, guidato da Alessandro Pajno, ha infatti approvato la destituzione di Bellomo perché il contratto per i borsisti «non rispetta la libertà e la dignità della persona». Ora, perché a Bellomo venga comminato definitivamente il cartellino rosso dal Consiglio di Stato, occorre il parere favorevole dell'adunanza dei consiglieri. A scatenare il caso, la denuncia del padre di una ex allieva di Bellomo, che con lui ha avuto anche una relazione sentimentale, e di un'altra ragazza. I Carabinieri hanno poi indagato su queste segnalazioni. Il documento finale che propone la destituzione di Bellomo dal Consiglio di Stato contiene quattro addebiti principali a carico del consigliere: «Risulta», si legge nel documento, «che era il consigliere Bellomo a sottoporre a colloquio gli aspiranti a tale borsa di studio e a selezionarli. L' accesso alle borse di studio comportava per i borsisti la sottoscrizione di un vero e proprio contratto. È emerso», si legge ancora, «che il contratto conteneva una clausola limitativa, relativa a matrimonio e fidanzamento: decadenza in caso di matrimonio; fidanzamento consentito solo se il/la fidanzato/a risultasse avere un quoziente intellettuale pari o superiore a un certo standard; competeva al consigliere stabilire se i fidanzati o fidanzate dei o delle borsiste superassero il quoziente minimo necessario per essere fidanzati e/o ammessi/e (ciò appare particolarmente significativo)». Avete letto bene: il contratto relativo alle borse di studio decadeva in caso di matrimonio, mentre in caso di fidanzamento doveva essere Bellomo a stabilire se quella relazione fosse consentita. Immaginiamo lo studente o la studentessa che, all' aspirante partner, erano costretti a dire: «Avrei voglia di frequentarti, mi piaci, con te sto bene, sei una persona meravigliosa, ma dobbiamo prima vedere che ne pensa il professor Bellomo: deve esaminarti lui, se non ti considera abbastanza intelligente perdo la borsa di studio». Bellomo, oltretutto, come sarebbe effettivamente accaduto, poteva «esporre in pubblico la vita personale della borsista inadempiente», con le conseguenze che si possono facilmente immaginare. Per beneficiare delle borse di studio di fascia A e di fascia B, inoltre, occorreva rispondere a criteri ben precisi. Per quanto concerne le donne, i criteri di scelta si riassumono in potere/successo; intelligenza; capacità di amare; bellezza e personalità. Per i maschi, oltre alla bellezza, all' intelligenza e all' eleganza, erano prese in considerazione, anche femminilità e attitudine materna (avete letto bene anche stavolta). Allegato al contratto, inoltre, «c'era un documento contenente il cosiddetto dress code, che prevede diversi tipi di abbigliamento dei borsisti a seconda delle occasioni. Per l'abbigliamento femminile si fa anche menzione alla diversa lunghezza della gonna, del tipo di calze e del tipo di trucco». La lunghezza della gonna da indossare «per le occasioni mondane», stabilita dunque per contratto, era «fino a un terzo della distanza dall' anca al ginocchio». La Verità ha fatto qualche ricerca su questo personaggio e ha scoperto altri particolari assai curiosi. Bellomo, per esempio, è un vero e proprio fanatico del quoziente intellettivo. Il suo curriculum, non a caso, si conclude con queste testuali parole: «Accreditato alla Wais (Wechsler Adult Intelligence Scale, il più noto test d' intelligenza, ndr) di un quoziente Intellettivo di 188 (media umana: 100) e al test delle matrici progressive di Raven di un punteggio ponderato pari a 201. Al test psicodinamico di Rorsach ha conseguito risultati equiparabili)». Ci troviamo, dunque, di fronte a un vero e proprio genio, con un quoziente intellettivo (almeno a quanto dice lui) pari a quasi il doppio della media del genere umano, che però (ci perdoni l'ardire) ha qualche problemino quanto meno con la cultura generale, poiché in realtà il creatore del test psicodinamico al quale il consigliere di Stato fa riferimento si chiama Hermann Rorschach, con qualche consonante in più rispetto a quanto scritto nel suo curriculum da Bellomo. Altra bizzarria, quella che viene fuori leggendo i componenti della redazione della rivista di Diritto e scienza: tra le firme c' è quella di Alessia Iacopini, 31 anni, «sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Massa. Modella per l'agenzia Fashion Concept (2014-2016)». Perché sottolineare che la Iacopini ha lavorato anche come modella? Non si sa. Quello che si sa, è che Bellomo prestava una enorme attenzione ad aspetti e caratteristiche dei suoi borsisti che nulla, ma proprio nulla, hanno a che vedere con la giustizia e il diritto. Bellezza e abbigliamento sexy, come abbiamo visto, erano elementi fondamentali. Per averne certezza, al di là (direbbe lui) di ogni ragionevole dubbio, è sufficiente dare un'occhiata all' album fotografico delle varie iniziative, presente sul sito internet di «Diritto e Scienza» (corsomagistratura.it). Tra convegni con relatori di primissimo piano (c' è anche Piercamillo Davigo) e altre iniziative, spuntano foto di belle ragazze, in abiti da sera, con minigonne d' ordinanza, ovviamente a un terzo della distanza dall' anca al ginocchio. Come piacciono a Francesco Bellomo.
CASO BELLOMO, NON È SOLO UNA QUESTIONE DI MINIGONNE, scrive Indy Gesto. Birritteri lo difende: «Pensate a quel che accade in Iran». Ma la tesi non regge e i vertici del Consiglio di Stato vogliono la sua testa: «Non è equilibrato». Forse stavolta il rischio che cane mangi cane c’è per davvero e la suprema magistratura amministrativa, anche per non finire nel mirino dell’opinione pubblica - che teme le caste ma le vitupera quando non deve averci a che fare - rischia di dover espellere il pugliese Francesco Bellomo. A disgrazia avvenuta, i censori si sono moltiplicati, soprattutto sul web: c’è chi dice che certe cose si sapevano già, chi parla di yuppismo barese anni ’80 e chi urla allo scandalo. E c’è chi tenta di far capire che la vicenda del consigliere di Stato potrebbe essere la punta d’iceberg di un sistema molto più radicato. È il caso dell’amministratore di un gruppo Facebook molto seguito dagli aspiranti magistrati, in larga parte frequentatori delle scuole di specializzazione, che ha giustificato la rimozione di alcuni post dal gruppo con una motivazione che inquieta: «Siccome ho ricevuto intimidazioni che neanche lontanamente potete immaginare, e siccome mi è stato fatto presente che nei riguardi di alcuni utenti che hanno espresso il loro parere in maniera “offensiva” presto saranno presi provvedimenti legali, ho ritenuto opportuno, per senso di responsabilità e protezione nell’interesse di tutti, mio compreso, evitare ogni ulteriore discussione sull’argomento, tenendoci fuori da queste situazioni». Già, forse l’autore di questa frase, che lascia capire sin troppe cose, ha ragione. Ma una domanda è lecita: è possibile tenersi fuori da situazioni come quella in cui è finito, anzi si sarebbe andato a ficcare, Bellomo? Finché erano il Fatto Quotidiano e Dagospia a parlarne, qualche dubbio lo si poteva legittimamente coltivare. Ma dopo che ne ha scritto l’ottima Virginia Piccolillo, una delle firme più dure del Corriere della Sera, non ci sono storie. Non si parla più di giustizialismo o di gossip: il problema c’è tutto ed è quantomeno etico, forse tale da tracimare il pur grave aspetto disciplinare. Non si sa se Bellomo, di cui Alessandro Pajno, il presidente del Consiglio di Stato, ha chiesto la testa, sia ancora sicuro di sé come si è mostrato con i cronisti del Corrierone, che gli chiedevano di esprimersi sulla brutta faccenda che lo riguarda: «È solo una vicenda di costume. Datemi la possibilità di contro-esaminare chi mi accusa e usciranno dall’aula piangendo per le menzogne che hanno detto». Sarà, ma il bando in cui il magistrato ora sub judice indicava i criteri per l’erogazione della borsa di studio agli eletti non è una menzogna. E, con tutta probabilità, i documenti pubblicati da tutti, incluso il di solito prudente Corrierone, non sono dei falsi (al massimo potrebbero esserlo nei contenuti, ma questo si potrebbe provare solo se Bellomo, che ha la denuncia facile, querelasse per falso ideologico). E Pajno, che ha chiesto la massima sanzione, non sembra uno sprovveduto. Semmai appare debole la difesa impostata da Luigi Birritteri, magistrato siciliano di lunghissimo corso e già vicecapo di gabinetto nel Ministero della Giustizia, che si è incaricato di tutelare il collega sotto attacco durante la seduta del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, dove si è svolto il procedimento a carico di Bellomo. Quest’ultimo avrebbe imposto alle borsiste un determinato abbigliamento (cioè le minigonne di cui ha riso mezza Italia)? Nessun problema o quasi, secondo Birritteri: «Pietro Ichino nel suo trattato del 2003 affronta proprio il problema del dress code e dice: “Accade che il datore di lavoro chieda al prestatore il rispetto di disposizioni circa l’abbigliamento o l’aspetto personale”. È chiaro che l’obbligo del prestatore di lavoro è perfettamente identico all’obbligo contrattualmente assunto da un borsista». Se si parla di diritto, non c’è da essere troppo sicuri della chiosa di Birritteri: c’è lavoro e lavoro e una borsista che dovrebbe occuparsi di problematiche giuridiche non è una hostess o una ragazza immagine e, in ogni caso, le compressioni della libertà individuale - tra queste la libertà nella cura dell’aspetto - che si giustificano nel caso di una prestazione d’opera o, ancor più, in un contratto di lavoro subordinato, non stanno né in cielo né in terra per una borsa di studio. Peggio che andar di notte per la parte più libertaria dell’arringa di Birritteri: «Viviamo brutti tempi, mi preoccuperei più che delle minigonne delle giuste preoccupazioni delle hostess dell’Air France. Sapete perché hanno protestato? Perché la compagnia ha ripreso i voli per Teheran e non hanno apprezzato le hostess. La circolare interna della compagnia ha richiesto loro l’obbligo di indossare pantaloni, una giacca lunga e di coprire la testa e i capelli con un velo al momento dell’uscita dall’aereo. Preoccupazioni esattamente opposte. Ora dico: forse dovremmo preoccuparci di più di chi ci vuole mettere il burqa e il velo in testa anziché contestare un dress code». Già. Peccato solo che le norme, religiose ma anche giuridiche di uno Stato sovrano, riconosciuto nella sua attuale forma dalla Comunità internazionale, quindi anche dalla Francia, siano una cosa piuttosto diversa dai criteri imposti da una struttura privata nell’ambito di un rapporto che non è di lavoro. Probabilmente il magistrato agrigentino non ha trovato nulla di meglio. E ora la palla, cioè la decisione finale, passa all’Adunanza generale del Consiglio di Stato. Quanto a Bellomo, ha ragione da vendere su una cosa quando dice che la sua «sarebbe solo una vicenda di costume». Già, ma il costume, per la categoria dei magistrati, in un momento di crisi che li ha resi custodi, oltre le loro funzioni e i meriti di molti di loro, della legalità e della pubblica amministrazione, è tutto. E il Consiglio di Stato sta per pronunciarsi sulla congruità al ruolo ricoperto, non su altre ipotesi, che al momento non interessano. Ma l’aspetto di puro costume non riguarda il solo Bellomo, che non può né deve diventare un capro espiatorio, perché i comportamenti che gli sono stati contestati non li avrebbe praticati da solo. E c’è da chiedersi se le aspiranti magistrate sapessero che, per una borsa da 3mila euro (forse prelevati dalle costose quote versate dai loro colleghi di corso, evidentemente non appartenenti alla razza eletta vagheggiata dal bando), Bellomo non avrebbe potuto pretendere di discettare sui loro compagni di vita, comportamenti privati o altro. In nessun caso, comunque, farebbero una bellissima figura, sebbene meritino tutta la comprensione che dev’essere data a chi è parte debole in una vicenda troppo più grande di loro. Se la vicenda fosse solo di costume, spiace dover contraddire di nuovo Birritteri: tra la prepotenza di chi pretende di coprire le donne a tutti i costi e quella presunta di chi, invece, le vuole spogliare, è difficile dire cosa sia peggio.
Consiglio di Stato, il problema è davvero il "genio" Bellomo? Scrive il 14 dicembre 2017 Alessio Liberati, Magistrato, su "Il Fatto Quotidiano". In questi giorni sono tempestato di telefonate di giornalisti (e non solo) che mi chiedono cosa stia succedendo al Consiglio di Stato. Ho scritto spesso sul tema e, mi piace ricordarlo, il concorso per consigliere di Stato vinto dal consigliere Bellomo è quello del 2006, che ha visto vincitore un altro protagonista delle cronache: Roberto Giovagnoli (che non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso che vinse). Del caso Giovagnoli ho scritto più volte ed ho rilasciato interviste a Report ed a L’Espresso, quindi non aggiungo altro (se non che il dottor Giovagnoli ha fatto causa a Report per diffamazione e danno di immagine, risultandone giustamente sconfitto). Ma veniamo al caso Bellomo. Questo il “mio” riassunto. C’è un tipo un po’ bizzarro che sostiene di essere una specie di genio con un quoziente intellettivo pari al doppio dei normali esseri umani e viene autorizzato dall’organo di autogoverno dei giudici amministrativi, il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (da 10 anni almeno!) a fare corsi di formazione privati. Viene fuori che riesce a tirare su un bilancio di oltre 600.000 euro e a spingere le borsiste piacenti a girare in minigonna durante il suo corso, pena il pagamento di 100.000 euro di penale. Un po’ genio, mi viene da pensare, forse lo è… piuttosto io farei una perizia psichiatrica di massa alle aspiranti magistrate che hanno firmato simili contratti. Detto questo, che alcuni magistrati facciano corsi di formazione facendo guadagnare centinaia di migliaia di euro a società private (intestate in alcuni casi addirittura alla moglie!) non è una novità. Lo scandalo è che l’organo di autogoverno dei giudici amministrativi lo autorizzi. Che poi i giudici che tengono i corsi approfittino della loro posizione per cercare di sedurre le allieve più o meno belle, poi, è questione che è giunta alle mie orecchie più volte, ma, di sicuro, riguardava altri colleghi e non il consigliere Bellomo. Perché il CPGA non approfondisce il tema a 360 gradi e continua ad autorizzare tali incarichi da decenni? Piuttosto ricordiamoci che i giudici amministrativi sono stati già colti in più occasioni in turpi storie di pedofilia (prostituzione minorile per l’esattezza) ma di scandali se ne sono sentiti ben pochi. Perché? Nessuno ha gridato a così alta voce per la destituzione dei protagonisti della vicenda delle “baby squillo dei Parioli” o per chi ha preteso escort minorenni per aggiustare sentenze. La legge non è uguale per tutti? E, mi ripeto, perché non si fanno accertamenti seri sugli altri corsi tenuti dai consiglieri di Stato? Perché l’organo di autogoverno delle toghe amministrative non ha sanzionato i colleghi con la toga che hanno giurato fedeltà alla Repubblica, ma poi si sono rivelati massoni in sonno e invece li ha promossi come presidenti del Tar Calabria e del Tar Sicilia, cioè le regioni più infiltrate dalla masso-mafia? E soprattutto, perché il Consiglio di Stato, il CPGA e la presidenza del Consiglio dei ministri hanno difeso, da 10 anni, l’indifendibile concorso del 2006 vinto dai dottor Giovagnoli e Bellomo, che hanno portato più scandali di chiunque altro dentro Palazzo Spada? La presidenza del Consiglio dei Ministri ed il CPGA sono state interessate più volte al tema del concorso 2006, ma non hanno mai voluto provvedere in autotutela ad annullare il concorso dello scandalo, da anni. E allora, tenetevi stretti il genio di Bellomo e, ormai quasi ai vertici della giustizia amministrativa, un magistrato che non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso, ma almeno… non stupitevi se poi finite sui giornali!
Ecco i doveri (in più) che spettano ai giudici. Ci si chiede come ha fatto un «maestro» di tal fatta a entrare nel Consiglio di Stato che fornisce pareri su regolarità e legittimità degli atti amministrativi, scrive Gian Antonio Stella il 12 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Soldato Jacovacci, ti sarà el più anzian ma ti xé anca el più mona», dice un sottufficiale nel film «La grande guerra» ad Alberto Sordi, appena promosso caporale e già sbronzo di potere. E così verrebbe da rispondere al giudice Francesco Bellomo che, prima di far sparire il materiale più imbarazzante dal web, si vantava anche d’avere «un quoziente intellettivo di 188 (media umana 100)» e d’aver avuto «un’immensa quantità di donne». Peraltro, aggiungeva il gentleman, «di elevata qualità media». Lasciano senza fiato le vanterie da galletto del consigliere di Stato finito in questi giorni sulle prime pagine per le «regole» dettate alle giovani laureate in giurisprudenza che per entrare in magistratura si erano iscritte al suo corso di formazione alla scuola «Diritto e scienza». Basti leggere il diario delle «conquiste» da sciupafemmine sbandierate sulla rivista «scientifica» della scuola e rivelate da Virginia Piccolillo: «Ci incontriamo prima della lezione sul piano dove alloggio e lei mi abbraccia e bacia ripetutamente… Sono stato anni in Sicilia quindi non posso attribuire la veemenza della fanciulla al temperamento della specie femminile locale». Finezze da caserma che mai si sarebbe permesso neppure il mitico «Zanza», storico maschio alfa dei bagnini riminesi. Ma il punto, ovvio, non è questo. Né le fanfaronate ulteriori inserite nei «contratti» da questa specie di Capitan Sputasaette in toga. Come, per citare il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa che lo vuole destituire, «una clausola limitativa relativa a matrimonio e fidanzamento». Per capirci: «applicando i dettami della teoria della selezione naturale» la scelta dei fidanzati «deve cadere sul soggetto che presenta le caratteristiche più vantaggiose. La preferenza deve essere dunque accordata al soggetto più dotato geneticamente». Il punto è: come ha fatto un «maestro» di tal fatta a entrare a Palazzo Spada, la sede di quel Consiglio di Stato che fornisce al governo e alle regioni i pareri sulle regolarità e la legittimità dei vari atti amministrativi e ha l’ultima parola sulle sentenze, spesso delicatissime, dei vari Tar? Fosse anche tecnicamente un genio, la preparazione «scientifica», da sola, può bastare? O un giudice davvero all’altezza dei compiti che gli sono stati affidati, come suggerisce il buon senso, deve essere dotato anche di sobrietà, misura, consapevolezza del ruolo ricoperto? In ogni cesta, ovvio, può esserci una mela ammaccata. O addirittura marcia. Si pensi al giudice milanese, che per non farsi trovare con le mani nel sacco gettò i soldi della corruzione in un cassonetto. O al collega, consigliere di Stato, romano, condannato con rito abbreviato in primo grado a poco più di un anno per prostituzione minorile. Per non dire del caso di un consigliere d’appello che anni fa venne sorpreso mentre compiva, come si diceva, allora «atti innominabili» con un ragazzino: arrestato, processato e condannato se la cavò infine con un’amnistia e la restituzione del grado e degli stipendi. Capita. In tutti i mestieri. Proprio per la delicatezza del compito loro assegnato, però, ai magistrati che devono giudicare gli altri viene chiesto di essere più solleciti nel raccogliere le denunce, più zelanti nell’esaminarle, più severi non solo nel giudicare i reati ma nel pesare l’opportunità di certi comportamenti. Lo sono stati? Sempre? O hanno preferito spesso non calcare la mano o addirittura nascondere la polvere sotto il tappeto come è successo troppe volte nei confronti di chi per anni grondava di arbitrati e ricchissimi incarichi esterni e ci scherzava su dicendo che «la legge è la moglie, gli incarichi l’amante»? Può darsi che scrivere in un «contratto» che «il borsista deve attenersi al “dress code” in calce e, comunque, deve curare la propria immagine anche dal punto di vista dinamico (gesti, conversazione, movimenti), onde assicurarne il più possibile l’armonia, l’eleganza, la superiore trasgressività» non sia un reato. E che non lo sia neppure, in situazioni e lavori e luoghi diversi, suggerire le minigonne e i tacchi a spillo. Può darsi. Ma è opportuno pretendere questi pedaggi da cascamorto in un istituto privato che si presenta come una «Scuola di Formazione Giuridica Avanzata specializzata nella preparazione al concorso in magistratura ordinaria»? Ed è opportuno che altri magistrati in servizio, come il rodigino Davide Nalin, frequentino i convegni anti-violenza e insieme collaborino senza un cenno di dissenso con una rivista come quella citata dove intere puntate sono state dedicate a sgocciolare veleni, con nome e cognome, su una ragazza via via andata in crisi al punto di ridursi a uno scheletro di quarantuno chili? «Non posso raccontare i fatti, perché sono tenuto al silenzio, ma non sono come li hanno descritti», ha detto il consigliere di Stato al Corriere, «Anche se lo fossero però sarebbe solo una vicenda di costume». Sic… Ma cosa insegna, un «professore» che dice una frase così insensata, solo commi, codici e codicilli?
Mentana lancia il servizio su Bellomo: "Gran porco". Il direttore del Tg La7, Enrico Mentana, lancia un servizio su Francesco Bellomo, il consigliere di Stato finito nella bufera per la sua scuola, scrive Claudio Cartaldo, Martedì 19/12/2017 su "Il Giornale". Non si è trattenuto, Enrico Mentana. E nel lanciare la notizia su Francesco Bellomo, il consigliere di Stato finito nella bufera per le vicende emerse sulla sua scuola per aspiranti magistrati che tentano il concorso in magistratura, si è lasciato andare ad un commento che ha già fatto il giro della Rete. "Vediamo un fatto italiano - ha detto il direttore del TgLa7 lanciando il servizio sulla scuola "Diritto e Scienza" di Bellomo - ancora lo scandalo di quel magistrato, gran porco, che, come si sa, adesso finalmente è nel mirino della stessa magistratura". Il servizio del telegiornale raccontava la decisione della magistratura di iscrivere nel registro degli indagati quel consigliere che il Consiglio di Stato aveva deciso di rimuovere a seguito della denuncia di un padre di una delle tante corsiste passate sotto i suoi insegnamenti. I fatti sono ormai noti: l'istituto di cui Bellomo era direttore e coordinatore della rivista assegnava alcune borse di studio a studenti meritevoli. Peccato che poi, secondo quanto emerso dalle testimonianze e dall'istruttoria del Consiglio di Stato, alle borsiste venisse richiesto di firmare un contratto in cui veniva esplicitato il divieto di matrimonio, l'obbligo di fidanzarsi solo con ragazzi/e intelligenti e la richiesta di un vero e proprio dress code per ogni evenienza, dal tacco alto e minigonna per le serate mondane a quello un po' più istituzionale per gli eventi giuridici.
Aspiranti giudici in minigonna. Francesco Bellomo indagato a Bari. Il consigliere di Stato è coinvolto nell’inchiesta avviata dal procuratore aggiunto Rossi. Ipotizzato il reato di estorsione, anche Milano avvia un fascicolo. Sospeso il pm Nalin, scrive il 18 dicembre 2017 "Il Corriere del Mezzogiorno". Il consigliere di Stato Francesco Bellomo è indagato a Bari per estorsione. La procura barese, che nei giorni scorsi aveva aperto un fascicolo d’indagine senza ipotesi di reato, sulla base di alcuni elementi acquisiti ipotizza ora che il magistrato amministrativo abbia obbligato alcune sue allieve della Scuola di formazione per magistrati a presentarsi ai corsi in minigonna, tacchi a spillo e con trucco marcato e preteso che non fossero sposate. La vicenda era stata denunciata dal padre di una studentessa. La Procura di Bari ritiene di essere competente a indagare anche perché una sede della scuola di formazione «Diritto e Scienza» di Bellomo ha sede anche nel capoluogo pugliese, città in cui il magistrato amministrativo risiede. Nel corso dell’indagine il procuratore aggiunto Roberto Rossi, titolare del fascicolo, convocherà in qualità di testimoni alcuni degli scritti al corso e procederà all’acquisizione di altri documenti (anche di natura fiscale) nella scuola.
Si muove anche Milano. Sul caso Bellomo anche la Procura di Milano ha aperto un fascicolo, ma allo stato attuale senza ipotesi di reato né indagati. Al momento si tratta di un fascicolo a «modello 45», ossia relativo ad atti non costituenti notizia di reato e, da quanto si è saputo, non sono arrivate nemmeno denunce a Milano (nel capoluogo lombardo c’è una delle tre sedi della scuola di formazione) contro Bellomo. Per valutare se e come procedere nelle indagini i magistrati milanesi, tra l’altro, si sono messi in contatto con i colleghi della Procura di Bari.
Sospeso il pm. Intanto, mentre a Bari le indagini sono alla fase iniziale, il Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e ha collocato fuori ruolo il pm di Rovigo Davide Nalin, collaboratore del consigliere di Stato Francesco Bellomo nella Scuola di formazione giuridica «Diritto e scienza». A chiedere il provvedimento era stato il Pg della Cassazione Pasquale Ciccolo, che ha anche avviato l’azione disciplinare nei confronti del magistrato. Nalin è accusato di aver fatto da «mediatore» tra Bellomo e una borsista per procurare al collega «indebiti vantaggi», anche di «carattere sessuale». Quello del «tribunale delle toghe» è un provvedimento cautelare, adottato in via d’urgenza. Occorre evitare che Nalin possa reiterare «condotte «gravemente scorrette» e «incompatibili» con le funzioni giudiziarie, aveva scritto Ciccolo nel motivare la sua richiesta. Perché si tratta di vicende di «tale degrado» da ledere non solo la personale «credibilità» del pm , ma quella dell’«intera giurisdizione».
La notizia data da Legnini. A rendere noto che la Sezione disciplinare del Csm ha sospeso il magistrato è stato il vice presidente Giovanni Legnini, intervenendo alla Camera alla conferenza di «Italiadecide», dedicata alla cooperazione tra le giurisdizioni superiori. «Proprio oggi abbiamo deciso la sospensione di un magistrato ordinario e da quanto so analoga decisione dovrà assumere il Consiglio di Stato entro breve termine». Lo ha annunciato il vicepresidente del CSM Giovanni Legnini che intervenendo a un convegno alla Camera ha fatto riferimento al caso che coinvolge il pm di Rovigo Davide Nalin e il consigliere di Stato Francesco Bellomo.
La procedura. La commissione speciale del Consiglio di Stato che dovrà redigere il parere con la proposta di destituzione del consigliere Francesco Bellomo, si riunirà - a quanto si apprende - mercoledì 20 dicembre. Il parere dovrà poi essere steso e passare all’esame dell’adunanza generale, che verrà convocata il 10 gennaio e a cui parteciperanno i circa cento consiglieri che la compongono, provenienti da tutta Italia. La decisione dell’adunanza dovrà a questo punto essere formalizzata dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa. La destituzione, ossia la rimozione definitiva dai ranghi della giustizia amministrativa, è la sanzione più alta prevista in quest’ambito e non ha praticamente precedenti.
Un fake account per controllare le corsiste. Veniva utilizzato anche un fake account su Facebook per il monitoraggio delle abitudini delle corsiste della Scuola per la preparazione al concorso in magistratura gestita dal consigliere di Stato Francesco Bellomo. Ne parla - a quanto si è appreso - l’ordinanza con cui il Csm ha sospeso il pm di Rovigo Davide Nalin.
Aspiranti giudici in minigonna: il magistrato del Consiglio di Stato Bellomo indagato per estorsione, sospeso il pm Nalin di Rovigo, scrive il 19 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Ipotizzato il reato di estorsione ai danni delle allieve. Il consigliere di Stato obbligava delle sue allieve della scuola di formazione a presentarsi ai corsi in tacchi a spillo e con trucco marcato. Una testimone: “Altre quattro ragazze vittime”. Obbligo di minigonna e tacchi a spillo, trucco marcato e la pretesa che non fossero sposate o fidanzate in cambio di una borsa di studio. La Procura di Bari nei giorni scorsi aveva aperto un fascicolo d’indagine senza ipotesi di reato, coordinata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, che aveva affidato le indagini ai Carabinieri ed alla Guardia di Finanza, ma grazie ad alcuni nuovi elementi acquisiti, ora ipotizza che il contratto imposto dal magistrato (e consigliere di Stato) Francesco Bellomo ad alcune studentesse del suo corso di magistratura costituirebbe di fatto una vera e propria estorsione. La vicenda era stata denunciata dal padre di una studentessa. Bellomo che rischia anche di essere destituito dalla magistratura, è stato quindi formalmente iscritto nel registro degli indagati dalla Procura barese, mentre vengono alla luce altre quattro giovani studentesse che avrebbero subito lo stesso “trattamento”. Quanto accadeva in quei corsi, che si tengono periodicamente annualmente a Bari, Roma e Milano (motivo per cui anche la Procura del capoluogo lombardo ha aperto un’indagine conoscitiva senza indagati né ipotesi di reato), è stato rivelato ai magistrati della Procura di Bari da una delle vittime, l’avvocata Rosa Calvi 28enne di Cerignola (Foggia), ascoltata in qualità di “persona informata dei fatti”. Con una deposizione durata circa due ore ha raccontato come Bellomo avrebbe tentato di convincerla un anno fa a firmare quel contratto, ma soltanto ora lei ha trovato il coraggio di raccontarli. “Avevo paura di ripercussioni sulla mia carriera”, ha detto la giovane avvocatessa lasciando il Palazzo di Giustizia, dicendo di essere a conoscenza di esperienze simili vissute da almeno altre quattro ragazze. Lei rifiutò di firmare quel codice di comportamento che prevedeva un dress code, minigonne, tacchi altri e trucco. “Bellomo disse che ero una stupida a dire di no, perché di solito gli dicevano di sì, e mi cacciò dal corso”. Una esperienza amara a tal punto da averle fatto desistere dal sogno di diventare magistrato. “Ma non ci rinuncio – ha detto – perché so che fare il magistrato non è questo e non bisogna permettere alle persone di rubare i sogni”.
“Mia figlia sta cercando di tornare a una vita normale”, racconta il padre della ragazza piacentina, laureata alla Cattolica di Piacenza, che ha denunciato vessazioni e minacce durante il corso per aspiranti magistrati, e riferisce che sua figlia ora sta meglio ma “questa odissea le ha distrutto la vita. Ha ripreso a mangiare e a studiare, ma è ancora in cura dagli psicologi”. Aggiungendo che la figlia “è stata sotto ricatto per troppo tempo attraverso il contratto che come borsista doveva firmare per mantenere la borsa di studio»”. Bellomo dopo aver appreso della denuncia, avrebbe cercato, di arrivare a una conciliazione con la ragazza. I Carabinieri “sono venuti più volte, chiedevano a mia figlia di firmare un atto di conciliazione. Sono venuti a maggio, e poi a ottobre, ma lei era in ospedale”, conclude. Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione Pasquale Ciccolo, ha avviato l’azione disciplinare nei confronti del magistrato, chiedendo ed ottenendo dal Consiglio Superiore della Magistratura (di cui è componente di diritto) la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio ed il collocamento fuori ruolo per il pm Davide Nalin in servizio presso la Procura di Rovigo , collaboratore del consigliere di Stato Bellomo nella Scuola di formazione giuridica “Diritto e scienza“, accusato di aver fatto da “mediatore” tra Bellomo e una borsista per procurare al collega “indebiti vantaggi“, anche di “carattere sessuale“. Il vicepresidente del CSM Giovanni Legnini intervenendo ad un convegno alla Camera dei Deputati facendo riferimento al caso che coinvolge il pm Nalin e il consigliere di Stato Bellomo ha reso noto che “proprio oggi abbiamo deciso la sospensione di un magistrato ordinario e da quanto so analoga decisione dovrà assumere il Consiglio di Stato entro breve termine”. La commissione speciale del Consiglio di Stato dovrà infatti redigere il parere con la proposta di destituzione del consigliere Francesco Bellomo, si riunirà domani mercoledì 20 dicembre. Il parere dovrà poi essere redatto e passare all’esame dell’adunanza generale, che verrà convocata il 10 gennaio e a cui parteciperanno i circa cento consiglieri che la compongono, provenienti da tutta Italia. La decisione dovrà poi essere formalizzata dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa. Dall’ordinanza del Csm emergono nuovi particolari sulla vicenda, come un fake account su Facebook che sarebbe stato usato per monitorare le abitudine delle corsiste. Il magistrato di Rovigo si difende commentando la decisione del Csm: “è un provvedimento che fatico a comprendere e che inevitabilmente impugnerò, continuando ad avere fiducia nella magistratura, alla quale ho dedicato la mia vita”, dice Nalin, che si difende ed aggiunge: “Non è affatto vero che mi sia prodigato per indurre ragazze ad assecondare richieste illecite del consigliere Bellomo. Non ho mai fatto nulla di tutto ciò, così come nulla che potesse essere letto come costrizione, men che meno facendo leva sulla mia figura istituzionale”. Francesco Bellomo, il giudice del Consiglio di Stato ancora per poco, si difende così “Il processo in corso è alle mie idee, si vuole applicare un giudizio morale su aspetti che riguardano la mia vita privata e un approccio disciplinare che nessuno capisce perché è troppo moderno”. Bellomo ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali con alcune allieve, sostenendo che però sarebbero state consenzienti. E nega alcune accuse difendendo il suo corso: “Il mio è un metodo scientifico di intendere la funzione della ragione nelle cose umane. Tutti i geni, Einstein, si sono dovuti difendere dagli attacchi di chi non ne conosceva le idee. Non avrei voluto divulgare le mie, ma sono venute fuori. Allora perché non dite che funzionano? Le mie allieve (e i miei allievi) hanno superato il concorso più di quelle di qualunque altro corso. E poi il dress code non è quello che scrivete”.
Caso Bellomo, il giudice risponde alle accuse: "Mi sento tradito e usato dalle ragazze". Il magistrato, indagato dalle procure di Bari e Milano, parla del rapporto con le allieve della sua scuola. E aggiunge: "I prossimi anni saranno dedicati a far emergere la verità", scrive il 19 dicembre 2017 "La Repubblica". Dice di "sentirsi tradito e usato" Francesco Bellomo, il magistrato e consigliere di Stato finito sotto accusa dopo le denunce di alcune allieve del suo corso in magistratura. Per lui quelle ragazze gli "sono state accanto o hanno aderito ai corsi solo per interesse personale e non mosse da veri sentimenti o convinzioni ideali, come invece professavano". Parla così Bellomo ai giornalisti dell'Ansa, dopo che, per indagare i suoi metodi di insegnamento, sono state aperte due inchieste: una a Bari e l'altra a Milano, dove c'è un'altra sede della sua scuola. "Con talune - continua il consigliere di Stato, che si è rivolto per la difesa al professor Vittorio Manes e all'avvocato Beniamino Migliucci - ho avuto relazioni sentimentali e mai nessuna, sino a quando il rapporto è durato, mi ha eccepito un qualche comportamento sgradito, anzi insistendo perché la relazione acquistasse importanza. Quanto alle altre (un ridottissimo numero di allieve titolari di borsa di studio), esse mi chiedevano di prepararle e guidarle per affrontare al meglio il concorso in magistratura, esprimendo piena e convinta adesione al mio metodo di insegnamento". Molte di loro, continua il consigliere "non diversamente da tanti altri allievi, hanno anche brillantemente superato le prove di concorso, manifestandomi riconoscenza. Adesso vedo costruita (senza averne peraltro alcuna formale notizia) sui loro racconti un'accusa di estorsione e assisto impotente al tramonto di una carriera a cui nessun rimprovero può essere mosso (e mai è stato mosso)". Poi una frase dedicata al futuro: "I prossimi anni della mia vita saranno probabilmente destinati a far emergere la verità, sopportandone il costo morale e materiale. Ma quando ciò accadrà, si saranno prodotti danni irreparabili: nella 'civiltà' moderna un uomo può essere devastato da false informazioni e giudizi sommari senza avere, in sostanza, alcuna possibilità di difesa".
Il caso Bellomo, tra magistratura e Scientology, scrive il 20 dicembre 2017 Luca D’Ammando su "Pianetablog.com. «Tutti i geni, anche Einstein, si sono dovuti difendere dagli attacchi di chi non ne conosceva le idee. Non avrei voluto divulgare le mie, ma sono venute fuori». Così parlò Michele Bellomo, magistrato, membro del Consiglio di Stato, accusato di una lunga e bizzarra lista di abusi e molestie dalle studentesse che frequentavano i suoi corsi di formazione per entrare in magistratura. Mentre Bellomo rischia di essere espulso dal Consiglio di Stato, le procure di Piacenza, Bari e Milano hanno aperto fascicoli d’indagine su di lui. I fatti, in breve, per capire meglio il personaggio e come sia riuscito a convincere aspiranti magistrati ad affidarsi a lui come fosse un moderno Zarathustra («Io vi insegnerò cos’è il Superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto per superarlo?» scrive Nietzsche in uno dei suoi passi più noti). Barese, dal 2005 più giovane membro del Consiglio di stato, massima espressione della giustizia amministrativa, è anche direttore della scuola di formazione per magistrati in diritto amministrativo “Diritto e scienza”, che organizza corsi a Bari, Roma e Milano. Nel curriculum pubblicato sul sito della scuola, ora eliminato, scrive di sé: «È accreditato […] di un Q.I. = 188 (media umana = 100)»; si definisce «studioso delle discipline a carattere scientifico, nel cui ambito ha conseguito titoli internazionali» e il suo grande risultato sarebbe l’applicazione della «teoria della relatività generale nel diritto». Si tratta di «un metodo scientifico di intendere la funzione della ragione nelle cose umane». Che il personaggio fosse particolare, bizzarro, era noto nell’ambiente da anni. Basta andare a dare un’occhiata ai forum per aspiranti magistrati per trovare giudizi critici e aneddoti interessanti dal 2015 in poi (). Geniale per alcuni (oltre che per se stesso), cialtrone e sessista per molti altri. Comunque non particolarmente noto all’opinione pubblica, se è vero che nell’archivio dell’Ansa non c’è traccia del suo nome prima delle accuse di molestie degli ultimi mesi. Scrive Bellomo a una sua studentessa nel 2016: «Venerdì sera, quando entro in stanza, ti metti in ginocchio e mi dici: “Ti chiedo perdono, non lo farò mai più”. Non è il significato della sottomissione, ma della solennità. Come le forme rituali». E in effetti più che un corso per diventare magistrato, quello gestito dal consigliere di Stato assomigliava a una setta in stile Scientology. È stato il sostituto procuratore della Cassazione Mario Fresa a evocare The Master, il film ispirato alla figura del fondatore di Scientology Ron Hubbard, nell’udienza davanti alla Sezione disciplinare del Csm che ha poi deciso di sospendere il pm di Rovigo Davide Nalin, accusato di aver fatto da “mediatore” tra Bellomo e alcune borsiste per procurare al collega «indebiti vantaggi», anche di «carattere sessuale». In questa storia c’è poi un contratto, ancora meglio, un contratto riservato («Esistono delle clausole di riservatezza. Come negli Stati Uniti», spiega oggi Bellomo). Funzionava così: gli studenti più meritevoli potevano ottenere una borsa di studio per la scuola di formazione e Bellomo, in quanto direttore, decideva a chi dare questa borsa, per lo più ad allieve. Quindi mostrava ai prescelti un contratto che avrebbero dovuto firmare e, a volte, chiedeva di superare alcune prove. Tra le condizioni contenute nel contratto: la scrittura di articoli per la rivista “Diritto e Scienza”, la partecipazione a studi e convegni, ma anche un dress code dettagliato con minigonne «da 1/2 a 2/3 della lunghezza tra giro vita e ginocchio», trucco con «valorizzazione di zigomi e sopracciglia» e tacco 8-12 «non a spillo». Per i borsisti maschi jeans strappati e maglie aderenti nel profilo casual fino ai pantaloni ai completi classici. Scarpe solo Nike o Hogan. Firme da prediligere Armani, Dolce Gabbana e Versace. E poi il controllo sulla vita sentimentale. Si legge nel contratto: «La scelta del partner (del borsista, ndr), applicando i dettami della teoria della selezione naturale, deve cadere sul soggetto che presenta le caratteristiche più vantaggiose. La preferenza deve essere dunque accordata al soggetto più dotato geneticamente». Una delle studentesse ha raccontato: «C’era anche una clausola riguardante la scelta del fidanzato. Le borsiste avrebbero dovuto assegnare un punteggio algoritmico al loro fidanzato e confrontarlo con il punteggio assegnato da Bellomo. Se i due punteggi non coincidevano, prevaleva quello assegnato dal consigliere Bellomo». Anche perché il borsista – sempre secondo il codice – «non potrà mantenere o avviare relazioni intime con soggetti che non raggiungano il punteggio di 80/100 se appartenente alla prima fascia, di 75/100 se appartenente alla seconda fascia. Il borsista decade automaticamente non appena contrae matrimonio». Gettati in uno stato di «prostrazione psicologica», per il timore di vedersi precluso l’accesso in magistratura, finivano per accettare tutto quello che veniva loro richiesto da Bellomo. Almeno otto studentesse hanno raccontato a giornali e magistrati cosa significassero in pratica queste istruzioni. Rosa Calvi, 28 anni, ha detto al Corriere della Sera che Bellomo, per ottenere la borsa di studio, le chiese di affrontare una serie di prove: «Andare in Ferrari con lui ad alta velocità oppure passeggiare in una via di locali e scegliere il migliore». Il padre di una studentessa di Piacenza, l’uomo che per primo ha denunciato Bellomo, nel dicembre 2016, ha raccontato sempre al Corriere della Sera: «Mia figlia era stata insieme con Bellomo (a questo punto non so quanto volontariamente o per contratto). Com’era successo anche ad altre, lui poi raccontava particolari intimi delle sue relazioni sulla rivista a disposizione degli studenti. Peggio della gogna del web, perché poi i tuoi compagni sanno se hai dormito con questo o l’altro, se sei stata brava, se il tuo fidanzato è un deficiente. Era obbligata al segreto. Sapeva che lui fa causa e le vince tutte e la clausola era da 100mila euro». Ma la rivendicazione massima dell’autorità di Bellomo nei confronti dei sottoposti emerge dal punto del contratto in cui il magistrato si definisce «l’agente superiore» a cui il borsista deve «fedeltà». L“agente superiore” è la figura prodotta dalla filosofia di Bellomo. Una figura chiamata ad alti compiti, in grado di applicare a ogni ambito della vita umana – amore compreso – criteri razionali e matematici, capace di attingere, se non superare, nei vari ambiti prestazionali, il limite fisico del possibile. Non è una novità sentire parlare di uomini superiori, che devono preferibilmente accompagnarsi a loro simili, da scegliere, anche in relazioni sentimentali, in base a canoni relativi a intelligenza superiore, ma anche bellezza. Era una delle premesse del nazismo, della teorizzazione della razza superiore. Ma forse ci stiamo spingendo oltre. Più prosaicamente, la pista superomistica ritorna ciclicamente nei casi giudiziari che invitano a una narrazione da romanzo giallo. Una mente superiore alle prese con il crimine perfetto: una ricetta che funziona sempre nella letteratura come nel cinema, da Frenesia del delitto a Nodo alla gola fino al più inflazionato Delitto e castigo. Una chiave interpretativa facile da applicare, soprattutto quando è più complicato rimanere legati ai fatti: emblematico il caso di Giovanni Scattone, diventato il mostro perfetto anche grazie al ritratto che ne fecero i pm, il freddo genio che con il compare commette un delitto solo per il gusto di farlo e di dimostrare di farla franca. Eppure nel nostro caso è lo stesso Bellomo a volerci rimandare alla letteratura: «Dal punto di vista statistico sono il miglior investigatore dopo Sherlock Holmes», scrive sempre sulla sua rivista. Infine, a rendere questa storia ancora più attraente per i media, a solleticarne i pruriti, c’è l’appartenenza a una casta, la magistratura. Ora tutti a chiedersi: come è stato possibile che dal dicembre dello scorso anno questo «gran porco», per dirla alla Mentana, sia rimasto al suo posto nel Consiglio di Stato? Il suo ambiente gli ha consentito di portare avanti impunemente comportamenti del genere per anni, sembrerebbe. Ma qui si va oltre anche ai tic proprio di certi magistrati, a quel malcelato senso di onnipotenza che deriva loro dal ruolo. Bellomo ci ha portati in una dimensione al limite del reale, se non ci fossero i testi, i contratti e le testimonianze delle ragazze che mostrano i danni reali di un magistrato che si crede un superuomo.
Toghe sexy, Nalin e la teoria del superuomo. Il pm di Rovigo indagato. Le accuse: atti persecutori e lesioni personali gravi, scrive il 20 dicembre 2017 "Il Corriere della Sera". Atti persecutori e lesione personale grave: sono i reati per i quali sono indagati dalla procura di Piacenza in concorso tra di loro il consigliere di Stato Francesco Bellomo e il pm di Rovigo Davide Nalin. Lo si evince dall’ordinanza con cui il Csm il 15 dicembre scorso ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio Nalin e lo ha collocato fuori dal ruolo della magistratura.
L’interrogatorio. Bellomo, a Bari, è indagato anche per estorsione. Davanti alla Sezione disciplinare del Csm il pm di Rovigo Davide Nalin ha negato di aver avuto il ruolo di coordinatore dei borsisti o comunque di stretto collaboratore del consigliere di Stato Michele Bellomo nella Scuola «Diritto e scienza» per la preparazione al concorso in magistratura. E ha spiegato di essersi occupato solo della rivista del corso. Non solo però il «tribunale delle toghe» non gli ha creduto, ritenendo la sua una collaborazione a tutto tondo alla Scuola di Bellomo, rispetto al quale - secondo i giudici disciplinari - era una sorta di alter ego.
La teoria del «superuomo». Ma nel decidere di sospenderlo dalle funzioni e dallo stipendio, il tribunale ha tenuto conto anche del tenore dei suoi articoli sulla rivista; scritti che - secondo il Csm - più che affrontare complesse questioni giuridiche sembravano avallare la teoria del superuomo, l’«agente superiore» che si distingue dalla massa di «sfigati» e che ha al suo fianco una «fidanzata-segretaria» chiamata a dargli sostegno psicologico e fisico. Quanto al ruolo di Nalin nella Scuola, la Sezione disciplinare fa riferimento non solo alle dichiarazioni delle borsiste che lo hanno descritto come stretto collaboratore di Bellomo ma anche a quelle dello stesso consigliere di Stato che ha detto che il collega era coinvolto nell’attività di ricerca di «Diritto e giustizia».
Toghe a luci rosse, caso Bellomo. Intervista alla 28enne di Cerignola Rosa Calvi, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno". Articolo riportato da "La Notizia Web" il 21 dicembre 2017. È stata ascoltata nel pomeriggio di lunedì in Procura a Bari, come persona informata dei fatti, l’avvocatessa 28enne di Cerignola Rosa Calvi nell’ambito dell’indagine per estorsione a carico del Consigliere di Stato Francesco Bellomo. L’uomo è accusato di aver imposto ad alcune studentesse che seguivano il suo corso di magistratura un codice di comportamento e un dress code, minigonna e tacchi alti, in cambio di un borsa di studio. I fatti raccontati risalirebbero ad un anno fa e sarebbero avvenuti a Roma, dove la ragazza seguiva il corso, dal quale poi sarebbe stata “cacciata” per aver rifiutato le condizioni imposte da Bellomo. Contattata telefonicamente l’avvocatessa, aspirante magistrato, è ritornata sulla sui fatti e sull’importanza di denunciare. Dopo esser stata contattata da altre ragazze, crede che si aprirà un filone di denunce figlie del suo coraggio? «Questo è uno dei motivi per cui mi sono esposta e ho parlato con la stampa – dichiara Rosa Calvi a La Gazzetta -. Io spero che ci sia la fila delle ragazze pronte a raccontare la loro esperienza; da un lato spero che la raccontino e dall’altro spero che non sia successa a troppe persone, perché non è sicuramente un’esperienza piacevole da vivere. Alcune ragazze mi hanno contattato. Alcune di queste hanno avuto una storia molto pesante, altre si sono rese disponibili a raccontare solo ciò che dall’esterno hanno potuto vedere. Quindi non sono state coinvolte in prima persona. Ma sono pronte a raccontare qual che hanno visto dall’esterno». Esiste un tempo “giusto” per trovare il coraggio di denunciare? «I tempi lunghi ci possono stare. Io stessa non avrei mai capito la cosa se non dopo averla vissuta. E comunque è sempre difficile per una persona denunciare fatti spiacevoli. Stiamo parlando di una persona che rispetto ad una studentessa è di rango superiore professionalmente, è un consigliere di stato, e questo volente o nolente crea un certo timore. Subito non si trova il coraggio di denunciare una cosa del genere, perché si ha il timore di avere delle ripercussioni sulla carriera. Non mi sento di puntare il dito contro le ragazze che non hanno parlato, perché anch’io non l’ho fatto subito, nonostante le persone a me vicine dicevano “dovresti denunciare”. Mi sentivo troppo piccola rispetto a lui. Adesso che è venuta fuori questa vicenda, partita dal coraggio di un papà, io mi sono accodata e a me si stanno accodando altre ragazze, che hanno capito che non sono, non siamo, sole. Io lo faccio anche per ripulire la categoria della magistratura, perché i magistrati non sono così assolutamente. Ho molta fiducia nella giustizia e ho dato il mio piccolo contributo». Questa vicenda oltre a condizionare la sua vita, ha ripercussioni sulla sua carriera professionale? Studierà ancora per diventare un magistrato? «Si. Mi sono bloccata perché ero turbata e non avevo la giusta serenità per studiare. Ora però, dopo tutto quanto, grazie anche alle persone che mi sono state vicine e mi hanno sostenuta, ho capito che non posso permettere a questa vicenda e a questa persona di rubarmi il futuro. Devo continuare perché lo devo a me stessa. Cercherò di realizzare questo sogno». L’inchiesta di Carabinieri e Guardia di Finanza, coordinata dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, era stata inizialmente aperta senza ipotesi di reato, salvo poi contestare l’estorsione. La questione disciplinare sarà discussa il prossimo 10 gennaio dall’adunanza generale del Consiglio di Stato, dopo aver ottenuto il parere della commissione speciale (che si riunirà domani). La decisione dovrà poi essere formalizzata dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa.
ESPULSIONE – Il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (CPGA) ha già deliberato la destituzione del consigliere di Stato Francesco Bellomo, cioè l’espulsione definitiva dai ruoli della magistratura amministrativa. La procedura prevede, per la gravità della sanzione, che debba essere acquisito il parere dell’adunanza generale, già fissata per il prossimo 10 gennaio. La Commissione Speciale del Consiglio di Stato, che si riunisce oggi, è incaricata di sottoporre all’adunanza generale, alla quale partecipano tutti i Consiglieri di stato in servizio (circa 100), la proposta di parere. L’attività della Commissione, come tutta l’attività istruttoria di natura disciplinare, è coperta da riservatezza. Bellomo si difende definendo quelle delle ragazze che lo accusano «narrazioni surreali, che riferiscono in maniera del tutto falsata i rapporti intercorsi tra me ed alcune ragazze. Con talune – spiega il consigliere di Stato, che si è rivolto per la difesa al professor Vittorio Manes e all’avvocato Beniamino Migliucci – ho avuto relazioni sentimentali e mai nessuna, sino a quando il rapporto è durato, mi ha eccepito un qualche comportamento sgradito, anzi insistendo perché la relazione acquistasse importanza. Quanto alle altre (un ridottissimo numero di allieve titolari di borsa di studio), esse mi chiedevano di prepararle e guidarle per affrontare al meglio il concorso in magistratura, esprimendo piena e convinta adesione al mio metodo di insegnamento».
Caso Bellomo: borsista, “era Nalin a selezionarci”. “E controllava che rispettassimo regolamento”. Nalin nega ma Csm non gli crede, scrive la Redazione di Norbaonline il 20 dicembre 2017. Era il pm di Rovigo Davide Nalin a selezionare le borsiste della Scuola del consigliere di Stato Francesco Bellomo per la preparazione del concorso in magistratura. Ed era sempre lui a controllare che le ragazze rispettassero tutte le clausole del contratto che sottoscrivevano. Lo ha riferito una delle borsiste che ha testimoniato nel procedimento disciplinare a carico di Bellomo. Tra le clausole c'era il divieto di sposarsi o di avere fidanzati al di sotto di un certo quoziente intellettivo, secondo la denuncia che ha fatto scoppiare il caso, presentata alla procura di Piacenza e al Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, dal padre di un'altra borsista che con Bellomo aveva avuto una relazione. Davanti alla Sezione disciplinare del Csm il pm di Rovigo Davide Nalin ha negato di aver avuto il ruolo di coordinatore dei borsisti o comunque di stretto collaboratore del consigliere di Stato Michele Bellomo nella Scuola "Diritto e scienza" per la preparazione al concorso in magistratura. E ha spiegato di essersi occupato solo della rivista del corso. Non solo però il "tribunale delle toghe" non gli ha creduto, ritenendo la sua una collaborazione a tutto tondo alla Scuola di Bellomo, rispetto al quale, secondo i giudici disciplinari, era una sorta di alter ego. Ma nel decidere di sospenderlo dalle funzioni e dallo stipendio, ha tenuto conto anche del tenore dei suoi articoli sulla rivista; scritti che, secondo il Csm, più che affrontare complesse questioni giuridiche sembravano avallare la teoria del superuomo, l'"agente superiore" che si distingue dalla massa di "sfigati" e che ha al suo fianco una "fidanzata-segretaria" chiamata a dargli sostegno psicologico e fisico. Quanto al ruolo di Nalin nella Scuola, la Sezione disciplinare fa riferimento non solo alle dichiarazioni delle borsiste che lo hanno descritto come stretto collaboratore di Bellomo ma anche a quelle dello stesso consigliere di Stato che ha detto che il collega era coinvolto nell'attività di ricerca di "Diritto e giustizia". Fu lo stesso consigliere di Stato Francesco Bellomo a raccontare a una delle sue corsiste della Scuola per la preparazione del concorso in magistratura che aveva carpito informazioni sulla vita privata di alcune persone grazie all'intervento del pm di Rovigo Davide Nalin. Così ha riferito la donna nel procedimento disciplinare a carico del magistrato. Il mezzo era un falso profilo Facebook che Bellomo, secondo quanto lui stesso avrebbe riferito, aveva fatto aprire a Nalin. Sia davanti la Commissione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, sia davanti alla procura di Piacenza, la stessa corsista ha descritto Nalin come collaboratore di Bellomo: fu il pm di Rovigo a sottoporle il regolamento che doveva essere rispettato dai borsisti e che li vincolava anche a tenere un certo abbigliamento, minigonne e tacchi a spillo per le donne, in determinate occasioni.
Bellomo, deliberata la destituzione del consigliere di Stato: a gennaio la decisione finale. L’attività della Commissione, come tutta l’attività istruttoria di natura disciplinare, è coperta da riservatezza, scrive il 21/12/2017 la Redazione di "Ilikepuglia.it". Il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (CPGA) ha già deliberato la destituzione del consigliere di Stato Francesco Bellomo, cioè l’espulsione definitiva dai ruoli della magistratura amministrativa. La procedura prevede, per la gravità della sanzione, che debba essere acquisito il parere dell’adunanza generale, già fissata per il prossimo 10 gennaio. La Commissione Speciale del Consiglio di Stato è incaricata di sottoporre all’adunanza generale, alla quale partecipano tutti i Consiglieri di stato in servizio (circa 100), la proposta di parere. L’attività della Commissione, come tutta l’attività istruttoria di natura disciplinare, è coperta da riservatezza.
Caso Bellomo, altri magistrati potrebbero subire l'azione disciplinare, scrive Mercoledì 20 Dicembre 2017 “Il Messaggero”. Altri giudici, oltre al pm di Rovigo Davide Nalin, sarebbero coinvolti, a vario titolo, nella gestione della Scuola fondata del consigliere di Stato Francesco Bellomo per la preparazione del concorso in magistratura nella quale ai corsisti veniva imposto un dress code, fatto per le donne di minigonne e tacchi a spillo. La procura generale della Cassazione sta avviando accertamenti su di loro dopo aver ricevuto dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa le carte del procedimento disciplinare a carico di Bellomo. I magistrati ordinari, per i quali venisse accertato un loro ruolo nella Scuola, rischierebbero di subire un'azione disciplinare, perché avrebbero violato la norma che vieta a giudici e pm di gestire o insegnare nelle scuole di preparazione per il concorso in magistratura.
Bellomo, indaga anche Piacenza. Primo sì alla sua espulsione. Altri magistrati nel mirino. Il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa ha deliberato: la destituzione definitiva toccherà all'adunanza generale del Consiglio di Stato il 10 gennaio, scrive il 20 Dicembre 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno”. Non solo l’inchiesta per estorsione aperta a suo carico dalla procura di Bari e il rischio di essere destituito dalla giustizia amministrativa, che si potrebbe concretizzare a breve. Sul capo del consigliere di Stato Francesco Bellomo arriva un’altra tegola, legata sempre alla sua Scuola per la preparazione al concorso di accesso alla magistratura, in cui alle borsiste veniva imposto un dress code (minigonne, tacchi a spillo e trucco marcato) e la risoluzione del contratto se si fossero sposate, secondo la denuncia del padre di una di loro, che ha fatto scoppiare il caso. L’esposto è stato presentato al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e alla procura di Piacenza che ora ha iscritto nel registro degli indagati sia Bellomo, sia il pm di Rovigo Davide Nalin, indicato da alcune corsiste come uno stretto collaboratore del consigliere di Stato nella Scuola "Diritto e scienza» e che per questa stessa vicenda qualche giorno fa è stato sospeso dal Csm dalle funzioni e dallo stipendio. Atti persecutori e lesioni personali gravi sono le ipotesi di reato contestate ai due magistrati in concorso, a quanto emerge dall’ordinanza del Csm su Nalin. Preoccupati per la fuga di notizie e per la «campagna mediatica che sta caratterizzando questa vicenda» sono i legali di Bellomo, Vittorio Manes e Beniamino Migliucci: «non vi è alcun elemento di novità», dicono, sono gli stessi fatti «già contestati nel procedimento disciplinare». Intanto altri magistrati rischiano l’azione disciplinare: sono giudici ordinari coinvolti a vario titolo nella Scuola. La procura generale della Cassazione si appresta ad avviare accertamenti sul loro conto. E se il loro ruolo fosse confermato potrebbero vedersi contestare la violazione della norma che impedisce alle toghe ordinarie di gestire o insegnare nelle scuole di preparazione per il concorso in magistratura. Tornando all’inchiesta di Piacenza, tutto è partito dunque dall’esposto del padre di una borsista, secondo cui la figlia dopo aver chiuso una relazione sentimentale con Bellomo si vide notificare dai carabinieri un avviso a presentarsi in caserma per un tentativo di conciliazione con il magistrato, che l'accusava di lesioni personali. Richieste che vennero ripetute per presunti inadempimenti contrattuali legati alla sua borsa di studio e che fecero finire la studentessa in uno stato tale di prostrazione da determinare il suo ricovero d’urgenza in ospedale. E’ stata poi la ragazza a indicare Nalin come "mediatore» tra lei e Bellomo ogni volta che il loro rapporto si faceva critico: come quando lei aveva esitato a inviare una sua foto intima al consigliere di Stato o a definire il periodo di ferie da trascorrere insieme. E a raccontare che il pm in un’occasione le avrebbe prospettato che se non fosse stata accondiscendente a queste richieste avrebbe commesso reati che le avrebbero impedito la partecipazione al concorso in magistratura. Ad aggravare la posizione dei due magistrati, ci sono le testimonianze di altre tre borsiste ascoltate nel procedimento disciplinare a carico di Bellomo: una ha raccontato di aver saputo dallo stesso consigliere di Stato che carpiva informazioni sulla vita privata delle studentesse grazie a un falso profilo Facebook che aveva fatto aprire a Nalin. Le altre che era proprio Nalin a sottoporre loro il regolamento del corso, dress code compreso, e a vigilare sul rispetto degli impegni assunti con quel contratto. Racconti che hanno indotto il Csm a ritenere il pm di Rovigo un vero e proprio alter ego di Bellomo.
ESPULSIONE - Il Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (CPGA) ha già deliberato la destituzione del consigliere di Stato Francesco Bellomo (finito sotto accusa e indagato per estorsione per il presunto dress code imposto alle candidato a suoi corsi di preparazione ai concorsi in magistratura), cioè l'espulsione definitiva dai ruoli della magistratura amministrativa. La procedura prevede, per la gravità della sanzione, che debba essere acquisito il parere dell’adunanza generale, già fissata per il prossimo 10 gennaio. La Commissione Speciale del Consiglio di Stato, che si riunisce oggi, è incaricata di sottoporre all’adunanza generale, alla quale partecipano tutti i Consiglieri di stato in servizio (circa 100), la proposta di parere. L’attività della Commissione, come tutta l’attività istruttoria di natura disciplinare, è coperta da riservatezza. Una delle presunte vittime è stata ascoltata nel pomeriggio di lunedì in Procura a Bari, in qualità di persona informata dei fatti: si tratta dell’avvocatessa 28enne di Cerignola Rosa Calvi. I fatti raccontati risalirebbero ad un anno fa e sarebbero avvenuti a Roma, dove la ragazza seguiva il corso, corso dal quale poi sarebbe stata “cacciata” per aver rifiutato le condizioni imposte da Bellomo. Il giudice si difende definendo quelle delle ragazze che lo accusano «narrazioni surreali, che riferiscono in maniera del tutto falsata i rapporti intercorsi tra me ed alcune ragazze. Con talune - spiega il consigliere di Stato, che si è rivolto per la difesa al professor Vittorio Manes e all’avvocato Beniamino Migliucci - ho avuto relazioni sentimentali e mai nessuna, sino a quando il rapporto è durato, mi ha eccepito un qualche comportamento sgradito, anzi insistendo perché la relazione acquistasse importanza. Quanto alle altre (un ridottissimo numero di allieve titolari di borsa di studio), esse mi chiedevano di prepararle e guidarle per affrontare al meglio il concorso in magistratura, esprimendo piena e convinta adesione al mio metodo di insegnamento».
Caso Bellomo, altri magistrati rischiano sanzioni, scrive Antonella Mascali su "Il Fatto Quotidiano" il 21 Dicembre 2017. Per ora siamo agli accertamenti preliminari, ma pare che ci siano dei magistrati ordinari che ha no fatto i docenti, sia pure saltuariamente, alla scuola “Diritto e Scienza” dove insegnava il consigliere di Stato Francesco Bellomo. La Procura Generale della Cassazione sta facendo i dovuti accertamenti e se otterrà i riscontri si apriranno i procedimenti disciplinari per violazione della circolare del Csm che vieta ai magistrati di insegnare o di essere coordinatori di scuole private che preparano gli studenti al concorso per entrare in magistratura. Un divieto che non riguarda i magistrati amministrativi (al Tar, al Consiglio di Stato e alla Corte dei Conti) come Bellomo. I magistrati ordinari che avrebbero tenuto qualche docenza nulla hanno a che vedere, però, con la gestione della scuola e con il contratto che “lede la dignità e la libertà delle persone” – secondo le accuse penali e disciplinari – che avrebbe concepito Bellomo, aiutato a farlo osservare alle studentesse, dal pm di Rovigo Davide Nalin, “l’alter ego” del consigliere di Stato, colui che, secondo le testimoni d’accusa, era il mediatore tra Bellomo e le aspiranti magistrato minacciate per obbedire agli ordini “dell’agente superiore”. Il contratto prevedeva regole su abbigliamento, fidanzamenti e matrimoni. La Sezione Disciplinare del Csm lunedì scorso ha sospeso da funzione e stipendio Nalin. Nel’ordinanza si fa riferimento, come nell’atto di incolpazione per Bellomo scritto dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, al “compito” di Nalin di spiare la vita privata delle studentesse e i loro pensieri su Facebook attraverso un fake name. Bellomo e Nalin sono anche indagati dalla Procura di Piacenza, guidata da Salvatore Cappelleri, per atti persecutori (stalking) e lesioni in seguito all’esposto del padre di un’ex studentessa di Bellomo. C’è anche un’indagine a Bari, città del consigliere di Stato e una delle sedi della scuola. Il procuratore aggiunto Roberto Rossi accusa Bellomo di estorsione. Ieri i difensori di Bellomo e Nalin, gli avvocati Vittorio Manes e Beniamino Migliucci hanno espresso “forti perplessità e notevole preoccupazione in ordine a una costante e crescente fuga di notizie ed alla conseguente "campagna mediatica" che sta caratterizzando questa vicenda, che speriamo possa non condizionare la serenità delle decisioni che dovranno essere ancora assunte”. In tanto, la Commissione speciale del Consiglio di Stato si è riunita per scrivere il parere, non ancora depositato, da sottoporre all’adunanza generale che il 10 gennaio deve ratificare – o meno – la destituzione di Bellomo deliberata dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (Cpga) il 27 ottobre. Non ci sono precedenti di pareri contrari alle proposte del Consiglio. La destituzione di Bellomo sarebbe la terza in oltre 150 di storia, la prima per un illecito extrafunzionale. Quando il Cpga votò per la destituzione di Bellomo, finì 7 a 4. Due gli astenuti e 3 gli assenti. Il pm Nalin Collaboratore del consigliere di Stato aveva il “compito” di spiare la vita delle studentesse.
Bari, il sostituto procuratore antimafia Nitti smentisce Bellomo: “Non ho alcun contatto con lui da almeno sette anni”. L'intervento sulla vicenda della scuola con aspiranti magistrato i minigonna arriva con una nota ufficiale della Procura di Bari, scrive il 20 dicembre 2017 "Borderline24.com". “Apprendo dal quotidiano La Repubblica del 19 dicembre – segnatamente dall’articolo dal titolo «E Bellomo ordinava alle allieve “In ginocchio e chiedi perdono”» di Liana Mitella- che il dottor Francesco Bellomo avrebbe messo in correlazione il mio nome alla possibilità, per lui, di conseguire provvedimenti giurisdizionali a suo favore, chiamando al telefono una persona con il mio nome, dicendo di conoscermi e facendosi accompagnare presso il mio Ufficio”. Il sostituto procuratore Antimafia di Bari, Renato Nitti, interviene con una nota ufficiale della Procura della Repubblica barese. “Premetto che il dottor Francesco Bellomo – prosegue Nitti – è stato nominato, come Io scrivente, uditore giudiziario con il D.M. 30.05.1996 ed ha svolto il prescritto tirocinio presso gli uffici giudiziari del distretto di Corte di Appello di Bari con i colleghi del medesimo concorso e distretto. Premetto, altresì, che, negli anni 2006-inizio 2008, ho partecipato come relatore a tre/quattro convegni patrocinati dall’Ordine degli avvocati di Bari e organizzati dallo stesso dottor Bellomo. In ogni caso non ho più avuto modo di incontrare, neppure casualmente, e neppure di sentire il dottor Bellomo negli ultimi 7/8 anni. Escludo di essermi mai occupato di vicende personali del dottor Bellomo (tanto meno di averlo fatto nell’esercizio della funzione), di essere mai stato da lui interessato per la vicenda descritta nell’articolo (né per telefono, né personalmente) e, comunque, per alcuna altra vicenda personale del dottor Bellomo. Escludo -conclude il sostituto procuratore – ovviamente di aver mai curato procedimenti nei quali il dottor Bellomo fosse parte”.
Consiglio di Stato e minigonne: perché qualsiasi sanzione per Bellomo potrebbe essere inutile, scrive Alessio Liberati, Magistrato, il 20 dicembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". In questi giorni la magistratura è al centro del cosiddetto scandalo delle studentesse costrette a subire un dress code (e non solo) inclusivo di minigonna e tacco 12 per seguire il corso in magistratura tenuto dal consigliere Bellomo. Credo però, che a prescindere dal lato scandalistico, sia opportuno analizzare la questione sotto un profilo diverso e strettamente tecnico. Innanzitutto si deve rilevare che Bellomo era stato autorizzato da anni (e per anni) a tenere i corsi, ma la questione, almeno quando ero giudice Tar, della autorizzabilità di incarichi presso società private è sempre stata contestata da una parte dei giudici amministrativi. Facendo una ricerca sul sito giustizia-amministrativa.it risulta che sono almeno otto i corsi per magistrati tenuti dai consiglieri di Stato, come risultanti dalle delibere del Csm dei giudici amministrativi (il Cpga). A questi vanno aggiunti forse altri consiglieri di Stato che, direttamente o indirettamente, collaborino con tali società a vario titolo (e sarebbe interessante e curioso andare a vedere presso la Agenzia delle Entrate i redditi di tali singoli magistrati, per avere maggiore chiarezza sulla esistenza e sulle eventuali dimensioni del fenomeno). A ciò si aggiunga un possibile meccanismo – lecito – di “aggiramento” (perché che evita le autorizzazioni): le lezioni on line. Ove le stesse vengano vendute come format scritto (cioè un articolo o una dispensa), le stesse, per gli autori, potrebbero essere considerate (e fatturate) come diritto di autore. In sostanza i magistrati farebbero (e le società vendono) corsi per la magistratura, ma risultano solo autori di pubblicazioni. Ne sono coinvolti alcuni consiglieri di Stato? Ciò detto non può quindi che rilevarsi che, in sostanza, la “rovina” di Bellomo (e del fatturato di 1.200.000 euro annui della società cui è collegato) non farà altro che spostare probabilmente tale lucroso guadagno su altri Consiglieri di Stato: chi vuole fare il magistrato segue questi corsi e, stante il divieto per i giudici ordinari (sempre rispettato?) la maggior parte degli studenti “ex Bellomo” finiranno per forza di cose a seguire i corsi tenuti dagli altri consiglieri di Stato. Sotto il profilo che mi interessa, del quale le precedenti considerazioni sono una necessaria premessa, emerge quindi che circa il 5-10% dell’adunanza generale del Consiglio di Stato (che in teoria annovera 100 consiglieri e 18 presidenti, ma in realtà sono molti di meno), che dovrà decidere sul caso Bellomo, ha sostanzialmente un conflitto di interessi diretto. Ne consegue che “il giudice” che dovrà giudicare su Bellomo non è all’apparenza imparziale (e la giurisprudenza ha infatti chiarito che i giudici non devono solo essere imparziali, ma anche apparire tali). Come se non bastasse, se Bellomo venisse condannato in sede disciplinare, il provvedimento sarebbe impugnabile davanti al Tar e, poi, in appello dinnanzi al Consiglio di Stato. In sostanza coloro che hanno deciso sul destino di Bellomo dovrebbero poi decidere sul ricorso giurisdizionale avverso… lo stesso provvedimento che hanno emesso! In conclusione, potrebbe essere tutta una fatica inutile: la violazione del principio di equità (ed imparzialità) del giudice previsto dall’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo è davvero palese, e, ricorrendo alla Cedu, Bellomo otterrebbe facilmente un giudizio favorevole, cui potrebbe seguire la rimessione in ruolo, gli arretrati dello stipendio, un sostanzioso risarcimento del danno e… tante scuse! Se non si stabilirà un divieto generalizzato per i giudici amministrativi di svolgere tali corsi (che tante risorse tolgono alla giustizia amministrativa, sin troppo lenta) si finirebbe solamente per giovare, soprattutto, lo stesso Consiglio di Stato, cioè gli “eredi” dei corsisti “ex Bellomo”. Che sia l’ora di un deciso intervento legislativo sulla giustizia amministrativa?
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Concorsi truccati, isernino denuncia: brogli anche in quelli per magistrato, scrive il 28 settembre 2017 il Quotidiano del Molise. Canale 5, (Studio Aperto, Italia 1, del 27 settembre 2017, ore 12.30) in collegamento da Isernia, ha lanciato la bomba: non sono truccati solo i concorsi da docenti universitari, ma anche quelli da magistrato. La denuncia è di un avvocato isernino, Giovanni Di Nardo, intervistato ieri dai colleghi della rete Mediaset. L’avvocato Di Nardo, nel 2014, ha partecipato al concorso in magistratura. Il suo scopo era quello di fare il giudice e si era preparato a dovere. Ma, nonostante, i suoi studi, non ce la fa. Arriva la lettera dal ministero della giustizia che gli dice che non è stato ammesso. Giovanni Di Nardo non ci sta, ha già qualche sospetto e fa ricorso al Tar, chiedendo, in visione i compiti contenuti nella busta del primo candidato, dopo di lui, che aveva superato gli scritti. La copia dei compiti gli viene consegnata e, ad un primo esame, risulta zeppa di errori ortografici e di sintassi. Un obbrobrio, tenendo presente che, ai giudici, è fatto obbligo di scrivere senza orrori ortografici o di sintassi. Giovanni Di Nardo non se la tiene e presenta una denuncia alla Procura di Roma e al Csm. Denuncia che, in un primo momento viene archiviata, ma che dopo un esposto alla Procura Generale viene ripresa in carico dalla Procura di Roma che ne chiede l’archiviazione. Di Nardo si oppone ed è in attesa della Camera di Consiglio che deciderà se mandare avanti l’inchiesta. Ma il clamore è enorme, infatti l’impressione è che anche la magistratura sia inquinata nelle procedure concorsuali da pressioni e raccomandazioni.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
Un concorso truccato per aspiranti magistrati. Un avvocato svela la “truffa” subita nel 1992, scrive il 28 settembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Il Consiglio Superiore della Magistratura costretto ad ammettere: il suo scritto non era mai stato esaminato. Conseguenze. Nessuna! La vera “casta” porta la toga…Era il 23 maggio 1992 e all’Hotel Ergife sulla via Aurelia a Roma è il giorno dell’abbinamento delle buste del concorso in magistratura per uditore giudiziario: mercoledì 20, diritto penale; giovedì 21, diritto amministrativo; venerdì 22, diritto privato con riferimento al diritto romano. C’era anche Francesca Morvillo la compianta moglie del giudice Falcone, la quale alle 16 salutò tutti andando via. Doveva prendere quel maledetto aereo che la portò a Palermo dove venne uccisa insieme a suo marito, Giovanni Falcone. È il primo colpo di scena del concorso durante le stragi di mafia. Un concorso così particolare da essere finito in un libro scritto dal professore Cosimo Lorè e pubblicato da Giuffrè Editore. Scoprire il dietro le quinte di quel concorso, svelato 25 anni dopo, è stato possibile alla tenacia un avvocato di Asti, Pierpaolo Berardi all’epoca dei fatti un giovane legale candidato a quel concorso, il quale racconta che allorquando lesse il titolo del tema di diritto penale era più che soddisfatto: proprio quel caso da sviluppare sulla responsabilità penale nel trattamento medico, oggetto del concorso, lui lo aveva appena affrontato in Tribunale. La successiva prova di diritto amministrativo andò anche lei bene; quella di diritto privato e romano era stata oggetto di un seminario che aveva seguito poco prima del concorso. Ma passato un anno dopo quel concorso, allorquando vennero resi noti i risultati degli esami scritti, l’avvocato Berardi esito a poter credere ai suoi occhi. Era stato bocciato. Fu in quel momento che iniziò la sua battaglia legale. Il Tar ed Consiglio di Stato gli dettero ragione, mentre il Ministero di Giustizia e il Consiglio Superiore della Magistratura alzarono il loro solito muro di gomma “politico”. L’avvocato Berardi chiese legittimamente di potere vedere i suoi scritti e il verbale, ma – come racconta oggi al quotidiano LA STAMPA – “Mi dissero al telefono che il verbale non c’era”. Dopo un ennesimo ricorso vittorioso al Tar, il legale piemontese ottenne le prove ed i verbali del suo esame, da cui arrivò l’ennesima sorpresa: “I mie temi e quelli di altri non vennero assolutamente corretti. Ho calcolato i tempi: tre prove giuridiche complesse per ogni candidato e grafie diverse possono essere corrette ed esaminate riportando voti e verbale per ciascuno in 3 minuti? Evidentemente no”. Berardi non si fermò ed andò avanti, infatti la Legge gli consentiva di poter di chiedere anche le prove degli altri candidati promossi. E lì scoprì tante altre anomalie ed illegalità. I temi erano facilmente riconoscibili perché una volta scritti su una sola facciata, altre volte in stampatello, alcuni persino pieni di macroscopici errori giuridici, altri idonei come il suo, ma sui cui non era stato apposto alcun voto. Addirittura un candidato elaborò il tema su una traccia diversa da quella indicata nell’esame. Qualcuno scrisse con una calligrafia doppia (per far riconoscere il suo elaborato a chi doveva esaminare; un altro () aveva riportato copiando pagine e pagine copiate da manuali di Diritto, mentre si potevano solo consultare i codici. Tra i temi casuali che Berardi chiede di visionare c’è anche quello di Francesco Filocamo, attuale magistrato al Tribunale di Civitavecchia ed estratto a sorte come presidente del Tribunale dei Ministri. Il Ministero di Giustizia con estremo imbarazzo è costretto a risponde a Berardi ammettendo l’inverosimile e cioè che le sue prove non sono in archivio. Uno scandalo o una vergogna? Probabilmente entrambi. Partono i ricorsi. L’avvocato Berardi viene ascoltato a Perugia da un sostituto procuratore della Repubblica alla presenza come uditrice, di una magistrata che aveva vinto proprio quel concorso. Ma non è finita. Infatti quando il Tar ed il Consiglio Superiore della Magistratura ordinano di ricorreggere i suoi temi, invece di nominare una nuova commissione, incredibilmente viene chiamato a valutarlo la stessa che lo aveva bocciato!
Dopo aver sempre affermato che era tutto regolare, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 2008 è costretto a riconoscere all’unanimità che gli elaborati dell’avvocato Berardi non erano mai stati esaminati dalla Commissione. Conseguenze? Nessuna. E poi parlando di indipendenza della magistratura… In realtà si sentono degli “intoccabili”.
IL CASO BELLOMO E L'OMBRA SUL RECLUTAMENTO DELLA MAGISTRATURA, scrive Elisa Chiari su "Famiglia Cristiana" il 20/12/2017. La vicenda delle opacità che stanno emergendo attorno al corso privato "Diritto e scienza" per la preparazione al concorso per magistrati ordinari non può esaurirsi nella sanzione disciplinare agli interessati. Perché apre a domande che chiamano in causa a fondo l'istituzione intera. Da giorni si discute di uno scandalo sorto attorno a “Diritto e scienza”, una delle scuole private cui alcuni aspiranti si iscrivono per meglio prepararsi al concorso pubblico di accesso alla Magistratura ordinaria. Titolare del corso “Diritto e scienza” è Francesco Bellomo, magistrato amministrativo del Consiglio di Stato (ai magistrati ordinari - Tribunali, Corti d'Appello e di Cassazione - il Consiglio superiore della magistratura vieta da anni di tenere questo tipo di corsi, mentre i magistrati amministrativi – Tar e consiglio di Stato – possono farlo previa autorizzazione). A destare scandalo è soprattutto un “contratto” che il titolare avrebbe sottoposto ai detentori di borsa di studio, in cui si prevedeva l'impegno a rispettare regole di abbigliamento, per le donne il "dress code" sarebbe stato a base, nelle occasioni mondane, di minigonne, tacchi, trucco pesante. Ma nelle denunce si parla anche di divieto di matrimonio, di ingerenze nella vita privata, di vicende private rese pubbliche con nomi e cognomi trasformate in “casi” nella rivista collegata al corso. Per queste ragioni Bellomo si trova sottoposto a processo disciplinare al Consiglio di presidenza della Giustizia Amministrativa (Il Consiglio ha già deliberato la sua destituzione), e sotto indagine penale a Piacenza e a Bari. Anche la Procura di Milano ha un fascicolo aperto sul caso, per ora senza notizie di reato. Intanto è stato sospeso in via cautelare dalle funzioni e dallo stipendio e collocato fuori ruolo Davide Nalin, Pm a Rovigo: avrebbe esercitato, nella scuola di Bellomo, attività vietate ai magistrati ordinari, in violazione della Circolare del Csm sugli incarichi extragiudiziari del 2015. Va da sé che la questione è seria e pone domande cruciali, che non si esauriscono con le sanzioni disciplinari ai singoli. Perché ci costringono a chiederci quale modello di magistrato si prepara per quelle vie, se sia compatibile con l’autonomia e l’indipendenza previste dalla Costituzione. Tuttora nel sito di "Diritto e Scienza" c’è un modello di contratto/regolamento per chi avesse ottenuto una borsa di studio. Uno scritto pubblico, pubblicato sul sito, ma, una volta scaricato, costruito in modo tale da non essere immediatamente riconducibile ad alcuna fonte (uno stratagemma per cautelarsi?). Qui non si fanno riferimenti precisi al "dress code", salvo un accenno a «Un'immagine esteriore adeguata ai principi ispiratori ed alle finalità della Società», né al clima di soggezione che attorno alle regole di abbigliamento le testimonianze e le denunce stanno disegnando, ma ce n’è abbastanza per preoccuparsi ugualmente. Nei “doveri” si legge che il borsista è vincolato alla «fedeltà nei confronti di Diritto e scienza srl», «alla segretezza nei confronti di Diritto e scienza srl. Il dovere di segretezza copre qualsiasi informazione appresa nello svolgimento dei propri compiti. Il contenuto delle comunicazioni intercorse con il Direttore scientifico è riservato anche nei confronti degli altri borsisti e dei collaboratori». «Il borsista è tenuto a svolgere le attività di comunicazione. Le attività devono essere improntate alla promozione del marchio della società, nonché alla diffusione dei suoi ideali e del suo metodo». Impossibile non domandarsi quanto sia alto il rischio che, in caso di superamento del concorso, possa uscirne una magistratura menomata nell’apparenza della propria indipendenza fin dalla prima nomina, per il solo fatto di essere passata per una borsa di studio, il cui regolamento – lungi dalla trasparenza che si dovrebbe presumere minimo sindacale per una borsa di studio per aspiranti magistrati – vincola a «fedeltà» nei confronti di un marchio, alla sua «promozione», nonché alla «diffusione dei suoi ideali e del suo metodo». Come si concilia quella «fedeltà» firmata con la soggezione soltanto alla Legge prevista dalla Costituzione? Come si concilia con il giuramento di fedeltà alla Repubblica prestato dal magistrato all’acquisizione delle funzioni e a ogni nuovo incarico? E ancora, che cosa ha impedito a tanti aspiranti magistrati, passati senza borsa di studio per il corso a pagamento - sicuramente la stragrande maggioranza -, di notare le contraddizioni tra un siffatto contratto/regolamento e le caratteristiche dell’istituzione cui ambivano attraverso il concorso? Che cosa ha impedito loro, notandole, di sollevare il problema o quantomeno di tenersi alla larga da un corso, pur promettente in efficacia, che mostrava simili opacità? Forse un clima di soggezione, di timore? In quel caso come conciliarli con il motto della Magistratura ordinaria, sine spe ac metu, senza speranza e senza timore? Ben sapendo che, una volta passato il concorso, un magistrato timoroso e speranzoso rischia di trasformarsi in un magistrato potenzialmente ricattabile? Fosse anche uno solo e tale solo all’apparenza, sarebbe un’ombra sul reclutamento che chiede con urgenza una risposta al Csm, al Ministero della Giustizia, alla stessa Anm, perché ne va della credibilità dell’istituzione intera.
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
COSA SUCCEDE TREVISO.
VIAGGIO TRA I TRIBUNALI PIU’ CORROTTI D’ITALIA.
L'impunità, di cui sotto qualsiasi governo continuano a godere i magistrati corrotti e il silenzio di regime che avvolge gli abusi giudiziari, nei confronti dei soggetti più deboli, ha portato “La Voce di Robin Hood” ad intraprendere questo viaggio attraverso i Tribunali italiani, partendo dalla città di Treviso, punta dello sviluppo economico del ricco nord-est, allo scopo di renderne pubbliche le malefatte e il vuoto di giustizia che incontrano i cittadini inermi che fiduciosamente si rivolgono all'istituzione giudiziaria.
Treviso è protagonista di una clamorosa censura mediatica. Da oltre un mese una quarantina di inermi cittadini, vittime di abusi giudiziari, manifesta inascoltatamente, tutti i giorni, la propria indignazione, davanti al Tribunale, con cartelli e volantini, senza che nessun giornale o emittente, anche locali, ne abbia dato notizia. Trattandosi di casi, spesso clamorosi, il totale silenzio mediatico che, omertosamente avvolge la tenace protesta di un gruppo di cittadini trevigiani, nei confronti della magistratura locale, ci appare degno di essere denunciato e portato a conoscenza della rete, affinché si vergognino i giudici del loro operato, ma anche i giornalisti del loro silenzio.
Lo scorso aprile, dalle pagine web di questo giornale, avevamo già narrato a sommi capi alcuni casi di estorsioni legalizzate dalla magistratura milanese e trevigiana, con la compiacenza delle Procure di Brescia, Trento, Venezia, Bologna, Trieste, nonché del Ministero di Giustizia e del Consiglio Superiore della Magistratura che, a differenza dei casi Mastella/De Magistris e D'Alema/Forleo, sono rimasti, sinora, del tutto inerti, anche a fronte di macroscopici delitti contro l'Amministrazione della giustizia, commessi nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, da parte dei magistrati denunciati dalle colonne di questa rivista on line ("Da Milano a Brescia Giustizia alla rovescia! Da Brescia a Trento solo una parola al vento" - Cfr. n. 1/07).
Fatti taciuti dalla stampa di regime, in quanto talmente scomodi agli interessi di ogni schieramento politico, da essere sistematicamente censurati, nel timore che i lettori, i quali al tempo stesso sono elettori, comprendano come stiano effettivamente le cose e che nessun partito ha veramente a cuore la giustizia, né di affermare in concreto il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Spiegavamo, infatti, trattarsi di un vasto sistema di malaffare, profondamente radicato nel tessuto istituzionale, e congenito al funzionamento delle istituzioni e dell'economia di mercato, in grado di produrre un vertiginoso flusso di finanziamenti illeciti, clientelismo, voto di scambio e garanzie di impunità, dove gli interessi di politica, imprenditoria, informazione, mafia, criminalità organizzata, giustizia e, financo, di chiese e organizzazioni antimafia, si fondono con gli interessi dei cosiddetti "poteri forti economico-finanziari", dietro cui si cela la lunga manus delle logge massoniche che controllano capillarmente il territorio e i gangli vitali dei centri istituzionali.
In tale contesto, il "principio di intangibilità" degli affiliati alle consorterie affaristico-giudiziarie si contrappone a quello di "uguaglianza di fronte alla legge", per cui accade che alla certezza del diritto si sovrapponga e prevalga la prassi della discrezionalità, tipica delle dittature; prassi da cui genera il fenomeno dell'illegalità giudiziaria e l'insanabile piaga sociale della malagiustizia.
Come potrete leggere dai casi raccolti nel nostro viaggio attraverso i Tribunali italiani, la giustizia funziona alla rovescia in qualsiasi parte d'Italia, dove i rappresentanti dei poteri forti e delle logge massomafiose che controllano il territorio, fanno da padroni nelle aule di giustizia e riescono quasi sempre a farla franca, con il compiacente avvallo degli organi di controllo della magistratura e dei Palazzi romani, come avevano invano denunciato sin dagli anni novanta, ancor prima del Gip Caterina Forleo e del P.M. Luigi De Magistris, alcuni tra i migliori magistrati antimafia, tra cui Salvo Boemi, Roberto Pennisi, Agostino Cordova, Alberto Di Pisa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri, minacciati di morte, messi a tacere e delegittimati dagli stessi rappresentanti di quei poteri occulti che avevano inascoltatamente denunciato...
DICI TREVISO. DICI BENETTON.
Benetton (famiglia). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. I Benetton (pronuncia Benettón, benetton) sono una famiglia di imprenditori trevigiani, fondatrice nel 1965 dell'omonima azienda di abbigliamento. Capostipiti sono i fratelli Luciano (1935), Giuliana (1937), Gilberto (1941–2018) e Carlo (1943–2018), cresciuti nella frazione Santa Bona di Treviso da una modesta famiglia di Ponzano Veneto. Rimasti orfani del padre Leone nel 1945, Luciano lascia la scuola per fare il garzone nel magazzino di tessuti Campana e, successivamente, nel negozio di abbigliamento Della Siega. Frattanto la secondogenita Giuliana inizia a lavorare in una maglieria. Negli anni 1950 i due fratelli cominciano ad alternare il lavoro da dipendenti all'attività in proprio. Nel 1955 acquistano una macchina da maglieria con cui Giuliana confeziona in casa i maglioni che Luciano vende porta a porta, utilizzando il marchio Très Jolie. Il successo riscontrato portò in seguito i Benetton a comprare altre due macchine e ad assumere quattro dipendenti, spostando il laboratorio dall'abitazione a uno stabile vicino. Nel 1958 Luciano poté permettersi di lasciare il lavoro da dipendente. In seguito entrano in azienda i fratelli minori: Gilberto, impiegato della Confartigianato, tiene al contempo i conti dell'azienda; Carlo, disegnatore presso le officine Bornia, comincia a occuparsi degli aspetti tecnici e produttivi. Si vanno così a delineare i ruoli che si sono mantenuti sino ai giorni nostri: Luciano è presidente e responsabile commerciale, Giuliana si occupa del design, Gilberto lavora nella divisione finanziaria e Carlo segue la produzione. La fortuna dell'azienda si deve all'incontro, nel 1961, con Roberto Calderoni, industriale e commerciante che apre l'azienda al mercato romano grazie ai suoi contatti con alcune famiglie della comunità ebraica impegnate nel settore tessile, in particolare gli Anticoli e i Tagliacozzo. In poco tempo le vendite nella Capitale superano quelle venete e nel 1965 diventa necessario aprire una vera e propria fabbrica a Ponzano Veneto. Nel 1991 i Benetton acquisiscono la Compania de Tìerras Sud Argentino, consistente in circa 10 000 km² di terreni dedicati all'allevamento di pecore per la produzione laniera. Ne seguì una vicenda giudiziaria, in quanto un gruppo di indigeni Mapuche, sostenuto dal premio Nobel Adolfo Perez Esquivel e da varie ONG, rivendicò parte delle terre, ma il processo che ne seguì confermò la legittimità dell'acquisizione. Dal 2014 la famiglia ha fatto un passo indietro dalla gestione e ha assunto un ruolo di azionista lasciando al management l'onere della gestione, con Gianni Mion come presidente e Marco Airoldi, amministratore delegato e direttore generale. Gli attuali marchi d'abbigliamento del gruppo sono: United Colors of Benetton, Undercolors e Sisley; in passato anche Playlife, killer Loop. Per anni la finanziaria di famiglia è stata Edizione srl, una holding controllata attraverso la società in accomandita per azioni Ragione di Gilberto Benetton & C SapA. Nella seconda metà del 2007 la famiglia ha ristrutturato l'imponente rete di partecipazioni che ha costruito nel tempo creando due separate holding controllate direttamente da Ragione SApA: Edizione Holding, focalizzata sul settore retail con partecipazioni in Benetton Group e Autogrill Sintonia SpA, focalizzata sugli investimenti nelle infrastrutture, come Atlantia, Grandi Stazioni e Aeroporti di Roma. Il 14 dicembre 2007 Ragione sapa è entrata nel patto di sindacato di Mediobanca acquistando il 2,17% di azioni dalla quota che Unicredit ha messo in vendita in seguito alla fusione con Capitalia. Il 23 luglio 2008 la famiglia Benetton ha annunciato un accorciamento della catena di controllo per cui Edizione Holding e Sintonia SpA sono state tutte fuse in Ragione SApA, la quale ha preso il nome di Edizione srl. La fusione ha piena efficacia dal 1º gennaio 2009. Dopo questo riassetto la famiglia Benetton controlla la nuova holding finanziaria Edizione Srl, in cui sono confluite Ragione SapA ed Edizione holding. Essa rappresenta il patrimonio di famiglia, equamente diviso tra i quattro rami; nel consiglio di amministratore siede un figlio di ciascuno dei quattro fratelli Benetton: Alessandro di Luciano, Franca Bertagnin di Giuliana, Sabrina di Gilberto e Christian di Carlo. Nel frattempo è stata trasformata in società italiana la ex holding lussemburghese Sintonia SA diventando Sintonia spa (il cui unico socio è Edizione), subholding del settore infrastrutture. I quattro rami della famiglia Benetton sono i proprietari della holding con una quota paritaria (25%), utilizzando le seguenti cassaforti: Evoluzione, Proposta, Regia e Ricerca che sono i soci di Edizione srl.
Benetton (azienda). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Benetton Group (pronuncia Benettón, benettoŋ) è un'azienda tessile italiana fondata nel 1965 da Luciano, Gilberto, Giuliana e Carlo Benetton, con sede a Ponzano Veneto in Provincia di Treviso, produttrice di abbigliamento con una propria rete di negozi in franchising nel mondo nella quale si vendono prodotti a marchio United Colors of Benetton, Undercolors of Benetton e Sisley. Fa capo alla società finanziaria della famiglia Benetton, Edizione srl, che detiene il 67% delle azioni. Il gruppo deve la sua notorietà, oltre che ai suoi prodotti, anche al suo stile di comunicazione, sviluppato a Fabrica, suo centro di ricerca sulla comunicazione. L'azienda ha una produzione totale di oltre 150 milioni di capi l'anno. La rete commerciale di 6.000 negozi nel mondo, nel 2013 ha generato un fatturato totale di oltre 1,6 miliardi di euro. La politica del gruppo Benetton si basa su prezzi relativamente bassi, per generare profitti su grossi volumi di vendita.
Storia. L'azienda venne fondata nel 1965 a Ponzano Veneto, in provincia di Treviso, da Luciano, Gilberto, Giuliana e Carlo Benetton. Nello stesso anno viene inaugurato il primo negozio a Belluno. Nel 1969 viene inaugurato il primo negozio all'estero, a Parigi e, nel 1972, esordì il marchio "Jean's West" mentre nel 1974 viene acquisito il marchio Sisley[6]. Alla fine degli anni settanta l'azienda esportava il 60% della produzione. Negli anni ottanta venne inaugurato il primo negozio a New York in Madison Avenue (1980) e due anni dopo a Tokyo. Dal 1983 inizia la sponsorizzazione di una squadra di Formula 1, la Tyrrell, e tre anni dopo, grazie all'acquisizione della Toleman, si costituisce una propria squadra, la Benetton Formula che verrà poi acquisita nel 2000 dalla Renault. Alla fine degli anni ottanta il Gruppo si quota alle borse di Milano, Francoforte e New York e, nel 1987, nasce la Fondazione Benetton Studi Ricerche e viene istituito il Premio Internazionale Carlo Scarpa. Viene fondato "Fabrica" nel 1994, un centro di ricerca sulla comunicazione su iniziativa di Luciano Benetton e Oliviero Toscani con sede presso Villa Pastega Manera a Catena di Villorba, nel complesso restaurato ed ampliato da Tadao Andō. Nel quadro delle attività di Fabrica rientra anche la pubblicazione di Colors, un magazine in tre edizioni bilingue – inglese più italiano, francese e spagnolo. Nel 2003 la famiglia Benetton annuncia che si ritirerà progressivamente dalla gestione diretta dell'azienda lasciando spazio ai manager esterni alla famiglia. La delocalizzazione degli impianti produttivi ha comportato la chiusura di numerose fabbriche in Italia, come nel caso di Cassano Magnago. Nel 2006 è stato chiuso il primo negozio in franchising inaugurato nel 1968 a Firenze. Nel 2011 Gilberto Benetton comunica l'intenzione della famiglia di limitare l'impegno nello sport al solo rugby e ai settori giovanili, abbandonando dall'anno successivo le formazioni professionistiche di basket e pallavolo, vincitrici negli anni di diversi titoli italiani e internazionali. Nel maggio 2012 è stata delistata dalla Borsa di Milano, tornando sotto controllo privato. Nel maggio 2013, a dieci anni esatti dall’annuncio di Luciano Benetton («Passo indietro della famiglia, più potere ai manager») si completa il passaggio e, nel consiglio di amministrazione i quattro fratelli Benetton lasciano il posto ai rispettivi figli Alessandro (già da alcuni anni presente nel consiglio d'amministrazione e dall'aprile 2012 presidente di Benetton Group), Franca Bertagnin, Sabrina e Christian Benetton. Nel maggio 2014 Alessandro Benetton lascia la presidenza della società e a novembre 2016 esce anche dal consiglio di amministrazione per divergenze strategiche con la famiglia. Alla presidenza viene nominato Francesco Gori, mentre nel maggio 2017 a Tommaso Brusò viene conferito l'incarico di direttore operativo. Agli inizi del 2015 viene avviato, con una serie di scorpori e scissioni, il programma triennale che prevede l'organizzazione di Benetton Group in tre realtà distinte: una focalizzata direttamente sui vari marchi (Benetton Group), una manifatturiera (di nome Olimpias) e una per la gestione immobiliare (Schematrentanove).
Marchi. United Colors of Benetton, Sisley.
Sede. La sede centrale di Benetton Group è Villa Minelli, situata a Ponzano Veneto, in provincia di Treviso. Villa Minelli è un complesso di edifici del XVI secolo di grande interesse storico e culturale. È stata acquistata nel 1969 che ne ha poi affidato il restauro e la modernizzazione agli architetti Afra e Tobia Scarpa. I lavori di adeguamento e sistemazione hanno richiesto complessivamente più di quindici anni. Dalla metà degli anni ottanta, Villa Minelli è diventata la sede del Gruppo e il centro operativo di tutte le sue funzioni strategiche.
Controversie. Secondo la Guida al vestire critico, Centro nuovo modello di sviluppo, 2006, Edizione missionaria italiana «Benetton ottiene parte dei suoi prodotti da terzisti localizzati in Cina, paese che vieta ogni libertà sindacale». La stessa fonte riporta che il 16 aprile 2003 si è concluso il processo promosso da Benetton contro Riccardo Orizio, giornalista del Corriere della Sera che aveva pubblicato un servizio sulla presenza di lavoro minorile alla Bermuda e alla Gorkem Spor Giyim, due fabbriche turche che producevano abbigliamento a marchi Benetton. Il tribunale ha condannato Orizio a 800 euro di multa perché ha sbagliato nell'«affermare in modo perentorio che in una di queste aziende venissero prodotti capi con il marchio made in Italy per conto dell'azienda italiana». La società Benetton ha acquisito nel 2003, mediante Edizione Holding, The Argentine Southern Land Company Limited, una compagnia in origine inglese e dal 1982 argentina, che aveva la proprietà di circa 900.000 ettari di Patagonia argentina. Parte di questa terra è rivendicata dal popolo Mapuche, costretto a vivere in una striscia di territorio sovraffollato e a diventare spesso manodopera a basso costo. Su questo tema si è aperto un ampio dibattito con posizioni molto differenti. Benetton, involontariamente coinvolta nella vicenda, ha donato, nel luglio 2006, al governo della provincia argentina del Chubut, 7.500 ettari di terra. Il rifiuto da parte governatore del Chubut dell'offerta ha rappresentato una pesante battuta d'arresto nel processo di dialogo nello storico contenzioso tra il popolo Mapuche e lo Stato argentino. Nel 2011 la campagna UNHATE si è basata su una serie di fotomontaggi a opera di Erik Ravelo in cui vari potenti della terra si scambiano baci in bocca. La foto che ritraeva un bacio tra Papa Benedetto XVI e un Imam, ha scatenato polemiche.
Nel 2013 a Dacca in Bangladesh avviene il Crollo del Rana Plaza di Savar dove, secondo alcune fonti, avrebbe avuto sede una delle fabbriche tessili a cui la Benetton appalta i suoi lavori e dove sono morti almeno 381 operai. L'associazione Campagna Abiti Puliti ha accusato Benetton di non controllare le condizioni di sicurezza delle aziende cui affida la gestione dei loro prodotti.
Sponsorizzazioni. Nel 1978 l'azienda sponsorizza e successivamente acquisisce la squadra di rugby di Treviso, che cambia nome in Benetton Rugby Treviso;
nel 1981 l'azienda sponsorizza e successivamente acquisisce la squadra Pallacanestro Treviso;
nel 1987 viene costituita una società di pallavolo, il Volley Treviso, sponsorizzato attraverso il marchio Sisley.
Nel 1982 la famiglia Benetton realizza in località San Lazzaro, alla periferia di Treviso, il complesso sportivo La Ghirada-Città dello Sport, mentre l'anno successivo costruisce il Palaverde a Villorba, sede di gioco delle formazioni di basket e pallavolo che, a partire dal 1988, viene gestito con la stessa Ghirada dalla Verde Sport[20], società del gruppo che si occupa di diffondere la cultura dello sport. Nel 1995 Verde Sport realizza l'Asolo Golf Club di Cavaso del Tomba.
Dal 1983 inizia la sponsorizzazione di una squadra di Formula 1, la Tyrrell, e tre anni dopo, grazie all'acquisizione della Toleman e della Spirit, si costituisce una propria squadra, la Benetton Formula. Corre con la licenza britannica dal 1986 al 1995 e con l'italiana dal 1996 fino al 2001. Ottiene svariati successi negli anni successivi fino al 1994, quando con Michael Schumacher alla guida, ottiene anche il titolo Mondiale Piloti, bissato l'anno successivo, insieme al titolo costruttori. Dopo il passaggio di Schumacher alla Ferrari per il 1996, la Benetton affronta altre due stagioni su buoni livelli, 1996 e 1997, dove, in quest'ultima stagione, conquista un successo in Germania con Gerhard Berger, sarà l'ultimo della sua storia. Nel 2000, viene acquistata dalla Renault. L'ultimo campionato sotto il nome Benetton è nel 2001, poi, dall'anno successivo, la squadra si chiama Renault F1. Nel 2009, in un'intervista, fu chiesto ad Alessandro Benetton se l'azienda avesse mai avuto intenzione di tornare in Formula 1, ma lui rispose che, oramai, per via dei regolamenti in vigore, questo era un capitolo chiuso.
Morto Carlo Benetton, il più giovane dei fratelli. Assieme ai fratelli Luciano, Giuliana e Gilberto, aveva fondato l’azienda iniziando come artigiano da un semplice laboratorio di maglieria. Aveva 74 anni. Lascia quattro figli, scrive Maria Teresa Veneziani il 10 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Carlo Benetton, il più giovane dei fratelli Benetton da cui nel 1965 nacque il noto brand di moda, è morto a 74 anni. Il decesso è avvenuto nella sua abitazione di Treviso al culmine di una malattia che l’aveva colpito sei mesi fa. Nato nel 1943 a Morgano, nel Trevigiano, assieme ai fratelli Luciano, Giuliana e Gilberto, aveva fondato l’azienda a Ponzano Veneto, iniziando come artigiano da un semplice laboratorio di maglieria. L’idea venne al primogenito, Luciano, e in fretta i morbidi maglioni di lana colorati sedussero le folle. Il successo di «United Colors of Benetton» tra il 1982 e il 2000 è diventato globale, grazie anche alle campagne shock del fotografo Oliviero Toscani come quella della donna di colore che allattava un bambino bianco.
L’agricoltura. Per la linea di moda, l’imprenditore si occupava delle vaste tenute in Argentina del gruppo Benetton e curava l’approvvigionamento delle materie prime. Ma tra i suoi compiti c’era anche la guida delle Tenute Maccarese, nel Lazio, una delle più importanti aziende agricole italiane, di cui era ancora presidente. Proprio a Maccarese, il 12 febbraio, il manager in una delle ultime uscite pubbliche, ha inaugurato la Centrale del Latte, con la consegna dei locali all’Associazione italiana allevatori.
La passione per la natura e gli sport duri. Carlo Benetton viveva a Treviso, lascia quattro figli, i primi tre, Massimo, Andrea e Christian, avuti dal primo matrimonio, Leone nato dall’incontro con la seconda moglie Mary Jo Spirito, americana conosciuta in Italia mentre studiava medicina. Con loro il manager condivideva la grande passione per lo sport, anche i più duri come la spedizioni alpinistiche, e la vita all’aria aperta. Una passione, quella per la natura, che ha trasferito anche negli impegni di lavoro. In Patagonia, sui terreni di famiglia, aveva avviato un programma di forestazione, piantando oltre due milioni di pini.
E' morto Gilberto Benetton, il fondatore del gruppo. Aveva 77 anni. Un nuovo lutto per la famiglia di imprenditori trevigiani conosciuti in tutto il mondo per gli United Colors, scrive "La Tribuna di Treviso il 22 ottobre 2018. E' morto Gilberto Benetton. L'imprenditore, noto in tutto il mondo per aver fondato con i fratelli Luciano, Carlo e Giuliana l'impero degli United Colors, si è spento in ospedale a Treviso lunedì sera. Aveva 77 anni e si è spento attorno alle 19 di lunedì sera nel reparto di ematologia, dov'erano presenti i suoi familiari più stretti. La famiglia Benetton era stata colpita da un altro lutto, di recente: a luglio era morto Carlo all'età di 74 anni. Gilberto era il terzo dei quattro figli di Rosa Carniato e Leone Benetton: il primogenito è Luciano (1935), poi Giuliana (1937), Gilberto (1941) e Carlo (1943). Gilberto era, dei quattro fratelli, quello con l'animo più manageriale, finanziario. Con lui l'impero degli United Colors ha diversificato i propri investimenti dalle infrastrutture alla ristorazione, dall'immobiliare alle partecipazioni bancarie. Vasto e immediato il cordoglio a Treviso, anche da parte del mondo sportivo: la famiglia Benetton, Gilberto in primis, è conosciuta anche per le imprese sportive delle proprie squadre di basket e pallavolo, che Gilberto amava particolarmente, oltre che il rugby. Gilberto Benetton è stato uno dei pilastri della famiglia di imprenditori che, partita negli anni Sessanta dalla produzione dei famosi maglioni resi celebri dall’estro creativo del fotografo Oliviero Toscani, ha messo in piedi uno dei gruppi più importanti dell’imprenditoria e della finanza del paese. Proprio lui è stato l’artefice della diversificazione dal business originario ed era comunemente ritenuto la mente finanziaria della famiglia, il cui nucleo era composto dai fratelli Luciano, Giuliana e Carlo (scomparso lo scorso luglio). Un gruppo che negli anni è arrivato a spaziare dalla ristorazione (Autogrill), alle telecomunicazioni (Telecom), fino ai mostri sacri della finanza italiana: Generali e Mediobanca. Senza dimenticare le partecipazioni in Pirelli o l’avventura in Alitalia. Un dinamismo che l’ha portato a sedere nei cda di Edizione srl (la holding della famiglia), di Autogrill, del gruppo Benetton, di Atlantia, Mediobanca, Pirelli e Allianz. Gli ultimi mesi sono stati probabilmente tra i più dolorosi della sua vita: lo scorso 10 luglio, appunto, la morte del il più giovane dei fratelli, Carlo. Poi il duro colpo della tragedia del Ponte Morandi di Genova, che ha aggiunto altra sofferenza a quella già provocata dalla sua malattia, particolarmente aggressiva e che negli ultimi giorni l’aveva costretto a un ricovero all’ospedale di Treviso per il sopraggiungere di una polmonite. Gilberto Benetton ha curato gli interessi del gruppo fino agli ultimi mesi con il perfezionamento della travagliata e lunga operazione che ha portato Atlantia ad aggiudicarsi la spagnola Abertis. Riservatezza e cortesia per che chi lo ha conosciuto da vicino, sono alcune delle caratteristiche che meglio definivano la sua indole.
IL RITRATTO. Il nome della sua cassaforte è Regia, che controlla la quarta parte della holding Edizione e per i vari rami arriva a Benetton Group, Atlantia, Autogrill, Cellnex e così aeroporti e autostrade in mezzo mondo, e partecipazioni in Generali, Mediobanca, varie società immobiliari, proprietà terriere per un milione di ettari. E in effetti Gilberto Benetton delle fortune proprie e dei suoi fratelli è stato il regista. Per nulla portato a apparire, anzi schivo e di poche parole, Gilberto amava descriversi come “un uomo normale che conduce una vita normale”.
IL CORDOGLIO. «Se ne va un grande trevigiano, esponente di una famiglia di imprenditori che è diventata il simbolo stesso dell'imprenditoria made in Veneto». Così il presidente della Regione, Luca Zaia, ricorda Gilberto Benetton, scomparso oggi a poco più di tre mesi dal fratello minore Carlo. «La famiglia Benetton, sin dagli albori della loro storia imprenditoriale - ricorda Zaia - ha rappresentato un modo diverso e nuovo di fare impresa. Ha innovato il concetto e i metodi di produzione, ha rivoluzionato vendita e marketing, ha creato nuovi gusti e un nuovo linguaggio pubblicitario. Insieme ai suoi fratelli, Gilberto ha portato nel mondo una nuova immagine del Veneto che, da contadino e artigiano, si è affermato nei diversi continenti con la fantasia dei suoi prodotti e dei suoi colori, la forza dell'organizzazione aziendale e della qualità. Gilberto è stato il primo artefice del gruppo di Ponzano, il braccio finanziario della famiglia, l'appassionato sportivo diventato il mecenate delle squadre della Marca, dal rugby al volley al basket: società che negli impianti della Ghirada hanno trovato il quartier generale e costruito il loro vivaio, riuscendo a regalare ai trevigiani e ai veneti, sotto l'egida appunto dei Benetton, grandi emozioni e indimenticate vittorie». «Da parte di tutta Confindustria Veneto e mia voglio esprimere il più grande cordoglio alla famiglia Benetton per la scomparsa di Gilberto. Gilberto, insieme a Carlo, apparteneva a quella classe imprenditoriale che ha fatto grande il Veneto e l’Italia nel mondo. Con lui scompare un altro testimone di quell’epoca d’oro in cui il saper fare, proprio della nostra regione, ha saputo imporsi a livello internazionale, grazie alla capacità di innovare e internazionalizzare, indicando alla nostra generazione il percorso da seguire». Lo afferma in una nota il presidente di Confindustria Veneto, Matteo Zoppas. «Il Sindaco Mario Conte e tutta l'Amministrazione Comunale di Treviso, nello stringersi alla famiglia in un ideale abbraccio, intendono esprimere il proprio cordoglio per la scomparsa di Gilberto Benetton, imprenditore sopraffino che ha scritto pagine importanti e di successo della storia economica, culturale e sportiva non solo di Treviso ma di tutta Italia». Lo afferma una nota del Comune di Treviso. «Sono stati molti - ricorda la nota - gli investimenti operati e l'impegno profuso da Gilberto Benetton e dalla sua famiglia per il nostro territorio che, anche grazie al suo prezioso apporto, ha potuto farsi conoscere e apprezzare in tutto il mondo". Il Presidente di Atlantia Fabio Cerchiai e l'Amministratore delegato Giovanni Castellucci si uniscono al dolore della famiglia Benetton per la scomparsa di Gilberto». Così una nota della società. «La sua riservatezza, la sua passione per le sfide e la sua ambizione di crescita globale ci hanno accompagnato e guidato nei tanti anni di lavoro comune - aggiunge la nota - in cui abbiamo potuto apprezzare le straordinarie qualità dell'uomo e la grande capacità di visione dell'imprenditore, che ha saputo indicare la via per aprire nuovi percorsi di sviluppo. Gilberto resterà nei nostri cuori e la sua scomparsa ci lascia nel dolore». Il 18 settembre scorso il Corriere della Sera ha pubblicato una lunga intervista a Gilberto Benetton: è di fatto l'ultima sua intervista. Per la prima volta dal crollo del Ponte Morandi, costato la vita a 43 persone, Gilberto Benetton aveva accettato di parlare della tragedia, dalla sua posizione a capo della famiglia azionista di Atlantia (Autostrade per l’Italia). «Il silenzio delle prime ore? Dalle nostre parti è considerato un segno di rispetto. Avanti con gli interventi per i genovesi e la città», aveva detto.
Discreto e schivo fino all’ultimo. Anche nel congedo, attorniato dalla famiglia, che per i Benetton è stata ed è tutto, nel nome di mamma Rosa rimasta vedova troppo presto, e dei figli chiamati, Luciano in primis, a darsi da fare. E non a caso diventerà alfiere di un capitalismo familiare nordestino, anomalo, pioniere del glocal e della modernità. Gilberto aveva studiato da segretario d’azienda, e aveva trovato impiego molto presto nello studio Piana. E lì avrebbe sviluppato il culto dei numeri e dei bilanci, che l’avrebbe portato a incarnare l’anima finanziaria nel quartetto dei i fratelli che nel 1965 avrebbe fondato il gruppo, aprendo lo stabilimento di Ponzano. A essere il padre della diversificazione e dell’ascesa del gruppo, culminata nel suo ingresso in consiglio di amministrazione di Mediobanca. «Un colpo d’occhio, e memorizzava un bilancio, capiva tutto», dice chi ha lavorato al suo fianco. Deciso, con un rigore che univa da par suo all’assoluta riservatezza. Pochissima mondanità, e solo per gli eventi legati al suo impegno nel sociale o nello sport. Sempre lontano dalla ribalta e dalla piazza, dove lo si poteva incrociare solo negli ultimi tempi, quando passeggiava con i nipoti, o talvolta al volante della sua auto che rientrava nel garage di via Ortazzo. E poi, lo sport. Il ragazzo Gilberto, che giocava a basket alla Duomo Folgore con Pier Giorgio Bardin, Adriano Lagrecacolonna, Biasin, Luciano Bortoletto, Gianni Furlan – diventerà il presidente della società che scalerà, dal l’Italia e Treviso, e che in 31 anni collezionerà 5 scudetti, 8 coppe Italia, 4 supercoppe, e coppe Europa, e 2 finali di Eurolega. Paolo Vazzoler, presidente di Tvb, sottolinea i suoi tre incontri con Gilberto Benetton: «Il primo da capitano della squadra, e lì mi ha insegnato che le persone vengono sempre prima di tutto, poi per 10 anni manager in azienda, e nonostante il suo ruolo era molto rispettoso del mio lavoro, e poi quando ho cominciato l’avventura con Tvb: mi ha chiamato che era un gesto di un grande coraggio». Ricky Pittis vede in Gilberto «il fondatore della grande Treviso cestistica», e sottolinea come «nel 1993, quando sono arrivato a Treviso, mi avesse messo subito a mio agio». E poi la Sisley che dalla vittoriese Antares (è di Vittorio è la moglie Lalla, sposata nel 1968, giusto 50 anni fa) porta ai vertici mondiali. 9 scudetti, 5 coppe Italia 7 supercoppe italiane, 4 coppe dei Campioni, 2 coppe delle Coppe, 4 coppe Cev, 2 Supercoppe europee. E a Treviso arriva Lollo Bernardi, mister secolo del volley. «Sono stato accolto da lui all’ultimo piano di villa Minelli, ricordo che mi fece capire come il secondo era ìl primo dei perdenti», ricorda oggi il campione, «ma era anche uno molto pacato nei momenti difficoltà. Voleva portare campioni e spettacolo a Treviso, ha lasciato, con amarezza, quando si è reso conto che i tempi stavano cambiando». Il rugby? Adesso seguiva il nipotino al Topolino, oggi Puffi. E come dimenticare la formula Uno, con i trionfi di Schumacher a rovesciare storiche gerarchie consolidate? Il Coni lo avrebbe premiato nel 2013 con la stella d’oro al merito sportivo. Certo lui e i fratelli, con la straordinaria, irripetibile avventura sportiva targata Verdesport hanno segnato la storia sociale e cittadina di Treviso per quasi mezzo secolo: saga ineguagliabile. A rivederla oggi fa impressione la stessa sequenza. Nel 1978 la sponsorizzazione del rugby, nel 1981 il basket, nel 1982 l’inaugurazione della Ghirada, avanguardia assoluta in Europa e nel mondo, nel 1983 la realizzazione del Palaverde, nel 1988 la creazione di Verdesport, affidata all’amico Giorgio Buzzavo. Un modello che è ancor oggi guardato come un riferimento dello sport sociale. Il simbolo di una dimensione lontana dal calcio, polisportiva, molto identitaria, in una dimensione felice. La prima crepa è del 2008, il caso Lorbek. Poi, nel 2011, il giorno più triste nella storia di Verdesport: è lui ad annunciare che dal 2012 Benetton non avrebbe più sostenuto basket e volley, ma solo i vivai, impegno sociale con la città. Ma restano la Ghirada, il rugby, il golf, con l’Asolo Golf Club aperto sui colli nel 1997: era un discreto golfista, ma da tempo non giocava più, con l’inseparabile Lorenzo De Negri, imprenditore del tessile. E il Palaverde. Lo piangono tutti, oggi. Campioni leggendari e ragazzi passati dalla Ghirada. «A me ha insegnato moltissimo, e non parlo solo di lavoro ma anche del sociale», dice commosso Giorgio Buzzavo, storico timoniere di Verdesport «in primo luogo a rispettare tutti, per avere il meglio da ognuno. L’ultima volta l’ho incrociato all’ospedale, entrava per i controlli. E insieme avevamo deciso di non vederci più».
LA SUCCESSIONE. Dovrebbe essere Sabrina a prendere il posto di Gilberto Benetton, in Edizione. Il vicepresidente della cassaforte di famiglia aveva da tempo impostato, d’accordo con gli altri fratelli, la transizione manageriale della holding che sta in cima all’impero da oltre 12 miliardi di asset della casata di Ponzano Veneto. Un impero che aveva gestito con il fidatissimo Gianni Mion fino a che nel 2016 non chiamò come ad Marco Patuano e presidente Fabio Cerchiai, mettendo fine ad un sodalizio durato trent’anni. Gilberto, l’anima finanziaria della dinasty, era amministratore unico di Regia. La scatola, ce ne sono altre tre relative ai rami degli altri fratelli, sopra ad Edizione. Ogni spa tiene il 20% della holding, il resto è frazionato tra i membri della famiglia. Gilberto aveva previsto il passaggio delle sue quote alle figlie, Barbara e Sabrina, e della moglie Maria Laura Pasquotti. La struttura successoria è stata fatta con atto del 19 aprile del 2018 e depositata il giorno dopo. Con questo atto Gilberto, che era amministratore unico di Regia, ha ceduto la nuda proprietà per il 50% di Regia (la quota del capitale versato pari a 28,6 milioni) alla più giovane delle sue figlie, Sabrina, mantenendone l’usufrutto. Praticamente identica quota (il 49,99% del capitale) è stata assegnata in nuda proprietà alla sua primogenita Barbara, con un usufrutto diviso a metà tra lui e la moglie Maria Laura. Resta fuori in proprietà una parte residuale del capitale (pari allo 0,01%) che era rimasto a Gilberto. Come già è avvenuto per Massimo Benetton, nipote di Gilberto e figlio del defunto Carlo, è quasi certo che sarà dunque la secondogenita Sabrina ad entrare in Edizione con il ruolo di socio fondatore. La 45enne è infatti già stata nel consiglio della holding che tiene tramite il piano intermedio Sintonia il 30% di Atlantia. Il grande operatore infrastrutturale italiano che una volta chiusa l’operazione con Acs Hochtief diverrà azionista di maggioranza di Abertis e quindi player mondiale delle autostrade e degli aeroporti. Atlantia ha l’88,1% di Autostrade per l'Italia, il 99,4% di Aeroporti di Roma, il 15,49% di Getlink la società che gestisce il tunnel della Manica, il 40% degli Aeroporti della Costa Azzurra. Ma attraverso Sintonia il braccio finanziario di Ponzano è anche entrato nelle telecomunicazioni, detiene il 60% di ConnecT (il restante 40% lo hanno recentemente ceduto al Fondo di Abu Dhabi e a Gic, fondo di Singapore) che sotto di sé ha il 29,9% di Cellnex. E poi c’è il mondo del travel retail con Schema34, al 100% di Edizione, che controlla il 50,1% di Autogrill. E ovviamente il mondo dei maglioni, l’origine di tutto, con il 100% di Benetton Group e Olimpias. C’è l’immobiliare con Edizione Property e poi il settore agricolo con la Maccarese, la più grande aziende agricola italiana. Iinfine il pezzo che investe in strumenti finanziari, Schema33 cheha il 3,05% di Generali e il 2,1% di Mediobanca. Edizione era la creatura di Gilberto. Il suo regno erano i numeri, nella spartizione delle competenze lo aveva sempre ripetuto. E senza nulla togliere agli altri tre fratelli, l’imprenditore Gilberto, con la mente del fidato Mion, ha costruito il capolavoro finanziario di Autostrade. In un momento storico in cui i capitali veri li avevano loro. Gli imprenditori nati dal nulla facendo maglioni colorati nella periferia industriale agli albori del suo miracolo: il Nordest, la Locomotiva del Paese. Il riscatto dei danari dell’industria sulla finanza. Ora in un copione che si è già visto per il più giovane fratello Carlo in Edizione entrerà la seconda generazione. Con un percorso stabilito dallo statuto di Edizione e costruito per blindare in maniera assoluta il ruolo della famiglia Benetton dentro alla cassaforte. Nello statuto di Edizione, rivisto il 26 giugno del 2016, è stabilito (art.6) che lo status di socio fondatore spetta ai soci Luciano, Gilberto, Giuliana e Carlo. In caso di trasferimento inter vivos o mortis causa i soci fondatori, durante la vita della società, devono sempre restare in numero di quattro. Lo status di socio fondatore, e i connessi diritti particolari, spetta soltanto ad un discendente in linea diretta dei Benetton senior. Ma non è l’unico elemento che blinda la società. La dinastia di Ponzano ha incardinato la prelazione in modo che l’impero resti saldamente sotto l’egida Benetton. In caso di successione mortis causa, le partecipazioni pervenute in proprietà per successione legittima o testamentaria a soggetti che non appartengano al nucleo familiare del socio, «dovranno essere offerte agli altri soci, i quali pertanto avranno un corrispondente diritto di riscatto». Gilberto aveva fatto modificare il 5 maggio di quest’anno l’atto costitutivo della “sua” Regia, in particolar modo la parte relativa alla Modifica dei poteri degli organi amministrativi. Era l’unico comandante di quella nave. E forse già sapeva.
LA TRAGEDIA DI GENOVA. Genova, Autostrade: "Cuore straziato", ma per le scuse "aspettare chiarezza su responsabilità" “Esprimo cordoglio e vicinanza alle vittime, ai loro familiari, ai loro amici, ai genovesi, ai soccorritori per i quali ho ammirazione. E' uno strazio che mi porto nel cuore". Così l'Ad di Autostrade, Giovanni Castellucci, durante la conferenza stampa convocata a Genova sottolineando come tuttavia non ritiene che "ci siano le condizioni per assumersi la responsabilità per un evento che deve essere indagato a fondo". «Ero in vacanza, come credo la maggior parte degli italiani. Ad un tratto il dramma e tutto è cambiato: anche per noi sono iniziati giorni di sofferenza e cordoglio». Era stato proprio Gilberto Benetton a spezzare il silenzio dietro cui per giorni si era trincerata la famiglia di Ponzano, azionista di controllo di Autostrade, dopo la tragedia del Ponte Morandi a Genova del 14 agosto scorso. Quelle 43 vittime rimaste sotto le macerie e le violente polemiche politiche dei giorni successivi al disastro non hanno solo cambiato per sempre l’immagine del marchio Benetton ma hanno inferto anche un duro colpo allo stesso Gilberto, che da tempo stava combattendo anche una battaglia contro la malattia. Mai prima di quel 14 agosto il nome della famiglia di Ponzano era entrato in rotta di collisione con un governo. Anzi, una delle principali abilità di Gilberto Benetton era stata quella di mantenere sempre buoni rapporti, in nome del business, sia con Silvio Berlusconi che con i diversi leader del centrosinistra, da Romano Prodi a Massimo D’Alema fino a Matteo Renzi. Questo aveva permesso alla famiglia di poter ampliare con grande discrezione i propri affari, fino a diventare uno dei più grandi player nel settore delle infrastrutture tanto da tentare, con l’operazione Abertis, anche la conquista della Spagna. Tutto questo è però finito il 14 agosto scorso poco dopo mezzogiorno. Il primo a mettere nel mirino i Benetton, volendo dare un volto in pasto ad un’opinione pubblica attonita e sconvolta, fu il giorno di Ferragosto Luigi Di Maio, vicepresidente del Consiglio e leader del Movimento 5 Stelle: «Per la prima volta c'è un governo che non ha preso soldi da Benetton». Da questo momento non passerà giorno senza che la famiglia di Ponzano venga accusata di qualsiasi cosa: dal non aver fatto la manutenzione del ponte all’accusa di pagare le tasse in Lussemburgo. Accuse cui nessun membro della famiglia risponde direttamente lasciando che a farlo fossero gli uffici stampa delle società. «Dalle nostre parti il silenzio è considerato segno di rispetto», spiegherà proprio Gilberto Benetton, «la discrezione fa parte della nostra cultura». Ma tale è la tensione nei confronti della famiglia di Ponzano che in quei giorni viene violata anche la proverbiale riservatezza dei Benetton. E sui giornali compaiono le cronache di una festa con decine di invitati organizzata a Ferragosto, il giorno seguente il crollo del ponte, nella villa di Giuliana a Cortina. A nulla sono valse le precisazioni (“era un incontro di famiglia, una riunione prevista da tempo per commemorare Carlo Benetton, uno dei quattro fratelli fondatori dell'azienda, scomparso il 10 luglio scorso”). E in quei giorni anche il governatore Luca Zaia, solitamente attento a non entrare in rotta di collisione con Ponzano, critica la maniera in cui è stata gestita a Ponzano la tragedia: «Credo che, nelle prime ore dopo il disastro, la situazione sia stata gestita male dalla famiglia Benetton, perché occorreva subito una presa di posizione». Gilberto Benetton, a nome di tutta la famiglia, ha quindi deciso di rompere il muro del silenzio il 6 settembre scorso con una lunga intervista al Corriere della Sera. «Il disastro di Genova», ha spiegato, «deve essere per noi un monito perenne, anche se terribile e per sempre angoscioso nei nostri cuori, a non abbassare mai la guardia e continuare a spingere il management, che ha la responsabilità della gestione, a fare sempre di più e di meglio, nell’interesse di tutti, e ripeto tutti». Per poi aggiungere: «Avremmo potuto fermarci molto tempo fa e goderci la vita. Ma la natura dell’imprenditore è costruire il futuro con umiltà e tenacia».
Addio a Gilberto: dai maglioni alla finanza, la mente dei Benetton. Morto in casa all’età di 77 anni, la scomparsa del fratello e la tragedia del Ponte Morandi hanno lasciato il segno in una salute già minata, scrive Luca Fornovo il 23/10/2018 su "La Stampa". «È stato all’apice della sua carriera fino a giugno - racconta uno dei collaboratori che ha lavorato più a lungo con lui - quando vedeva prosperare e crescere l’impero Benetton». Soprattutto nei trasporti dove il suo sogno era quello di creare un operatore mondiale di autostrade con partecipazioni anche in Sud America e nella gestione degli aeroporti di Roma e Nizza. «Sviluppo, crescita e mercati internazionali» è sempre stato uno dei suoi mantra. Oggi Atlantia con la spagnola Abertis può contare su un fatturato di oltre 11 miliardi di euro e controlla 14 mila chilometri di autostrade. Ma negli ultimi mesi Gilberto Benetton aveva accusato due colpi durissimi: il 10 luglio la morte del fratello più giovane Carlo, a cui era molto legato e il 14 agosto la tragedia del Ponte Morandi di Genova con 43 morti e circa un migliaio di sfollati. «Il disastro di Genova - diceva in una recente intervista - deve essere per noi azionisti un monito perenne, anche se terribile e sempre angoscioso nei nostri cuori, a non abbassare mai la guardia». Gilberto Benetton si è spento nella sua casa di Treviso a 77 anni. Lascia la moglie Lalla e due figlie, Barbara e Sabrina. Nato nel 1941 è stato il ministro delle Finanze dell’impero Benetton, il regista della diversificazione delle attività della famiglia di Ponzano Veneto nelle infrastrutture, nell’immobiliare e nel retail realizzata negli ultimi vent’anni. Se quello di Genova è stato uno dei momenti più drammatici della sua vita uno dei più belli fu l’anno scorso. «Giovedì 5 ottobre - ricorda ancora il collaboratore - a New York ricevette dal “Gruppo esponenti italiani” il premio “Gei Award 2017”. Raramente lo vidi così emozionato». Quel premio era la sua consacrazione nell’olimpo dei manager internazionali. E proprio in quell’occasione Benetton annunciò a La Stampa che il gruppo era pronto alla scalata di Abertis, un percorso chiuso ufficialmente poche settimane fa. La cavalcata di Gilberto Benetton nell’imprenditoria italiana comincia nel 1965 quando si unisce ai fratelli Luciano e Giuliana nell’«azienda dei maglioni gialli», quelli inventati dalla sorella. Gli affidano la parte finanziaria. «Fin da ragazzo - raccontava Gilberto - i miei fratelli mi hanno incaricato di gestire i risparmi di famiglia e così in azienda». Il padre, che lavorò come camionista in Libia, morì quando lui aveva appena 4 anni. Così anche lui, come i suoi fratelli, si dovette rimboccare le maniche presto per diventare un self made man. Smise di studiare già a 14 anni. Dopo la crescita in Italia negli Anni 70, negli Anni 80 Benetton è un colosso internazionale della moda: più di mille centri vendita in Italia, 250 in Germania, 280 in Francia, 100 in Inghilterra. Nel 1986 la quotazione in Borsa e il Team Benetton lancia in Formula 1 Schumacher. Negli Anni 90 Gilberto inaugura la stagione della diversificazione delle attività di famiglia: nel ’94 l’acquisizione dei supermercati Gs e di Autogrill. Allora il gruppo di ristorazione fatturava circa 600 miliardi delle vecchie lire (300 milioni di euro) oggi macina ricavi per 4,5 miliardi di euro. Nel 2000 Benetton vende Gs e acquista, dopo mille polemiche, Autostrade dallo Stato. È il primo mattone per costruire un colosso dei trasporti. Nel 2003 il secondo mattoncino con l’ingresso negli Aeroporti di Roma. Poi negli ultimi due anni sotto l’impulso di Edizione, la potente holding di cui Gilberto è vice presidente, l’impero Benetton centra altre tre acquisizioni: l’Eurotunnel che collega la Francia al Regno Unito, poi la doppia incursione in Spagna con l’acquisto delle torri Cellnex e le autostrade Abertis. «Per fare grandi affari bisogna avere grandi alleati». Eccolo un altro dei suoi mantra. E difatti Gilberto Benetton ha sempre lavorato al fianco di soci importanti come la Fondazione Crt, i fondi internazionali di Singapore e Abu Dhabi e le banche blasonate come Mediobanca e Goldman Sachs. Benetton è ancora socio di Mediobanca e lo è stato di Telecom e Pirelli. Amici e collaboratori ricordano Gilberto come un uomo dal carattere schivo, poco avvezzo alla mondanità. «Ad agosto amava rifugiarsi a Cortina, ma dal 1° settembre era in ufficio». Nello sport la sua grande passione è stata il basket ha finanziato anche la pallavolo e il rugby. Amava giocare a golf. Chi ha lavorato con lui racconta che era preoccupato soprattutto quando le cose andavano bene. «È troppo facile, troppo liscia. C’è da stare attenti».
Benetton: Gilberto, fare azionisti è lavoro vero, non solo stacco cedole, scrive Adnkronos il 23 Ottobre 2018 com eriportato da "Il Dubbio". Le parole di Gilberto Benetton racchiudono, dunque, il senso di quella che è stato l’ultimo capitolo del suo lungo percorso imprenditoriale alla guida di un gruppo dall’identità del tutto peculiare nel panorama economico nazionale. “Se si scorre un qualsiasi elenco delle principali società italiane, non è per nulla facile trovarne un’altra simile, capace di una così rapida ascesa ai vertici della classifica”, scrive l’autore del libro Colli. Ma lo sguardo, alla luce delle nuove sfide imposte dalla profonda trasformazione del gruppo, si volge, ineludibilmente, al futuro. Diventa rilevante, scrive il docente bocconiano, “una riflessione sui possibili futuri di Edizione per la semplice ragione che è in oggetto lo sviluppo di una delle holding di investimento più importanti in Italia e in Europa. Una holding che gestisce partecipazioni molto rilevanti in infrastrutture essenziali, sia in Italia che all’estero”. Di “futuri multipli” parla Colli, che, tiene a precisare, non si propone di fare previsioni. Un primo scenario futuro “potrebbe essere una marcata riduzione nella propensione al rischio che ha fino ad ora caratterizzato Edizione. Edizione a breve si troverà a essere dotata di una considerevole liquidità da investire. Possiede, inoltre, nel proprio portafoglio asset che possono, anche se non immediatamente, essere progressivamente liquidati. Questa ricca dotazione potrebbe essere funzionale alla sua trasformazione in un vero e proprio family office ovvero un’entità che trasferisce le risorse in suo possesso sotto il controllo di investitori professionisti senza assumere un ruolo diretto nella gestione delle imprese, semplicemente acquisendo quote di fondi”.
Mentana su Benetton: "Si dice che dietro ogni grande ricchezza ci sia una grande crimine...". Il direttore del TgLa7 parla della morte di Gilberto Benetton, spirato il 22 ottobre, scrive Franco Grilli, martedì 23/10/2018, su "Il Giornale". Enrico Mentana ricorda Gilberto Benetton, morto ieri all’età di 77 anni, battuto da un brutto male dopo anni di lotta. Il fondatore del gruppo Benetton e patron di Atlantia è finito – insieme alla famiglia – nel mirino dell’opinione pubblica in seguito al crollo del ponte Morandi di Genova. Nella giornata di oggi il direttore del TgLa7, ospite di Myrta Merlino a L’aria che tira, ha parlato della parabola della famiglia trevigiana, anche in relazione alla tragedia di questo agosto. A tal proposito, Mentana ha spolverato una massima coniata negli Stati Uniti per parlare dei magnati a stelle e strisce, come per esempio Warren Buffet. Ecco, dunque, le sue parole: "C'è sempre quella antica cosa che si dice: dietro a ogni grande ricchezza, ogni grande capitale e grande avventure imprenditoriale c’è un grande crimine, come diceva studioso americano. Ma quando muore una persona esiste il rispetto e soprattutto esiste il dolore di chi gli ha voluto bene e di chi ha lavorato con lui…".
Briatore: "La morte di Benetton? Altra vittima del ponte". Flavio Briatore conosceva Gilberto Benetton. L'ex manager di Formula Uno ha voluto ricordare con poche parole la scomparsa del fondatore del gruppo Benetton morto a 77 anni, scrive Franco Grilli, Martedì 23/10/2018, su "Il Giornale". Flavio Briatore conosceva Gilberto Benetton. L'ex manager di Formula Uno ha voluto ricordare con poche parole la scomparsa del fondatore del gruppo Benetton morto a 77 anni. "Il crollo del ponte di Genova ha fatto una vittima in più: Gilberto Benetton. Lo avevo visto una decina di giorni prima del tragico evento, eravamo stati insieme un'oretta e ci eravamo salutati con un abbraccio e non stava così male poi lo sciacallaggio che la sua famiglia ha dovuto subire nei giorni dopo il 14 agosto gli ha dato il colpo di grazia", ha affermato Briatore all'Adnkronos. Poi lo stesso Briatore ha parlato delle ultime settimane vissute da Benetton che ha dovuto fare i conti con la bufera legata al ponte di Genova: "opo il crollo del ponte Morandi parlare dei Benetton era come parlare del Diavolo e questa cosa lo ha distrutto -ha aggiunto Briatore-. Perdiamo un grande imprenditore a cui devo dire grazie quando insieme a Luciano decisero di farmi lasciare New York per andare a lavorare nel team di F1. Abbiamo avuto un rapporto anche conflittuale a volte ma mi ha sempre lasciato carta bianca nelle gestione del team e questa è stata una grande dimostrazione di stima e fiducia". A questo punto si lascia andare ai ricordi tutti legati alle esperienza sportive targate Benetton: "Ho degli splendidi ricordi di quegli anni, oltre alle grandi vittorie erano particolarmente emozionanti le feste di Natale che facevamo nel centro sportivo della Ghirada con le squadre di basket, volley e rugby tutte formazioni vincenti ai massimi livelli nei rispettivi sport ma dove noi eravamo il fiore all'occhiello. Lui e la sua famiglia hanno fatto cose straordinarie per la città di Treviso anche senza ricevere la giusta riconoscenza".
Benetton: sindaco Treviso, Gilberto lascerà un grande vuoto in città, scrive Adnkronos il 23 Ottobre 2018 come riportato da "Il Dubbio". “La città non dimenticherà Gilberto Benetton. Un uomo, un imprenditore, che lascerà un grande vuoto nella nostra città. Per questo, faremo qualcosa di importante per ricordarlo, ovviamente in accordo con la famiglia”. Lo annuncia all’Adnkronos il sindaco di Treviso, Mario Conte che ricorda: “Gilberto ha trasmesso i suoi grandi valori ai figli e alle nuove generazioni della famiglia: per questo sono certo che riusciranno a portare avanti quanto fatto da lui in tutti questi anni e con gli stessi successi, non solo imprenditoriali”. Infatti, il primo cittadino di Treviso ricorda anche: “La sua passione per lo sport: grazie ai successi nel rugby, nella formula uno, nel basket e nella pallavolo ci ha fatto passare tanti momenti meravigliosi, portando Treviso sul tetto del mondo in tante discipline sportive. Non solo – sottolinea – la famiglia Benetton la creato anche La Ghirada, la cittadella dello sport alle porte della città, che ha avvicinano tanti giovani allo sport”. “Per tutto questo – conclude Conte – sono convinto che Treviso dovrà fare qualcosa di importante per ricordarlo”.
«Un patron-tifoso che ha fatto conoscere Treviso nel mondo». Per tutti era il «signor Gilberto». Così lo chiamavano i suoi «ragazzi», cresciuti come il suo sogno iniziato nel 1983. Un sogno sportivo che ha portato Treviso ai vertici del mondo nel basket, nella pallavolo e nel rugby, scrive Matteo Valente il 23 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Per tutti era il «signor Gilberto». Così lo chiamavano i suoi «ragazzi», cresciuti come il suo sogno iniziato nel 1983. Un sogno sportivo che ha portato Treviso ai vertici del mondo nel basket, nella pallavolo e nel rugby. Gilberto Benetton lascia a Treviso un’eredità eterna, costruita con quella passione che ha segnato un’epoca e scritto un’epopea. Una storia lunga 30 anni figlia di un’intuizione felice: «Ho bei ricordi fin dall’adolescenza – racconta Renato Villalta - perché a 13 anni quando iniziai a giocare a basket andavo con il mio allenatore Giomo in un bar a Treviso. Era il ritrovo dei baskettari e lui c’era. Aveva sempre una parola buona, se si perdeva una partita riusciva a infondere serenità e tranquillità».
L’inizio del «sogno sportivo». Correva l’anno 1983 quando fu firmato il passaggio di consegne da Aldo Bordignon a Gilberto Benetton: una pietra miliare nella storia dello sport trevigiano, che proprio in quello stesso anno vedeva sorgere a Villorba il Palaverde. Un impianto all’avanguardia in cui il «Signor Gilberto» aveva sempre il suo posto: nei centralissimi, a fianco alla moglie Lalla. «Me lo ricordo sempre seduto allo stesso posto, non mancava mai a nemmeno una partita – ricorda Riccardo Pittis, arrivato a Treviso nel 1993 – quasi a volerci dare una sicurezza in più. Era un grande tifoso e ha sempre messo grande passione. Il signor Gilberto ha fatto lo sport a Treviso, senza la sua passione, oggi tutto questo non ci sarebbe». Da quel seggiolino Gilberto Benetton ha ammirato il suo sogno diventare realtà, prima con l’arrivo dei campioni come Vinnie Del Negro e Toni Kukoc, assieme a tanti portati da gm come Maurizio Gherardini: «Sono stato privilegiato per aver avuto la possibilità di vivere tanti anni di sport insieme. Per me un mentore unico».
Lo scudetto nel basket. Poi la prima gioia, la vittoria del primo storico scudetto nel 1992 contro la Scavolini Pesaro. «Gilberto Benetton era un vero signore – ricorda Massimo Iacopini, altro storico capitano della Benetton – una persona di una straordinaria gentilezza e dalla presenza discreta. Io posso solo ringraziarlo per quello che ha fatto per Treviso, per me e la mia famiglia come giocatore e come uomo». Di lì a breve sarebbero arrivati anche i primi sigilli della Sisley Volley, una delle squadre più forti che la pallavolo italiana abbia mai potuto avere: coppe, scudetti e trofei, i cui stendardi sventolano ancora oggi al Palaverde a eterna memoria. «È stato un patron appassionato - racconta Lorenzo Bernardi, per oltre un decennio anima della Sisley - mai ingombrante. Un imprenditore e un proprietario davvero speciale». Ai successi però, sono seguiti anni difficili, con il Palaverde disinnamorato dei suoi campioni e tanti vuoti che hanno incrinato una passione infinita. Troppo doloroso vedere quel tempio vuoto, e così nel 2012 ecco la rinuncia e la fine di un’era che oggi vive un nuovo capitolo con Treviso Basket: «Ricorderò sempre la sua umanità – dice il presidente di TVB, Paolo Vazzoler – anche quando mi disse nel 2012 «vai, ma attento a non farti male», se oggi ci siamo è grazie a lui. Il signor Gilberto ci mancherà».
E mentre i Benetton si occupavano di autostrade e concessioni, il loro core business abbigliamento declinava, scrive il 19 ottobre 2018 Simone Filippetti su Industria Italiana. Riproduciamo il capitolo del libro “Serenissimi affari. I veneti in Borsa tra splendore e declino”, che fotografa il periodo – dal 2012 ad oggi – di declino dell’attività industriale originaria della famiglia di Ponzano Veneto. Il 2017 ha chiuso con 180 milioni di perdite, record rispetto agli 81 milioni di rosso del 2016 e ai 46 milioni del 2015. Calano anche i ricavi, chiudono i negozi e… Tutto ciò mentre i competitor Zara ed H&M vanno alla grande.
“Serenissimi affari. I veneti in Borsa tra splendore e declino” di Simone Filippetti Prefazione di Paolo Madron è edito da Marsilio. Benetton: i maglioncini si sono scoloriti. A metà degli anni ‘80, un giovane fotografo si impose agli occhi degli italiani. Era l’autore di spot che avrebbero scritto la storia della pubblicità e segnato un’epoca nell’Italia del rampantismo di Bettino Craxi e della “Milano da Bere”. Immagini scioccanti e provocatorie (per quegli anni) che fecero dell’allora sconosciuto creativo un’icona pop. E dell’azienda che reclamizzava un marchio indiscusso del Made in Italy: suore e preti che si baciavano, malati terminali di Aids, neri e bianchi che si stringevano la mano. Il fotografo era Oliviero Toscani e l’azienda Benetton, una medio piccola industria tessile di Treviso che fino a quel momento era semplicemente una delle tante Pmi dell’operoso Nordest. Grazie al fortunato sodalizio tra Toscani e Benetton, l’azienda di abbigliamento è diventata un brand mondiale. E poi c’era anche il prodotto: maglioni dai colori sgargianti che ben identificavano un’era, quegli anni ‘80 degli Yuppie e dei Paninari che divennero un simbolo in tutto il mondo. Luciano Benetton, con la sua capigliatura estrosa da pittore rinascimentale, si era inventato il marchio nel 1965, sulla scia della conterranea Stefanel che aveva aperto i battenti pochi anni prima. È stato merito suo, il più grande di quattro fratelli rimasti orfani da bambini nel Veneto dell’immediato Dopoguerra, l’aver portato la famiglia veneta a una ricchezza impensata. Dal primo negozio, aperto a Belluno nel 1966, agli anni d’oro dei decenni ‘70 (quando Benetton arriva a esportare il 60% della produzione) e ‘80 (culminati con la quotazione in Borsa, da 210 miliardi delle allora Lire, addirittura in tre diverse piazze: Milano, Francoforte, New York). Il simbolo dell’ascesa è la fantasmagorica Villa Minelli a Ponzano Veneto, alle porte di Treviso: un’immensa casa di campagna padronale costruita nel XVI secolo, circondata da un parco, comprata nel 1969, ma inaugurata a metà anni ‘80 dopo 15 anni di restauri che l’hanno trasformata in una sorta di quartier generale museo da dove i Benetton tirano le fila dei loro affari. Luciano è l’uomo dietro al successo dei maglioncini, che arrivano a superare, negli anni d’oro, i 2 miliardi di giro d’affari e a impiegare oltre 10mila dipendenti. L’azienda Benetton ha fatto accumulare alla famiglia quel tesoretto che ha posto le basi per la nascita dell’Impero che è oggi Edizione Holding, la cassaforte dei quattro fratelli. Se Luciano è dunque il creativo, il fratello Gilberto è invece il cervello finanziario: rimasto in ombra mentre Luciano guadagnava celebrità e le copertine di riviste e giornali, Gilberto intuisce che l’azienda deve diversificarsi e sul finire degli anni ‘90, sfruttando il patrimonio nato coi maglioncini e la stagione delle privatizzazioni dell’Iri, trasforma il gruppo in una super–holding. Che oggi spazia dagli aeroporti, alle autostrade, ai duty free. Quelli erano, però, per la United Colors of Benetton i favolosi anni ‘80, appunto. Anni che culminarono con lo sbarco in Borsa del gruppo: era il 1986 e Piazza Affari accolse, al prezzo di 10mila lire, il Signore incontrastato della moda giovane. In quegli anni Benetton legò il suo nome ai motori: la casa di moda entra nel gran circo mediatico-sportivo della Formula 1, allora dominata dallo strapotere Ferrari-McLaren. Rileva una vecchia scuderia in disarmo, la Tolemon, e la trasforma nella Benetton Renault. Al comando c’è uno sconosciuto manager piemontese, ex geometra di Verzuolo, cittadina in provincia di Cuneo: tale Flavio Briatore. La Benetton macina successi nei Gran Premi e dalla sua scuderia esce un giovane pilota di belle speranze: Michael Schumacher destinato a diventare il campione più celebre della Formula 1. La fama sportiva è una molla pubblicitaria mostruosa per il marchio Benetton, a cui nel frattempo si è aggiunto anche Sisley, una linea più sportiva e casual che negli anni ‘80 è gettonatissima tra i giovani (tanto che la Fiat ne farà anche un fortunato modello di Panda 4×4, la Panda Sisley).
Ma nel frattempo sono passati tre decenni. Il matrimonio inossidabile Toscani–Benetton è finito e il marchio Benetton si è appannato. L’azienda ha detto addio anche al mondo dei motori, dopo aver venduto tutto, nel Duemila, al socio Renault (pochi anni la famiglia investirà invece in una mega operazione di terreni: un latifondo da 900mila ettari in Patagonia, Argentina, per allevare pecore da lana merinos). Su un mercato che prima era una prateria dove scorazzare indisturbati, sono arrivati concorrenti agguerriti: Zara, H&M, Mango, Custo (tre spagnoli e uno svedese). L’offerta di moda giovane, con un brand a prezzi accessibili, dove Benetton era stato un pioniere, si è moltiplicata e, mentre gli altri correvano, Benetton è rimasta ferma: il vantaggio del pioniere è svanito. I veneti hanno cominciato a perdere quote a scapito degli avversari. Nell’anno dello sbarco in Borsa, Benetton macinava fatturato e utili: aveva brindato al traguardo di quota 1000 miliardi (quasi 500 milioni di euro) di giro d’affari, generato da 3.500 negozi sparsi per il mondo, e oltre 100 miliardi (60 milioni) di profitti. Insidiata da tempo dagli altri marchi emergenti, ecco la mossa inaspettata: due anni fa, i Benetton annunciano, fulmine a ciel sereno, il ritiro della storica azienda di famiglia dalla Borsa di Milano. Un delisting, nel gergo della finanza. Benetton abbigliamento scompare dai radar del mercato per tornare negli hangar. Motivo? Una difficile, e senza garanzia di successo, ristrutturazione. Al momento dell’addio da Piazza Affari, il gruppo veneto fattura due miliardi di euro; Zara, il marchio della spagnola Inditex, cinque volte tanto e senza 30 anni di storia alle spalle. Oggi Benetton fattura quello che la concorrente iberica fa di utili. Un gigante contro un nano. Solo che dieci anni fa la situazione era invertita, con Benetton a guardare dall’alto. I giganti erano gli italiani, gli spagnoli i nani. I Benetton hanno offerto 4,6 euro per riprendersi l’azienda. L’avevano portata in Borsa, quasi 30 anni prima a 10.000 lire (circa 5,1 euro), quando la quotarono. La famiglia ci guadagna (in senso relativo) perché si ricompra a prezzo più basso quello che avevano quotato a prezzo più alto. Una volta tanto non restano col cerino in mano i piccoli azionisti storici: per chi era entrato nel lontano 1986, l’avventura si chiude con un piccolo guadagno (il prezzo di Opa è poco sotto quello di quotazione, ma nel frattempo gli azionisti hanno incassato dividendi nel corso dei decenni). E gli utili accumulati negli anni d’oro non sono evaporati, come spesso succede in tante aziende, ma sono andati a finanziare l’espansione dell’impero, creando le altre gambe. Cos’è successo? È successo che Benetton ha perso appeal: comprare un capo Zara oggi fa più figo di un Benetton, costa poco e puoi cambiare il tuo guardaroba ogni stagione senza dover spendere una fortuna. Il marchio italiano, invece, non riesce più ad avere la stessa presa di un tempo sui consumatori. Il solo ritornello del Made in Italy, della sartorialità e del gusto inimitabile di un capo italiano, è un karma che non basta più: la moda, specie nel segmento dove opera Benetton, che è la fascia medio–bassa, è un mercato sempre più competitivo, dove i margini si assottigliano perché le basse barriere all’ingresso e l’aggredibilità dei marchi porta i prezzi al ribasso. Una maison del lusso può permettersi di sparare prezzi folli, ma sul retail e sul mass–market, soprattutto in uno scenario di polarizzazione dei consumi, se non insegui la politica dei prezzi concorrenziali sei fuori gioco. Ma questo comporta guadagni sempre più risicati. In più con la recessione che ormai dura da anni in Italia, i consumi languono e questo non aiuta a recuperare quote di mercato. Volendo, c’è anche una lettura più “politica” della saga: i Benetton hanno costruito una fortuna sull’abbigliamento, fortuna con la quale poi hanno iniziato a far altro.
Oggi sono i padroni degli aeroporti e delle autostrade italiane (con il colosso Adr–Atlantia). Siedono nei salotti strategici dell’alta finanza: nel tempio laico Mediobanca, nelle Assicurazioni Generali, nella Pirelli di Marco Tronchetti Provera e nel Corriere della Sera, il quotidiano dove ogni imprenditore in Italia sogna di entrare. Il fatto è che questo “altro” (ossia le diversificazioni degli interessi) si è rivelato o molto più redditizio, o strategicamente più rilevante, dello storico business dell’abbigliamento. E oggi, da un punto di vista reddituale (basta vedere le performance di Borsa), il marchio Benetton è l’anello debole di tutta la galassia. Così all’improvviso– dicevamo– nel 2012 hanno annunciato l’addio alla Borsa, dopo 26 anni di onorata presenza. Perché andarsene da Piazza affari? Per vendere? Difficile che i Benetton vendano, perché l’azienda di famiglia ha un valore affettivo enorme per la dinastia di Ponzano Veneto. Però si vede che la famiglia è anche distratta da altro. La girandola dei manager in Benetton, sei negli ultimi undici anni, è il segnale che qualcosa non va per il verso giusto e il bilancio ne è la riprova: nel 2011, ultimo bilancio pubblico, gli utili erano caduti del 30% a 70 milioni. Nel 2008 i profitti erano 155 milioni: in tre anni si sono dimezzati e ora addirittura il gruppo è in passivo. Stiamo pur sempre parlando di un marchio presente in 120 Paesi. Ma il maglione è impolverato. E se dovesse continuare questa tendenza pericolosa di continuo peggioramento, avere le spalle larghe potrebbe non bastare più. Ecco la decisione: via l’azienda dalla Borsa dove pure era sbarcata con successo. Ed era considerata una storica “Blue chip”. Allora ha fatto bene la famiglia a decidere di togliere l’azienda dal mercato. La Borsa si nutre di aspettative e premia le aziende che mostrano di saper crescere. Ma soprattutto i mercati hanno sempre fretta: vogliono vedere risultati su basi trimestrali, una frenesia che non va d’accordo con le ristrutturazioni. Non c’erano più le condizioni a che il mercato apprezzasse l’azienda. Al momento dell’addio a Piazza Affari, il titolo era fortemente deprezzato e sottovalutato. Con meno di 700 milioni di capitalizzazione, il gruppo valeva meno dei soli immobili che possiede. Paradossi del mercato: come se il marchio valesse zero. Fuori dalla Borsa, la famiglia ha più spazi di manovra per rilanciare l’azienda. La sfida è dura: c’è da ripensare un business e ritrovare quella spinta creativa e glamour degli anni ‘80. Oppure un partner: magari la stessa Zara o H&M? Sono passati due anni da quando la nave è rientrata in porto. Ma finora si è visto poco. E i numeri, seppur ora arrivino col contagocce al mercato, raccontano un’azienda che ha perso ancor più terreno e si sta avvitando. Nel 2012 il fatturato era sceso sotto la soglia dei 2 miliardi, a 1,8, con una caduta del 10%. La marginalità si era ulteriormente contratta: si cala ancora, a 770 milioni. Gli utili, pericolosamente vicini allo zero (24 milioni). E l’anno scorso, terribile per il Paese sprofondato ancor più in recessione, le cose non potevano certo migliorare. Ed ecco l’inevitabile epilogo di anni di declino: Benetton è stata affossata da una perdita monstre di poco meno di 200 milioni (ma il dato non è ufficiale). I ricavi sono scesi a 1,6 miliardi, un altro–10%, per il secondo anno di fila. È il bilancio più disastroso della storia del gruppo veneto. Era successo solo una volta in quasi 40 anni di storia di finire in rosso, e allora era stato solo per un motivo straordinario. Unica notizia positiva, il debito: è stato dimezzato da 600 a 300 milioni. Al momento dell’addio dalla Borsa, il gruppo mostrava segnali di difficoltà, ma era ancora profittevole. Ora perde fatturato e soldi. Un brutto segnale.
È stata anche tentata qualche contromossa: tipo il taglio dei costi e la riduzione del personale (l’anno scorso erano stati annunciati inizialmente 450 licenziamenti, poi convertiti in contratti di solidarietà con esuberi dimezzati). Ma di fronte al crollo dei consumi di tutto il mercato, non è bastato. Ci vuole qualcosa di più drastico. Benetton sta dimezzando la sua presenza: è in uscita da 60 mercati su 120 in cui era. Ma il problema di fondo rimane l’eccessiva esposizione in Italia, il paese peggiore, oggi, per un’azienda di largo consumo. Il Belpaese pesa ancora per il 39% del giro d’affari e Benetton è di fatto un’azienda Euro–centrica: i mercati Ue, area dove l’economia arranca, rappresentano il 75% delle vendite del gruppo. A inizio 2014, ecco che circola una notizia inaspettata: sul ponte di comando approderà un nuovo manager (la famiglia aveva fatto un passo indietro già nel 2003). Si dice sia il tedesco Bruno Salzer: fama di duro, primo dirigente straniero in casa Benetton. Potrebbe essere la persona giusta: Salzer viene da Escada e da Hugo Boss. Ha una grossa esperienza nel settore retail e abbigliamento, esperienze che i precedenti di Benetton non avevano in curriculum. Ma il nome si rivelerà una bufala. In Benetton arriva sì un nuovo amministratore delegato, ma non è Salzer. Bensì un uomo di casa Benetton, Marco Airoldi. Il 54enne manager viene dalla multinazionale della consulenza Bcg (Boston Consulting Group), ma da 20 anni segue gli interessi della famiglia (ed è stato anche in passato direttore generale di Autogrill, altra azienda della galassia Benetton). È, in ogni caso, l’ennesimo cambio di panchina, a sostituire l’AD Biagio Chiaro Lanza. La nomina di Airoldi – e i rumors su Kaiser Bruno, forse fatti girare ad arte per bruciarlo o per sondare le reazioni del mercato – scuotono, però, anche i delicati equilibri familiari, dove tra i vari fratelli non sono mancate frizioni in passato, soprattutto tra Luciano e Gilberto. E proprio sul ruolo nel gruppo di Alessandro, il figlio di Luciano che da tempo studia da erede designato dello scettro, ma che si scontra con le diffidenze di Gilberto, da sempre favorevole al suo uomo di fiducia Gianni Mion. Dopo il delisting, le redini di Benetton erano passate nelle mani di Alessandro, figlio di Luciano, nel ruolo di dominus che assommava presidenza e alcune deleghe manageriali. Con l’arrivo di Airoldi, ma soprattutto la sua defenestrazione da presidente, sostituito proprio da quel Mion braccio destro dello zio Gilberto, il suo ruolo subisce inevitabilmente una deminutio. E vi si legge tra le righe una sorta di implicita bocciatura per Alessandro, relegato al solo ruolo di consigliere di amministrazione, ma con la compensazione di un assegno da 1,7 milioni di euro come buonuscita per l’ex incarico da presidente. Che farà a questo punto l’eterno rampollo? Rimarrà ancora in azienda o preferirà fare un passo indietro per dedicarsi al suo primo amore, il fondo di private equity da 21 Investimenti (proprietario, tra l’altro, anche dei cinema The Space, la ex catena Warner Village). Una soluzione drastica e di rottura, per la famiglia, ci sarebbe, ma è ritenuta un’eresia in casa Benetton: vendere l’abbigliamento. Logica consiglierebbe, di fronte alla difficoltà di rilanciare l’azienda, di passare la mano (fintantochè il marchio è appetibile) e di concentrarsi sugli altri business, più profittevoli. Ma la Benetton ha un forte valore affettivo per la famiglia: soprattutto Luciano non accetterebbe mai di lasciare la sua creatura, quella su cui è stata costruita la fortuna del gruppo. Di fronte alla crisi, prevarrà la ragione o il sentimento?
Dai Panettoni di Stato a multinazionale: il caso Autogrill. Non so se vi sia mai capitata tra le mani una di quelle cartoline degli anni ‘50 o ‘60. Ritraggono l’autostrada del Sole, i ristoranti Pavesi, quelli a ponte. Fanno sorridere, perché oggi a nessuno verrebbe mai in mente di spedire una cartolina (ma nemmeno di postare un selfie sui social network) con una stazione di servizio. Eppure quei ristoranti a ponte e quelle autostrade nuove e scintillanti, erano allora il simbolo del Paese che rinasceva, l’emblema del boom economico del Dopoguerra. Le autostrade sono state il sistema venoso del corpo Italia, le arterie che facevano circolare il sangue dell’economia. Per 50 anni il Paese si è mosso, non solo fisicamente, sulle strade asfaltate. Il Pil è andato di pari passo con la motorizzazione di massa. E su quelle autostrade, quando ci si fermava con la famiglia nei primi esodi estivi dell’Italia degli anni d’oro, si mangiava divinamente. I ristoranti Pavesi–Motta–Alemagna erano il sogno di ogni bambino degli Anni ‘50. “Panettoni di Stato”, lo sprezzante nomignolo affibbiato da economisti e giornali. Il primo bar a insegna Motta, nella galleria Vittorio Emanuele, a Milano, aveva aperto i battenti nel 1928. Poi a metà Anni ‘70 assieme ad Alemagna e Pavesi (il cui primo chiosco-bar sulla Milano-Novara era stato inaugurato nel 1947, con l’Italia ancora tra le macerie fumanti della guerra), le tre insegne confluirono nella Sme, una società finanziaria che faceva capo all’onnipotente e onnipresente IRI, il motore immobile dell’economia italiana, le famose “partecipazioni statali”. In quegli anni l’Italia è il più sovietico dei Paesi occidentali in politica economica: la presenza dello Stato è soffocante. Il pubblico produce di tutto, dalla benzina all’elettricità, dalle automobili agli aeroplani. Arriva anche sulla tavola: lo Stato “mammone” cucina per gli Italiani anche i dolci da mangiare a Natale. Ecco i famosi, o famigerati, “Panettoni di Stato”, paradigma del più deletereo statalismo. Roba da piani quinquennali della Russia sovietica di Stalin. Oggi il nome Pavesi non esiste più. Ma continuano a esistere quei ristoranti ed esiste il “Favoloso Mondo di Autogrill”. Quello di Autogrill è il più spettacolare caso di privatizzazione riuscita e di nascita, da zero, di una multinazionale su scala mondiale. Assieme a Luxottica (altro veneto, sarà un caso?), sono probabilmente le uniche due aziende globali che l’Italia vanti (non c’è Fiat o Finmeccanica che tenga). Oggi, è un gruppo da 4 miliardi di giro d’affari e 55mila dipendenti che spazia dall’Alaska all’Australia: non c’è un aeroporto internazionale (da Londra Heathrow a Dubai, dal JFK di New York a Kuala Lumpur) dove Autogrill non serva qualcosa da mangiare. Anche a vostra insaputa: perché magari c’è l’insegna Burger King o Costa Cafè, ma sono gli Italiani che lo gestiscono. Gli riesce così bene che dal mangiare sono passati poi anche ai duty free. Autogrill è diventata talmente grande che di una società ne hanno fatte due (Autogrill e WDF): una per i ristoranti, e una per i duty free. Sotto il cappello del mastodontico moloch chiamato IRI, Autogrill sarebbe rimasta una bella società italiana o poco più. Oggi invece è una delle più grandi, e misconosciute, storie europee di perfetta sintesi tra pubblico e privato. La svolta epocale arriva con gli anni ‘90: l’IRI viene sciolta e le sue aziende messe in vendita (il governo Prodi deve fare cassa per risanare i conti ed entrare nell’Euro). Nel 1995 Autogrill (il copyright è della Pavesi che inventò il nome e mai scelta di un marchio fu più felice) diventa privata. E chi si fa avanti? Una famiglia veneta che fino ad allora aveva riscosso successo con dei maglioncini colorati, i Benetton. La mossa era inusuale: loro sono dei parvenu del Nordest, non fanno parte dei salotti buoni. Gilberto Benetton, la mente dietro la diversificazione degli affari di famiglia’, ha però una capacità previsionale fuori dal comune e capisce che quella è una grande occasione (oltre ai panini, dall’IRI, si comprò anche le ben più corpose Autostrade, che però non diventeranno globali come Autogrill).
L’azienda è una singolare e irripetibile miscela di creatività italiana e rigore anglosassone (molto poco italiano, invece, è l’understatement, la ritrosia a esibire i propri successi). Incroci del destino: mentre i maglioncini Benetton cominciavano a infeltrire, saliva in orbita l’astro Autogrill. Appena entrati, i Benetton fanno tre cose: quotano in Borsa, puntano a esportare il modello all’estero e managerializzare l’azienda. L’eccellenza nel cibo e una certa art de vivre sono i jolly del Paese. Eppure gli Italiani, con il loro spirito imprenditoriale molto individualista, mancano spesso di efficienza e di quella disciplina che fanno la differenza tra i capitalismo familiare e l’impresa globale. Le imprese familiari pagano lo scotto di litigi interni e dell’insofferenza verso il mercato e la gestione manageriale. Autogrill invece è una simbiosi perfetta tra le due anime, familiare e mercatistica. I Benetton subito si aprono all’esterno, con manager estranei alla famiglia a gestire, e con la quotazione della società. Il piano industriale? Il cibo in movimento: sfamare i viaggiatori in senso lato (perché solo in autostrada? Ovunque). L’idea va di pari passo con un’altra buona mossa: lo sbarco negli Stati Uniti. Nel 1999, la Autogrill dei neopadroni Benetton compra la Hms Host, Host Marriot Services, una sorta di Autogrill americano. È lo stesso anno in cui un altro veneto, Luxottica, mette a segno un colpo, sempre in America: rileva la casa che produce i Ray Ban. Entrambi i blitz all’estero sono destinati a cambiare la storia delle due aziende. Hms Host è un marchio storico: l’azienda è nata nel 1897, più di un secolo prima (un record e una rarità in una nazione senza storia e dove il capitalismo distrugge di continuo aziende per crearne di nuove). Si porta in dote la scintilla di un nuovo business model per i nuovi padroni italiani: il franchising di alcuni marchi famosi, come Starbucks e Pizza Hut. È l’uovo di colombo: invece di colonizzare il mondo con bar Autogrill, meglio gestire marchi famosi di cui i viaggiatori sono già clienti abituali. Ecco che Autogrill, oltre ai suo ristoranti col famosa insegna della A rossa, inizia a diventare un concessionario. Prende in affitto grandi spazi, nelle stazioni ferroviarie, nei musei, negli aeroporti, e li riempie di insegne che piacciono al pubblico. L’uomo cui i Benetton hanno affidato le chiavi di Autogrill è Gian Mario Tondato Da Ruos, (ex rugbista, anche se dal fisico, asciutto e slanciato, non si direbbe). Schivo al limite dell’indisponente, di poche parole e molti fatti, il manager porta gli ex ristoranti Pavesi a diventare un colosso mondiale delle concessioni. Già l’anno dopo la conquista dell’America, Autogrill è un gruppo da 3 miliardi di euro di fatturato e 4300 ristoranti in 16 paesi del mondo. Ma è solo l’inizio. Arriverà a sfondare i 6 miliardi nel 2008, raddoppiando dimensioni in soli 8 anni (e nel 2011, ultimo anno del gruppo unificato prima della scissione, arriverà a 6,5 miliardi di ricavi, un record, così come per gli utili, di 139 milioni). Autogrill è per la famiglia di Ponzano quello che United Colors of Benetton era negli anni ‘80: la gallina dalle uova d’oro. Dopo l’America, seguiranno altri due grandi acquisizioni (frutto della sua strategia): la spagnola Aldeasa, regina dei duty free in America Latina e l’inglese World Duty Free. Sulla scrivania di Tondato, racconta chi ha avuto modo di vederla, c’è una lettera scritta da Joe Biden, il vice–presidente degli Stati Uniti. Il braccio destro di Barack Obama, si complimenta per come Autogrill ha rinnovato un’area di servizio lungo l’autostrada che il secondo uomo più potente al mondo fa in auto ogni mattina per andare alla Casa Bianca. È la consacrazione di un’azienda italiana a multinazionale su scala globale. Ma quella stessa Italia che l’ha tenuta a battesimo è oggi il problema principale per Autogrill. Una crisi senza precedenti e che non finirà a breve. Di più, un mercato autostradale, già in difficoltà, dove le gare sono anti–economiche, le stazioni di servizio ormai troppe (una ogni 25 km contro una media europea di 50 km) e si continua a far proliferare l’offerta. Un cocktail micidiale: se non si rivede l’intero sistema delle concessioni, Autogrill non avrà altra scelta che lasciare l’Italia. Lo dicono i numeri, impietosi. In nove anni il peso del mercato interno sul totale del gruppo è calato di 30 punti: nel 2003 il solo business autostradale faceva quasi la metà del margine di tutta Autogrill (40% sull’Ebitda di gruppo). L’anno scorso il peso dell’Italia è caduto al 14%: se il calo continua a questi ritmi, è matematica, tra 3 anni la redditività dell’Italia sarà un microscopico 3%. Già oggi i costi generali di tutta l’azienda (6 miliardi di fatturato nel 2012 prima della separazione) equivalgono a quanto fattura l’Italia: solo questo basterebbe per traslocare da un’altra parte. La recessione sta lasciando a piedi gli Italiani. Il traffico sulla rete viaria a pagamento è caduto dell’11% negli ultimi due anni. Siamo tornati indietro di 12 anni. L’agognata ripresa, se mai ci sarà, toccherà in ogni caso solo marginalmente le autostrade perché ormai si va verso un mondo sempre meno autocentrico. La rivoluzione dei treni ad alta velocità sta cambiando le abitudini di trasporto e di spesa della gente. Si preferisce un treno col wi-fi dove si può chattare con gli amici in Facebook. Guidare è un piacere da Anni ‘70, quando si viaggiava a gruppi. L’auto è destinata a diventare un dinosauro per gli spostamenti a lunga percorrenza. Per ora, Autogrill ha dimezzato le aree di ristoro (21 concessioni rinnovate sulle 42 precedenti), per adeguarsi a un mondo post–crisi. Da Villa Minelli, in quel di Ponzano, i Benetton sono corsi ai ripari, ancora una volta con una visione di lungo periodo. Dopo quasi dieci anni, Autogrill è tornata alle origini. Ossia a quella ristorazione che è nel DNA e ha scritto la storia del gruppo. Ma nel ritorno al passato, si sono gettati i semi del futuro, anche con un’Italia in declino apparentemente inarrestabile. Sono state separate le due anime del gruppo (la ristorazione e i duty free): la vecchia Autogrill è tornata a fare solo ristorazione; la “nuova” Wdf (World Duty Free) gestisce i negozi negli aeroporti ed è stata anch’essa quotata a Milano nell’autunno del 2013. È il terzo snodo cruciale nella vita di Autogrill, da quando è stata privatizzata. Prima lo sbarco negli Stati Uniti, nel 1999 con Hms Host. Poi nel 2005, quando la società era in una posizione “scomoda”: big mondiale della ristorazione con oltre 3 miliardi di ricavi, ma con prospettive di mercato non incoraggianti. Il food&beverage aveva margini prospettici in calo, cosa che poi si è rivelata tale (peraltro amplificata dalla crisi). Da lì la diversificazione dei duty free. Le due anime, simili solo in apparenza, perché operano negli stessi spazi (aeroporti, stazioni), hanno business model diversi e soprattutto prospettive molto diverse: il duty free è il mercato che cresce a ritmi sostenuti e ha grossi margini; la ristorazione, invece, è un settore che oggi necessita di una ristrutturazione. In Italia paga la caduta del traffico autostradale, che rappresenta ancora il grosso del mercato per Autogrill: di qui la scelta di separare i destini. Anche perché così gli stessi Benetton possono trovare un grosso partner per assicurare un altro capitolo di espansione nella storia di Autogrill. Il futuro delle due nuove società è stato tratteggiato dallo stesso Gilberto, sempre più l’eminenza grigia della famiglia: trovare un marito per entrambe le società. Già da almeno due anni i Benetton avevano in testa questo passo, ma il centauro Autogrill (metà ristoranti, metà negozi) impediva aggregazioni. Ora con due società separate e due business focalizzati si potrà trovare molto più facilmente quel partner industriale che il mercato aspetta da anni e che farebbe di Autogrill e Wdf i numeri uno al mondo nei loro rispettivi settori. Gli occhi sono puntati a Est, ma bisogna anche rimanere nella vecchia Europa. L’Asia e i mercati emergenti sono il futuro delle concessioni e degli aeroporti, ma sono i vecchi mercati, ancora oggi quelli coi numeri più grandi. Se vuoi essere un leader oggi devi essere per forza in Europa e negli Stati Uniti, ma se vorrai essere un leader tra 10 anni, devi entrare oggi nei paesi asiatici. Per farlo i Benetton sono disposti anche a rinunciare alla proprietà. Scendere sotto il 50% di Autogrill: meglio essere piccoli azionisti di un colosso mondiale che l’azionista di maggioranza di un gruppo piccolo (che poi tanto piccolo non è). Ancora una volta, a Villa Minelli precorrono i tempi. È il futuro del capitalismo familiare.
Marco Travaglio per Il Fatto Quotidiano 11 settembre 2018 – Estratto. Il recente annuncio del ministro Di Maio sui limiti alla pubblicità delle società partecipate dallo Stato (Eni, Enel, Leonardo, Poste, Rai) è il minimo sindacale: i criteri di destinazione dei budget pubblicitari devono essere trasparenti e uguali per tutti, altrimenti si entra nella corruzione e negli scambi di favori. Di Maio sbaglia a sostituirsi al ministro dell'Economia e a limitare l'annuncio alla carta stampata: il grosso degli investimenti promozionali va alle tv e al web (la sede più adatta per la pubblicità di prodotto - sconti, nuove tariffe, nuovi servizi - perché il potenziale cliente può passare dall' inserzione all' acquisto con un clic; sui giornali è rimasta la pubblicità "istituzionale", che presenta il nuovo logo, ricorda l'esistenza di una certa azienda o presenta nuovi testimonial). Se poi un'azienda è monopolista, come gli acquedotti municipali o le Autostrade, non c' è motivo di concorrenza che giustifichi i suoi spot, inserzioni e sponsorizzazioni di qua o di là (se non quello inconfessabile di comprarsi la buona stampa coi soldi dei cittadini); se invece ha concorrenti privati e deve comunicare un nuovo servizio, è tenuta a farlo nella massima imparzialità per non turbare vieppiù il mercato editoriale. L' ha spiegato Gad Lerner, ex firma di Repubblica, al Fatto dopo la tragedia di Genova: "L'eccesso di zelo con cui si è protetta la famiglia Benetton - e cito anche lo spirito acritico con cui era stata valutata l'esperienza di Sergio Marchionne - ha confermato un riflesso automatico dei media a difesa dei grandi imprenditori, che poi spesso sono stati (o sono) nei gruppi editoriali". E l'ha ribadito a La Verità: "I grandi giornali si sono dimostrati reticenti perché, in tempi di penuria di pubblicità, sono stati condizionati dagl'investimenti degli azionisti di Autostrade Altra prova che, per molti anni, direttori di testate e protagonisti dell’informazione sono stati confidenti di grandi capitalisti e allo stesso tempo consiglieri dei dirigenti della sinistra". Perciò leggiamo con grande sorpresa l' editoriale di Ezio Mauro su Repubblica, che accusa Di Maio di voler sottomettere la stampa più sottomessa d' Europa con "l' ordine alle partecipate dello Stato di non fare più pubblicità sui giornali", con una "ritorsione per quelle poche fonti di informazione che le forze di governo non controllano direttamente o indirettamente", dopo che "la Rai si è allineata", anzi è stata "addomesticata" e "gli imprenditori comprati con un semi-condono" (vuoi mettere invece Renzi che anticipava a De Benedetti il decreto Banche popolari, facendogli guadagnare 600 mila euro in Borsa senza muovere un dito). Anzitutto siamo curiosi di sapere quali media "controllano direttamente o indirettamente" i giallo-verdi, visto che hanno contro il 95% della stampa e non posseggono neppure l' 1% di un giornale o di una tv (a parte il Blog delle Stelle e la Prova del cuoco); che gli attuali direttori di rete e di tg della Rai li ha nominati Renzi e quelli di Mediaset li ha scelti B.; che del "semi-condono" non c' è traccia normativa; e che gli imprenditori sono talmente comprati che minacciano di scendere in piazza contro il governo, furibondi per il divieto di spot al gioco d' azzardo, il dl Dignità, il Daspo a vita per i condannati, la revisione delle concessioni ad Autostrade &C. e i limiti alle aperture domenicali per la grande distribuzione. Lo stupore aumenta quando Mauro scrive che l'ordine di Di Maio "non cambierà nulla per i giornali", però ci precipiterà in un plumbeo "mondo senza giornali, dominato dalle prediche impartite ai seguaci dal pulpito dei social". Ora, se per i giornali vendere o non vendere pagine alle società pubbliche non cambia nulla, in che senso Di Maio vuole "neutralizzare i giornali, convinto che tutto si compri e si venda"? Se Repubblica continuerà a tenere le sue feste anche senza la sponsorizzazione di Autostrade-Benetton, e anche senza la presenza di Monica Mondardini nel Cda di Atlantia-Benetton e alla vicepresidenza del gruppo Repubblica- Espresso-Stampa-Secolo XIX, buon per lei. Semmai, a protestare contro Di Maio, dovrebbero essere i manager e i direttori della comunicazione delle partecipate, allarmati dalla rinuncia forzata a un'importante leva di marketing. Ma Mauro che c' entra? É un giornalista, che per vent' anni ha diretto Repubblica, celebre per meritorie battaglie contro i conflitti di interessi (degli altri, tipo B., un po' meno contro quelli di De Benedetti). Anziché sostituirsi agli uffici marketing, un giornalista che teme ritorsioni dal governo dovrebbe chiedere ai lettori di acquistare più spesso il giornale, per trovare nel pubblico - cioè sul libero mercato - le risorse finanziarie che verrebbero meno. Invece Repubblica, curiosamente, tra i lettori e gl' inserzionisti di Stato, sembra preferire i secondi.
È rissa politica sulle macerie del ponte di Genova. La pax politica dopo la tragedia del ponte è durata solo poche ore. Alta tensione tra governo e opposizioni e tra governo e Autostrade per l’Italia, scrive il 17 Agosto 2018, su "Il Dubbio". E il quarto giorno iniziò la caccia al colpevole. La pax politica dopo la tragedia del ponte Morandi è durata solo poche ore, e già ieri l’alta tensione tra governo e opposizioni e tra governo e Autostrade per l’Italia ha raggiunto livelli altissimi. La prima bordata è arrivata dal leader dei 5Stelle Luigi Di Maio che ha preso di mira la famiglia Benetton, proprietaria, di fatto, di Autostrade per l’Italia e prima responsabile, secondo il ministro grillino, del crollo di venerdì scorso. L’altro obiettivo del ministro grillino è Matteo Renzi, indicato come complice al soldo dei Benetton. Replica dell’ex premier: «Chi come Luigi Di Maio dice che il mio Governo ha preso i soldi da Benetton o Autostrade è tecnicamente parlando un bugiardo. Se lo dice per motivi politici invece è uno sciacallo». Prova invece a mediare Matteo Salvini che offre una via d’uscita ad Autostrade: «Intanto paghi le vittime, il resto si vedrà». E intanto, dopo la morte dei quattro cittadini francesi, da Parigi arriva la notizia dell’apertura di un’indagine. E Le Monde poi attacca Grillo e il Movimento 5Stelle, responsabili di non aver voluto la costruzione dell’alternativa al ponte Morandi.
Ponte Morandi, anche nella tragedia si fa campagna elettorale. Finanziamenti, gestione degli appalti, ostilità alle grandi opere sono diventati i temi politici della settimana, scaturiti direttamente dalla tragedia, scrive Sara Dellabella il 17 agosto 2018 su "Panorama". Neanche il tempo di riprendere fiato che la politica aveva già iniziato la sua polemica. Dai finanziatori occulti ai partiti, all’accusa dei “No Gronda” che avrebbero bollato in passato come una “favoletta” il crollo del ponte Morandi, alla società accusata di pagare le tasse all’estero. In tre giorni, dal 14 agosto, è stato tutto un rimpallo di responsabilità, di accuse al limite del diffamatorio e passerelle che se fossero state accompagnate da un po’ di sobrietà avrebbero avuto un rilievo maggiore. Invece, direttamente da Genova, è andato in onda il solito "mercato del pesce". Di Maio che annuncia la revoca delle concessioni autostradali ai Signori Benetton che, secondo il vicepremier grillino, nel tempo sono stati bravi solo a finanziare le campagne elettorali degli altri. Così il Pd, che si è sentito chiamato in causa, ha minacciato querele. Ma a dipanare ogni dubbio è la stessa Autostrade che ha dichiarato che gli ultimi finanziamenti risalgono al 2006 e hanno riguardato tutti i partiti. Punto è che il Pd nasceva un anno dopo, il Movimento 5 stelle nel 2009. Certo qualcuno ribatterà che comunque all’epoca c’erano i DS e La Margherita (confluite nella famosa fusione a freddo nel Pd) e poi ci sono le fondazioni, casseforti occulte di ogni movimento politico. E così giù a botte di dichiarazioni, post, hashtag si è susseguita la settimana politica. Ce ne fosse uno che mentre pensava di revocare le concessioni, abbia pensato ad aumentare lo stipendio di questi uomini impegnati nei soccorsi per poche centinaia di euro al mese. Propaganda per propaganda, avrebbe avuto più senso.
Opposizioni a caccia dei No gronda. Dello stesso tono è anche la caccia alle streghe che il Pd ha avviato contro i “nimby” di casa nostra, ovvero quelli che si oppongono a ogni grande opera. Sulla vicinanza a questi movimenti, i grillini hanno costruito molto del loro consenso da nord a sud, dai no Tav ai no Tap, passando anche per i No Gronda, quell’opera infrastrutturale che avrebbe consentito di spostare molto del traffico del ponte Morandi su un’altra arteria. Dal sacro blog grillino il post in sostegno dei No Gronda è scomparso e anche questa tempestiva rimozione mostra quanto in queste ore la partita sia soprattutto politica. Il clima è quello della campagna elettorale perché di istituzionale si è visto veramente poco.
A Genova, ma con la testa altrove. Del cordoglio della politica neppure l’ombra. I vecchi politici (quelli senza gli smartphone per intenderci), ci avevano abituato alla compassione intesa come partecipazione al dolore, oggi questi politici sembrano su un altro piano, avulsi dal contesto, lanciati verso una campagna elettorale che li sta portando anni luce lontano da Genova e dalle sue vittime, pur stando a due passi dai luoghi del crollo.
Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2018. Matteo Salvini si volta verso il cronista che gli chiede della proroga ormai famosa: «Ma lei si ricorda proprio tutto quello che ha fatto nel 2008?». Il vicepremier è a Milano, alla mensa per bisognosi dell'Opera Cardinal Ferrari e quella domanda gli sta segnando la giornata. La notizia è che nel 2008 la Lega (al governo con Silvio Berlusconi) e lo stesso futuro leader del partito votarono una discussa proroga delle concessioni alle società autostradali, che qualcuno allora ribattezzò decreto salva-Benetton. Insomma, quel provvedimento così controverso e certo non ostile alla società Autostrade, porta anche la firma - anzi, il voto - dell'oggi vicepremier. Il ministro dell'Interno si era visto porre la domanda già di buon mattino, ospite ad Agorà Estate su Rai3. E, anche lì, il capo leghista aveva dovuto ammettere: «Se è così, è stato sicuramente un errore». Poi, l'irritazione prende il sopravvento: «Però, da parte di chi ha governato per anni e anni e ha firmato, approvato e verificato queste concessioni, un buon silenzio sarebbe opportuno». Il riferimento è al Partito democratico ma la deputata dem Alessia Morani non lascia cadere la palla. E posta il video della dichiarazione di voto in Aula negativa del Pd per voce dell'allora capogruppo Antonello Soro. Sull'argomento interviene anche il sottosegretario alla presidenza Giancarlo Giorgetti: «Probabilmente, a posteriori, fu un errore. Ma è chiaro che in queste convenzioni, che prevedono anche l'aggiornamento dei pedaggi, c'è qualcosa che non funziona. Paghiamo pedaggi elevatissimi per condizioni di sicurezza che tali non sono». In ogni caso, il dado è tratto, la revoca della convenzione è avviata. Salvini osserva che «se Autostrade si sta mettendo a disposizione, in ritardo, per ricostruire ponti, aiutare i parenti delle vittime, fa solo una piccolissima parte del suo dovere». Ma «nessuna guerra di religione: io non sono pro o contro Autostrade, non sono pro o contro Benetton. I privati nel 99 per cento dei casi fanno bene il loro lavoro, qui il privato ha fatto un disastro, ed è un privato molto ben pagato per aver fatto questo.
Guerra tra gli sciacalli. Si cercano ancora i morti ma il governo fa processi sommari e minaccia (e poi si rimangia) il ritiro delle concessioni. Autostrade: -22% in Borsa, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Ancora ci sono corpi sotto le macerie di quel ponte maledetto che nel governo è scattata la gara a chi la spara più grossa, manco fossimo al bar sotto casa. Ministri che si improvvisano giudici, politici che pensano di essere ingegneri, minacce di ghigliottina sulla pubblica piazza per i Benetton (proprietari della Società Autostrade), voglia di vendetta sommaria contro chiunque abbia avuto a che fare con il ponte e con i Benetton stessi ai quali Di Maio ha annunciato di voler revocare sui due piedi la concessione, manco stessimo parlando del pass per entrare in centro storico o della licenza di caccia. Una guerra tra sciacalli. Una babele infernale e indegna che aggiunge danno a danno (per esempio il crollo dei titoli delle società coinvolte che sono in mano anche a piccoli risparmiatori) e denota l'inesperienza di questa classe dirigente che si sta comportando come i venditori al mercato del pesce dove le urla servono a stordire i passanti e coprire la scarsa qualità del prodotto. Siamo la solita Italia di Piazzale Loreto, la barbarie umana e giuridica che non cancellò le colpe del fascismo ma mise da subito i presunti «buoni» sullo stesso piano dei presunti «cattivi». Voler appendere i Benetton a testa in giù può essere comprensibile, in queste ore di dolore e smarrimento, da parte di chi sotto quel ponte ci ha lasciato pezzi della sua storia e della sua vita, potremmo financo scriverlo noi per assecondare la rabbia di tutta la nazione o potrebbe sostenerlo qualche partitino in cerca di facili consensi. Non può farlo, a nostro avviso, chi ha responsabilità di governo, chi deve fare rispettare le leggi, accertare i fatti con rigore e trovare soluzioni credibili. Ed è credibile secondo voi l'annuncio di rescindere a costo zero il contratto ultra ventennale con i Benetton e statalizzare da subito le autostrade? Stiamo cioè parlando di dare la gestione e manutenzione delle autostrade a uno Stato che ha dimostrato di non saper gestire in sicurezza scuole, tribunali, edifici pubblici e tantomeno i ponti (quello crollato di recente nel Lecchese era sotto la sua responsabilità). Quasi tutto ciò che è pubblico in Italia è fuori legge e se dovesse sottostare al diritto privato dovrebbe chiudere non domani ma oggi stesso. Noi non è che ci auguriamo, noi pretendiamo che sia fatta chiarezza su ciò che è successo martedì a Genova e negli anni passati tra i governi Prodi, D'Alema e Gentiloni (quelli cioè che hanno ratificato le varie concessioni) e il gruppo Benetton. Ma fino a che non lo sappiamo, niente gazzarra. Se capace, Di Maio invece di teorizzare un Paese da socialismo reale, si occupi di fare controllare lo stato di tutti i ponti e viadotti pubblici e privati fino a che stanno in piedi. Questo deve fare un ministro, sempre che ci creda perché non dimentichiamo che - a proposito di geni - fu proprio il suo movimento a definire «una favoletta» l'ipotesi che il ponte di Genova potesse crollare da un momento all'altro.
Il Governo dei cialtroni. A Genova hanno detto ogni sorta di bugie, sono andati oltre ogni legge, hanno tentato in tutti i modi di aizzare l’odio sociale, la loro vera e unica specialità, scrive Giuseppe Turani il 17 agosto 2018. "ditoriale tratto dal sito Uomini&Business. Davanti al crollo del Ponte Morandi e ai morti di Genova il governo dei cialtroni ha dato il peggio di sé. Si comincia con quello che Ferrara chiama il Truce padano, cioè, Salvini.
Ecco dov’era Salvini la sera del crollo di Genova. Lui stava a sbevazzare con amici in Sicilia, ma appena arriva sul posto se la piglia con l’Unione Europea, che, a sentire lui, pone troppi vincoli e quindi non si riesce a tenere le cose in ordine. Naturalmente, da ora avanti ce ne freghiamo dei patti di stabilità e si farà quello che si deve fare per gli italiani. Viene smentito immediatamente: l’Italia ha avuto larghi finanziamenti e poi, comunque, gli interventi di manutenzione sono fuori dal patto di stabilità. Se qualcosa in Italia non funziona la colpa è solo degli stessi italiani e della loro burocrazia: un pugno in un occhio.
Luigi Di Maio. Il suo collega di cialtronaggine, Di Maio, ci va giù ancora più pesante. Questo, dice, è il primo governo che non prende soldi dai Benetton, e quindi… Il Pd, invece, li ha presi. Masi scopre subito che i soldi il Pd non li ha presi. Sono finiti invece alla Lega, cioè al Truce padano. E il presidente-marionetta, Conte, è stato avvocato dell’Associazione autostrade. I soldi, semmai, li hanno presi loro. Ma subito hanno accusato gli altri. Altri due pugni in un occhio. 3- Toninelli, che non è esattamente la mente più lucida della compagnia, frigna perché vuole che il suo ministero, infrastrutture, si costituisca parte civile nel processo che si farà per accertare le responsabilità, in modo da avere un palcoscenico su cui esibirsi. Ma Di Pietro, ex magistrato e ex ministro dei Lavori Pubblici lo gela: guarda che il tuo ministero potrebbe essere fra gli imputati (per i controlli omessi o fatti svogliatamente), e quindi non ti puoi costituire parte civile. Quarto pugno.
Giuseppe Conte. Ma è l’avvocato Conte, il presidente-marionetta quello che la spara più grossa: non abbiamo tempo di aspettare la giustizia, si provvederà subito alla revoca della concessione alla società Autostrade: un’affermazione alla Erdogan, forse ancora più scriteriata. Non esiste in alcun luogo democratico del mondo che il potere politico emetta sentenze e provvedimenti, che non siano stati vagliati prima dalla magistratura, che è un potere indipendente. Come misura immediata propone che venga revocata la concessione alla società Autostrade, e ne provoca il crollo in Borsa: per questa impresa, in qualunque paese civile l’avvocato Conte sarebbe già sotto processo e forse dovrebbe fare i conti anche con una class action miliardaria contro di lui. Quinto pugno in un occhio.
Come ciliegina finale, ieri, a tarda sera, si rifà vivo il Truce padano con la proposta che la società Autostrade sospenda il pagamento dei pedaggi (non si capisce mai se su quel tratto, dove purtroppo non circola più nessuno, o in tutta Italia). Ma non è importante: trattasi di idea impropria suggerita dagli esaltati della Rete che vorrebbero una pronta esecuzione in piazza della famiglia Benetton, proprietaria di Autostrade. Famiglia che è stata anche accusata, sempre dall’informato Di Maio, di non pagare le tasse perché localizzata in Lussemburgo. Ma viene subito smentito, l’Autostrade, se non altro, è italianissima e paga le tasse al fisco italiano, lo ha sempre fatto. Altra gragnuola di pugni.
Fin qui i fatti. Poi c’è il commento. L’ala 5 stelle del governo arriva a Genova con un peso di quelli difficili da togliersi di torno. Sono stati loro per anni con marce in piazza e con video del loro ignobile guru, Beppe Grillo, a irridere quelli che denunciavano la pericolosità del ponte Morandi e la necessità di avviare i lavori (già finanziati ma guarda uh po’, da Bruxelles) della Gronda, una variante che avrebbe alleggerito il traffico sul ponte crollato e che forse avrebbe evitato il disastro. Questa colpa grava sul loro movimento e non è evitabile. Sono loro ad aver definito una “favoletta” l’avviso che il ponte sarebbe crollato entro dieci anni (è venuto giù dopo 5). Allora arrivano a Genova e hanno interesse solo a una cosa: indicare dei colpevoli, senza attendere alcuna indagine, subito, per deviare un po’ l‘opinione pubblica e far dimenticare le proprie responsabilità. Ma anche perché il loro “popolo” di sciagurati questo pretende: giustizia sommaria, impiccagioni immediate di qualcuno. Non passano nemmeno 24 ore e la storia della revoca delle concessioni (sgangherata e folle, solo un demente poteva proporla prima di ogni accertamento giudiziario) viene ritirata. Si dice, adesso, che si sta studiando. Il Truce padano si rifà vivo di nuovo, sempre con le sue proposte da bar sport: se la società Autostrade ricostruisce il Ponte, costruisce la Gronda a sue spese (ma bisogna vedere che cosa dice Grillo, contrarissimo) e ci dà mille miliardi per i danni subiti, possiamo discutere. Già che era entrato in questa fase contrattuale da mercato delle vacche (sempre prima di ogni accertamento di responsabilità) Salvini poteva anche chiedere due mila felpe e 100 coni gelati.
In tutta queste serie di eventi non esiste alcun comportamento serio. Da parte di nessuno. Tutti cialtroni. Tutti interessati soltanto a indicare un colpevole su cui riversare l’ira popolare per i disastro. Si accusa persino la famiglia Benetton di essere protetta perché controlla i giornali. Ma, di nuovo e casualmente, non è vero: ne potrebbero comprare dieci (sono ricchissimi), ma non ne hanno nemmeno uno. Forse per fare un dispetto a Di Maio o forse perché non gli piacciono i giornali. Il metodo di governo dei cialtroni è questo: dare sempre e in ogni caso la colpa a altri, puntare di preferenza verso la giustizia sommaria, fregarsene alla grande di leggi e Costituzione, tenere alta la tensione con l’Europa. Posso sbagliarmi (me lo auguro), ma questi stanno cercando in tutti i modi di litigare con l’Europa per farci buttare fuori, mettere in crisi l’euro e tornare a stampare la lira. Poi si tagliano le tasse, finalmente, si distribuisce il tanto atteso reddito di cittadinanza, si nazionalizza tutto (Ilva, Poste, Alitalia, Autostrade, ecc.), con loro a timone di questo nuovo Stato Venezuelano-Bulgaro, che farà default in due settimane stampando una moneta che nessuno vorrà e che non varrà niente. Nell’attesa, stanno meditando di rapinare un po’ di pensionati, indicati naturalmente (perché al di sopra dei 4 mila euro/mese) come profittatori di regime e mascalzoni. Tanto quelli mica possono andare in piazza con le carrozzelle spinte dalle badanti. Questi non sanno niente e hanno idee dementi su quello che dovrebbe fare la settima potenza industriale del mondo. Ma sanno come arrivare alla loro sognata società silvo-pastorale nella quale si è finalmente tutti poveri e appiedati: incrementare, diffondere, generalizzare l’odio sociale. Più la tensione sale, più loro incassano voti. Adorano i processi popolari, immediati, qualche impiccato farebbe anche comodo, peccato non avere più la pena di morte. Sono i più grandi avvelenatori di pozzi mai apparsi nella storia. Per questo vanno non battuti, ma proprio distrutti, estirpati, cacciati fuori dalla storia, nella quale sono indegni di rimanere.
Il dono sconosciuto della sobrietà. Possibile che questa sciagura debba essere usata per creare polemiche politiche o per respingerle? Scrive Piero Sansonetti il 17 Agosto 2018 su "Il Dubbio". I grandi giornali europei attaccano in modo rude il nostro mondo politico, e in particolare il governo. Le Monde e Liberation usano parole molto sprezzanti. L’Independent parla di “gang populiste” e di “toni vergognosi anche per i loro stessi bassi standard”. Forse esagerano, ma non è un grande spettacolo quello al quale assistiamo. Siamo di fronte a una tragedia nazionale. Ci sono ancora, probabilmente, molte persone sotto il cemento e le macerie. Possibile che questa sciagura debba essere usata per creare polemiche politiche o per respingerle? Per guadagnare voti o farli perdere? Non sarebbe più decoroso uno spirito di unità nazionale? Nessuno di noi, evidentemente, e nessun ministro, e nessun segretario di partito è in grado di stabilire se ci sono responsabilità, e di chi sono, e in che misura. Che senso ha scagliarsi gli uni contro gli altri. Con i 5Stelle che strepitano contro Renzi e Benetton, inventando oscuri commerci politici, e gli avversari dei 5Stelle che fanno propaganda usando un video di 4 anni fa di un comizio di Grillo, certo sbrindellato, ma sbrindellato come tanti altri suoi comizi? Non sarebbe saggio aspettare che la magistratura faccia il suo lavoro, senza pretendere di menare manganellate, o di punire prima di sapere? Sobrietà. Serietà. Rigore. Rispetto. Forse è impossibile pretendere queste doti dalla nostra classe politica?
Ora il Pd vuole incriminare Salvini: "Ai funerali claque pro governo". Ai funerali di Stato volano fischi per il Pd e applausi per Salvini e Di Maio. L'ira dei renziani. E Anzaldi attacca: "La polizia apra subito un'indagine", scrive Andrea Indini, Domenica 19/08/2018, su "Il Giornale". "A sostegno del governo ci sarebbe stata una rumorosa claque organizzata". All'indomani del funerale delle vittime del drammatico crollo di Ponte Morandi a Genova, il piddì Michele Anzaldi è già pronto a presentare una interrogazione al ministero dell'Interno. Dopo essere stati sommersi dai fischi, i dem si sono convinti che quella che è riecheggiata ieri nel padiglione B della Fiera non fosse la rabbia delle vittime di un disastro annunciato o, più in generale, l'ira dagli italiani che accusano il Pd di aver rinnovato le concessioni ad Autostrade per l'Italia, ma una claque organizzata a sostegno del governo Conte. "Ma come si fa a pensare certe cose?". Matteo Salvini è sbigottito nel sentire le ultime accuse mosse dal partito che ieri mattina si è beccato una selva di fischi dalle persone presenti ai funerali di Stato. Non appena Maurizio Martina e l'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti sono arrivati in Fiera per portare il proprio omaggio alle famiglie delle vittime, sono stati sommersi dalle critiche. Questo perché è al Partito democratico che i più rinfacciano i (continui) rapporti con la famiglia Benetton che, attraverso Atlantia, controlla Autostrade per l'Italia. Dall'ex premier Enrico Letta all'ex ministro Paolo Costa, passando per Romano Prodi e Massimo D'Alema, la liaison tra le politiche democratiche e gli affari ai caselli ha radici lontane. "Per la prima volta - ha detto nei giorni scorsi lo stesso Luigi Di Maio ai microfoni di RaiNews - c'è un governo che non ha preso soldi da Benetton, e siamo qui a dirvi che revochiamo i contratti e ci saranno multe per 150 milioni di euro". A torto o a ragione, le persone presenti ai funerali erano appunto convinte che una parte della colpa del drammatico crollo del 14 agosto sia da imputare proprio a quel partito che negli ultimi cinque anni ha governato il Paese. Non si sa se ai dem abbiano dato più fastidio i fischi o gli applausi che gli stessi hanno riservato a Salvini e a Di Maio. Già ieri pomeriggio, come riporta Libero, nella chat dei renziani aveva iniziato a circolare l'accusa al governo di aver "pilotato" le critiche al Pd durante i funerali di Stato. Oggi è stato Anzaldi a mettere in chiaro l'insinuazione denunciando la presenza di un gruppo di "trenta scalmanati" appostati, a suo dire, nei pressi dalla sala stampa. A questi imputerebbe non solo di "aver fischiato in modo scomposto gli esponenti dell'opposizione e di aver applaudito i rappresentanti del governo", ma di aver addirittura suggellato il tutto con saluti e selfie. "La polizia, postale e non, - ha commentato, quindi, l'esponente dem - farebbe bene ad aprire un'indagine per verificare se davvero qualche esponente di governo, oppure dei partiti di maggioranza, abbia davvero lavorato per trasformare un momento di lutto nazionale in una curva da comizio". Le polemiche del Pd sembrano tuttavia scivolare addosso a Salvini. Che si concentra piuttosto sull'affetto ricevuto ieri. "Voglio meritarmi con i fatti questo affetto e questa fiducia che mi hanno commosso oggi a Genova, fra i parenti delle vittime e tanti cittadini comuni - ha scritto ieri il ministro dell'Interno su Twitter - il mio impegno è lottare per giustizia, verità, sicurezza, futuro".
Quei morti e feriti sul conto 5 Stelle che non applaudono, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 19/08/2018, su "Il Giornale". I funerali di Stato come la prima della Scala, o se preferite come una puntata del Grande Fratello Vip. Il nuovo che avanza, il governo del cambiamento è anche questo. Altro che cordoglio, per i ministri è stata una gara alla ricerca del consenso, un cronometrare gli applausi e contare i selfie, esultare per i fischi (pochi) alla vecchia partitocrazia. La Chiesa (in questo caso il padiglione della Fiera di Genova) non come confessionale di Dio ma appunto del Grande Fratello, celebre stanza del famoso reality dove i concorrenti si fanno le scarpe e misurano il loro successo con il pubblico. Non a caso a dirigere l'operazione mediatica dei funerali delle vittime del crollo di Genova è stato Rocco Casalino, un ragazzotto ex concorrente proprio del Grande Fratello a cui i Cinquestelle prima e il presidente del Consiglio poi hanno affidato la loro immagine e la loro comunicazione. Per tutte le esequie questo poveretto (si fa per dire, stipendio da super casta) ha inviato messaggi ai giornalisti cercando di indirizzarne sguardi e orecchie a proprio vantaggio. Se tanto sforzo sarà premiato o no lo capiremo leggendo i giornali di questa mattina. Ma ormai non mi sorprende più nulla, neppure Di Maio che rifiuta in quanto «mancia» i cinquecento milioni messi a disposizione per la prima emergenza dal gruppo Benetton, responsabile della gestione di quel tratto di autostrada. Io mi auguro che se saranno ritenuti colpevoli - cosa al momento tutta da dimostrare - i Benetton paghino, in ogni senso (civile e penale) ben di più. Ma comportarsi da bullo in queste ore per strappare un applauso è da irresponsabile. Per di più da parte del leader di un partito, i Cinquestelle, che in tre anni di gestione non sono riusciti a rappezzare le buche di Roma (figuriamoci se prendono in carico le autostrade che cosa ci aspetta), che per incapacità hanno provocato nove morti a Livorno (il loro sindaco è sotto inchiesta per mancato allarme di una alluvione) e una carneficina a Torino (la Appendino è accusata di essere responsabile del ferimento di 1300 persone e della morte di una di loro durante la serata della finale di Champions). In nessuno dei tre casi mi risulta che Di Maio abbia messo mano al portafoglio per rimborsare morti e feriti (chi a Roma cade nelle buche per essere rimborsato va in contenzioso con la Raggi) e con un simile luttuoso curriculum sarebbe meglio volare bassi. Almeno così dovrebbe accadere nel mondo normale e reale, che non è quello del Grande Fratello e di Rocco Casalino.
Conigli. Perché il gruppo dirigente del Pd non è andato in massa ai funerali di Genova? Scrive il 19/08/2018 Lucia Annunziata, Direttore Huffpost Italia. Oltre ai Benetton, che hanno tentato senza riuscirci di fuggire dall'orrore di Genova, abbiamo scoperto in questi giorni un secondo gruppo di conigli: il Pd. Un'affermazione, questa, che scrivo con particolare dispiacere perché se di Benetton posso scrivere in astratto, del Pd sono una elettrice, e continuo a riconoscermi nella tradizione della sinistra. I fischi inequivocabili, e non corretti da nessun applauso (come succede di solito), alla delegazione dem durante i funerali sono stati tanto più dolorosi per il Pd perché rivolti a suoi esponenti che negli ultimi anni non hanno avuto nel partito ruolo di primo piano. Il giorno dopo, tuttavia, non arriva dal Pd nessuna presa d'atto. A parte alcuni cenni di sincerità, fra cui le parole dell'ex senatore Stefano Esposito ("il popolo ora è contro di noi", Corriere della Sera), i dem si sono rifugiati nelle solite versioni classiche dei partiti in difficoltà, cioè che i fischi siano stati una operazione organizzata. Nemmeno Genova dunque ha interrotto la fuga dalla realtà dei dirigenti Pd. E' incomprensibile, intanto, che il primo partito di opposizione non si sia presentato a Genova in tutti i suoi ranghi. C'era Martina, segretario attuale, che in tutta la sua provvisorietà ci ha tuttavia messo la faccia. Con lui, oltre la Pinotti, c'erano Cofferati (da tempo non più Pd) e Chiamparino, la deputata Paita, e figure dell'amministrazione locale. Ma non c'era il segretario di fatto Matteo Renzi, non c'erano il Presidente Matto Orfini, Graziano Del Rio ex ministro delle Infrastrutture, il ligure ed ex ministro della Giustizia, Andrea Orlando, l'ex premier Paolo Gentiloni, e nemmeno altri della storia di questo partito; o del sindacato, come Susanna Camusso. E non è forse Genova, nella iconografia italiana, una città simbolo della lotta, dello spirito, della storia della sinistra, per decenni governata da amministrazioni rosse? Davvero non era necessario (anche a costo di prendersi fischi?) presentarsi a omaggiare quei morti? Questa assenza è una ennesima manifestazione della fuga permanente in una sorta di realtà virtuale in cui il Pd si è rifugiato, dopo la sconfitta elettorale. Scelta che ha fatto prevalere il politicismo sulla politica. In affanno sul territorio, incapace di ricostruire la sua rete locale, il Partito Democratico che ha scelto con Renzi una forma di aventinismo, ha dato vita in questi mesi a una opposizione che somiglia a una astratta guerra combattuta da lontano, uno scontro di comunicati, facebook live e tweets. Politicismo, appunto, laddove la politica avrebbe richiesto, ad esempio in questa occasione, di affondare le mani nella materia bollente della realtà. Materia bollente è la definizione esatta. Quanto ha contato sulla decisione di non andare a Genova il fatto di essere sotto accusa di connivenza con i Benetton, di dipendenza, oggi e nel passato, dal capitalismo italiano? Accuse da cui il Pd si sta, giustamente, difendendo, denunciando una "campagna ingiusta, e fondata fu fake news". Ma il modo migliore per difendersi era esserci, a Genova, e non solo ai funerali. Esserci a prendersi i pomodori magari, non solo i fischi. Esserci come assunzione di responsabilità – anche degli eventuali errori. Fare questo passo avrebbe tuttavia significato rompere la bolla in cui il Pd e il suo ex segretario Matteo Renzi hanno vissuto. E non da adesso. Ancora oggi, dopo quasi due anni, non abbiamo una complessa spiegazione sul perché della sconfitta del referendum il 4 dicembre 2016. Così come, da allora, non abbiamo visto nessun cambiamento. Renzi fece un passo laterale dalla segreteria, mantenendo il controllo del Pd, e si formò un nuovo governo con il paziente Gentiloni che ha gestito (bene) tutto quello che si poteva e doveva fare per evitare uno scossone post-sconfitta. Per il resto, ci si aggrappò a quel 40 per cento come a un successo, e si cominciò già allora a scaricare tutto sui populismi. Fuga dalla realtà, appunto. Una insensibilità ai propri stessi meccanismi di sopravvivenza, nonostante tutti i campanelli continuassero a suonare: la disgregazione interna, le miniscissioni, il proliferare di sottogruppi di interessi, l'aumento della mancanza di trasparenza. Il tutto convogliato nel segnale di allarme più serio per un partito - la costante caduta nei consensi elettorali. La cosa più strabiliante del processo che abbiamo appena ri-raccontato, è che nulla di tutto questo fosse sconosciuto o taciuto. Tante voci (incluso l'HuffPost, nel proprio piccolo spazio) si sono alzate dentro e fuori il partito, dentro e fuori i luoghi dove si forma l'opinione pubblica, per avvertire che il Pd era su una rotta che lo portava a schiantarsi. Cosa stesse succedendo, del resto, non era difficile da capire perché le turbolenze del Pd erano parte di un grande fenomeno visibile in tutto il mondo occidentale. Globalizzazione, tecnologia – lo ripeto qui solo per forma – hanno cambiato il mondo e tutti noi. Ai meravigliosi balzi in avanti di cui oggi godiamo i vantaggi, è corrisposta la distruzione delle classi sociali come le conoscevamo. Nel grande treno dello sviluppo i vagoni di testa hanno accelerato e i vagoni di coda si sono staccati per strada. Uso questa immagine perché si impose anni fa nella scena mediatica internazionale perché usata dal Comandante Marcos, un giovane messicano incappucciato che nel capodanno del 1994 guidò un piccolo esercito di indios armati di frecce ad occupare i comuni di alcune città del Chiapas. Fu la prima rivolta contro la globalizzazione e venne considerata paternalisticamente come un segno di un mondo che scompariva. Da allora oltre agli indios sono stati massacrati dal treno del Chiapas anche operai e classe media. Ridotti il loro reddito, il loro prestigio, il loro percorso nel futuro. In questo l'Italia è stata tutt'altro che sola. E tutt'altro che inconsapevole. Centinaia di convegni in tutte le città del mondo, spesso organizzati da istituti, istituzioni, think tank delle forze democratiche, hanno negli ultimi anni studiato e denunciato questi effetti. Ma la consapevolezza in nessun paese occidentale è mai divenuta nuova politica – e la sinistra si sta spegnendo piano piano insieme al patto sociale che aveva sostenuto l'equilibro del dopoguerra, la fondazione dell'Europa, e la stessa democrazia rappresentativa. La elezione di Trump, la vittoria della Brexit, la vittoria in Italia di Lega e 5Stelle, la crisi dei governi e delle idee europee, la nascita in molti paesi non occidentali di nuovi uomini forti a presidio di economie chiuse, è il mondo in cui viviamo. Già, qui e ora. Perché la sinistra, italiana e mondiale, pur sapendo tutto questo, ha perso se non del tutto il potere politico, di sicuro la sua egemonia intellettuale? La risposta è anche questa non difficile. Perché la sinistra nonostante sapesse non è riuscita a elaborare una pratica politica adeguata ai nuovi tempi. Forse perché la sua classe dirigente è rimasta nei vagoni di testa del treno. Lontana dalla realtà più cruda e difficile. Il renzismo è stato il perfetto esempio di questa spaccatura fra intenzioni e pratica. Al suo arrivo sulla scena politica raccolse l'entusiasmo generale di quel desiderio di cambiamento che c'era nella società italiana. La sua invece è stata una storia di non incontro con la maggioranza del paese. Cosa sia andato perduto nel suo operato e in quello del suo Pd, lo sapremo forse fra alcuni anni da qualche studioso serio. Di certo la sinistra oggi, in tutte le sue affiliazioni, è profondamente invisa ai più. Ripiegata nella denuncia del populismo come origine dei suoi mali, e di quelli del paese. Con il risultato che sempre più spesso, la condanna ai vari Trump, Salvini e Di maio, coincide per la sinistra con la condanna anche di chi li ha votati. Il senso di abbandono, di sfiducia, di paura è oggi la vera materia della politica. Invece di attaccare, criticare, sminuire queste domande l'unico modo per riprendere l'iniziativa politica (e per noi giornalisti, e tutti i costruttori della pubblica opinione, di dare senso alle nostre funzioni), è quello di farsene coinvolgere. Legittimarle, capirle, elaborando proposte anche radicalmente diverse dalle formule da noi sempre sostenute: d'altra parte che tutte le formule politiche ed economiche possono cambiare ce lo dice la storia. L'alternativa al "populismo" non si crea con la sua denuncia, non si forma chiudendosi nelle torri d'avorio del proprio orgoglio. La battaglia con il populismo è nelle soluzioni che si offrono ai cittadini, non nell'ignorare i cittadini. Per tutto questo valeva la pena essere, fisicamente e non solo, a Genova.
Ponte Morandi, le tante parole inutili su Genova. Dal crollo, i politici si sono spesi in dichiarazioni che poco hanno a che vedere con la tragedia e l'emergenza. Polemiche che potevano aspettare, scrive Sara Dellabella il 17 agosto 2018 su "Panorama". Quante parole inutili su Genova. Dal crollo del ponte Morandi, le vittime, gli sfollati sono scomparsi velocemente dal radar delle dichiarazioni. Grazie ai nostri politici la discussione è passata immediatamente alla ricerca dei colpevoli da dare in pasto alla folla arrabbiata e indignata per quella che appare una tragedia assurda. Come la definisce bene, Massimo Gramellini, su Il Corriere della Sera, "la dittatura dell'istante" ancora una volta si è rivelata più funzionale all'ondata di indignazione che stava montando sui social network. Una pioggia di dichiarazioni di vicepremier, ministri contro la famiglia Benetton rea di aver pagato, secondo l'accusa, vecchie campagne elettorali. Una polemica che si è riversata nella discussione politica, senza neppure attendere che i soccorritori finissero di contare le vittime e di accompagnare centinaia di persone fuori dalle case pericolanti. Una notizia sulla quale la stessa società ha fatto chiarezza dichiarando che le ultime donazioni risalgono al 2006, quando ha diviso equamente uno stanziamento di 1,1 milioni di euro tra tutti i partiti, tra cui anche la Lega Nord che come gli altri ha ricevuto 150 mila euro.
Il valore del silenzio. Non c'è stato un minuto di silenzio istituzionale. Quel silenzio spontaneo che nasce dallo sgomento di una tragedia inattesa. Su quel ponte poteva esserci chiunque e anche se oggi sono tutti intenti a cercare un colpevole da processare sulla pubblica piazza, lo smarrimento di molti è nel dover considerare l'inevitabile destino a cui si va incontro anche nei gesti più quotidiani, come quello di attraversare un ponte o la strada per andare a lavorare ogni mattina. Così come quel furgone verde fermo a pochi metri dal precipizio, salvo chissà per quale volere divino. Neppure di fronte alla fragilità del destino, i politici hanno saputo tacere, tanto quelli di governo che quelli di opposizione.
Le parole sbagliate. Anche il nostro, solitamente, silente premier non ha lasciato il popolo a bocca asciutta. Accorso sul luogo della tragedia ha affermato che "non si possono attendere i tempi della giustizia" e nel corso della conferenza stampa straordinaria ha annunciato "siamo lieti di comunicare che il consiglio dei ministri ha decretato lo stato di emergenza per 12 mesi per la città di Genova". "Siamo lieti" ha detto proprio così l'avvocato del popolo che in poche ore ha mandato in fumo lo stato di diritto, la certezza della pena e le garanzie del processo per gli imputati alla faccia de l'onestà, del rispetto delle procedure e della trasparenza.
Se i Benetton sono il problema. Così se Luigi Di Maio attacca frontalmente la famiglia Benetton che di Atlantia (fondo che controlla la società Autostrade) detiene il 30 per cento delle azioni accusandola di essere collusa con i partiti che avrebbero beneficiato di laute donazioni. Un'accusa che con Genova ha poco a che fare, ma che la rende degna di un processo mediatico che, in poche ore, fa crollare il titolo in borsa a danno anche di migliaia di piccoli risparmiatori (quelli che i 5 Stelle hanno sempre difeso contro i poteri finanziari).
Anche le parole hanno un costo. Inoltre, di fronte all'improvvisazione delle dichiarazioni c'è chi si è messo a fare i conti ulteriori della tragedia. Perchè accanto ai danni materiali e umani, poi ci sono quelli della politica. Il titolo Atlantia ha perso valore a causa dello sciacallaggio mediatico a cui è stato sottoposto e dall'annuncio della rescissione del contratto (su cui poi la Lega ha fatto un passo indietro), il governo dovrebbe pagare il valore residuo della concessione per una cifra pari a 20 miliardi di euro. Una finanziaria o forse più. E poi a tutti quegli analisti finanziari improvvisati sui social di fronte alla bufala della società che non paga le tasse in Italia, ha risposto il fact checking dell'Agi, dove oltre ad evidenziare la sede romana della società, rileva che nel 2017 Atlantia ha pagato imposte per 632 milioni di euro (con un tax rate del 30,6 per cento).
E ora un po' di silenzio, per favore. Una propaganda che pezzo pezzo viene giù, mostrando la propria fragilità e i danni che può causare. Intanto, sotto alle macerie si cerca ancora, negli ospedali c'è chi lotta contro un codice rosso e migliaia di famiglie attendono di sapere se rientreranno mai nelle proprie case. Sono queste le parole che dovremmo ascoltare e quando non ci sono formule o soluzioni, sarebbero sufficienti anche dei silenzi, che magari nascondo una riflessione. Domani è stato indetto il lutto nazionale. In tanti, in queste ore si augurano di ascoltare solo il silenzio.
Scatta subito lo sciacallaggio Di Maio-Renzi, rissa sui soldi. Il grillino: Pd pagato da Benetton. Il dem: il mio governo non ha preso un centesimo, chi lo dice è un bugiardo, scrive Laura Cesaretti, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale. La conta dei morti di Genova non si è neppure conclusa, ma la macchina della propaganda sulla tragedia funziona a pieno ritmo. Il governo, dal premier Conte al suo vice Di Maio, ha annunciato urbi et orbi la revoca della concessione ad Autostrade. Ma ieri è iniziata la precipitosa marcia indietro, con il ministro Toninelli che parla di revoca «eventuale» e i Cinque Stelle che spiegano che si farà solo «se ci fossero le condizioni», mentre la Lega propone una «trattativa» con Autostrade. Il tutto mentre in un lungo sproloquio via blog Beppe Grillo si scaglia contro i «parassiti privati» che gestiscono concessioni e chiede che sia fissato «un limite etico ai loro profitti», accusando i media (ovviamente venduti) di coprirli: «I pettegoli pagati da questi signori sono già scatenati a proteggerli». Intanto si provvede ad additare alla pubblica gogna colpevoli per tutti i gusti, via social e dichiarazioni: i Benetton, i governi precedenti, il Pd, la Ue (che replica per le rime), persino la stampa internazionale che accusa i «populisti di governo» di sparare troppe balle e il M5s di impedire la realizzazione di nuove e migliori infrastrutture. Di Maio inizia di buon mattino, accusando in pratica il Pd di aver preso soldi dai titolari di Autostrade: «Nello Sblocca Italia nel 2015 fu inserita di notte una leggina che prolungava la concessione ad Autostrade in barba alla concorrenza. Si è fatta per finanziare le campagne elettorali». E minaccia: «Scoperchieremo tutto e il marcio verrà a galla. Tanti, troppi favori da giustificare. Se non ci diranno perché, lo scopriremo noi». Di Maio punta anche il dito contro Matteo Renzi: «Che non dice niente delle fondazioni legate a doppio filo col suo partito. La sua parola per gli italiani vale zero», afferma. L'ex segretario dem replica con durezza: «Utilizzare una tragedia per attaccare gli avversari, mentendo, dà il senso della caratura morale e politica del vicepresidente del Consiglio», scrive Renzi. «Chi come Luigi Di Maio dice che il mio governo ha preso i soldi da Benetton o Autostrade è tecnicamente parlando un bugiardo. Se lo dice per motivi politici invece è uno sciacallo. In entrambi i casi - aggiunge - la verità è più forte delle chiacchiere: il mio governo non ha preso un centesimo da questi signori, che non hanno pagato la mia campagna elettorale, né quella del Pd, né la Leopolda». Dal fronte dem, il segretario Maurizio Martina denuncia «inaccettabili attacchi squadristi e infamanti» contro la precedente maggioranza. E l'ex senatore Stefano Esposito risponde per le rime a Di Maio: «Evidentemente non conosce le norme: la leggina del 2015 da lui evocata fu abolita nel 2016 con il nuovo Codice degli appalti. La nuova norma prevede che le concessioni a scadenza e le nuove concessioni devono essere messe a gara europea». E ricorda la «guerra» tra il governo Renzi e i concessionari autostradali sulla «norma per riservare in house solo una quota del 20% delle opere da realizzare, perché smettessero il giochetto di affidare i lavori senza gara, ossia la vera mangiatoia per i concessionari autostradali, altro che i pedaggi». Peccato, aggiunge, che a far guerra a quella norma furono, accanto alle aziende, «i sindacati, il M5s e purtroppo anche un pezzo di Pd». Intanto il renziano Anzaldi rilancia le indiscrezioni di stampa secondo cui proprio Giuseppe Conte, in veste di avvocato, «sarebbe stato consulente di Aiscat e legale dell'autostrada A4 Brescia-Padova», e chiede al premier di «chiarire quali sono gli attuali rapporti» con quelle società.
Crollo di Genova, tre domande a Delrio, scrive il 15 agosto 2018 Laura Tecce su "Libero Quotidiano". Con la consapevolezza che ciò che è accaduto a Genova rappresenta un fallimento anche per lo Stato italiano, occorre ricordare che questa tragedia annunciata presenta due livelli di responsabilità: quello del decisore politico sulle grandi opere e sul modello di sviluppo da perseguire e quello della realizzazione e gestione in regime di concessione, dove il concetto di trasparenza (scandalosamente) non esiste e dove di fatto vige un sistema di oligarchie simil soviet. Alla luce di ciò, egregio on. Graziano Delrio, da giornalista e da cittadina italiana vorrei porle tre domande inerenti alla sua precedente funzione di ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, ruolo ricoperto dal 2 aprile 2015 fino al 1° giugno 2018.
1) Come è possibile che sia stato apposto il segreto di Stato su parti fondamentali degli atti convenzionali relativi alle concessioni autostradali, cioè quelle sui i contenuti economico- finanziari del contratto? Non sarebbe l’ora di toglierlo del tutto, dato che non si conoscono interamente i contenuti né della convenzione del 1997, né di quella del secondo Governo Prodi del 2007, né gli atti aggiuntivi del 2013 e del 2015 dei Governi Letta e Renzi?
2) L’attuale ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, parlando dal luogo del disastro crollo del ponte Morandi a Genova che (ad ora) ha causato 43 vittime innocenti, ha detto che il ministero si costituirà parte civile. «Chi ha sbagliato deve pagare fino alla fine. La prima cosa che faremo è andare a guardare la convenzione con Autostrade per l’Italia e revocarla, e sanzionare pesantemente coloro che non hanno adempiuto a obblighi contrattuali chiarissimi, quelli della manutenzione». Alle parole del ministro si sono aggiunte quelle del Procuratore capo di Genova Francesco Cozzi: «Prime indagini sulla società autostrade: ci chiedono il pedaggio, il minimo che ci possiamo aspettare è che non ci crolli addosso il ponte. Non è stata una fatalità, ma un errore umano» a provocare il crollo del ponte a Genova. Ebbene, on. Delrio, su quali basi è avvenuto l’allungamento della concessione, dalla data prevista del 2038 fino al 2042, definito il 5 luglio 2017 tra lei e la commissaria alla Direzione Generale della Concorrenza (DgComp) Margrethe Vestager? Secondo il piano concordato da Bruxelles con il governo italiano, le suddette proroghe delle concessioni autostradali ad Autostrade per l’Italia, società controllata del gruppo Benetton, che gestisce anche il tratto di A10 dove è crollato il ponte prevedono ovviamente anche la manutenzione, che garanzie aveva richiesto lei in merito? E perché durante il periodo delle privatizzazioni tutte le concessioni sono state rinnovate senza alcuna gara pubblica?
3) L’ex senatore ligure Maurizio Rossi, eletto nel 2013 in Parlamento con Scelta civica, l’aveva avvertita per ben due volte, il 20 ottobre 2015 e il 28 aprile 2016, dei problemi di sicurezza del viadotto Polcevera dell’autostrada A10 (chiamato ponte Morandi) attraverso due interrogazioni parlamentari. Perché non le ha ritenute degne di interesse?
I dem fanno quadrato su Delrio: "È un galantuomo". Il Pd respinge le accuse di aver prorogato la concessione ai Benetton: "È tutto regolare", scrive Laura Cesaretti, Sabato 18/08/2018, su "Il Giornale". «Adesso basta». Il Pd cerca di reagire alla gragnuola di colpi bassi arrivati da una maggioranza alla frenetica ricerca di capri espiatori da dare in pasto alla pubblica opinione, e lancia la sua parola d'ordine. Matteo Renzi difende l'ex ministro dei Trasporti Delrio, «un galantuomo» che è stato «ingiustamente accusato, con metodo infame». Chiede che il Parlamento interrompa le ferie e che il successore di Delrio, Toninelli (che per ora «è sparito, commissariato da un Di Maio tutte le sere in tv») venga a «riferire in Aula». E «abbia il coraggio» di spiegare finalmente «se il governo è favorevole o no alla Gronda», sfida l'ex premier, ben sapendo che Lega e grillini sono su sponde opposte sul tema, e che l'attivismo sul fronte No Gronda, che definiva «una favoletta» il rischio di crollo del ponte Morandi, è un punto dolente per i Cinque Stelle e per lo stesso Beppe Grillo. Renzi ribatte «punto per punto, colpo su colpo» ad accuse e insulti di questi giorni, a cominciare da quella lanciata da Di Maio su presunti finanziamenti dei Benetton al Pd: «Vedendo le carte scopriamo che io non ho preso un centesimo né per la Leopolda, né per le nostre campagne elettorali. E ciò significa che Di Maio è un bugiardo. E uno sciacallo. Ma come se non bastasse si scopre che Società Autostrade ha finanziato la Lega e che il Premier Conte è stato legale di Aiscat, la società dei concessionari di autostrada. Quindi se Di Maio vuole sapere chi prendeva soldi dal sistema autostradale lo deve chiedere al prossimo Consiglio dei ministri, non a noi». Quanto all'accusa al suo governo di aver prorogato la concessione alla società dei Benetton, l'ex premier ricorda che nel 2017, «dopo un confronto con la Commissione Ue», si decise di allungarla di quattro anni ad una condizione precisa: «Prorogare la concessione è stata una scelta del governo per avere subito l'opera pubblica che avrebbe decongestionato il traffico a Genova» ossia la Gronda. «Adesso basta», dice anche il segretario Pd Maurizio Martina. «Ora servirebbero unità e responsabilità. Non propaganda e falsità. I ministri che scambiano il governo per un social network fanno male all'Italia». Matteo Orfini chiama in causa la «potente macchina del fango» dei partiti di maggioranza, che sui social media - accusa - e tramite pagine non ufficiali «creano, amplificano, rilanciano notizie false e accuse violentissime» contro gli avversari politici. E il presidente Pd, suscitando le ire di Lega e Cinque Stelle, chiede ai militanti di segnalare e denunciare gli «abusi» e le «fake news». Ma c'è di più e di peggio: nel Pd (come del resto in Forza Italia) sono in molti a chiedere alla Consob di verificare cosa sia successo attorno al titolo di Autostrade nel corso del tira e molla governativo su revoca sì - revoca no: «Un balletto molto strano, che sicuramente richiamerà l'attenzione della Consob», dice Renzi. Il deputato dem Michele Anzaldi è più brutale: «Si apra un'istruttoria sul colpo gobbo di Ferragosto ad opera del presidente del Consiglio Conte, dei vicepresidenti del Consiglio Di Maio e Salvini, del ministro Toninelli. Si indaghi su manipolazione del mercato e aggiotaggio».
Benetton, scontro Salvini-Renzi. "Fondi alla Lega", "Con me mai presi". Matteo Salvini replica alle accuse di Matteo Renzi per quanto riguarda i presunti finanziamenti di Benetton nelle campagne elettorali, scrive Giovanna Stella, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Si continua a discutere sul crollo del ponte Morandi. Anche se l'attenzione politica finisce sempre su Benetton e la gestione dei soldi per Autostrade. Dopo la netta presa di posizione di Luigi Di Maio nella quale ha ricordato che questo governo non ha preso soldi dall'azienda per le campagne elettorali, arriva la replica di Matteo Renzi. L'ex premier si è sentito tirato in causa: "Di Maio dice che il suo governo è il primo a non aver preso soldi da Benetton o Società Autostrade e che Benetton non gli ha pagato la campagna elettorale. Falso! Vedendo le carte scopriamo che io non ho preso un centesimo nè per la Leopolda nè per le nostre campagne elettorali. E ciò significa che Di Maio è un bugiardo. E uno sciacallo". Ma Matteo Renzi non si ferma qui e punta il dito anche contro la Lega: "Ma come se non bastasse si scopre che Società Autostrade ha finanziato la Lega e che il Premier Conte è stato legale di Aiscat, la società dei concessionari di autostrada. L'avvocato del popolo diventa all'improvviso l'avvocato delle autostrade. Quindi se Di Maio vuole sapere chi prendeva soldi dal sistema autostradale lo deve chiedere al prossimo Consiglio dei ministri, non a noi". E in questa partita a chi gioca più sporco, prende la parola Matteo Salvini. Il ministro dell'Interno precisa all'Huffington Post: "Era il 2006 e a quel tempo io non ero né segretario né amministratore del partito. Le posso garantire che da quando sono alla guida della Lega non abbiamo preso una lira da queste persone". Poi Salvini rincara la dose: "A differenza del Pd, noi abbiamo avuto la forza di fare pulizia, di cambiare tutti e tutto, mentre gli altri non hanno cambiato nulla. Fossi in chi ha firmato quelle concessioni qualche problema di coscienza ce l'avrei perché mi sembrano, letti i bilanci, molto per i privati e molto meno per i cittadini".
Ponte Morandi, i rapporti tra Pd e Autostrade dei Benetton: cosa faceva Simonetta Giordani per Enrico Letta, scrive il 17 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Sui rapporti (e i soldi) tra Benetton e Pd è scattata la battaglia del fango tra Luigi Di Maio e Matteo Renzi quando le macerie del ponte Morandi di Genova erano ancora fumanti e si scavava per cercare di salvare qualche altra vittima del crollo. Uno spettacolo per certi versi penoso, ma che non cancella i rapporti pericolosi tra i vertici dem e Autostrade per l'Italia, controllata appunto dalla Atlantia dei Benetton. Dagospia lancia nell'arena un paio di nomi pesanti, legati entrambi all'ex premier Enrico Letta, l'uomo che alla vigilia di Natale 2013 ha firmato a Palazzo Chigi la modifica della concessione ad Autostrada per l'Italia. Il primo è quello di Simonetta Giordani, pr di Autostrade promossa proprio da Letta al governo e piazzata, poi, da Renzi nel cda di Ferrovie. Oggi è tornata in Atlantia, capo delle relazioni istituzionali. C'è poi il caso di Francesco Delzio, co-fondatore del think tank lettiano VeDrò. Ora è vicepresidente e capo relazioni esterne di Atlantia e di Autostrade per l'Italia.
Genova, Di Maio: "Molti politici passati per Autostrade, uno su tutti Enrico Letta". Il vicepremier grillino all'attacco: "I morti di Genova conseguenza delle marchette ad Autostrade". Poi l'affondo contro Enrico Letta, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Di Maio va all'attacco di Enrico Letta. Mentre il governo ha annunciato di aver avviato l'iterper la revoca della concessione a società Autostrade, il vicepremier grillino rinfocola la polemica politica scoppiata dopo il crollo del ponte Morandi a Genova. Toninelli e Conte hanno annunciato di voler "ribaltare" il sistema delle concessioni. "Faremo di tutto per rivedere integralmente il sistema delle concessioni e man mano che esse scadono ne approfitterà per impostare queste operazioni sulla base di nuovi princìpi e di più soddisfacenti equilibri giuridico-economici", ha spiegato in una nota il premier. Secondo cui il "processo di privatizzazioni" avviato anni fa è stato fatto secondo "una logica che ha favorito la gestione finanziaria delle stesse e ha oscurato la logica industriale che invece dovrebbe caratterizzarle". Le parole in politichese del premier si scontrano con quelle molto più dure del capo politico del Movimento. Il quale parla senza mezzi termini di "marchette" della politica ad Autostrade. "Molti dei personaggi politici che hanno permesso tutto questo, oggi o lavorano per Autostrade per l'Italia o sono loro consulenti - attacca Di Maio - Uno su tutti Enrico Letta, ex presidente del Consiglio, passato per il Cda della società che gestisce le autostrade spagnole, comprate dai Benetton con i soldi dei pedaggi degli italiani". In una lettera ai parlamentari del M5S, Di Maio ha ricordato che "per 5 anni dall'opposizione abbiamo combattuto contro i privilegi di Autostrade per l'Italia, che gestivano e gestiscono le nostre autostrade senza gare e con doveri contrattuali ridicoli". Non manca la polemica sul fatto che i contratti di concessione "siano stati secretati per i vergognosi vantaggi che gli erano stati concessi". "Sono anni che i nostri parlamentari, guidati dal nostro senatore e sottosegretario Andrea Cioffi, ad ogni legge di Bilancio hanno provato a fermare le marchette ai concessionari autostradali. Il crollo del ponte Morandi è figlio di tutti i trattamenti privilegiati e delle marchette fatti ad Autostrade per l'Italia", scrive Di Maio. "Il bilancio, per ora, è di 39 morti, con famiglie distrutte, feriti, gente che magari resterà in carrozzella per tutta la vita, oltre 600 sfollati che si vedranno la casa abbattuta. A tutte queste persone dobbiamo delle risposte concrete, non solo il cordoglio". Il governo, dice Di Maio, non intende "arretrare di un millimetro". "Applicheremo sanzioni e chiederemo risarcimenti per centinaia di milioni di euro - spiega il vicepremier ai parlamentari pentastellati - che sono soldi dovuti, non concessioni da barattare con l'eventuale revoca". Poi l'annuncio: "Desecreteremo tutti i contratti dei concessionari autostradali e mostreremo questa vergogna al mondo intero. Chiederemo a tutti i funzionari pubblici che hanno incarichi a vario titolo, anche dentro Autostrade per l'Italia, di dimettersi da uno dei due ruoli". Dal canto suo Enrico Letta a Dagospia ha fatto alcune precisazioni: "Sono entrato nel Consiglio di Abertis alla fine del 2016, quando questa era una società spagnola, e prima che venisse ventilata l'ipotesi di OPA da parte italiana". L'ex premier ha poi spiegato che "da Abertis sono uscito, dimettendomi volontariamente, e dandone pubblica notizia nel maggio scorso, esattamente quando è cambiata la proprietà con l'ingresso di Atlantia". E questo "perchè, proprio per evitare al massimo possibili conflitti di interesse con le mie precedenti funzioni, ho scelto, una volta lasciato il Parlamento, di esercitare attività professionali fuori dall'Italia". "È quindi vero proprio il contrario - ha concluso Letta - rispetto ai conflitti di interesse di cui, omettendo di raccontare i fatti appena descritti, mi si accusa impropriamente".
Genova, ponte Morandi: autostrade, tutti i regali della sinistra ai Benetton, scrive il 17 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Il Fatto quotidiano, per sdrammatizzare, definisce la regolazione delle concessioni autostradali in Italia "Metodo Marzullo - si faccia una domanda e si dia una risposta". Nel senso che quando le autostrade italiane vennero date in gestione ai privati nel 1999 (al governo c'era D'Alema), si creò un sistema quantomeno bizzarro, con il gestore autostradale che era di fatto il controllore di se stesso essendo l'unico a effettuare i periodici controlli sulle strutture autostradali. Stesso discorso vale, sempre secondo Il Fatto, per il piano pedaggi, cioè ricavi e profitti: una norma generale del 1994 stabiliva che prima di privatizzare imprese operanti in servizi di pubblica utilità si istituisse un regolatore indipendente per la determinazione delle tariffe e il controllo della qualità. Per questo furono istituite le varie "Authorithy" per l'energia, le comunicazioni e via dicendo. Ma questo non avvenne al momento di privatizzare autostrade e aeroporti. L'Autorità per i trasporti è nata solo nel 2011, è diventata operativa nel 2013ma la sua legge istitutiva dispone che per il settore autostradale debba occuparsi solo delle nuove concessioni, non di quelle già in essere. In più, cosa incredibile, le concessioni autostradali sono da sempre secretate e non ne conosce i contenuti neppure l'Autorità. L'ex ministro Delrio le rese pubbliche sul sito del ministero, ma senza gli allegati riguardanti i piani finanziari che giustificano le tariffe e le loro variazioni nel tempo. Ancora, un altro vantaggio per i gestori è quello di poter caricare nelle tariffe il recupero finanziario di investimenti che si faranno forse in futuro. Infine, il concedente (ovvero lo Stato), in caso di grave inadempienza del concessionario (ad esempio Autostrade per l'Italia), può fare decadere la concessione ma in tal caso deve indennizzarlo dei profitti che avrebbe conseguito per gli annui residui della concessione.
Sappiamo chi è stato. Più di 30 morti nel crollo del ponte, ma la catastrofe era evitabile. Non è vero che non c'erano i soldi, siamo stati ricattati da chi non vuole le grandi opere, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 15/08/2018, su "Il Giornale". Non cominciamo con la storiella che il ponte autostradale di Genova è crollato inghiottendo il suo carico umano per colpa dei vincoli europei. Quel ponte non doveva crollare, punto e a capo. Sostenere l'inverso è soltanto uno squallido sciacallaggio politico fatto sulla morte di alcune decine di ignari e incolpevoli cittadini. La società Autostrade (azienda privata di proprietà della famiglia Benetton) responsabile del manufatto, trabocca di soldi che non sa più dove mettere. Soldi peraltro frutto di pedaggi da strozzini incompatibili con la qualità del servizio - meglio sarebbe dire disservizio - offerto agli automobilisti. Quel ponte non è crollato perché l'Europa è cattiva e non ci fa spendere ma perché l'Italia è stupida e ferma nelle grandi opere, salvo rare eccezioni tipo l'alta velocità ferroviaria e la variante di valico tosco-emiliana, agli anni Cinquanta. Quel ponte è crollato non perché mancano i soldi ma perché questo Paese è in perenne ostaggio di minoranze demagogiche e stupide che si sono messe di traverso ai già scarsi tentativi di modernizzare tutte le reti di comunicazione via terra. Per decenni lo è stato della sinistra ambientalista, oggi lo è del grillismo che, purtroppo con l'aiuto di un pezzo importante del centrodestra quale è la Lega, sta cercando di fermare i grandi e innovativi progetti già avviati per il trasporto sicuro e veloce delle merci e dell'energia. Il ministro delle Infrastrutture, il grillino Danilo Toninelli (quello che in campagna elettorale disse di sentirsi geneticamente superiore ai colleghi del centrodestra) può piagnucolare e indignarsi quando vuole, ma è proprio il suo movimento a essersi opposto al progetto di una grande opera a Genova per bypassare quel maledetto ponte che a detta di tutti un giorno o l'altro sarebbe caduto. E sapete qual era lo slogan dei Cinquestelle? Questo: «Non crediamo alla favola del ponte che cade». Siamo onesti. Altro che Europa, cretini e incoscienti li abbiamo in casa e li abbiamo - non noi - mandati pure al governo, al grido di «basta nuovi ponti che arricchiscono i soliti noti». Per cui teniamoci quelli vecchi, così vecchi che non c'è manutenzione ordinaria o straordinaria che ne possa garantire la stabilità. E questo al di là di errori, omissioni e ladrerie umane che evidentemente ci sono state e andranno perseguite. I ponti non sono dei monumenti eterni, sono logorati dalla vita più o meno come capita a un uomo e dopo una certa età non c'è lifting o medicina capace di tenerlo in forma e garantirgli l'immortalità. La «favola del ponte che cade» si è avverata perché abbiamo dato, e ahimè continuiamo a dare, credito a questi venditori di fumo tipo Toninelli, travestiti da statisti e modernizzatori. Per liberarci di vecchi ponti e grandi opere dobbiamo prima liberarci di chi si oppone ai nuovi. Purtroppo, vista l'aria che tira, la seconda cosa sarà più difficile della prima. Ma se non vogliamo andare avanti a lutti di Stato dobbiamo provarci, non con il cemento ma con il voto.
I maltempi della giustizia, scrive Venerdì 17 agosto 2018 Massimo Gramellini su "Il Corriere della Sera". «Per revocare la concessione ad Autostrade non possiamo aspettare i tempi della Giustizia». Detta da un presidente del Consiglio che è anche avvocato, la frase fa un certo effetto, per quanto appaia perfettamente in linea con altri tempi, quelli della comunicazione e della politica. La dittatura dell’istante, in cui ci ha precipitati l’avvento dei social, impone al governo Conte di decidere sull’onda dell’emozione. Il ponte collassato di Genova sarà presto oscurato da nuove emergenze e, prima della sentenza definitiva, chissà quante altre cose ci saranno cadute sulla testa, in questo Paese che scricchiola come una porta di Hitchcock. Ma a rendere il Potere impulsivo contro natura (di solito impulsive sono le opposizioni) è l’uso partigiano che ormai tutti fanno di categorie assolute come il garantismo e il giustizialismo. Il garantismo si applica ai propri cari, il giustizialismo ai cari degli altri. Renzi auspicò le dimissioni della Cancellieri, ministra di Letta, sventolando ragioni di opportunità che si guardò bene dall’evocare per i ministri suoi. E Di Maio, giustamente scandalizzato dai guai giudiziari degli anti-Raggi, apparve più comprensivo con quelli della Raggi medesima. Ai Benetton, che il governo ha iscritto d’ufficio al Pd nella corrente dei miliardari senza cuore, si applica dunque lo schema giustizialista, con i cinquestelle nella parte dei vendicatori implacabili e i leghisti in quella di chi tratta col nemico per una più prosaica riparazione in denaro.
Ma ora si preannuncia la battaglia del cavillo. Per lo stop alla gestione ci vorranno anni. La commissione del Mit è al lavoro ma Autostrade già annuncia ricorsi, scrive Antonio Signorini, Sabato 18/08/2018, su "Il Giornale". Lo ha ammesso anche il vicepremier Matteo Salvini. «Il percorso non durerà 15 giorni, ci saranno le controdeduzioni di Autostrade, i pareri, passeranno settimane, se non mesi». La decisione del governo di andare avanti con la revoca della concessione nonostante i dubbi di mezzo esecutivo, compreso il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, apre un percorso tutt'altro che lineare e scontato. La commissione ispettiva, istituita dal Ministero per le Infrastrutture e i Trasporti è già al lavoro e darà il suo giudizio entro trenta giorni, ha spiegato il presidente della commissione Roberto Ferrazza. Dovrà «rileggere la storia del progetto. Abbiamo documenti da chiedere alla concessionaria. Poi sottoporremo tutto alle autorità competenti». Già esclusa la causa maltempo. L'ipotesi alla quale si lavora è quella del cedimento di un tirante, ha spiegato il professore dell'Università di Genova Antonio Brencich che fa due anni fa lanciò per primo l'allarme. Il governo vuole dimostrare che la responsabilità è di Autostrade per l'Italia, società del gruppo Atlantia. Ma per rompere il contratto tra lo stato e il gruppo Benetton, ci vuole altro: il governo dovrà dimostrare anche che la società non ha risposto ai richiami. La convenzione siglata nel 2009 prevede che il contratto possa decadere se «perdura la grave inadempienza da parte del concessionario rispetto agli obblighi previsti». La legge sulla trasparenza amministrativa prevede che il concessionario abbia 90 giorni per adempiere gli obblighi, poi altri 60 giorni se ci sono contestazioni. Sono cinque mesi di tempo che Autostrade sostiene di non avere avuto. Ieri il ministero delle Infrastrutture ha precisato che l'ultima contestazione di inadempimento ad Autostrade per l'Italia risale al 28 giugno scorso, pertanto non corrisponde al vero che non siano state sollevate contestazioni di inadempimento nei confronti della società. «La società è stata destinataria, solo nel 2017, di 5 contestazioni di inadempimento» e «sono attualmente pendenti 25 ricorsi attivati da Autostrade per l'Italia», spiegava ieri una fonte del dicastero alle agenzie di stampa. Come dire, degli appigli legali per annullare il contratto ci sono. Il governo dovrà comunque raccogliere le controdeduzioni di Autostrade. Arriveranno quando il lavoro della commissione sarà terminato. E i tempi per presentarle non potranno essere molto diversi dai cinque mesi previste dalla convenzione. Se alla fine di questo percorso il governo dovesse veramente decidere di porre fine alla convenzione con Autostrade (e non è scontato), la società che gestisce 2.800 chilometri di autostrade potrà fare ricorso alla giustizia amministrativa. Quindi prima il Tar e poi, eventualmente, il Consiglio di Stato. Parallelamente anche la giustizia civile si occuperà del Ponte per le richieste di risarcimento. Secondo indiscrezioni rilanciate ieri da Paolo Madron, i Benetton proprietari di Atlantia si sarebbero affidati a uno dei più famosi studi legali italiani, Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners. Come dire, Autostrade è determinata quanto il governo a fare valere il proprio punto di vista.
Genova, ponte Morandi: alcune parti del contratto con Autostrade coperte da segreto, scrive il 19 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Luigi Di Maio lo aveva detto a caldo, poche ore dopo il crollo del ponte Morandi: "Stiamo cercando di avere accesso a tutti i contenuti del contratto di concessione autostradale, perchè non tutto è pubblico". Sembrava una "sparata", invece è la pura verità. Nel senso che, come scrive oggi Il Messaggero, il contratto di concessione della tratta autostradale Genova-Savona contiene alcuni omissis ai quali corrisponderebbero decreti di segretezza. Un vero e proprio segreto di Stato su alcune parti: ovvero la massima tutela alla quale possono essere sottoposte intese e contratti, visto che a porlo è il presidente della Repubblica e solo lo stesso presidente può cancellarlo con un decreto. La procura di Genova potrebbe così essere obbligata ad avviare una lunga e incerta procedura per de-secretare gli omissis e, se le porte dovessero essere sbarrate, non avrebbe altra possibilità che ricorrere alla Corte costituzionale.
Ponte Morandi, il retroscena sugli attacchi ai Benetton: perché Salvini ha umiliato Di Maio, scrive il 16 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". L'obiettivo finale dovrebbe essere ottenere un nuovo ponte pronto e collaudato entro e non oltre il 2019. Il modo per ottenerlo è sotto gli occhi di tutti, con il repentino cambio di strategia, solo apparente, di Matteo Salvini e dell'intera Lega nei confronti di Autostrade per l'Italia. Gli attacchi mediatici contro il gruppo controllato da Atlantia, con la famiglia Benetton socio di maggioranza, sono durati appena 24 ore. Sin da subito sono partite le minacce da parte del governo sul possibile ritiro immediato della concessioni autostradali, in barba a contratti e pesantissime penali. Era partito lanciatissimo il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, secondo il quale la procedura di verifica delle concessioni poteva già partite. Lo ha seguito a ruota il vicepremier Luigi Di Maio, che aveva addirittura accusato i Benetton di pagare le tasse all'estero, salvo poi essere smentito dai fatti, visto che la società Autostrade per l'Italia ha sede a Roma. Salvini ha seguito la linea del governo, finché oggi non ha riportato lo scontro sul terreno più utile per tutti, aprendo uno spiraglio per la riappacificazione con il concessionario in cambio di un "comportamento umano". Le condizioni dettate da Salvini sono state chiare: soldi, subito, spontaneamente, per gli sfollati e per le famiglie delle vittime. Prima che la magistratura si esprima sulle responsabilità, prima che sia più complicato tenere a bada gli alleati di governo che su quelle revoche vogliono andare fino in fondo. E una prima reazione, come un moto d'orgoglio, in fondo era arrivato da Autostrade per l'Italia, con la garanzia di poter ricostruire il ponte in appena cinque mesi. Una beffa a ripensarci oggi, roba da chiedersi sul perché non ci avessero pensato prima. Il governatore Giovanni Toti, tra i più vicini a Salvini in Forza Italia, ha colto la palla al balzo: "Subito un nuovo ponte entro il 2019, magari non saranno cinque mesi, ma anche entro 12 va bene". E con il sottosegretario ligure ai Trasporti, Edoardo Rixi, l'obiettivo della gamba leghista del governo è stato chiarissimo: "Chi pagherà il nuovo ponte sarà Società Autostrade, chi lo costruirà lo valuteremo". Di sicuro un successo, almeno i leghisti, possono dire sin da ora di averlo portato a casa.
Autostrade, parla l'esperta: "Fu Di Pietro a inserire a inserire la clausola che fa ricchi i Benetton", scrive il 19 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Fu nel 1999, "regnante" Massimo D'Alema a Palazzo Chigi, che il grosso della rete autostradale italiana fu dato in concessione a Autostrade per l'Italia. Tra quelli, anche la cosiddetta "Autostrada dei fiori" (A10) dove c'era il ponte Morandi. Ma la ormai famigerata "clausola" che consentirebbe alla Società del gruppo Benetton di essere indennizzata in caso di scioglimento della concessione anticipato (per un somma pari agli introiti che avrebbe ottenuto in quegli anni restanti), venne aggiunta all'accordo con lo Stato solo diversi anni più tardi, nel 2007, quando alla guida del ministero dei Trasporti c'era Antonio Di Pietro. A dirlo, in una intervista a Il Giornale è la legale rappresentante dell'Osservatorio vittime, Elisabetta Aldrovandi, in una intervista a Il Giornale. "La famosa clausola si trova nella convezione originaria, fu messa da Di Pietro e poi riconfermata, con qualche modifica, dal governo Renzi". La Aldrovandi è convinta che "il pagamento della penale da parte dello Stato si può evitare perchè nella convenzione c'è un appiglio che dice che da questa somma vanno decurtati tutti i danni che Autostrade ha causato per il suo grave inadempimento. Parlo sia di danni diretti che indiretti, oltre ai danni economici in divenire".
"Ecco come i Benetton acquisirono Autostrade". Sull'acquisizione di Autostrade da parte di Benetton spunta un retroscena. Ecco i passaggi che portarono la famiglia nel business dei pedaggi, scrive Luca Romano, Giovedì 23/08/2018, su "Il Giornale". Sull'acquisizione di Autostrade da parte di Benetton spunta un retroscena. A quanto pare per la famiglia fu un vero e proprio affare grazie anche al semaforo verde di Prodi, D'Alema e Draghi. A rivelare come andarono le cose è Giuseppe Oddo sul suo blog che ricostruisce con l'Analisi trimestrale dei bilanci di R&S-Il Sole 24 Ore del 24 dicembre 2009 l'entrata di Benetton in Autostrade. Di fatto secondo quanto riporta Oddo, l'acquisizione avvenne con una "scatola finanziaria" denominata "Schemaventotto". In questo modo i Benetton si aggiudicarono il 30% di Auotstrade investendo tramite Edizione proprio 2,5 miliardi di euro in Schemaventotto. Di questi 1,2 miliardi erano stati presi a prestito. Poi c'è un secondo step ed è del 2003. Entra in campo NewCo28, strumento di Schemaventotto. NewCo28 prese con un'Opa il 54% di Autostrade per un valore di 6,5 miliardi. In questo modo NewCo28 incorporò Autostrade "scaricandole il debito che aveva contratto per finanziare l’Offerta", sottolinea Oddo. L'operazione venne chiusa praticamente a costo zero. E qui Oddo cita altre cifre che fanno capire meglio come sono andate le cose: "Schemaventotto tra il 2000 e il 2009 prelevò infatti da Autostrade 1,4 miliardi di dividendi, tutti generati da utili, e ne collocò in Borsa il 12% con un incasso di altri 1,2 miliardi. Il ricavato totale fu di 2,6 miliardi di euro". Una mossa che ha permesso ai Benetton di rientrare dal debito. Infine sempre Oddo ricorda che questa operazione dal punto di vista politico porta la firma chiara di Romano Prodi, Carlo Azeglio Ciampi, Mario Draghi e Massimo D’Alema.
Conigli. La revoca della concessione va probabilmente contro lo stato di diritto. Ma è difficile difendere i diritti di qualcuno che non rispetta i diritti di tutti. In tre giorni Atlantia non si è assunta nemmeno la responsabilità morale, scrive Lucia Annunziata, Direttore Huffpost Italia, il 16/08/2018. Non sappiamo se Atlantia, azienda di proprietà del gruppo Benetton abbia un cuore, come suggeriva ieri sul Corriere della Sera Massimo Gramellini, ma se ce l'ha è certamente quello del coniglio. Dopo il primo smemorato intervento delle 13,39 in cui, a un'Italia con le mani nei capelli per l'orrore, Atlantia forniva un comunicatino senza un parola sulle vittime, la società dei Benetton non ha mai smesso di fuggire da ogni umana emozione, ma anche da ogni assunzione di responsabilità morale. Capiamo che nessuna azienda si prenderebbe mai la responsabilità diretta di un grave disastro, capiamo il terrore, l'autodifesa, gli avvocati. Ma qui si tratta di una reazione che fin dal primo momento, e ancora fino ad oggi, è segnata dalla fuga dalla realtà. Dove sono il Presidente Fabio Cerchiai, l'AD Giovanni Castellucci, i responsabili della comunicazione, o i proprietari, la celeberrima e ipercomunicativa Famiglia Benetton? In tre giorni di dolore e discussioni, Atlantia non ci ha mai messo la faccia – tranne che con il funzionario di zona, il responsabile del tronco di Genova. Le prime ore dopo la tragedia sono forse le più dolorose da digerire per chi stava in quelle ore incollato alle immagini, in attesa di sapere che proporzioni avesse quell'apocalisse. Nel comunicato delle 13.39 che abbiamo appena citato, il crollo è derubricata a una vicenda locale: " I lavori e lo stato del viadotto erano sottoposti a costante attività di osservazione e vigilanza da parte della Direzione di Tronco di Genova". Alle 14.10 l'Ad della società Autostrade Giovanni Castellucci così risponde al giornalista del Gr1 che gli fa notare che da anni si diceva che il ponte fosse pericoloso: "Non mi risulta ma se lei ha della documentazione me la mandi. In ogni caso non è così, non mi risulta". Immaginiamo che la maleducazione fosse intesa a dimostrare che l'Azienda era tranquilla, ma forse l'Amministratore Delegato, ha confuso maleducazione con il senso di responsabilità. Alle 16.57 il povero Responsabile del tronco Genova entra in scena e dice che "il crollo è inaspettato"(!) e solo a fine giornata arriva un "cordoglio per le vittime e la profonda vicinanza ai loro familiari". Purtroppo questo cordoglio non segna un cambio di toni, o di sensibilità. I comunicati del 15 e del 16 sono una girandola, evidentemente mirati a preparare la battaglia legale, con occhi soprattutto puntati sul rassicurare i mercati - "siamo stati corretti", "abbiamo fatto verifiche", "pronti a ricostruire il ponte in 5 mesi". Il primo cedimento nervoso di Atlantia avviene solo quando il governo minaccia di rescindere la concessione: " Da annuncio governo impatti su azioni e bond", "impegnati per verità". E sarà che è una girandola, ma alla fine il meccanismo si inceppa e la società, preoccupata del proprio futuro, sbraca nei modi e nei toni, ricorda che in caso di revoca le "spetta il valore residuo" del contratto. Nemmeno i gesti umanitari, che pure a questo punto offre come pegno di buona volontà, le riescono bene: il pedaggio di cui tutti chiedono la sospensione, viene sospeso infine sospeso, sì, ma "solo per le ambulanze". Nessuno nelle stanze degli avvocati o degli azionisti ha capito quanto macabra sia questa decisione? Sì, certo, lo Stato di diritto sarà sicuramente ferito dalla forzatura legale di avviare la procedura di rescissione della concessione. Che vi si arrivi o meno, certo la decisione ha tutte le stigmate di un governo che non vuole fare i conti con i diritti acquisiti, con le regole istituzionali. Ma, francamente, in questo caso è difficile difendere i diritti di una azienda che non ha a cuore i diritti di tutti. Il caso Genova deve essere inserito profondamente nel dibattito politico su cosa sta succedendo in Italia. La torre d'avorio in cui i Benetton, pur maestri di comunicazione, sono chiusi in queste ore; la cautela legale che travasa in pura indifferenza umana; la prevalenza della logica astratta del denaro sul servizio, sono la perfetta rappresentazione di tutte le ragioni della rivolta elettorale che ha dato la stragrande vittoria al populismo.
I fischi e la sindrome di Piazzale Loreto.
United Leccons of Benetton, scrive Marco Travaglio il 18 agosto 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Impreparati come siamo in fatto di modernità, di progresso, ma soprattutto di Stato di diritto, ci eravamo fatti l’idea che il crollo di un ponte notoriamente pericolante fosse responsabilità anzitutto di chi (la società Atlantia della famiglia Benetton) l’aveva in gestione e si faceva pagare profumatamente per tenerlo in piedi ma non aveva fatto nulla; e poi anche di chi (i governi di destra e di sinistra degli ultimi 19 anni) si faceva pagare profumatamente per controllare che ciò avvenisse ma non faceva nulla; e che, dopo 40 morti e rotti, il governo avesse il diritto-dovere di revocare il contratto al concessionario inadempiente. Ma ieri per fortuna abbiamo letto il Giornalone Unico e scoperto che sbagliavamo di grosso. Attribuire qualsivoglia colpa per il ponte crollato a chi doveva tenerlo in piedi e controllare che fosse tenuto in piedi è sintomo di gravissime patologie: populismo, giustizialismo, moralismo, giustizia sommaria, punizione cieca, voglia di ghigliottina, ansia da Piazzale Loreto, sciacallaggio, speculazione, ansia vendicativa, barbarie umana e giuridica, cultura anti-impresa che dice “No a tutto”, pericolosa deriva autoritaria, ossessione del capro espiatorio, esplosione emotiva, punizione cieca, barbarie, pressappochismo, improvvisazione, avventurismo, collettivismo, socialismo reale, decrescita, oscurantismo (Repubblica, Corriere, Stampa, il Giornale). Prendiamo nota e ci scusiamo con i Benetton e i loro compari politici se li abbiamo offesi anche solo nominandoli invano o pubblicando loro foto senz’attendere che, fra una quindicina d’anni, la Cassazione si pronunci sui loro eventuali reati. D’ora in avanti, ammaestrati da tanta sapienza giuridica che trasuda da giornaloni, tg e talk show, ci regoleremo di conseguenza nella vita di tutti i giorni. E invitiamo caldamente i nostri lettori e gli altri italiani contagiati dai suddetti virus, a fare altrettanto. Se, puta caso, acquistate o affittate un appartamento e, dopo qualche settimana sull’intonaco ancora fresco del soffitto compare una simpatica crepa, seguita magari dal gaio precipitare di calcinacci sulla vostra testa, evitate di farvi cogliere dalla classica cultura del sospetto, tipica del peggiore populismo grillino, e di protestare col proprietario o l’amministratore del condominio perché intervenga a riparare. Vi basterà la sua parola rassicurante sul fatto che nelle abitazioni moderne la crepa arreda e non c’è da preoccuparsi, perché la casa è “sotto costante monitoraggio e non presenta alcun pericolo di crollo”. Nel malaugurato caso in cui la casa dovesse sbriciolarsi e voi doveste sopravvivere, astenetevi dalla classica tentazione giustizialista di rinfacciare a chi di dovere i vostri allarmi inascoltati; o, peggio, di attribuirgli qualsivoglia colpa, cedendo al peggior populismo; o – Dio non voglia: sarebbe giustizia sommaria indegna di uno Stato di diritto – di chiedergli i danni prima che un Tribunale, una Corte d’appello e la Cassazione abbiano confermato irrevocabilmente la sua penale responsabilità. C’è anche il caso che alcune circostanze infauste (tipo i funerali dei vostri cari o le fratture multiple che vi paralizzano in un letto d’ospedale) vi inducano a cedere all’emotività al punto di pretendere almeno la sostituzione dell’amministratore inadempiente, specie se doveste scoprire che costui (come l’Ad di Atlantia-Autostrade, Castellucci, sotto processo per la strage di Avellino) era già imputato per omicidio colposo plurimo per disastri precedenti: ecco, resistete a questi barbari istinti di giustizia sommaria. E, se vi chiedono ancora l’affitto della casa crollata, tenete a bada le mani e continuate a pagarlo, per non precipitare nel gorgo della cultura anti-impresa che dice “No a tutto” e porta dritto al socialismo reale. Ci siamo fin qui barcamenati nella metafora della casa per non ricadere nel tragico errore di citare i Benetton e i governi degli ultimi 20 anni, cioè i concessionari e i concessori di Autostrade che credevamo responsabili politico-amministrativi del Ponte Morandi. Ora sappiamo dai giornaloni che essi non solo non vanno incolpati, ma neppure nominati. Al massimo – ci insegna Ezio Mauro – si può parlare di “una delle più grandi società autostradali private del mondo” che, “in attesa che la magistratura faccia luce”, non può diventare “il capro espiatorio di processi sommari e riti di piazza”, “tipici del populismo”. E guai a dire, come fa Di Maio, “a me Benetton non pagava campagne elettorali”: questo non l’avrebbe detto “nemmeno Perón”, forse perché a Perón i Benetton non pagavano le campagne elettorali, mentre Autostrade le pagò al centrosinistra e al centrodestra almeno nel 2008 (vedi Report). E guai soprattutto ad annunciare, come fa Conte, “la sospensione della concessione” senza aspettare “i tempi della giustizia”. Chi pensa che ai governi spetti accertare le responsabilità politico-amministrative e ai giudici quelle penali, perché un conto è revocare un contratto e un altro e mettere uno in galera, è un lurido “populista” e “pifferaio della decrescita”. Se c’è di mezzo Atlantia, che sponsorizza La Repubblica delle Idee e nel cui Cda siede la vice presidente del gruppo Repubblica Monica Mondardini, la responsabilità politico-amministrativa non esiste più: le concessioni si danno subito, anche in una notte, pure senza gara, ma per revocarle bisogna aspettare la Cassazione. Anzi, nemmeno quella, perché la revoca sarebbe – ammonisce Daniele Manca del Corriere – “una scorciatoia”, “un errore” e “un indizio di debolezza”: uno Stato forte viceversa lascia le sue autostrade in mani private, e che mani. Nemmeno Manca fa nomi, anche se sembra sul punto di farli: quando scrive “chi quelle società guida e controlla…”, par di vederlo mordersi la lingua e torturarsi le dita per impedire loro di scrivere “Benetton”. Poi, per non pensarci più, si scaglia contro i veri colpevoli: “Chi ha alimentato e salvaguardato l’interesse di minoranze a scapito del benessere del Paese, ostacolando nuove opere” (la famigerata “Gronda”, che avrebbe mantenuto in funzione il Ponte Morandi, e ci costerebbe 5-6 miliardi). Sistemati i veri colpevoli, restano da accertare le vere vittime: provvede Giovanni Orsina su La Stampa, lacrimando inconsolabile per i poveri Benetton (mai nominati), “sacrificati” come “capro espiatorio contro cui l’indignazione possa sfogarsi”. Roba da “paesi barbari”, soprattutto dinanzi “a una questione complessa come il crollo del Ponte Morandi”. Talmente complessa che ora Atlantia è pronta a ricostruirlo “in cinque mesi”. Un solo giornalista – il sempre spiritoso Luca Bottura – fa nomi e cognomi, con grave sprezzo del pericolo, su Repubblica: “Bagnai”, “Toninelli”, “i grillini” che “serbano nell’armadio lo scheletro della Gronda che forse avrebbe allungato la vita al Ponte Morandi” (mai fatta per colpa di chi non ha mai governato) e dicono “No tutto”, perfino al balsamico Tav “tra Torinoe Lione” (che non c’entra nulla e infatti Bottura lo cita ma non si “arrischia” a citarlo “per paura di finire nel mirino” dei No Tav padroni di tutti i giornali, compreso il suo), “Salvini”, “Grillo”, la “Casaleggio”, “l’ansia vendicativa del governo… che sparge la calce viva della bassa politica su decine di vittime”, e “soprattutto Di Maio” perché osa attaccare “Autostrade per l’Italia (che certo non se la passa bene, ma devono dirlo i giudici)”. Ecco: per incolpare chi non c’entra nulla basta il Tribunale di Repubblica; ma per incolpare chi c’entra bisogna attendere la Cassazione. Questi eterni Tartuffe italioti, usi a negare anche l’evidenza, Indro Montanelli li ritraeva con un apologo: “Un gentiluomo austriaco, roso dal sospetto che la moglie lo tradisse, la seguì di nascosto e la vide entrare in un albergo. Salì dietro di lei sino alla camera e dal buco della serratura la osservò spogliarsi e coricarsi insieme a un giovanotto. Ma, rimasto al buio perché i due a questo punto spensero la luce, gemette a bassa voce: Non riuscirò dunque mai a liberarmi da questa tormentosa incertezza?”.
Lucia Annunziata: "I Benetton? Sono senza cuore". Lucia Annunziata difende la scelta del governo di revocare la concessione ad Autostrade per l'Italia e attacca i Benetton: "Se hanno un cuore è quello di un coniglio”, scrive Francesco Curridori, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". “I Benetton? Se hanno un cuore è quello di un coniglio”. È questo il senso di un lungo editoriale di Lucia Annunziata, direttrice dell’Huffington Post, che critica fortemente l’atteggiamento di Atlantia, (azienda dei Benetton che possiede Autostrade per l’Italia) per quanto riguarda il crollo del ponte Morandi di Genova. “Dopo il primo smemorato intervento delle 13,39 in cui, a un'Italia con le mani nei capelli per l'orrore, Atlantia forniva un comunicatino senza una parola sulle vittime, la società dei Benetton non ha mai smesso di fuggire da ogni umana emozione, ma anche da ogni assunzione di responsabilità morale”, scrive la Annunziata che si chiede: “Dove sono il Presidente Fabio Cerchiai, l'AD Giovanni Castellucci, i responsabili della comunicazione, o i proprietari, la celeberrima e ipercomunicativa Famiglia Benetton?”. Anche i comunicati, che sono seguiti al primo, mirano soltanto a “preparare la battaglia legale, con occhi soprattutto puntati sul rassicurare i mercati”, accusa la direttrice di HuffPost. Atlantia, secondo lei, si è mostrata più preoccupata della possibilità di perdere la concessione statale piuttosto che delle vittime del crollo del ponte. Ma non solo. La società ha sospeso il pedaggio ma "solo per le ambulanze”. “Nessuno nelle stanze degli avvocati o degli azionisti ha capito quanto macabra sia questa decisione?”, si domanda ancora la Annunziata. Ecco, dunque, il motivo per cui la direttrice dell’HuffPost, stavolta, si schiera dalla parte dell’esecutivo gialloverde: “Sì, certo, lo Stato di diritto sarà sicuramente ferito dalla forzatura legale di avviare la procedura di rescissione della concessione. Che vi si arrivi o meno, certo la decisione ha tutte le stigmate di un governo che non vuole fare i conti con i diritti acquisiti, con le regole istituzionali. Ma, francamente, in questo caso è difficile difendere i diritti di una azienda che non ha a cuore i diritti di tutti”.
Toscani, Benetton e i "Maletton". Fanno la morale e poi lucrano senza scrupoli. Sono il simbolo del capitalismo allo sfascio. E il fotografo è il loro profeta, scrive di Marcello Veneziani il 17 Agosto 2018 su "Il Tempo". I Benetton non hanno prodotto solo maglioni e gestito autostrade ma sono stati la prima fabbrica nostrana dell'ideologia global. Sono stati non solo sponsor ma anche precursori dell’alfabeto ideologico, simbolico e sentimentale della sinistra. Sono stati il ponte, è il caso di dirlo, tra gli interessi multinazionali del capitalismo global e dell'americanizzazione del pianeta, coi loro profitti e il loro marketing e i messaggi contro il razzismo, contro il sessismo, a favore della società senza frontiere, lgbt, trasgressiva e progressista. Le loro campagne, affidate a Oliviero Toscani, hanno cercato di unire il lato choc, che spesso sconfinava nel cattivo gusto e nel pugno allo stomaco, col messaggio progressista umanitario: società multirazziale, senza confini, senza distinzioni di sessi, di religioni, di etnie e di popoli, con speciale attenzione ai minori. Via le barriere ovunque, eccetto ai caselli, dove si tratta di prendere pedaggi. Di recente la Benetton ha fatto anche campagne umanitarie sui barconi d’immigrati e ha lanciato un video «contro tutti i razzismi risorgenti». Misterioso il nesso tra le prediche sulla pelle dei disperati e il vendere maglioni o far pagare pedaggi alle auto. Dietro la facciata «progressista» di Benetton c’è però la realtà di Maletton, il lato B. È il caso, ad esempio del milione d’ettari della Benetton in Patagonia, sottratto alle popolazioni locali, come le comunità mapuche, vanamente insorte e sanguinosamente represse. O lo sfruttamento senza scrupoli dell’Amazzonia, ammantato dietro campagne in difesa dell’ambiente. O la storia dei maglioni prodotti a costi stracciati presso aziende che sfruttavano lavoratori, donne e minori a salari da fame e condizioni penose, come accadde in Bangladesh a Dacca, dove morirono un migliaio di sfruttati che lavoravano in un’azienda che produceva anche per Benetton. Le loro facce non le abbiamo mai viste negli spot umanitari di Benetton, così come non vedremo nessuna maglietta rossa, nessun cappellino rosso sponsorizzato da Benetton o promosso da Toscani per le vittime di Genova. A questo si aggiunge per la Benetton l’affarone di gestire prima gli Autogrill e poi interamente le Autostrade, dopo che lo Stato italiano ha investito per decenni miliardi per far nascere la rete autostradale. Un «regalo» del pubblico al privato, come succede solo in Italia. Il capitalismo italiano ha sempre avuto questo lato parassitario e rapace: non investe, non rischia di suo ma campa a ridosso del settore pubblico o delle sue commesse. A volte socializza le perdite e privatizza i profitti, come spesso faceva per esempio la Fiat, o piazza i suoi prodotti scartati dal mercato allo Stato, come faceva ad esempio De Benedetti accollando materiali un po’ vecchiotti dell’Olivetti alla pubblica amministrazione. Aziende che si scoprivano nazionaliste quando si trattava di mungere dallo stato italiano e poi si facevano globalità quando si trattava di andarsene all’estero per ragioni di produzione, fisco o costi minori. O si rileva la gestione delle Autostrade come i Benetton e i loro soci, con sontuosi profitti ma poi è tutto da verificare se si siano curati di investire adeguatamente per ammodernare la rete e fare manutenzione efficace. La tragedia di Genova pende come un gigantesco punto interrogativo tra i cavi sospesi sulla città. Di tutto questo, naturalmente, si parla poco nei media italiani, soprattutto nei grandi; non dimentichiamo che Benetton, oltre che importante cliente pubblicitario nei media, è azionista nel gruppo de la Repubblica-L'Espesso-La Stampa, dove si sono incrociati - ma guarda un po’’ - i sullodati Agnelli e De Benedetti. In miniatura, segue lo stesso modello ideologico e d’affari alla Benetton, anche Oscar Farinetti, il patron di Eataly. Il capitalismo nostrano da un verso sostiene battaglie «progressiste» appoggiando forze politiche pendenti a sinistra e finanziando campagne global e antirazziste; poi dall’altro si trova invischiato in storie coloniali di espropriazione delle terre alle popolazioni indigene, di sfruttamento delle risorse e di uomini per produrre a costi minimi e senza sicurezza, ottenendo il massimo profitto. Poi vi chiedete perché in Italia certe opinioni politically correct sono dominanti: si è cementato un blocco tra un ceto ideologico-politico progressista, radical, di sinistra che fornisce il certificato di buona coscienza a un ceto affaristico di capitalisti marpioni. Un ceto che è viceversa adottato, tenuto a libro paga, dal medesimo. In questa saldatura d’interessi si formano i potentati e contro quest’intreccio ha preso piede il populismo. Però alle volte insorge la realtà. Drammaticamente, come è stato il caso di Genova. Dove ci sono da appurare le responsabilità, i gradi e i livelli. Inutile aggiungere che con ogni probabilità non ci sarà un solo colpevole, ci saranno differenti piani di responsabilità, anche a livello di amministratori locali, di governi centrali e ministeri dei Trasporti, che avrebbero dovuto vigilare e imporre alla società Autostrade di spendere di più in sicurezza, pena la decadenza della concessione. Col senno di poi è facile dire che se gli azionisti della società autostrade avessero speso la metà dei loro utili (oltre un miliardo di euro l’anno) per ulteriore manutenzione, sicurezza e rifacimento di strutture a rischio, come era notoriamente il ponte Morandi a Genova, oggi probabilmente non staremmo a piangere i morti e una città stravolta, sventrata. Ma richiamare altre responsabilità non vuol dire buttarla sulla solita prassi del tutti colpevoli nessun condannato; no, ci sono gradi e livelli di responsabilità diversi, e qualcuno dovrà pagare per quel che è successo, ciascuno secondo il suo grado di colpa effettivamente accertata. A questo punto rivedere le concessioni è necessario. Ma non può essere la sola risposta. C’è da ripensare al modello italiano che non funziona più da anni, vive di rendita sul passato e manda in malora il suo patrimonio. Bisogna ripensare alla nostra scassata modernità, al nostro obsoleto repertorio strutturale, vecchio come i capannoni di archeologia industriale e le cattedrali nel deserto che spesso deturpano il nostro paesaggio e ricordano il nostro passato, quando l’industria era il radioso futuro. Un paese che non sa più pensare in grande, investire, intraprendere, far nascere, pensare al futuro. Resistono i ponti dei romani, resistono i ponti di epoca fascista, opere «aere perennius», ma scricchiolano o crollano le opere recenti, perché non c’è stata vera manutenzione, perché c’è stato sovraccarico, o perché furono fatte in origine con materiali inadeguati, con permessi ottenuti in modo obliquo, perché qualcuno vi speculò, e non solo le imprese di costruzione. In tutto questo, purtroppo, la linea grillina del non fare, del tagliare, del risparmiare sulle grandi opere o sui grandi rifacimenti non è una risposta adeguata ai problemi e alle urgenze. Non dimentichiamo che per i grillini fino a ieri era una «favoletta» il rischio di crollo del ponte Morandi di Genova, era solo un modo per mungere soldi; e dunque pur di frenare eventuali corrotti e corruttori, per loro è meglio tenersi strade scassate e ponti insicuri. Intanto è necessario rimettere in discussione il modello imperante, con un residuo di statalismo incapace e impotente, che si accompagna a un capitalismo vorace e parassitario sotto le vesti progressiste e umanitarie, con tutte le sue connivenze politiche denunciate da Di Maio. Quelle aziende che mettevano in cerchio i bambini del mondo, salvo vederli sfruttare nelle aziende del Terzo mondo o espropriare delle loro terre. Quelle aziende che volevano abbattere muri e frontiere nel mondo e nel frattempo crollavano i ponti di casa.
Autostrade, lo choc dei Benetton e la pressione sui manager. Che oggi a Genova chiederanno scusa. I fratelli di Ponzano Veneto e il ruolo di azionisti privati di una società di servizio pubblico, scrive Paola Pica il 17 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". Le parole sono importanti e lo è anche il silenzio. Nella famiglia Benetton misurare le parole è consuetudine, quasi legge. E chi da sempre frequenta i fratelli trevigiani fondatori dell’impero che dai maglioni colorati ha allargato gli interessi fino alle infrastrutture e alle autostrade spiega anche così la ritrosia di queste ore. Ma dopo una tragedia come quella di Genova non è più tempo di aspettare. Quali che siano i risultati dell’inchiesta e le decisioni del governo, a Treviso si dispone per «tutto ciò che è possibile fare». La pressione su Autostrade è massima, tanto che già oggi i vertici della società potrebbero annunciare un «grande piano» di ricostruzione della città, della sua viabilità e di assistenza alle famiglie sfollate e in difficoltà. L’amministratore delegato Giovanni Castellucci e il presidente Fabio Cerchiai sono attesi questa mattina a Genova per una comunicazioni prevista dopo i funerali delle vittime del crollo del Ponte sulla A10. Su richiesta di Edizione — la holding della famiglia Benetton che attraverso Sintonia controlla il 30% di Atlantia-Autostrade a fianco di grandi investitori istituzionali internazionali come il fondo sovrano di Singapore e il colosso bancario Hsbc — il piano di risarcimento alla città di Genova e al Paese dovrebbe seguire un percorso autonomo, sganciato dal contenzioso e dall’inchiesta giudiziaria. Nell’entourage di Ponzano Veneto, qualcuno si spinge a ipotizzare che i fratelli Benetton siano pronti anche a perdere Autostrade e dunque un settore per loro finora strategico. Dopo il disastro, niente tornerà come prima nemmeno nella vita di questa famiglia imprenditoriale. Queste sono tragedie, viene osservato, che cambiano il capitalismo. A Treviso, nella casa dove vive Gilberto Benetton, 77 anni, numero uno di Edizione, lo choc del 14 agosto viene descritto come fortissimo. Le notizie in arrivo da Genova sono sempre più drammatiche, il nome degli azionisti esposto al quasi linciaggio sui social network. Anche il governo attacca. Gilberto è in contatto continuo con i fratelli Giuliana, 81 anni e Luciano, 83. La famiglia — in lutto per la perdita di Carlo, il fratello più giovane stroncato da un tumore lo scorso luglio a 77 anni, e del marito di Giuliana, Fioravante Bertagnin morto in febbraio a 86 anni — si riunisce con alcuni dei figli e dei nipoti nelle ore successive. La grande tribù che si compone di 11 figli — i quattro di Luciano, Mauro, Alessandro, Rossella e Rocco; le due figlie di Gilberto, Barbara e Sabrina; i quattro di Giuliana, Paola, Franca, Daniela e Carlo; i quattro di Carlo, Massimo, Andrea, Christian e Leone — e numerosi nipoti è consegnata al silenzio. Anche se la volontà di muoversi e spingere Autostrade al cambio di passo è unanime. La società operativa che in prima battuta è chiamata a dare risposte ai cittadini, alle istituzioni, alla politica e al mercato, si trincera dietro un incomprensibile linguaggio tecnico, finendo per esporre ancor più gli azionisti di controllo che il ministro degli Interni, Matteo Salvini, definisce «senza cuore». Serve allora trovare un modo, un tono e, appunto, parole per dire «gli azionisti ci sono». In un comunicato diffuso all’indomani di Ferragosto, la stessa Edizione e i Benetton si assumono l’impegno di accertare «verità e responsabilità» sulla sciagura genovese. Dei «contenuti» di questa azione risarcitoria si comincia a parlare da questa mattina. Quello che è chiaro è che il futuro di Autostrade, che con l’acquisizione di Abertis puntava a diventare leader mondiale del settore, è adesso indissolubilmente legato alla capacità del suo management di gestire una crisi devastante. In un editoriale apparso ieri sul Financial Times viene osservato come «un’impresa coinvolta in un disastro serio come quello del crollo del ponte di Genova, dovrebbe rispondere in un solo modo: esprimere profondo rammarico, assistere le autorità e le vittime, e lasciare la propria resa dei conti ad un momento successivo. La reazione di Autostrade si concentrava invece «sulle regole contrattuali e le ripercussioni sugli investitori». Vedremo come Castellucci, il manager scelto per succedere a Vito Gamberale nel 2006, saprà riparare il torto. Forse, come anticipano alcune indiscrezioni, chiedendo oggi stesso formalmente e semplicemente scusa. Quanto ai Benetton, resta aperto l’interrogativo sul ruolo che i Benetton hanno scelto di esercitare sin dalla privatizzazione. La responsabilità dell’azionista di riferimento di una società che svolge un servizio pubblico, attività in tutto e per tutto diversa da ogni altra intrapresa a Ponzano Veneto.
Per i top manager arriva la resa dei conti in cda. Ma l'ad Castellucci avrebbe già la fiducia. Ieri riunione a Milano con gli avvocati, scrive "Il Giornale" Sabato 18/08/2018. Il crollo del ponte Morandi farà saltare qualche testa al vertice di Atlantia o della controllata Autostrade per l'Italia? Una risposta potrebbe arrivare dai cda delle due società fissati per settimana prossima: quello di Autostrade per martedì 21 e quello della capogruppo per mercoledì 22. C'è chi non esclude che Giovanni Castellucci, amministratore delegato di entrambe le società rispettivamente dal 2005 e dal 2006, si presenti davanti con in mano le dimissioni. Altre fonti smentiscono questa ipotesi aggiungendo che in ogni caso verrebbero respinte dai soci cui comunque il gruppo Atlantia ha distribuito solo nell'ultimo decennio quasi 7 miliardi di euro di dividendo (e di questi, più di due finiti nelle casse di Ponzano Veneto). Non è atteso, dunque, alcun cambiamento nel top management anche se non si esclude invece una revisione del governo societario. Intanto ieri mattina, secondo quanto riportato dal sito Lettera 43, ci sarebbe stata una riunione a Milano dei top manager Benetton alla quale avrebbero partecipato lo stesso Castellucci insieme al presidente del gruppo Fabio Cerchiai e all'ad di Edizione Holding (la cassaforte dei Benetton), Marco Patuano. Attorno al tavolo, anche il team di avvocati dello studio Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners che ha seguito anche la fusione con Abertis e che sta mettendo a punto le iniziative per gestire le conseguenze della tragedia di Genova (compresi eventuali risarcimenti per vittime e sfollati) e studiare le contromosse sia sul fronte dell'annunciata revoca delle concessioni da parte del governo sia su quello delle indagini in corso da parte della Procura per accerta le eventuali responsabilità del gruppo. Tra l'altro i vertici di Autostrade restano nel mirino dei pm per un altro incidente: ad Avellino si sta infatti celebrando il processo sul bus precipitato per 30 metri da un viadotto dell'autostrada A16 Napoli-Canosa, a Monteforte Irpino, in cui il 28 luglio del 2013 persero la vita 40 persone, che rientravano da una gita a Pietrelcina. Tra i 15 imputati, accusati a vario titolo di omicidio colposo plurimo, disastro colposo e falso in atto pubblico, c'è anche Castellucci assieme ad altri dirigenti della società. Ed è ancora aperta ad Ancona l'indagine sul cedimento di un cavalcavia sulla A14, nel tratto tra Loreto e il capoluogo della Marche, che il 9 marzo dell'anno scorso provocò la morte di una coppia di coniugi e il ferimento di tre operai romeni. Qui è indagata la stessa società, assieme alle ditte appaltatrici, subappaltatrici di progettazione, e sei dei suoi dirigenti e funzionari.
Ponte Morandi, lo strazio di Oliviero Toscani dopo la strage di Genova: "Dovevo essere lì, poi...", scrive il 17 Agosto 2018 "Libero Quotidiano". Il personaggio gradasso e provocatore che è stata la cifra di Oliviero Toscani si è spento davanti alla tragedia del ponte Morandi di Genova. Come riporta il Corriere della sera, il fotografo che ha legato la sua immagine ai Benetton, concessionari anche di quel tratto autostradale sgretolatosi addosso a oltre 38 vittime, ha la voce bassa, dimessa: "Non ho niente da dire, non ho niente da dire". Difficile però anche per Toscani nascondere il dolore per una tragedia così grande, anche se sembra più addolorato per gli attacchi ai Benetton e alla sua persona che per la vittime: "Sono dispiaciuto. Soprattutto per il destino e l'ingiustizia. Sì, il destino e l'ingiustizia. E per tutte le bugie che la gente racconta". Secondo Toscani gli attacchi ai Benetton sono stati eccessivi: "Come se uno volesse speculare sulla vita degli altri. Ma se loro sono persone serissime. Sì, sono sempre seri, hanno sempre fatto le cose al massimo... e lo dico io che ci ho lavorato insieme". Toscani diventa più serio quando svela che in fondo anche lui è uno scampato al disastro: "Ho rischiato di essere lì. Martedì mattina stavo proprio andando in Francia in moto con mio figlio e per fortuna - dice tirando un sospiro - per fortuna, mentre stavo partendo da casa mi ha chiamato un tecnico del mio service, che doveva raggiungermi a casa. E mi ha detto: sono in ritardo. Ho voluto aspettarlo...". Partito più tardi quindi, è stato raggiunto da una chiamata: "Ero a Ferrara: 'Oliviero guarda che è crollato tutto'. Ed era la strada che dovevo fare. Ha capito cosa c'era? È stata una disgrazia, una disgrazia...".
Toscani difende i Benetton: "Italiani popolo di incattiviti". Il fotografo Oliviero Toscani difende i Benetton, proprietari di Autostrade per l'Italia e attacca gli italiani: "Siamo un popolo di infelici, incattiviti", scrive Francesco Curridori, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". "Cos’è questa cattiveria, questo livore?". A chiederlo è Oliviero Toscani che, in un'intervista al Corriere della Sera, difende i Benetton per quanto riguarda le loro responsabilità per il crollo del Ponte Morandi di Genova. "Non sono un tecnico, ma ho sempre sentito che era seguito con dei parametri molto più ampi della media europea", dice il fotografo che attacca i Cinque Stelle: "Parlano i grillini che ne hanno fatte di tutti i colori, che sono contro tutto, contro la Gronda? Siamo un Paese che deve andare dallo psicanalista. Ma ha visto la mia foto che gira". Secondo Toscani prendersela con i Benetton è sbagliato perché "loro sono delle persone serissime" e lo ribadisce più volte: "Sì, sono sempre stati seri, hanno sempre fatto le cose al massimo e lo dico io che ci ho lavorato insieme". Il fotografo si dice dispiaciuto per il crollo del Ponte Morandi ma anche "per tutte le bugie che la gente racconta". Secondo lui il popolo italiano è "frustrato" e "infelice": "Da fotografo e da uomo immagine - aggiunge - posso dire proprio questo: siamo un popolo di infelici, incattiviti. Ce l’abbiamo con la nostra condizione, secondo me è per una colpa nostra. Ma allora prendiamoci a sberle per strada, sarebbe più sano a questo punto. Che popolo cattivo… E non dico solo quello italiano, l’umanità. Ce l’abbiamo con tutti…". Toscani, poi, rivela che, solo per un fortuito ritardo, quella mattina non si è trovato a dover passare per il ponte crollato. Lui, proprio quella mattina avrebbe dovuto percorrere quel viadotto in moto, insieme al figlio per andare in Francia. "Mentre stavo partendo da casa mi ha chiamato un tecnico del mio service, che doveva raggiungermi a casa. E mi ha detto: sono in ritardo. Ho voluto aspettarlo…", racconta e aggiunge: "Grazie a quel ritardo sono partito un’ora e mezza dopo, senno sarei stato là".
Giancarlo Perna per “la Verità” il 24 agosto 2018. Ora sì che Luciano Benetton ha una buona ragione per avere i capelli ritti che finora erano un vezzo: i 43 morti, i molti feriti, i 1.000 sfollati del viadotto genovese crollato. Il maggiore dei fratelli Benetton è il convitato di pietra dell'incredibile vicenda del 14 agosto. È il demiurgo dell'impero di famiglia. Segue passo passo il fattaccio, coordina le mosse della holding e tace. In quale parte del mondo sia, se a casa a Treviso o in navigazione sul Tribù, il panfilo ecologico da 24 milioni di euro, si ignora. Il silenzio fa discutere e passa per indifferenza. Che sia un tipo laconico è fuori discussione. L'ottantatreenne capo clan di Ponzano Veneto è una lingua mozzata dalla nascita. Detesta la mondanità, tanto più in suo onore. Costretto ad andare a Venezia quando Ca' Foscari gli conferì la laurea honoris causa, pareva in preda alle doglie. Rosso in volto per lo sforzo, lesse senza mai alzare gli occhi il discorsetto di circostanza, afferrò l'attestato e fuggì lasciando di stucco il senato accademico. Teme sempre che qualcuno gli chieda favori. Soldi soprattutto, poiché sono in tanti a bussare cassa per affari bislacchi, questue, pure e semplici scrocconerie. Benetton, se non proprio taccagno, è parsimonioso. Non fa beneficenza e se un politico gli ronza attorno ha un modo infallibile per rintuzzarlo. Negli anni Novanta capitò da lui il radicale Marco Pannella, con Emma Bonino al seguito, per spillargli denaro e finanziare una serqua di referendum che gli frullavano in capo. Il magnate ascoltò senza una sillaba, poi disse: «Certo, se ci sono i presupposti, in avvenire si può vedere». E i radicali non si videro più. Nemmeno accetta raccomandazioni di lavoro perché gli uomini vuole sceglierli da sé. E lo sa fare. Quando, dopo il successo cosmico delle magliette colorate, ha voluto mettere le basi della successiva espansione, si buttò sulla Formula 1 (1983). Fu lui a scoprire Flavio Briatore, un cuneese senz' arte, col vizio delle carte da gioco. Gli affidò la scuderia come manager e quello in pochi anni, vinse 2 campionati del mondo e innumerevoli altri premi, lanciando piloti come Michael Schumacher, Giancarlo Fisichella, Jean Alesi, Nelson Piquet. Se a dargli la dritta su Oliviero Toscani fu, nel 1982, lo stilista Elio Fiorucci, a farne una star della fotografia è stato Benetton. L' intesa tra i due si basò sulla provocazione. Lo scopo era lanciare magliette e dare rinomanza mondiale al marchio United colors. Il mezzo fu andare controcorrente, in nome degli alti ideali: pacifismo, antirazzismo, mescolanze, mondialismo. Tutte robe che coi vestiti non c' entravano un baffo ma davano un'idea virtuosa del marchio. Si racconta che nel Sudafrica dell'apartheid con un adesivo Benetton sul parabrezza si potesse lasciare una limousine a Soweto e ritrovarla intatta. L'intesa con Toscani è durata fino al 2000. Poi si è interrotta, per resuscitare nel dicembre 2017. In questa data, Luciano, che da anni si era ritirato delegando la holding a figli e manager, ha ripreso le redini del settore prediletto, la maglieria. In un lustro, c'era stato infatti un tracollo: da 155 milioni di attivo a un passivo di 81. «Si sono dimenticati il colore», è stato il rimprovero di Benetton rientrando in pista. Così, risalito in sella, Toscani ci ripropina adesso le solite foto di ragazzetti di varie razze e sessi vari che si abbracciano e sbaciucchiano nelle T-shirt multicolori. Con queste «bislaccate», Luciano si è accreditato come imprenditore aperto ai valori contemporanei, orientato a sinistra e visionario. Ecco perché, per tornare al ponte crollato, Benetton tace. Non è indifferenza. È l'imbarazzo di chi ha sempre fatto le bucce agli altri e adesso è lui sotto la lente. Tecnicamente, Luciano Benetton è un repubblicano. Su richiesta di Giorgio La Malfa, salito a Ponzano per convincerlo, si presentò alle elezioni del 1992, entrando in Senato. Fu una breve legislatura, durata 2 anni, per Tangentopoli che la mise a sconquasso. A Palazzo Madama Luciano non lasciò traccia, tranne che per la foto adamitica scattata dal solito Toscani che i trevigiani, detestandolo, chiamano: «Maledèto toscan, ziocàn». L'immagine del cinquantottenne desnudo, con le mani pudicamente sulla natura e la scritta United colors apparve sui quotidiani del 26 gennaio 1993. Luciano la buttò sull' ideale, spiegando: «La gente vuole sapere a chi dà il proprio voto. Non dobbiamo nasconderci. È da questa nudità che si deve ricominciare a fare politica». «Alla sua età ci si copre», lo rimbeccò il dc Clemente Mastella. Il liberale, Antonio Patuelli, oggi capo dell'Abi, ironizzò: «Almeno ha fatto qualcosa dopo 8 mesi di vita parlamentare». Da sinistra, Mauro Paissan disse: «Meglio così che vestito da fricchettone invecchiato». Le vendite ebbero un'impennata e Luciano capì quanto era impopolare tra i senatori. Finita la legislatura, non si ricandidò. Un anno dopo si vendicò con gli ex colleghi inseguiti dai pm di Mani pulite, prendendoli per i fondelli. In un'intervista disse: «Vi è andata male in politica? Lasciatela. Sono pronto ad assumere 5 parlamentari disoccupati». Precisò: «Non li destinerò alla cassa. Ma oltre al guardiamacchine, ci sono posto di uscieri, telefonisti, addetti allo spolvero». Non per ripetermi, ma voi capite che quando nella vita ci si comparta da sopracciò, la volta che ti capita il ponte di Genova, ti rintani in attesa che passi. Nel 1993, Benetton ha offerto un lavoro anche a Fidel Castro. Stavolta con affetto sincero. I 2 avevano legato per comunità di vedute all' Avana dove l'imprenditore era andato a inaugurare attività. Pensava che dopo il crollo dell'Urss (1991) Castro sarebbe caduto. E poiché a Ponzano aveva aperto Fabrica, una scuola per giovani teste d' uovo di ogni nazionalità, scrittori, designer, di tutto un po', voleva Castro come docente. «Caro Fidel», gli scrisse, «proprio per la simpatia che ci lega vorrei proporti di venire a lavorare in Italia nel nostro gruppo. Il desiderio sarebbe, caro Fidel, di affidare a te la cattedra di "maestro della rivoluzione". Aspetto urgentemente risposta». Castro declinò e restò all' Avana a fare quello che sapeva: angariare i cubani. È di lombi modesti questo bizzarro miliardario in euro sul cui impero -dal tessile, agli aeroporti; dalle autostrade agli autogrill; dall' agricoltura, alle banche - non tramonta mai il sole. In Patagonia possiede 900.000 ettari che gli indigeni Mapuche gli rinfacciano di avergli sottratto. Il padre, che aveva un negozio di autonoleggio, perse tutto per seguire Mussolini in Africa e morirvi di malaria nel 1945. Moglie e 4 figli, dovettero arrangiarsi. Luciano lasciò gli studi per fare il commesso. La sorella Giuliana era maglierista a cottimo. Di qui, l'idea di uscire dalle tinte funeree dell'epoca e produrre in proprio magliette colorate. Era il 1965 e fu un trionfo. Al top, Benetton sfornava 150 milioni capi l'anno con 6.000 negozi. Oggi, la baracca è in mano ai figli dei fondatori. Luciano ne ha 3 dalla moglie, Teresa. Uno da Marina Salamon che a 17 anni si innamorò di lui che ne aveva 40. Una romantica passione che per poco non finiva drammaticamente. Ora, da lustri, è accasato con Laura, sua storica portavoce. Con questo, abbiamo concluso il periplo di Luciano. Senza però avvistarlo.
I segreti esteri della famiglia Benetton. L'indagine fiscale sui profitti delle autostrade portati in Lussemburgo. E le società offshore con il marchio di famiglia tra Panama e Caraibi. Un’inchiesta dell’Espresso in edicola da domenica 26 agosto svela gli affari riservati del gruppo veneto fuori dall’Italia, scrive Paolo Biondani e Leo Sisti il 24 agosto 2018 su "L'Espresso". Le società offshore con il marchio di famiglia tra Panama e Caraibi. E un'inchiesta fiscale, tenuta riservata, sui profitti autostradali spostati dall'Italia in Lussemburgo. Sono i segreti esteri del gruppo Benetton, rivelati da l'Espresso nel numero in edicola da domenica 26 agosto. Dopo il crollo del ponte di Genova, quando il vicepremier Luigi Di Maio ha accusato gli imprenditori veneti di arricchirsi con i pedaggi e portare i soldi all'estero, il gruppo Benetton ha risposto che è falso: la piramide societaria con cui controlla Autostrade per l'Italia, infatti, è totalmente tricolore e paga le tasse nel nostro Paese. Fino al 2012 però la catena di comando portava all'estero, a una società-capogruppo lussemburghese, la holding Sintonia. Il trasloco dal Lussemburgo all'Italia fu spiegato dall'azienda con motivazioni puramente economiche: «La decisione è maturata a seguito della recessione globale iniziata nel 2008 che non ha consentito alla società di raggiungere l'obiettivo iniziale di attrarre nuovi investitori esteri». Ora però emerge che il rimpatrio di Sintonia è stato l'effetto di un'indagine fiscale. La Guardia di Finanza di Milano ha ipotizzato, come per altri grandi gruppi, un caso di “estero-vestizione”: la holding lussemburghese, secondo l'accusa, era una società di comodo creata per minimizzare le tasse sugli utili prodotti in Italia. I documenti esaminati da l'Espresso mostrano che l'indagine fiscale si è chiusa nel 2012 con una sorta di patteggiamento: il gruppo Benetton ha versato all'Agenzia delle Entrate circa 12 milioni in contanti e si è impegnato, appunto, a trasferire la holding dal Lussemburgo a Milano. In quegli anni, per altro, a tagliare gli utili tassabili era soprattutto il peccato originale delle privatizzazioni all'italiana: anche Autostrade, come Telecom, è stata comprata a debito, attraverso una società-veicolo poi assorbita, con tutto il suo passivo, nella stessa azienda ceduta dallo Stato. Dal 2001 al 2017, quindi, la società italiana ha incassato pedaggi autostradali per oltre 43 miliardi di euro, ma ha bruciato più di 7 miliardi (un sesto di tutti i ricavi lordi) per ripagare i debiti bancari degli acquirenti privati. Dal 2012 comunque il gruppo Benetton, che oggi ha come capofila la società di famiglia Edizione srl, con sede a Ponzano veneto, ha sempre pagato tutte le tasse in Italia. Nelle carte riservate dei paradisi fiscali, rivelate dal consorzio giornalistico Icij di cui fa parte l'Espresso, compaiono però diverse offshore con il marchio Benetton. In particolare ad Aruba, un'isola dei Caraibi sotto sovranità olandese, sono attive da anni società come “United Colors of Aruba NV Benetton”, “Undercolours Aruba”, “Keshet Alliance Nv Benetton” e altre compagnie con azionisti protetti dall'anonimato. Alle domande de L'Espresso, il gruppo Benetton ha risposto che «nessuna delle società elencate appartiene al gruppo Benetton. Si tratta di società costituite in loco dagli agenti, rivenditori o clienti che nei vari paesi acquistano e rivendono la merce con il marchio United Colors of Benetton». Diverso è il caso della Bristol Consulting Corp, creata il 25 settembre 2001 alle Isole Vergini Britanniche dalla filiale svizzera dello studio Mossack Fonseca di Panama: come primo e unico amministratore è registrato Mauro Benetton. La società offshore è stata chiusa tra novembre 2002 e aprile 2003, negli stessi mesi dello scudo fiscale di Berlusconi e Tremonti. L'azienda di Treviso oggi conferma che la Bristol faceva capo a quell'esponente della famiglia, ma precisa che «non ha mai avuto alcun rapporto con il gruppo Benetton».
I Benetton smentiscono Di Maio: "Paghiamo le tasse in Italia, non in Lussemburgo", scrive il 16 agosto 2018 Sergio Rame su "Il Giornale". Nelle ultime ore vi sarebbe stato un giro di telefonate circolate tra gli associati Aiscat, il presidente e il direttore generale Massimo Schintu, in cui è stato ricordato che l’avvocato Giuseppe Conte, prima che diventasse presidente del Consiglio, è stato a lungo consulente legale della stessa Aiscat e della Serenissima, la A4 Brescia-Padova, delle quali aveva difeso con ardore gli interessi di “bottega”. Ma evidentemente tutto cià per il M5S è difficile e duro da ammettere e ricordare. I portavoce della famiglia Benetton affidano all’ AGI – Agenzia Italia la replica al vice premier Luigi Di Maio: “Tutte le tasse relative all’attività svolta da Autostrade per l’Italia vengono pagate in Italia”. Dopo il drammatico crollo di Ponte Morandi a Genova, Di Maio proferendo affermazioni ancora una volta prive di fondamento, aveva accusato Autostrade per l’Italia, società controllata, attraverso Atlantia (quotata in Borsa), sostenendo che la società partecipata dalla famiglia Benetton “incassa i pedaggi più alti d’Europa”, accusandoli di pagare “tasse bassissime, peraltro in Lussemburgo”. Affermazioni queste degne di una querela per diffamazione, se Di Maionon si nascondesse dietro l’immunità parlamentare. Fonti della società Autostrade hanno chiarito che “sia Autostrade per l’Italia che la controllante Atlantia hanno sede in Italia, a Roma, dove pagano le tasse”. I portavoce della famiglia Benetton hanno inoltre precisato che l’azionista di maggioranza di Atlantia è Sintonia spa che possiede il 30,25 per cento e fa capo alla stessa famiglia. Sintonia nasce nel 2009 come società finanziaria lussemburghese controllata dalla holding Edizione, dei Benetton, che “era stata creata in Lussemburgo per fare investimenti esteri attirando anche altri fondi esteri, ma poi è stata riportata in Italia”. L’ultimo bilancio di Edizione, in cui Sintonia risulta ancora nella sua ragione sociale del diritto lussemburghese (SA), è quello del 2011, dove si parla di 37,5 milioni di euro di dividendi (erano 39,5 nel 2010). Successivamente Sintonia nel 2012, cioè 6 anni fa, è stata riportata in Italia trasformandosi in società per azioni di diritto italiano che quindi paga le sue tasse sugli utili al fisco italiano. La “bufala” di Di Maio sul Lussemburgo, potrebbe avere origine nascere dal fatto che già nel bilancio 2009 si dava conto dell’esistenza di una Sintonia spa, “che però si occupava di altro”, e che è esistita per un breve lasso di tempo parallelamente alla Sintonia SA lussemburghese, e che però è andata a sciogliersi con l’operazione di ristrutturazione del gruppo Benetton avvenuta il 1 gennaio 2009. Fino a quel momento la società capogruppo era la Ragione di Gilberto Benetton & C sapa (società in accomandita per azioni) con sede legale e fiscale a Treviso. Edizione Holding spa e Sintonia spa sono state incorporate dal primo gennaio 2009 in Ragione sapa che a sua volta si è trasformata in Edizione srl. Nel frattempo Sintonia SA, a far data dal 27 giugno 2012, viene riportata in Italia, come già detto, e diventa una spa, con sede a Treviso, che paga le tasse in Italia sui propri utili percepiti dai divendi. “Quindi – chiariscono ulteriormente i portavoce della famiglia Benetton – l’azionista di maggioranza di Atlantia (30,25 per cento), che controlla il 100 per cento di Autostrade per l’Italia, è una società di diritto italiano, Sintonia spa, che tramite Edizione srl fa capo alla famiglia Benetton”. La decisione “annunciata” del Governo di voler revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia per la tragedia di Genova ha comportato l’immediata reazione dell’Aiscat (l’Associazione italiana società concessionarie autostrade e trafori) anche se il presidente Fabrizio Palenzona e il vicepresidente Giovanni Castellucci, amministratore delegato di Atlantia, notoriamente non hanno un buon feeling. Secondo quanto riportato dal quotidiano online Lettera43 nelle ultime ore vi sarebbe stato un giro di telefonate circolate tra gli associati, il presidente e il direttore generale di Massimo Schintu, in cui è stato ricordato che l’avvocato Giuseppe Conte, prima che diventasse presidente del Consiglio, è stato a lungo consulente legale della stessa Aiscat e della Serenissima, la A4 Brescia-Padova, delle quali aveva difeso con ardore gli interessi di “bottega”. Ma evidentemente tutto cià per il M5S è difficile e duro da ammettere e ricordare. Il deputato Michele Anzaldi (PD) sulla sua pagina Facebook attacca e scrive: “Di Maio dice di non aver ricevuto soldi da Benetton e accusa Renzi. Matteo Renzi replica di non aver mai preso un soldo e la lista dei finanziatori del Pd gli dà ragione. C’è tuttavia qualcuno che di soldi dal sistema autostradale ne ha presi di sicuro. E quel qualcuno è il premier Conte, che sarebbe stato consulente di Aiscat e legale dell’Autostrada A4. Alla luce di questa circostanza le accuse di Di Maio e dello stesso Conte ad altri partiti sono gravissime. Il premier chiarisca subito quali sono gli attuali rapporti con Aiscat e A4. E la smetta di rilasciare improvvide dichiarazioni sul concessionario: fa correre ai cittadini italiani di far pagare a loro eventuali risarcimenti per danni dovuti alle sue decisioni.”, ha concluso Anzaldi.
Ecco come Autostrade ha usato i 43,7 miliardi dei pedaggi: investimenti, tasse e debiti, scrive il 17 agosto 2018 "Il Corriere del Giorno". Autostrade per l’Italia ha investito 5 miliardi in interventi di manutenzione e 13,6 miliardi per la realizzazione di ampliamenti, migliorie e nuove opere. I costi del lavoro sostenuti nel periodo sono pari a circa 7 miliardi. Pagati 5 miliardi di imposte allo Stato italiano. A fare realmente i conti in tasca alla società Autostrade per l’Italia è necessario andare a spulciare i bilanci della società concessionaria della rete autostradale Italia. La gestione di 27 tratte autostradali italiane per Autostrade per l’Italia ha generato ricavi da pedaggio tra il 2001 e il 2017 per 43,7 miliardi. Le tariffe autostradali vengono riconosciute ai concessionari dallo Stato (la proprietà della rete è pubblica, privata è solo la gestione) per remunerare manutenzione, investimenti e per coprirne i costi. L’accusa che negli anni è arrivata al gruppo è quella di aver beneficiato di extraprofitti garantiti da una convenzione troppo generosa che, tra i vari aspetti, sottostimava le attese di crescita del traffico per riconoscere adeguamenti tariffari più alti. È questo il bilancio degli incassi della gestione della famiglia Benetton (al netto degli altri ricavi come le royalties per le aree di servizio e quant’altro) ottenuti ai giorni nostri, a seguito della privatizzazione della concessionaria autostradale, avvenuta nel 2000. Incassi pagati dagli automobilisti italiani e stranieri che sono transitati con i loro veicoli lungo le principali arterie nazionali del Paese. Nello stesso periodo Autostrade per l’Italia ha però investito 5 miliardi in interventi di manutenzione e 13,6 miliardi per la realizzazione di ampliamenti, migliorie e nuove opere. I costi del lavoro sostenuti nel periodo sono pari a circa 7 miliardi. Il sistema tariffario italiano prevede che nella tariffa entri anche un canone riconosciuto all’Anas (cosiddetto sovrapprezzo) che contribuisce alle sue spese di sostentamento e un onere concessorio al Ministero dell’Economia: nel periodo questi costi sono stati pari a 3,6 miliardi. Singolare l’aspetto che riguarda il canone Anas, istituito quando la società aveva funzioni di ente concedente e di controllo delle concessionarie autostradali, funzioni queste assegnate al Ministero dei Trasporti con le riforme intervenute dopo il 2010, che è comunque rimasto in essere anche adesso che l’ Anas è stata trasferita sotto il controllo delle Ferrovie dello Stato ed è quindi diventato un ramo di azienda di un concorrente, considerando che gestisce 900 chilometri di tratte autostradali. Eliminate queste partite finanziarie che le tariffe sono chiamate a coprire per ripagare oneri, costi e investimenti alla società, dai 43,7 miliardi di utile ne restano soltanto circa 13 di margine: nel periodo preso in considerazione sono stati pagati 5 miliardi di imposte allo Stato italiano. Ne restano poco più di 9 miliardi: sempre nello stesso periodo sono stati pagati circa 7,2 miliardi di oneri finanziari a sostegno del debito, nel quale rientra anche il debito inizialmente contratto per l’acquisto di Autostrade in fase di privatizzazione. I profitti reali di cui la società Autostrade per l’Italia ha portato a casa sono pari a 2,1 miliardi nei 16 anni presi in considerazione: in pratica circa 130 milioni di euro l’anno, di cui buona parte distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi. Al socio di riferimento, la famiglia Benetton, è andato in media il 30% dei dividendi, anche se non tutto è stato distribuito (ci sono ad esempio le quote che vanno alle riserve). In modo sommario si può calcolare che alla famiglia di Ponzano Veneto siano arrivati in 16 anni utili per 600 milioni, cioè una media di circa 40 milioni di euro l’anno. I dati economici-finanziari analizzati sono relativi solo ad una parte dei profitti di Atlantia, che oltre alle 27 tratte di Autostrade per l’Italia ne gestisce altre 5 in Italia. Dopodichè ci sono le varie concessionarie acquistate in Sudamerica; completano il business del gruppo la gestione degli aeroporti di Fiumicino e quello di Nizza in Francia. Il business all’estero sarà esteso con l’acquisizione della spagnola Abertis.
Luciano Benetton, quella maglia gialla fu l’inizio. Finito nel mirino dei 5Stelle, Luciano Benetton è il padre fondatore dell’impero. Tutto ebbe inizio con un maglione giallo e un’intuizione geniale, scrive Paolo Delgado il 17 Agosto 2018, su "Il Dubbio". Per elencare le partecipazioni dell’impero Benetton e riassumerne le peripezie servirebbe un’enciclopedia. Riducendo all’’ osso si può dire che la famiglia trevigiana, attraverso Edizione srl, possiede il 100% di Benetton Group, il 50,1% di Autogrill, il 30,25% di Atlantia che a propria volta detiene il 100% di Aspi, Autostrade per l’Italia, e il 95,2% di Aeroporti di Roma. Non mancano quote di Generali ( 0,94%) e Mediobanca ( 2,16%). I trevigiani non hanno dimenticato la campagna: possiedono il 100% dell’azienda agricola Maccarese e sempre il 100% della Compania de tierras sud argentino, che opera in Patagonia: 900mila ettari di terreno che fanno della famiglia il principale proprietario terriero argentino. Uno zampino nell’edilizia è d’uopo: la holding Edizione Property ha un patrimonio di 112 immobili, valore sul miliardo e mezzo di euro. La raccolta delle presenze nei cda di peso li vede nel gruppo di testa se non primi assoluti: i Benetton campeggiano in ben 125 consigli d’amministrazione. Senza contare le entrate e uscite da Rcs e Pirelli. Re Luciano è stato senatore, per il Partito repubblicano, una sola volta, nella breve legislatura 19921994. Ma come industriale non ha preferenze. Nel 2006 distribuì 150mila euro per uno a tutti i quattro partiti dell’allora Cdl, il centrodestra, e ai tre del centrosinistra. Ci scapparono pure 50mila euro per l’Udeur di Mastella e 20mila (poi restituiti) per l’IdV di Tonino Di Pietro. Il motore di questo impero in via di ampliamento permanente è Luciano Benetton: dal gennaio scorso è tornato, alla bella età di 82 anni, a dirigere Benetton Group, dopo aver lasciato progressivamente il timone, tra il 2003 e il 2013, insieme ai fratelli Gilberto e Carlo e alla sorella Giuliana, alla nuova generazione. Nei primi anni ‘ 60 Luciano sbarcava il lunario da commesso, mentre la sorella lavorava a maglia per un piccolo negozio. Non era una famiglia povera. L’autonoleggio del padre a cavallo tra i ‘ 30 e i ‘ 40 andava alla grande, e senza l’avventura coloniale, nella quale l’uomo si lanciò morendo poi di malaria nel 1945, i quattro Benetton non avrebbero avuto problemi. Il miracolo fu un regalo di Giuliana e Luciano, un maglione giallo, e un’intuizione geniale del destinatario del coloratissimo presente. Di maglioni simili nell’Italia di allora non se ne trovavano. Luciano concluse che, se tutti gli invidiavano il capetto, voleva dire che c’era un mercato già pronto. I fratelli si misero insieme, inizialmente producendosi da soli i variopinti maglioni, con vendita porta a porta affiancata poi da un negozio- bugigattolo a Belluno: 32 colori, tutti squillanti, costo contenutissimo. Tempo un anno e la famiglia apriva un secondo negozio, stavolta a Cortina. Quello fu il trampolino di lancio. All’inizio dei ‘ 70 la produzione di jeans si aggiunse a quella dei maglioni, e l’azienda si lanciò alla conquista dei mercati esteri: a partire da Parigi, negozio aperto già nel 1969 per sfondare a Madison Avenure, New York City, nel 1980. Nel ‘ 74 Benetton acquisiva la Sisley, da affiancare a United Colours of Benetton. Alla fine del decennio il 60% della produzione era venduto all’estero. In realtà, come ricorda Guglielmo Ragozzino, di idee geniali Luciano e i suoi fratelli ne avevano avute due. La prima era la scoperta delle potenzialità dei colori squillanti a basso costo. La seconda, forse ancora più essenziale, era l’individuazione del modo di produzione che permetteva lo smercio a basso costo. I Benetton davano la produzione in appalto a migliaia di famiglie locali, “distribuendolo a domicilio”. E anche così dovevano arrancare per stare dietro alla richiesta crescente. La terza mossa vincente porta la firma di un nome che, pur non essendo della famiglia, è ormai indissolubilmente legato a quello dei Benetton: il fotografo e pubblicitario Oliviero Toscani. Arrivò nel 1982 e lanciò immediatamente un modello di pubblicità sino a quel momento del tutto inedito: non puntava sulla magnificazione del prodotto ma sulla sensibilizzazione sociale, sui temi che a lui, radicale e oggi presidente onorario dell’associazione contro la pena di morte “Nessuno tocchi Caino”, stavano più a cuore. Fu un successone e i tre campionati mondiali vinti da Benetton Formula, guidata da Briatore non guastarono. Negli anni ‘80 i Benetton mollano gli ormeggi e, pur mantenendo l’abbigliamento come core- business, si lanciano in un arrembaggio a tutto campo. A volte gli va bene, a volte meno bene ma la partita delle privatizzazioni si rivela una gallina dalle uova d’oro. Oggi l’azienda ricava il 25% dei profitti dall’abbigliamento, con 5mila negozi sparsi per il mondo, 120 paesi nazione più nazione meno e il resto dalle varie e diversificate attività. Le Autostrade sono una delle più redditizie, con gli utili in costante aumento. Aumento che però non riverberava sui controlli: per quelli, invece, gli investimenti erano in calo.
Come funzionano le concessioni autostradali. Assegnazioni, meccanismi, criticità e revoche: un sistema che funziona male e che è economicamente quasi impossibile da sbloccare, scrive Ilaria Molinari il 16 agosto 2018 su "Panorama". "Toglieremo la concessione della A10 alla società Autostrade". Dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, al ministro per lo sviluppo economico Luigi Di Maio a quello degli interni Matteo Salvini la volontà sembra essere unanime dopo l'immane tragedia che il 14 agosto ha sconvolto Genova e l'Italia intera con il crollo del Viadotto Morandi. Anzi, proprio Di Maio ha dichiarato di aver già avviato la richiesta di revoca della concessione e una multa da 150 milioni di euro, causando un crollo in Borsa del titolo Autostrade che fino alle prime ore del mattino non riusciva a fare prezzo attestandosi a -50%. Eppure la strada non è così semplice. Ma per capirlo bisogna avere chiaro come funzionano le concessioni autostradali.
Il funzionamento. Lo Stato possiede 6.668 km di rete autostradale. In piccola parte la gestisce attraverso l'Anas e altre società pubbliche (infatti su queste strade non si pagano pedaggi), mentre in larga parte la assegna in concessione a società private. Dal 2012 è il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a stipulare le convenzioni con i concessionari. Il funzionamento è semplice: il Governo dà in concessione un tratto stradale consentendo all'ente privato di chiedere un pedaggio per la sua percorrenza in cambio di investimenti e manutenzione sulle strade che siano "coerenti". Ed è il Governo che deve fare queste verifiche periodicamente insieme alla società concessionaria. L'anomalia italiana è che un unico privato ha in concessione circa la metà della rete (compresa la A10) ed è Autostrade per l'Italia, azienda al 100% del gruppo Atlantia la cui quota di maggioranza (30%) è di proprietà della famiglia Benetton attraverso la holding Sintonia. La durata delle concessioni è lunghissima: nel caso di Autostrade fino al 2042.
Più pedaggi meno investimenti. Vi avevamo spiegato già qui perché il business delle concessioni è davvero un affare: nel 2016 (ultimi dati disponibili) le entrate da pedaggi erano aumentate del 4,1% mentre le spese per manutenzione (-7,3%) e investimenti (-23,9%) sono crollate. Non solo: nel 2018 i pedaggi hanno continuato ad aumentare (la media nazionale è del2,7% ma in alcuni tratti si va oltre addirittura al 50%).
Revocare una concessione: tutte le difficoltà. Ora, revocare una concessione non è affatto semplice come vuole far sembrare il Ministro Di Maio. Tutt'altro. Intanto per poter essere applicata deve essere dimostrato in sede giuridica un "dolo grave" del concessionario. Nel caso della tragedia del Ponte Morandi dunque, dovrebbe essere accertato che il dolo di Autostrade per l'Italia è stato tale da causarne il crollo. E su questo aspetto è difficile pensare che un colosso come Autostrade non si sia coperta da eventuali rischi. Tanto da aver dichiarato in una nota: "In relazione all'annuncio dell'avvio della procedura di revoca della concessione, Autostrade per l'Italia si dichiara fiduciosa di poter dimostrare di aver sempre correttamente adempiuto ai propri obblighi di concessionario, nell'ambito del contraddittorio previsto dalle regole contrattuali che si svolgerà nei prossimi mesi. È una fiducia che si fonda sulle attività di monitoraggio e manutenzione svolte sulla base dei migliori standard internazionali. Peraltro non è possibile in questa fase formulare alcuna ipotesi attendibile sulle cause del crollo. Autostrade per l'Italia sta lavorando alacremente alla definizione del progetto di ricostruzione del viadotto, che completerebbe in cinque mesi dalla piena disponibilità delle aree. La società continuerà a collaborare con le istituzioni locali per ridurre il più possibile i disagi causati dal crollo". Le incognite giuridiche sono le più importanti: mancano contestazioni formali precedenti per inadempienze che sembrano essere necessarie e sarà il Governo a dover muovere accuse dettagliate sulle cause del disastro alla società Autostrade con tutte le difficoltà tecniche che questo comporta. Ma c'è di più: revocare una concessione prevede delle penali, pesanti, per lo Stato che, nel caso della A10, sono state stimate intorno ai 15-20 miliardi. Come riportato da ANSA, la convenzione infatti prevede che il concessionario abbia diritto ad "un indennizzo/risarcimento a carico del Concedente in ogni caso di recesso, revoca, risoluzione". L'indennizzo "sarà pari ad un importo corrispondente al valore attuale netto dei ricavi della gestione, prevedibile dalla data del provvedimento di recesso, revoca o risoluzione del rapporto, sino alla scadenza della concessione", nel 2042.
L'indecente segreto di Stato sui contratti di concessione. Gli accordi sulla gestione delle autostrade non possono essere resi pubblici: «Vanno protetti i dati delle società», scrive Angelo Allegri, Venerdì 17/08/2018, su "Il Giornale". Quattro o cinque anni fa la neonata Autorità dei trasporti chiese al ministero delle Infrastrutture i testi dei contratti di concessione autostradale. Sembrava una richiesta di routine e invece i funzionari ministeriali fecero muro: i documenti, spiegarono, contengono dati delicati per le aziende coinvolte e quindi non possono essere divulgati. Nemmeno all'organismo di controllo. Affermazione sorprendente ma del tutto in linea con quello che era accaduto al momento stesso della creazione dell'Autorità. L'Aiscat, l'associazione dei gestori, era riuscita a ottenere una sostanziale riduzione dei suoi poteri: contrariamente a quello che accade in altri Paesi l'Autorità deve ancora oggi limitarsi alle nuove concessioni, ma non può mettere becco in quelle già firmate, tutte le più importanti compresa quella di Autostrade. Non meraviglia dunque che Phastidio, il sito dell'economista Mario Seminerio, abbia definito le concessioni «un indecente segreto di Stato», più tutelato di quelli militari. In questo caso, però a essere protetta non è la collettività, ma le società che incassano i pedaggi. Il muro di gomma ha fino ad ora sempre tenuto, sventando ogni pericolo; l'esempio più recente risale all'inizio di quest'anno: mantenendo all'apparenza le ripetute promesse di trasparenza, Graziano Delrio, ministro dei trasporti del governo Gentiloni, ha fatto pubblicare su internet i testi incriminati. Peccato però che siano state escluse le parti più importanti, quelle davvero utili per farsi un'idea della sensatezza economica degli accordi. Le concessioni, in tutto una ventina o poco più, sono i contratti con cui lo Stato (attraverso il Ministero delle Infrastrutture) affida a una società la gestione di un tronco autostradale, i rispettivi obblighi e diritti, i ricavi che l'operatore privato ne potrà trarre e gli investimenti a cui si impegna. Nella maggior parte dei casi risalgono alla fine degli anni Novanta, il periodo delle grandi privatizzazioni. Quella di Autostrade per l'Italia, siglata nel 1997, scadeva nel 2038, ma di recente, in cambio dei lavori sulla nuova super tangenziale di Genova, la cosiddetta Gronda, è stata prorogata al 2042. Proprio le proroghe sono uno dei tasti più delicati. La legge europea prevede che una volta scadute, le convenzioni vengano messe a gara, nel nome di una sana competizione. Peccato che in Italia non succeda praticamente mai. Il cavallo di Troia sono di solito i nuovi investimenti: il gestore si impegna a costruire un nuovo tronco, una terza (o quarta corsia), opere considerate indispensabili, e come remunerazione finisce con l'ottenere dal governo un aumento dei pedaggi o una proroga del contratto (talvolta entrambi). Spesso, tra l'altro, l'investimento provoca un aumento del traffico e il gestore ci guadagna due volte. Atlantia dei Benetton (con Autostrade primo gestore italiano) o il gruppo Gavio (secondo) hanno un altro vantaggio: possiedono delle società di costruzioni interne a cui, almeno in parte, affidano i lavori. L'incasso tende così a triplicarsi. Uno dei dominus del sistema è Fabrizio Palenzona, tra i più formidabili uomini di potere dell'Italia degli ultimi decenni. Ai tempi della prima Repubblica era già un democristiano in carriera (è stato sindaco di Tortona e presidente della provincia di Alessandria). Poi è diventato banchiere (vicepresidente di Unicredit) e proconsole dei Benetton nel settore infrastrutture. In questa veste è presidente di Aiscat (come detto l'associazione dei gestori autostradali) e di Assoaeroporti (i Benetton controllano lo scalo di Fiumicino). La famiglia di Ponzano Veneto, oggi in difficoltà di fronte all'accanita competizione nel settore dei maglioncini (dove da anni perde soldi) è entrata nel più redditizio comparto dei servizi in concessione già dalla prima privatizzazione nel 1998. Più o meno nello stesso periodo sono entrati i Gavio. Le società della famiglia di Tortona sono state coinvolte qualche anno fa in una grottesca vicenda che rende bene la scarsa trasparenza del settore. La cosiddetta legge sblocca Italia del 2015 prevedeva a loro vantaggio la solita proroga (con relativi incassi) in cambio di lavori per 10 miliardi. Arrivata a Bruxelles la norma fu bocciata tra mille imbarazzi: i «nuovi» lavori, dissero i funzionari Ue, sono gli stessi che ci avete presentato negli anni precedenti. Quante volte volete farveli pagare?
Carta igienica nel water, scrive il 16 agosto 2018 Emilio Tommasini su "Il Giornale". E pensare che tutti noi scrutavamo l’orizzonte in cerca di qualche crisi che si profilasse da lontano: la Turchia l’avevamo scampata bella e pensavamo … chissà da dove il mostro ci attaccherà da qui alla fine di agosto. E il mostro ha attaccato da Genova.
Ha attaccato con le azioni Atlantia. Non è stato il collasso del ponte e le povere vittime. Siamo stati noi, noi italiani a fare il resto, con le azioni Atlantia. Guardiamo l’affaire di queste azioni Atlantia dall’alto. Facciamo finta che io sia Emilek Chianka Shaik Tomaselik, sultano dei sultani, principe dei principi del Golfo Persico, e facciamo che io in questa vicenda compaia però come investitore di un misterioso paese del Golfo Persico e ho comprato delle azioni di Atlantia già da diversi anni. Me ne sto tranquillo su mio yatch a Cannes e apprendo dal telefonino che un ponte di una autostrada in concessione ad Atlantia è crollato. Siccome conosco da tempo i Benetton, da quando ancora facevano gli imprenditori veri producendo e vendendo maglioni, io me ne sto tranquillo, so che le autostrade in Italia sono una mucca da mungere e quindi il latte cola copioso nelle mie tasche (leggi i dividendi dalle azioni Atlantia). Addirittura ho letto non so su qualche sito un articolo di un tizio buffo con il papillon che sostiene di insegnare Finanza Aziendale all’Università di Bologna il quale ha scritto che con la sua nuova macchina bifuel ad andare al mare paga 20 euro di autostrade e solo 13 euro di metano. Della serie se non è la follia questo per un consumatore italiano non so quale altra follia ci possa essere in giro in tutto il mondo. E io sono quello che prendo quei 20 euro dal tizio buffo perché possiedo azioni Atlantia. Quindi io non sono io felice? Non sono tranquillo? Non mi godo la vita di socio di Atlantia qui a Cannes con il mio yatch e le mie 10 fotomodelle? Giusto per stare nel sicuro chiamo al cellulare il mio amico Benetton e lui mi rassicura: dovesse succedere qualcosa il governo italiano dovrebbe pagare un mare di soldi ad Atlantia, una cifra che mi pare di aver capito (non ricordo bene perché c’era il rumore del vento e delle onde) che fosse pari a 20 miliardi. Poi nel giro di 24 ore invece apprendo che: Il primo ministro italiano che di mestiere sembra faccia il professore di diritto e peggio anche l’avvocato di diritto amministrativo dichiara che il governo ritirerà la concessione ai Benetton. I Benetton dicono che se gli ritirano la concessione vogliono la grana come da contratto. Il vicepremier che mi dicono essere un ragazzino di Napoli di soli 30 anni che non ha mai lavorato in vita sua gli risponde che la grana no e poi no e che faranno una legge per non dargliela (e dire che mi avevano già detto che a Napoli spesso fanno cose simili con i motorini … lo chiamano “cavallo”….ma non pensavo anche con le azioni Atlantia degli investitori esteri). Io sono Emilek Chianka Shaik Tomaselik, principe dei principi, regno da sovrano assoluto e gli oppositori li faccio annegare nella mia piscina mentre mi sorseggio un aperitivo (spritz ???). Però una cosa ho imparato: che io debbo investire su quei paesi dove IL DIRITTO viene rispettato, non è CARTA IGIENICA ARROTOLATA NEL WATER. Nella mia testa di investitore io ho dato i soldi in cambio di azioni Atlantia perché Atlantia aveva un contratto scritto in cui se gli toglievano la concessione le davano 20 miliardi. Per questo ho investito. Io capisco il dramma di Genova e sono solidale con le vittime ma come investitore io voglio i miei soldi indietro perché qualcuno mi ha ingannato quando ho comprato le azioni Atlantia. E chi è questo qualcuno? Non vogliamo entrare nella polemica di chi come dove quando e in punta di diritto e l’articolo 25 del decreto legislativo e il combinato disposto tra la rava e la fava come fanno gli italiani, che quando fanno così sono peggio di noi arabi quando compriamo tappeti. Io voglio i miei soldi indietro perché io ho investito i miei soldi nelle azioni Atlantia in base ad un accordo che esisteva tra il Governo Italiano e Atlantia. Non voglio entrare nel merito dei dettagli di questo accordo, se chi l’ha firmato per conto del Governo Italiano deve essere oggi spellato vivo (così almeno faccio io principe dei principi nel mio regno in riva al Golfo Persico con i miei burocrati che sbagliano) o se invece sono semplicemente stati bravi quelli di Atlantia (io regalo cammelli o fotomodelle ai miei dipendenti che fanno cose giuste, di solito scelgono cammelli). Non lo voglio sapere. Io contesto che uno dei due contraenti era anche chi faceva banco e mentre il giocatore giocava con il banco il banco ha cambiato le regole. Era nella facoltà del banco cambiare le regole in corso? Non lo so. Io so che io principe Emilek Chianka Shaik Tomaselik, re dei re, sultano dei sultani, i miei soldi a questi truffatori degli italiani non glielo darò mai più. Mai più. E non capisco come il capo del governo non si renda conto che se l’Italia risparmia i 20 miliardi che doveva ad Atlantia ne ha persi 1000 di miliardi perché nessuno dei miei amichetti qui a Cannes con gli yatch e le fotomodelle vorrà mai più farsi truffare in questo modo. Capito?
Jacopo Orsini per “il Messaggero” il 21 agosto 2018. Lo spauracchio della nazionalizzazione incombe su Atlantia, la società della famiglia Benetton che controlla Autostrade per l'Italia. Ma anche sui piccoli investitori che hanno comprato azioni e obbligazioni della società. Il crollo del ponte Morandi a Genova ha spinto il governo ad avviare una procedura formale per revocare la concessione al gruppo e ad evocare anche la nazionalizzazione. Un’ipotesi che al solo paventarla ovviamente spaventa gli investitori, grandi e piccoli. Tanto che ieri sui titoli Atlantia, nonostante i già pesanti crolli della scorsa settimana, si è scatenata fin dall' avvio degli scambi una ondata di vendite, frenata poi nel pomeriggio dalle dichiarazioni più prudenti del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti, decisamente perplesso dall' ipotesi di riportare in mano allo Stato la gestione delle Autostrade. «Prima di nazionalizzare - ha avvertito infatti Giorgetti - bisogna revocare, se si arriverà alla fine della procedura». Parole che sono sembrate una frenata rispetto a quelle del ministro dell'Interno, Matteo Salvini. «Stiamo studiando e lavorando, sicuramente non faremo i regali fatti in passato, quando qualcuno ha firmato provvedimenti che hanno fatto guadagnare miliardi ai privati e pagare miliardi agli italiani», aveva risposto infatti il vice premier a una domanda sull' ipotesi di nazionalizzare Autostrade ventilata qualche ora prima dal titolare delle Infrastrutture, Danilo Toninelli. Il mercato ha colto subito il cambio di tono del sottosegretario leghista, che rappresenta da sempre l'ala più pragmatica del governo giallo-verde, e Atlantia nell' ultima parte della seduta ha dimezzato le perdite chiudendo con un calo del 4,6% a 18,43 euro. La capitalizzazione della società è comunque scesa di altri 639 milioni a 15,34 miliardi. Lunedì scorso, il giorno prima del crollo del ponte, il titolo aveva chiuso a 24,88 euro e la società valeva 20,5 miliardi. Sono circa 50 mila i piccoli azionisti della holding cui fa capo Autostrade che in caso di ritorno della gestione allo Stato rischierebbero di trovarsi con un pugno di mosche in mano, secondo le stime della stessa società. Con la conseguente raffica di class action che sicuramente partirebbe. Azioni peraltro già annunciate dagli Stati Uniti dallo studio legale Bronstein, Gewirtz & Grossman, che «sta esaminando potenziali rivendicazioni per conto di acquirenti di Atlantia». Per avere un termine di paragone del caos che potrebbe crearsi basti dire che i soci minori di Atlantia sono più del triplo dei 15 mila rimborsati dal Fondo di solidarietà per i crac di Banca Etruria, Banca Marche e delle casse di Ferrara e Chieti. Fra l'altro, l'ipotesi di riportare sotto l'ala del governo la rete privatizzata venti anni si fonda su un equivoco, visto che la proprietà è già dello Stato mentre è la gestione che viene data in concessione ed è questa che eventualmente tornerebbe sotto l'ombrello pubblico. Un' ipotesi che, se attuata nelle forme ventilate, potrebbe innescare sui mercati una nuova crisi di sfiducia sull' Italia, allontanando ulteriormente gli investitori stranieri dalla Penisola. Con il rischio che la tempesta sui mercati paventata da Giorgetti possa scatenarsi fin da subito. E tutto questo senza contare i costi, stimati in oltre 15 miliardi, che una revoca delle concessione potrebbe comportare per lo Stato. Va però detto che il ritorno sotto l'egida pubblica della rete autostradale non sarebbe un'eccezione in Europa: la Spagna è il caso più eclatante. Di sicuro per ora sul mercato prevalgono i timori. La situazione «resta molto confusa», dicevano ieri nelle sale operative. «La revoca sarebbe molto costosa e il know-how di Atlantia è difficile da rimpiazzare, siamo nel caos - affermano gli analisti di Kepler Cheuvreux -. Senza concessione e senza compensazione il valore del titolo finirebbe a zero».
Dieci i ponti crollati in 5 anni: in calo la manutenzione e gli investimenti. Solo dal 2013 ad oggi è lunga la scia degli incidenti, quasi sempre mortali: le strutture sono vecchie, il calcestruzzo è corroso e i fondi stanziati sono esigui rispetto ai ricavi, scrive Ferruccio Pinotti il 15 agosto 2018 su "Il Corriere della Sera". Una lunga scia di crolli e di morti. È quella che caratterizza la storia recente dei ponti stradali e autostradali italiani. Solo negli ultimi 5 anni, cioé dal 2013, i casi di ponti crollati in Italia sono stati ben 10. Qual è la causa di questi continui crolli? La mancanza di investimenti nella sostituzione di strutture ormai obsolete e di una manutenzione adeguata. Il Ponte Morandi, che fin da subito presentava diversi aspetti problematici, aveva ben 51 anni. In questa e molte altre realtà c’è poi il problema dei materiali: il cemento armato, o meglio, il calcestruzzo armato. Un materiale inventato nell’800 e di cui non si conosce l’effettiva durata. Sono trascorsi troppi pochi decenni per stabilire se sia un materiale valido o “eterno”, come si riteneva in passato: a quanto pare, non è così. Molti ponti «moderni» sono costruiti in calcestruzzo armato, una miscela di cemento, acqua, sabbia e ghiaia che viene appunto «armata» con sbarre di ferro e acciaio. Ma questi materiali sono oggetto di usura e sono facilmente indeboliti dall’azione dell’acqua nei punti più deboli. Senza contare un’aggravante da non sottovalutare: in Italia vige una lunga tradizione di lavori «al risparmio» in termini di tempo e denaro. E a differenza di Paesi come la Svizzera dove una struttura che ha un certo numero di decenni viene abbattuta e ricostruita prima che crolli, in Italia prevale la logica della «conservazione», anche se si tratta di infrastrutture e non di monumenti storici.
I soldi spesi nella sicurezza. C’è poi il problema degli investimenti e della manutenzione. Come già evidenziava un’inchiesta del Corriere della Sera («Perché le autostrade italiane sono le più care d’Europa» di Milena Gabanelli e Ferruccio Pinotti, 11 giugno 2018) nonostante gli enormi ricavi delle società di gestione delle concessioni autostradali (7 miliardi di euro: l’83% dei ricavi arriva dai pedaggi), il valore degli investimenti complessivi è sceso del 23,9% e anche la spesa per le manutenzioni è calata del 7,5% (dati 2016 su 2015, ultimi disponibili). Il nodo è che il sistema è caratterizzato da un duopolio che opera senza gare europee e al di fuori della concorrenza prevista dalle direttive comunitarie. Quasi il 70% della gestione dei circa 7.000 km di autostrade se lo spartiscono da anni due gruppi: si tratta del Gruppo Atlantia (Benetton), che controlla Autostrade per l’Italia e che gestisce oltre 3.000 chilometri, e del Gruppo Gavio, che gestisce oltre 1.200 chilometri. Insieme coprono i tre quarti circa del mercato. Gli altri 1.650 chilometri sono gestiti da società controllate da enti pubblici locali e da alcuni concessionari minori. Il Ponte Morandi fa parte di uno dei tratti gestiti da Autostrade per l’Italia (Atlantia, gruppo Benetton), che infatti ha accusato una pesante perdita in Borsa. La società ha dichiarato: «Sulla struttura erano in corso lavori di consolidamento della soletta del viadotto ed era stato installato un carro-ponte per consentire lo svolgimento delle attività di manutenzione. I lavori e lo stato del viadotto erano sottoposti a costante attività di osservazione e vigilanza da parte della Direzione di Tronco di Genova. Le cause del crollo saranno oggetto di approfondita analisi non appena sarà possibile accedere in sicurezza ai luoghi». Ma al di là del singolo episodio restano, i problemi strutturali. I precedenti:
6 agosto 2018. A seguito dell’esplosione di un’autocisterna di Gpl, crolla il viadotto-ponte dell’autostrada del raccordo di Casalecchio A1-A14. Un morto e 145 feriti.
9 marzo 2017. Il crollo del cavalcavia sull’A14 fra Loreto e Ancona provoca due morti e due feriti, coinvolgendo le automobili sottostanti.
18 aprile 2017. Crolla un viadotto della tangenziale di Fossano, in provincia di Cuneo. La struttura era stata realizzata negli anni Novanta e inaugurata nel 2000. Solo per un caso non ci sono state vittime: sopra non stava passando nessuno.
23 gennaio 2017. Crolla un ponte in Calabria, il Fiumara Allaro, fortunatamente non c’è nessuna vittima.
28 ottobre 2016. Crolla il cavalcavia di Annone, in provincia di Lecco, che passa sopra la “Valassina”, la SS 36 che collega Milano all’alta Brianza. Il ponte cede a causa del passaggio di un tir da oltre 108 tonnellate che trasporta bobine di acciaio: schiaccia l’Audi di Claudio Bertini, 68 anni, che perde la vita.
10 aprile 2015. A causa di una frana provocata dal maltempo, crolla un pilone del viadotto Himera sull’Autostrada A19 Palermo-Catania. Non vi furono feriti.
25 dicembre 2014. Cede il viadotto Scorciavacche sulla statale Palermo-Agrigento. Era stato inaugurato il 23 dicembre. Questo incidente non ha coinvolto automezzi e non ha causato danni alle persone.
7 luglio 2014. Crolla un tratto del viadotto Petrulla, sulla strada statale 626 tra Ravanusa e Licata, in provincia di Agrigento. Quattro persone, tra le quali una donna incinta, rimangono lievemente ferite.
18 novembre 2013. In Sardegna si abbatte una forte alluvione che provoca il crollo di un ponte sulla strada provinciale Oliena-Dorgali. Un agente di polizia muore e tre suoi colleghi restano feriti.
22 ottobre 2013. A causa di un nubifragio, nella notte tra il crolla il ponte a Carasco, in Liguria, sul torrente Strula. Le vittime sono due.
Ponte Morandi a Genova: i ritardi della burocrazia mentre già era a rischio. Dal 1981 — quando arrivò l’sos inascoltato dell’ingegner Morandi — al 2015, con le pastoie del ministero. Così si è arrivati alla tragedia del 14 agosto con 43 morti, famiglie con bambini, turisti, camionisti, scrivono Cesare Giuzzi e Andrea Pasqualetto il 4 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". «Bisogna consolidare il ponte», disse nel 2015 il dottor Mario Bergamo di Autostrade ai progettisti, sulla base dei risultati dei monitoraggi fatti sul Morandi. Quattro anni dopo, in attesa del consolidamento, quel ponte è crollato e sotto le sue macerie, lo scorso 14 agosto, sono rimasti in 43. . Tutta gente in viaggio, chi per vacanza, chi per lavoro. Un disastro e, naturalmente, un’inchiesta giudiziaria. Che, escluse le ipotesi accidentali e il dolo, si sta focalizzando sul cedimento strutturale e su chi poteva decidere qualcosa: dirigenti, funzionari, manager, tecnici. La Guardia di Finanza ne ha individuati una trentina, la Procura di Genova intende stringere il cerchio a una lista di nomi da iscrivere presto nel registro degli indagati, come ha fatto capire il procuratore Francesco Cozzi. Appartengono tutti ai colossi che si dividono mezza Italia autostradale: il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Mit) e Autostrade per l’Italia del gruppo Benetton, pubblico e privato, proprietario e gestore. E già si profila uno scontro fra i due, con Autostrade che appare più forte, più strutturata, con più uomini, mezzi e denari; e il ministero che ne esce invece fiacco, senza risorse e perciò lento, indebolito forse anche dalla politica che ha cambiato colore. Per esempio, da qualche giorno Autostrade ha iniziato a difendersi con energia; il Mit, invece, tace. Abbiamo riavvolto il nastro di questa storia cercando di ricostruire, sulla base dei documenti finora emersi, i retroscena del ponte con gli stralli in acciaio avvolti nel cemento che portava il nome del suo creatore, l’ingegner Riccardo Morandi. L’aspetto era quello affascinante di Brooklyn, la sostanza no (qui, lo scontro tra il governatore Toti e il ministro Di Maio sugli aiuti agli sfollati). «La struttura ha subito un deterioramento più rapido del previsto che ne pregiudica la stabilità e la sicurezza, gli stralli del pilone 9 (quello crollato, ndr) presentano infrazioni trasversali». Era il 1981, 14 anni dopo l’inaugurazione. Un sos rimasto inascoltato fino al 2015, quando Autostrade per l’Italia, controllata dalla famiglia Benetton, decide che è giunto il momento di intervenire seriamente con un’opera di rinforzo complessiva. Bergamo, predecessore di Michele Donferri Mitelli alla Dirigenza della manutenzione del concessionario, si affida ad una società di famiglia: la Spea del gruppo Atlantia che per Autostrade cura la sorveglianza e la progettazione. Non quattro gatti: «750 dipendenti in giro per il mondo», precisa il suo presidente Paolo Costa, ministro dei Lavori pubblici del governo Prodi. Spea deve dunque partorire il progetto stralli, del quale si occuperanno il direttore tecnico Massimo Giacobbi e il suo collega Emanuele De Angelis. L’incarico è datato 24 giugno 2015. Prima ancora che si inizi a visitare il malato, Autostrade affida a una società esterna, la Ismes del gruppo Cesi, una consulenza per «l’analisi della documentazione sul ponte». Ismes consegna i risultati fra gennaio e maggio 2016: «Aumentare le ispezioni e implementare un monitoraggio continuo della struttura». Gli ingegneri di Spea concludono il progetto di rinforzo, tecnicamente retrofitting strutturale, oltre due anni dopo, alla fine di settembre del 2017. «Troppo tempo?», si chiedono gli inquirenti. Se nel 2014 c’erano stati segnali tali da indurre Bergamo a intervenire, perché aspettare due anni? È un autunno frenetico, quello dello scorso anno. Anche Spea chiede conforto all’esterno e sceglie il Politecnico di Milano che risponde il 25 ottobre: «Stralli deformati del pilone 9, si consiglia monitoraggio continuo prima, durante e dopo l’intervento». Ma quei sensori non verranno mai montati. Anche perché tutti invitano a monitorare ma nessuno lancia mai un chiaro allarme e questo esclude un intervento d’urgenza, il solo sul quale si poteva attivare il direttore del Tronco di Genova, Stefano Marigliani, per limitare il traffico sul ponte. Il 12 ottobre il cda di Autostrade vota il progetto e il 31 dello stesso mese chiede al ministero l’approvazione. E qui seguiranno quasi otto mesi per ottenere il decreto ministeriale, firmato da Vincenzo Cinelli l’11 giugno. «Il termine previsto dalla convenzione è di 90 giorni, il ritardo è stato di quasi cinque mesi», sospirano oggi quelli di Autostrade. Nessun progetto viene mai approvato nei tempi: ma mediamente sono 100 i giorni di sconfinamento. In questo caso 150. Il documento s’infila nelle pastoie burocratiche ministeriali. Che emergono con chiarezza dallo scambio di lettere fra Autostrade, Provveditorato e Mit, sequestrate dagli inquirenti. Due decreti che trasferiscono agli uffici locali le competenze per i progetti sotto i 50 milioni, uniti a una regoletta imposta da Mauro Coletta del Mit, che chiedeva la convergenza nel suo ufficio di tante richieste, generano il caos. Il provveditore ligure Roberto Ferrazza (il primo febbraio 2018 dà parere favorevole al progetto) lamenta «scarsità di ingegneri», di «competenza tecnica» e assenza di flussi informativi. Donferri prende a sollecitare il ministero: l’assenza di «interlocuzione dirette con i provveditorati comporta ritardi». Anche Cinelli ammette il «dilatamento dei tempi». Mentre il ponte Morandi è lì, ad aspettare una stampella che non arriverà mai.
Disastro di Genova: il ponte del Titanic Italia. Per il governo la tragedia è diventata l'occasione per fare propaganda, individuando i colpevoli ancor prima che l'inchiesta cominciasse, scrive Raffaele Leone il 24 agosto 2018 su "Panorama". Se un giornalista di Panorama per superficialità scrivesse una cosa falsa su un cittadino e questo si uccidesse per quella falsità, tenderei a cacciare il giornalista. Poi mi dimetterei anch'io. Mi accollerei la mia parte di responsabilità perchè l'autore dell'articolo fa capo a me. Un morto per un errore giornalistico è troppo per poterlo ripagare soltanto con scuse tardive e un assegno di risarcimento ai familiari. A Genova i morti sono stati quarantatré. Io non conosco i Benetton né i vertici di Autostrade per l'Italia anche se l'azienda ci ha affiancato nel Tour di Panorama d'Italia e ho incontrato il responsabile delle relazioni esterne. La ritengo una collaborazione indovinata e positiva, ma una collaborazione indovinata e positiva non mi impedisce di dire che se dovesse accertarsi che il crollo del ponte è colpa di tecnici e di manager dell'azienda, mi aspetterei le dimissioni di tutti i vertici (la revoca della concessione a quel punto andrebbe probabilmente da sé). Mi aspetterei poi dal giudice una condanna severa nei confronti dei responsabili anche se leggo che il massimo della pena è di cinque anni. Cinque anni per quarantatré morti? Inconcepibile. Come trovo inconcepibile che nel 2018 in Italia una colonna di auto venga inghiottita dal cedimento di un cavalcavia. L'inchiesta e il processo siano accuratissimi senza guardare in faccia nessuno. Confido che i magistrati riescano nell'impresa. Ecco, appunto: i magistrati. Vedere il Tribunale del populismo (con Conte presidente e Di Maio, Salvini, Toninelli giudici a latere), correre a Genova e svolgere il processo davanti alle macerie per direttissima tv, mi ha lasciato interdetto. La strage ha un unico colpevole, gli altri partiti complici, loro autoassolti. Il caso è chiuso. Io non difendo i Benetton (se dovessero risentirsi per questo, pazienza), Autostrade era certo responsabile della sicurezza del ponte, ma se si stravolgono regole basilari nella divisione dei poteri, sul ciglio del baratro non ci sarà soltanto quel camion-simbolo di Genova ma ci finiremo tutti. Non mi sono mai piaciuti i giudici che fanno politica con le inchieste, non mi piacciono i politici che emettono sentenze senza processo. Se poi quei politici sono al governo meno che mai. Ci sono irregolarità nella concessione? Si è fatto un regalo ai privati a spese nostre? Si tolga il segreto alle carte e capiremo più di quanto abbiamo fin qui capito (forse). Ci sono casi di corruzione? Si faccia una denuncia penale. Qualora Autostrade avesse disatteso gli accordi non investendo quel che doveva in sicurezza, la si punisca. Ma dare il caso per risolto quando l'inchiesta non è ancora partita, è stato improprio per quanto "popolare". Certo, sembravano tosti quei quattro dell'Ave Maria: "Basta affari sulla vostra pelle", "Con noi giustizia subito", "Tra speculatori e cittadini stiamo coi cittadini". E infatti ai funerali hanno avuto applausi e selfie. Governare con gli slogan, con la pancia e con le piazze urlanti richiede un nemico sempre pronto da giustiziare in pubblico. Chi volete, Gesù o Barabba? Si sa come andò a finire. I grillini, poi. Quei grillini che stanno grillizzando anche il "nordismo" efficiente e imprenditoriale della Lega di Salvini, quei grillini che se c'è da costruire una strada, un gasdotto, una ferrovia vedono il diavolo (ora che sono al potere un po' meno). Che se potessero nazionalizzare l'intera economia lo farebbero domani. Quei grillini hanno accusato di ogni nefandezza chi voleva una bretella che alleggerisse il ponte Morandi e ora vogliono costruirla fingendo di non ricordare. Quei grillini, con Beppe in testa, definivano una "favoletta" il possibile crollo del ponte e dicevano no alla bretella perché "Autostrade per l'Italia ci ha assicurato che il cavalcavia è sicuro". La stessa azienda che ora è il peggio del peggio, veniva interpellata ed era credibile perché allora serviva così. Il ministro per le infrastrutture Toninelli, uno dei giudici togati sotto al pilone, non può essere accusato di omesso controllo perché è lì da poco. Ma lui e il suo movimento, visto che ritengono la concessione ai Benetton (votata anche dai loro soci leghisti) uno scandalo nazionale e una mangiatoia di regime, che cosa hanno fatto durante gli anni di opposizione? Tra le loro campagne No-Tutto si sono mobilitati per la sicurezza delle autostrade? Hanno mai verificato se l'ente ministeriale preposto a controllare i controllori aveva i mezzi per farlo? Hanno denunciato le omissioni dello Stato? O si sono limitati a interpellare la società solo per farsi dire e per ripetere che il ponte era sicuro? Ministro Toninelli, se il tema era così caldo e lo scandalo così evidente, perché in questi cinque mesi non ha aperto subito un'istruttoria, convocato riunioni, preparato un dossier? Va bene chiudere i porti ai taxi di migranti (lì sto con lei) ma migliaia di chilometri di asfalto che tutti percorriamo erano meno prioritari, visto quel che gridate? Non dico che Autostrade e populisti hanno le stesse responsabilità, ovviamente. Dico che siamo un Paese in cui vale solo la verità che ci fa comodo, un Paese passato dagli eccessi di sfumature della Prima Repubblica all'assenza di sfumature della Terza Repubblica. In questi giorni ho letto di tutto, ho trovato pezzi di verità qui è la, come qui e là ho trovato pezzi di bugie. So che nell'Era populista i distinguo, la moderazione, le autocritiche, i dietrofront vanno nascosti, ma non mando il cervello all'ammasso perché così piace alla maggioranza degli elettori. Ora si torna a parlare di Anas. Volete farci credere che se fosse stata l'Anas a gestirlo, quel ponte sarebbe ancora in piedi? Che se le autostrade fossero rimaste allo Stato i controlli avrebbero evitato la tragedia? Suvvia. Io non sono un ingegnere e non voglio gareggiare con le chiacchiere da spiaggia su stralli e calcestruzzo. Leggo per capire. E ho capito che i tecnici titolati invitavano a ulteriori controlli ma nessuno con toni ultimativi. Da tutti gli esperti - anche da quegli stessi che Toninelli sta mandando a Genova - era arrivata una sequela di "consigliamo ulteriori approfondimenti su alcune criticità", "la forza dei tiranti va riducendosi". Chissà per quante opere attualmente agibili sono in uso formule simili. Nessuno che abbia scritto: "Superato il limite di guardia, c'è il rischio di crollo, per noi va chiuso". Tutti Ponzio Pilato o la singolarità della tecnica di costruzione rendeva arduo capire il livello di usura di un tirante coperto dal cemento come quello di Genova? Magari un po' entrambe le cose. I fatti facciamoli ricostruire ai magistrati, istruiscano un processo, eseguano perizie accuratissime, trovino e condannino i responsabili qualora si convincano della loro colpevolezza. Il governo faccia il governo, corregga quelle che ritiene storture nella concessione, renda efficienti i controlli, valuti l'ipotesi di revoca. L'Italia è un Paese maltrattato. Non le servono né gli ipocriti di ieri né quelli di oggi, le servono pianificazione, sviluppo, competenza, senso della realtà. E un bagno di umiltà da parte di chi banalizza la complessità del governare con slogan, mulini a vento e No-Opere. Signori al governo, se la piazza vuole tutto e subito, se chiede un colpevole a prescindere, se esige la Luna, se non vuole né i vaccini, né l'Ilva, né l'Europa, né il gasdotto, né le ferrovie, ditegli che non è possibile, invece di illuderla. O peggio, di aizzarla. Avere la maggioranza degli italiani al vostro fianco è una grande opportunità che va usata bene. Ma opportunità e opportunismo sono cose diverse.
Quando gestisce il pubblico. Lo scandalo Salerno-Reggio. Avviata nel 1961, i 443 km sono costati un patrimonio tra rattoppi e inchieste, scrive Gianpaolo Iacobini, Sabato 25/08/2018, su "Il Giornale". L'autostrada di Stato? Già esiste. E non è un modello che il mondo ci invidia. Il crollo del viadotto Morandi spinge l'Italia sulla strada della nazionalizzazione delle autostrade. Ma per una volta il dibattito può poggiare non solo sui dati empirici propri della politica. Neppure è necessario studiare il Venezuela del duo Chavez-Maduro. Basta guardarsi in casa. Perché nel Belpaese le autostrade statali sono realtà. La rete autostradale nazionale si estende, nel complesso, per circa 6.500 chilometri: di questi 3.020 sono oggetto di concessione in favore di «Autostrade per l'Italia», controllata dai Benetton attraverso «Atlantia spa». E il resto? Diviso tra altri concessionari privati e Anas, le cui quote azionarie dal gennaio 2018 sono nel portafogli della «Ferrovie dello Stato spa», partecipata al 100% dal ministero dell'Economia. Insomma, Stato puro. E proprio Anas detiene una fetta rilevante della rete: 940 km, cui se ne aggiungono altri 364 di raccordi. Si va dal Grande raccordo anulare di Roma (A90, autostrada tangenziale) alla A19 Palermo-Catania, passando per la Salerno-Reggio Calabria, ribattezzata A2 per dissociarne - saggiamente ma sin qui invano - il futuro dal suo passato. Tratte ben note, nell'immaginario collettivo, non certo quali esempi virtuosi: se sul Gra milioni di persone impazziscono nel traffico ogni giorno, la A19 (quella del viadotto Himera, il cui crollo tre anni fa spezzò in due l'Isola) ha una vita travagliata. Mai, però, quanto la ex A3, che sebbene inaugurata in pompa magna nel dicembre del 2016 dal fu premier Paolo Gentiloni, è tutt'altro che completata, a dispetto degli annunci che non sono valsi a chiudere una via crucis cominciata nel 1961, con l'approvazione della progettazione. L'anno dopo l'avvio dei lavori, con Amintore Fanfani che da Palazzo Chigi garantiva: «Entro il 1964 l'opera sarà ultimata». Occorrerà attendere il 1967 per veder entrare in esercizio i primi 125 km, da Salerno a Lagonegro, e il 1974 per poter viaggiare fino a Reggio Calabria: 443 chilometri che costano 368 miliardi di lire, 830.000 lire al metro. Quando arriva il 1987 ci si accorge che le cose non vanno. Al governo c'è il pentapartito guidato da Bettino Craxi: per «lavori di urgenza lungo la A3» (interamente a doppia corsia per senso di marcia e senza corridoio di emergenza) vengono stanziati 1.000 miliardi di lire, che diventano 6.000 nel 1997, con Romano Prodi presidente del consiglio. Nel 1999 il Cipe unifica gli interventi, ma è solo con la Legge Obiettivo del 2001 che si passa alla cantierizzazione. E tra un'inaugurazione e l'altra si giunge al 2016: sulla (si fa per dire) nuova autostrada, che intanto ha cambiato nome e si chiama A2, si dovrebbe viaggiare sicuri. E come sempre gratis. Ma l'assenza di caselli è l'unica certezza: nel giugno del 2017 le Procure di Vibo Valentia e Castrovillari avviano indagini per far luce sulle condizioni di sicurezza della rete in terra calabra. Già un mese prima, nel Reggino, una decina di persone erano finite in manette per presunte frodi nelle pubbliche forniture, in relazione all'ammodernamento della tratta tra Mileto e Rosarno. Non sono le uniche incongruenze: ad una settantina di km di asfalto, i più tortuosi, da Morano a Firmo e da Cosenza ad Altilia, non s'è neppure messo mano, preferendo una robusta manutenzione al loro rifacimento. Lo scorso aprile fa clamore la denuncia del Codacons, che in un esposto lamenta l'esistenza di gallerie non illuminate, segnaletica carente e deviazioni. Anas respinge le accuse: ricorda le ardite opere d'ingegneria per restituire vitalità all'infrastruttura e richiama gli ulteriori investimenti programmati. Sì: perché per l'autostrada nuova di zecca è prevista la spesa di un altro miliardo di euro in 5 anni. Pagano gli italiani. Tutti, non solo quelli in viaggio tra Salerno e Reggio Calabria, una mano sul volante e l'altra a far gli scongiuri: sulla A2 (dati Aci 2016) si verificano in media ogni anno 0,89 incidenti a chilometro, uno dei tassi più alti della rete autostradale. Sul Gra se ne contano 9,94. Oggi, sulle autostrade di Stato, va così.
COSA SUCCEDE A VENEZIA.
STORIA DI ORDINARIA INGIUSTIZIA
Era stato accusato dell’omicidio di un amico, Giovanni De Luca, morto all’ospedale di Mantova nell’agosto 1989. Ventitrè anni con un’accusa pesantissima sulle spalle, cinque anni e quattro mesi passati in carcere, finché nel 2005 un testimone raccontò com’erano andati i fatti e chi era il vero assassino di De Luca, scrive “La Gazzetta di Mantova”.
Sette anni dopo quella testimonianza, solo ora la Corte d’Assise d’Appello di Venezia ha accolto la richiesta di revisione del suo processo, in base alle nuove prove, cioè testimonianze. E si tratta dell'unica revisione concessa dalla Corte in tutto il 2012. Per Raffaello Accordi, 60 anni, di Gazzo Veronese, ora residente a Trevenzuolo (due passi dal nostro confine) la notizia ha rappresentato «la fine di un calvario per me e la mia famiglia».
L’altro ieri Accordi è stato anche uno dei protagonisti della trasmissione televisiva su La7, “Che aria tira”, che ha affrontato il problema della giustizia in Italia. Tra i casi emblematici anche il suo.
Accordi venne accusato dell'omicidio di Giovanni De Luca avvenuta nell'agosto 1989. Da sempre Accordi aveva sostenuto di aver trasportato il ferito che era suo amico, all'ospedale di Mantova dove l'uomo morì poco dopo a causa della coltellata che lo aveva colpito alla gamba. Accordi venne assolto in primo grado ma poi condannato in appello a sette anni e 4 mesi con l'accusa di omicidio preterintenzionale (pena che poi fu diminuita a cinque anni). Pochi anni dopo, nel 2005, i carabinieri di Legnago ricevettero la testimonianza di una delle persone che la sera del 21 agosto del 1989 erano nel capannone di Sanguinetto dove si verificò il pestaggio. E il testimone dichiarò che a prendere De Luca a schiaffi, a dargli una testata e a colpirlo con alcune coltellate fu Antonio Galasso (cugino del super boss della camorra vesuviana, Pasquale, ora pentito) che all'epoca era in soggiorno obbligato a Venera di Sanguinetto. Anche Accordi sapeva che il colpevole era Galasso, era presente al fatto. Ma non ha mai parlato per paura di ritorsioni. Ora Galasso è morto, è stato ucciso nel 2005 da un commando armato mentre usciva di casa.
«Il reo è morto ma la colpa è ancora sulle mie spalle - ci spiega Accordi al telefono - Così quando Gabriele Magno e Claudio De Filippi, i miei avvocati mi ha dato la notizia dell'accoglimento della revisione ho urlato, ho pianto. Spero tanto in questa revisione. Per anni sono stato guardato come quello che aveva ucciso qualcun altro, da 12 anni sono in terapia perchè questa accusa mi ha reso la vita impossibile».
Accordi venne portato in carcere - dove rimase cinque anni e quattro mesi - quindici anni dopo i fatti. «Ero un imprenditore affermato - ci racconta al telefono - Chiaramente ho perso tutto: avevo un autosalone, una pizzeria, una sala biliardo. Ho perso anche la mia compagna». Poi, una volta uscito dalla prigione, Accordi è riuscito lentamente a rifarsi una vita, «ma non a riavere quello che avevo perduto. Me ne sono andato via dall’Italia, ho vissuto dieci anni in Spagna. Da un anno sono tornato a Trevenzuolo». Qui vive con una compagna, una seconda figlia di 8 anni (la grande ne ha 36) e l’anziana mamma, 85 anni, che lui stesso accudisce. «La mia vita non mi verrà ridata - va avanti - ma spero almeno con la revisione del processo di cancellare questa macchia sulla fedina penale, che mi impedisce di poter trovare un lavoro, vivere serenamente. Ieri notte è stata la prima che ho potuto dormire tranquillamente».
VENEZIA MAFIOSA.
"Parlare di mafia in Veneto? Ma se qui la mafia non c'è". Quante volte si è detto e ripetuto: e in Veneto si lavora sodo. Eppure qui sono stati mandati al confino personaggi che hanno contribuito a scrivere alcune delle pagine più importanti della mafia. Qui sono arrivati "Totuccio" Contorno, Salvatore Badalamenti, nipote di quel "Tano" che fece ammazzare Peppino Impastato. Qui Giuseppe Madonia ha potuto condurre i propri business, con la complicità di alcuni imprenditori locali. Ma il Veneto non ha solo importato mafia: l'ha pure creata. In nessun'altra regione italiana, al di fuori di quelle meridionali, è nata un'organizzazione con le caratteristiche del 416 bis. Il Veneto l'ha avuta e l'ha chiamata Mala del Brenta.
Questo è il sunto del libro “A casa nostra. Cinquant’anni di mafia e criminalità in Veneto” di Danilo Guarretta e Monica Zornetta. Il clan Lo Piccolo puntava a Nordest. Aveva messo gli occhi su una serie di operazioni edilizie a Chioggia (Venezia) e nella zona termale di Abano (Padova). Sono gli sviluppi dell'indagine palermitana che, tra l'altro, ha condotto all'arresto dell'avvocato Marcello Trapani, che continuava a tessere le fila per conto dei Lo Piccolo. Obiettivi: mettere le mani sul Palermo calcio e, soprattutto, «diversificare» al Nord.
Ecco l'articolo pubblicato il 25 settembre 2008 su Nuova Venezia, Mattino di Padova e Tribuna di Treviso. La mafia in Veneto. Infiltrazioni: un'emergenza nazionale. Lo si sospettava. Meglio, lo si temeva. Bastava ascoltare gli allarmi lanciati da Roberto Saviano, autore di «Gomorra». O prendere sul serio le analisi del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: «La criminalità organizzata è ormai una realtà anche al Nord. E’ nelle regioni più ricche che cerca la maggiore redditività ai suoi investimenti». Bene, se ce ne fosse stato bisogno, ecco la prova provata: la mafia sta arrivando (è arrivata?) pure nel ricco Nordest. Il clan palermitano dei Lo Piccolo aveva messo gli occhi sulla riqualificazione del porto di Chioggia e puntava ad aggiudicarsi una serie di interventi edilizi nella città lagunare così come nella zona termale di Abano. Affari per diversi milioni di euro, messi in piedi con una rete di collusioni in sede locale. Cosa nostra ha mille vite, come i gatti. E come lo stesso clan dei Lo Piccolo. Salvatore, erede di Bernardo Provenzano, è stato arrestato, insieme con il figlio Sandro, il 5 novembre 2007, dopo 25 anni di latitanza. Qualche giorno prima, per l’esattezza il 25 settembre, aveva fatto in tempo a costituire la società «Petra», quella che appunto doveva operare a Chioggia. Non solo il clan cercava di riorganizzarsi, ma non aveva cessato le mire espansioniste. Per il Nordest è un brutto risveglio. È vero che la mafia del Brenta di Felice Maniero aveva provato a muoversi in collegamento con le famiglie del Sud. Ma sono vicende che si perdono negli anni e nelle cronache. Il tentato sbarco a Chioggia è un segnale forte, mette in evidenza una precisa strategia: la mafia, prima azienda italiana con 90 miliardi di fatturato (più dell’Eni, per intenderci), pari al 7 per cento del Pil (dati contenuti nel rapporto Sos impresa della Confesercenti), segue l’odore dei soldi. E nel Veneto, finalmente avviato a realizzare le grandi infrastrutture, di soldi da qui ai prossimi 10-20 anni ne gireranno parecchi. Qualcuno, se vuole, può continuare a pensare che cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta siano problemi del Mezzogiorno. Di più, il cancro del Mezzogiorno, il vero freno al suo sviluppo, il motivo per cui le regioni meridionali non sono appetibili al capitale privato. Non è così. La mafia è un’emergenza nazionale e come tale va affrontata. Perché la piovra, in epoca di globalizzazione, va a caccia di affari ovunque. Figurarsi se si ferma al Sud. A Varese e in Brianza, di recente, è stato scoperto un traffico di rifiuti tossici, l’ultimo megabusiness della malavita. A Milano si sta discutendo sull’opportunità di creare una commissione che vigili sugli appalti dell’Expo 2015, dopo che la Procura di Busto Arsizio ha aperto un fascicolo sui rischi di infiltrazione mafiosa. Ora la storia di Chioggia. Deve reagire lo Stato, certo. Ma anche per le associazioni degli imprenditori (in primis i costruttori dell’Ance) e dei commercianti è venuto il momento di passare dalle parole ai fatti: bisogna scoprire ed espellere chi ha collusioni mafiose. È la scelta compiuta da Ivan Lo Bello, presidente della Confindustria siciliana. Occorre estenderla a tutte le categorie. E a tutta Italia.
Ma la mafia è anche altro.
Per ora stanno pagando in quattro, scrive “Il Corriere della Sera”, cioè quelli finiti in televisione nel servizio di «Striscia la notizia». Ma lo scandalo della «cresta» sui biglietti dei turisti e dei falsi resti è destinato ad allargarsi. Che i bigliettai Actv «pizzicati » dalle telecamere del tg satirico siano molti di più, lo conferma lo stesso inviato di «Striscia» Moreno Morello. «Erano sicuramente più di una decina — spiega preferendo comunque rimanere sul vago, visto che i girati saranno sicuramente acquisiti dalla polizia giudiziaria —. A noi però interessava mostrare solamente le 'categorie' di furbi, per cui alla fine ne abbiamo mostrati solamente quattro».
Ma non finisce qui. C'è Appaltopoli. Scrive “Il Corriere della Sera”. Chiusa l'inchiesta vicentina sulla spartizione degli appalti per le opere pubbliche avviata a marzo 2006 dopo un esposto dell'impresario iberico Isnardo Carta. L'inchiesta della procura di Vicenza ribattezzata «Appaltopoli» prese il via nel marzo del 2006. Ora, davanti al giudice vicentino Stefano Furlani, dopo una sfilza di udienze preliminari, si è chiusa una parte della maxi indagine che ha coinvolto al suo esordio circa 250 persone. Una parte di questi, un centinaio, sono stati poi trasferiti alla procura di Treviso dove erano stati commessi i presunti reati. Alla fine, dopo lo stralcio di alcune posizioni, a Vicenza sono rimaste le posizioni di 84 imprenditori. Al termine dell'udienza di questo pomeriggio il gip ha disposto 50 rinvii a giudizio, 3 assoluzioni e 6 patteggiamenti (non luogo a procedere per 26). L'inchiesta coinvolge imprenditori di tutto il Veneto con qualche ramificazione in altre regioni d'Italia. Tutto partì da un esposto fatto dall'imprenditore iberico Isnardo Carta che si presentò dal procuratore capo di Vicenza Ivano Nelson Salvarani per denunciare la spartizione degli appalti che sarebbero stati assegnati a «cartelli d'impresa» che realizzavano poi strade, opere pubbliche. Le indagini grazie a riscontri documentali e le intercettazioni telefoniche hanno fatto il resto.
E ancora…..scrive “Il Corriere della Sera”. Un'evasione di 600 milioni di euro è stata accertata dalla guardia di finanza di Venezia al Gruppo Pam di Spinea, proprietario, tra l'altro, degli ipermercati Panorama. Il vertice dell'azienda, secondo quanto si è appreso, è indagato per frode fiscale. Alla società è stata inoltre contestata un'evasione all'Iva per 120 milioni di euro. Sulla vicenda gli inquirenti mantengono uno stretto riserbo.
Il rubare è la regola nel Veneto scrive “Informazione Veneta”. Lo è come attività di mafia in Sicilia o in Campania, ma nel Veneto assume delle forme proprie tanto che si dovrebbe parlare di “mafia veneta”. Che differenze ci sarebbero fra la mafia siciliana e la mafia veneta? La mafia siciliana o campana possiamo rappresentarla come un individuo che con un fucile entra in un negozio, punta l’arma alla testa del negoziante, e si fa dare la tangente. La mafia veneta possiamo rappresentarla come l’amico del negoziante che entra nel negozio, parla d’affari, e intanto allunga le mani e si riempie le tasche impedendo al commerciante di reagire per la paura di perdere gli affari che in quel momento sta trattando. Nella prospettiva di vantaggi quel negoziante non si avvede che cosa gli viene sottratto. Mentre nella mafia siciliana il danneggiato è “altro da sé”, nella mafia veneta il danneggiato è parte integrante del sistema mafioso perché danneggia a sua volta in momenti e situazioni diverse. Nella mafia siciliana la struttura mafiosa è rigida, nella struttura mafiosa veneta la struttura è fluida integrando economia, politica, istituzioni, integrate in un sistema di controlli e ricatti reciproci che al mondo esterno si presenta come un perbenismo esasperato. Quando il perbenismo fa le sue crepe, sia sociali che economiche, il putridume si presenta con l’uso massiccio di droga, come il bullismo esasperato, con il suicidio da incapacità di affrontare la vita, con ingenti capitali sottratti al fisco e alla società civile.
Molti la conoscono come mafia del Brenta: la “mafietta” del Veneto, che non fa tanta paura perché è frutto di un virus che viene dall’esterno. Come Felice Maniero, che, costretto qui al soggiorno obbligato, si è messo ad esercitare il suo “talento”. Un mafioso che ha costituito un’organizzazione criminale considerata comunque un “corpo estraneo”, incapace di generare metastasi poiché basta allontanarlo perché tutto torni sano come prima, incontaminato. Invece la mafia del Veneto va considerata tutt’altra cosa e ha dimostrato più volte di saper mettere radici. La punta di un iceberg. Qui in Veneto i mafiosi non sono stati mandati tutti in soggiorno obbligato come Maniero. Molti sono arrivati con le proprie gambe per riciclare soldi, stringere accordi con chi di soldi ne ha e non sdegna alleanze con personaggi ambigui di cui fa finta di ignorare persino il nome. Alla mafia veneta forse dovrebbe essere dato un nome perché si inizi a prenderla sul serio.
RACCONTI DI MALAGIUSTIZIA
Ha indagato su 140 delitti con Giovanni Falcone: "La giustizia? Una piovra!". Racconta a “Il Giornale”. Marco Morin è uno dei più autorevoli periti balistici al mondo. Ha fatto scarcerare un inglese condannato all’ergastolo per l’omicidio di Jill Dando, conduttrice della Bbc. Ma ora rifugge i tribunali italiani. È uno dei più autorevoli esperti - appena una dozzina in tutto il mondo - di balistica, esplosivistica e residui dello sparo. Quindi se il professor Marco Morin dice che nel nostro Paese le sentenze dei processi per omicidi, attentati e altri reati, in cui c’entrano le armi da fuoco o le bombe sono quasi sempre frutto di investigazioni fatte alla carlona, c’è da preoccuparsi. Se poi la conferma arriva da Edoardo Mori, che, oltre a essere giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bolzano, è anche titolare del sito Earmi.it, «dedicato a coloro che amano lo studio delle armi e della balistica e sono interessati ai problemi giuridici connessi», c’è da spaventarsi.
Scrive Mori, osannando, e non certo per consonanza anagrafica, una relazione di Morin: «È esemplare nel dimostrare quale deve essere la buona preparazione di un perito, ben informato su tutta la più recente letteratura scientifica, capace di comprenderla nelle lingue straniere e capace di usare strumenti di analisi. Tutte cose che non si possono pretendere da un poliziotto o un carabiniere, addestrati alla bell’e meglio in base “alla prassi dell’ufficio” o “a ciò che si è sempre fatto”». Elevata competenza professionale, fu consulente di fiducia del compianto Giovanni Falcone per le indagini su 140 delitti di mafia, a cominciare dall’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro. Morin s’è occupato anche dei casi Aldo Moro, Luigi Calabresi e Marta Russo, delle efferatezze del mostro di Firenze, delle stragi di Peteano, Bologna e Ustica.
Ma oggi guai a dargli del perito balistico: «Faccio solo consulenze di parte. Non voglio più aver nulla a che fare con magistrati e tribunali. Lo vede questo tomo di 637 pagine? È il manuale che i giudici federali statunitensi devono studiarsi per essere in grado di valutare la bontà delle prove scientifiche portate alla loro attenzione. Da noi? Prendono per oro colato qualsiasi bischerata. Basta che provenga dai laboratori istituzionali».
Fino a pochi anni fa il professor Morin era l’anima del più attrezzato di questi laboratori, il Centro indagini criminali, costruito a propria immagine e somiglianza presso la Procura di Venezia. A un certo punto gli impedirono di accedervi, nonostante le rimostranze di Falcone. «Come? Facendo passare me per un criminale», allarga le braccia.
Come mai non collabora più con la giustizia italiana?
«Mi hanno fatto fuori professionalmente. Mi risulta che l’ordine sia partito da Palermo. Me l’hanno confidato alcuni alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri. I miei rapporti con Falcone erano strettissimi, si fidava soltanto di me. Una volta, a cena qui a casa mia, dove ora è seduto lei, mi raccontò d’aver scoperto un traffico di droga fra Bulgaria e Italia favorito da personaggi legati al Pci: gli stupefacenti finivano in mano alla mafia. Mi mangiai due diottrie al microscopio per esaminare i proiettili dei delitti di Cosa nostra e scoprii che a sparare erano sempre le stesse Smith & Wesson calibro 38. Le mie perizie balistiche avevano consentito a Falcone di risalire a insospettabili connessioni fra le cosche di Palermo e Catania. Per la mafia ero diventato un pericolo».
In che modo l’hanno fatta fuori?
«Con l’accusa di peculato. Mi sarei appropriato di 30 o 40 cartucce da caccia del costo di 100, massimo 150 lire l’una, pensi un po’. Se a Venezia ci fossero state le pecore, m’avrebbero accusato di abigeato. Ma l’accusa più grave fu quella formulata dal pubblico ministero Felice Casson, oggi senatore del Partito democratico, che m’incolpava d’aver fatto sparire dell’esplosivo. Dopodiché saltò fuori un documento, controfirmato dallo stesso Casson, dal quale risultava che quell’esplosivo era stato consegnato alla direzione di artiglieria. Presentai un esposto al Consiglio superiore della magistratura e l’accusa cadde subito».
Cogne, Garlasco, Perugia, e prim’ancora l’Olgiata e via Poma: tanti toponimi per indicare altrettanti delitti in cui dalla guerra di perizie e controperizie non emerge mai una verità credibile. Di chi è la colpa?
«Di chi compie le prime indagini. Com’è possibile che nel caso di Meredith Kercher siano state trovate tracce di sangue su una borsa a tracolla a quattro mesi e mezzo dal delitto? Nella mia carriera ho visto cose da far paura. Prenda la tragedia del Moby Prince, che costò la vita a 140 persone. Il gabinetto di polizia scientifica della Criminalpol individuò sul traghetto tracce di ben sette diversi tipi di esplosivo».
E invece?
«A bordo non ve n’era nemmeno uno, di esplosivo! Così come non vi erano residui dello sparo sul davanzale della Sapienza di Roma, da dove sarebbe partito il colpo che uccise la studentessa Marta Russo. Peggio ancora fu quello che accertai come consulente di Pietro Pacciani. I periti di fiducia del giudice dovevano rilevare eventuali tracce di polvere da sparo su un baby-doll e su un pannolino da neonato che avrebbero avvolto armi da fuoco usate dal mostro di Firenze. Conclusero per la presenza di antimonio, elemento chimico attribuito alla miscela d’innesco delle cartucce Winchester calibro 22 Long Rifle. Ebbene, chiunque s’interessi seriamente di munizioni sa che quell’innesco non contiene antimonio. Appare grave che dei periti d’ufficio abbiano disposto la ricerca strumentale dell’antimonio in cartucce che ne sono notoriamente prive. Ma ancora più grave è che l’antimonio sia stato addirittura individuato negli inneschi esaminati. Risultato: Pacciani assolto, giustizia svergognata».
Che conclusioni devo trarne?
«Domina la pressoché generale ignoranza della criminalistica, di quel complesso di discipline che si definiscono scienze forensi. Il giudice non è onnisciente, deve per forza rivolgersi al consulente tecnico. Ma se il secondo è più ignorante del primo? Tutto ciò rende aleatoria la giustizia penale in Italia. Adesso lei sa quali rischi corre il cittadino innocente quando viene afferrato dai tentacoli di questa piovra. Se sarà fortunato, potrà riavere la libertà a prezzo della salute, della rovina economica, dell’onore».
Tesi confermata da eventi inimmaginabili: Luciano Garofano lascia la guida dei Ris di Parma. Cos’ scrive Benedetta Pintus su “La Repubblica”. La notizia arriva dopo l'annuncio del Tg1 di un suo probabile coinvolgimento diretto nelle indagini della procura di Parma, scaturite da una denuncia dell'avvocato Carlo Taormina, in merito a presunte irregolarità compiute dal reparto per lo svolgimento di consulenze tecniche su importanti e controversi casi giudiziari degli ultimi anni. Le accuse sarebbero di truffa ai danni dello stato, abuso di ufficio e falso ideologico. Il colonnello dei carabinieri, per 14 anni comandante del Reparto investigazioni scientifiche, dopo essersi occupato dei delitti più noti degli ultimi anni, dall’omicidio di Garlasco alla strage di Erba, dal caso Cogne all’assassinio di via Poma, ha presentato congedo al comando generale dei carabinieri. La sua richiesta è stata accolta. Comunque soddisfatto Taormina: "Ciò che ha costituito oggetto delle mie indicazioni ha trovato riscontro.”
Ma non finisce qui. Unabomber: Condannato a due anni Ezio Zernar, il poliziotto accusato di aver alterato una “prova principe” nel processo contro il bombarolo del nordest, scrive “Blitz Quotidiano”. C’é una condanna nella vicenda Unabomber, ma non è a carico dello sconosciuto bombarolo del nordest, bensì per un poliziotto, Ezio Zernar, del laboratorio di indagini criminalistiche di Venezia, accusato di aver alterato quella che poteva essere una “prova principe”, che sarebbe stata data dalle striature trovate su un lato del lamierino e compatibili con i segni lasciati da una forbice che era nelle disponibilità di Zornitta.
PARENTOPOLI IN VENETO
Quando i reati li deruplicano in atti di malcostume. Parentopoli: un vezzo letterale per renderli accettati ed impuniti. Venezia. Parentopoli scuote Actv: c'è anche chi ha fatto assumere cinque figli. L’inchiesta de “Il Gazzettino” a firma di Michele Fullin e Alda Vanzan del 6 gennaio 2011. Cresce lo scandalo per le rivelazioni di figli e mogli di dirigenti e sindacalisti "sistemati" nelle aziende pubbliche. Nuovi casi. “Un terremoto. Le rivelazioni hanno movimentato la giornata lavorativa nelle società. L’impressione è che si sia tolto il coperchio su un fenomeno di cui tanti erano a conoscenza. Al punto che, come una catena di Sant’Antonio, sono fioccati nuovi casi e nuove storie. Come quella del dipendente che sarebbe riuscito a far assumere tutti i suoi cinque figli tra Actv e Vela. Un record. In Actv e Vela, pare che alcuni dei chiamati in causa nell’ambito delle "assunzioni in famiglia" si siano mostrati seccati non per essere stati scoperti, ma perché altre persone non erano state nominate. Per questo, le segnalazioni e le storie aumentano. Desiderio Nonnato guida le corriere di Actv. Ma, come tanti altri autisti, non è un dipendente di Actv. Alcune corse dell’azienda dei trasporti pubblici sono effettuate in "subaffidamento" dalla Nordest Mobility, società di Marghera con una sessantina di autisti. Gli utenti che salgono sul pullman non possono sapere se l’autista è un dipendente di Actv o di Nordest Mobility. Lo sanno, ovviamente, gli autisti, la cui busta paga, peraltro, è sensibilmente diversa. Un esempio: il buono pasto di un dipendente Actv è di 9 euro, quello di un autista di Nordest Mobility è di 3,50 euro. Va da sé che gli autisti di Nordest Mobility cerchino di cambiare "padrone" e di passare alle dipendenze di Actv. Solo che non è facile. «Se non conosci qualcuno, è praticamente impossibile», dice Desidero Nonnato, di Cavarzere, dipendente di Nordest Mobility che guida le corriere di Actv. Nonnato ha partecipato a una selezione di Actv nel ’90: «Risultai idoneo, ma non mi chiamarono mai». Quando la municipalizzata si trasformò in spa, ci furono altre due selezioni. Nonnato partecipò ad entrambe e in entrambe risultò non idoneo. «La commissione esaminatrice era composta da dirigenti di Actv più una psicologa. La prova scritta era un test psico-attidudinale con oltre 500 domande, compresi disegni geometrici e quant’altro. La prova orale era divisa in due parti: una di gruppo e una individuale. Nessuna prova di guida dei mezzi». Quando il "non idoneo" Nonnato chiese di vedere i propri test, giusto per capire se e dove aveva sbagliato, gli dissero che non era possibile. Si rivolse allora al difensore civico regionale il quale intimò ad Actv l’accesso agli atti. «Ma mi diedero solo l’esito dell’esame da cui risultava il giudizio di non idoneo. Il mio test non me l’hanno neanche fatto vedere, mi venne detto che tutti i test vengono distrutti. Quindi non ho mai potuto sapere quali domande ho sbagliato». La convinzione di Nonnato è che i test servano a poco: «È risaputo che se sei "figlio di" hai più possibilità. E i nomi che avete scritto sul Gazzettino non sono neanche tutti, ce ne sono molti altri di figli di sindacalisti eccetera assunti da Actv». Il paradosso è che Nonnato non è diventato un autista Actv perché Actv l’ha "bocciato", ma guida le corriere di Actv. Anche il "figlio di..." può rimanere fuori dal giro delle assunzioni, e restare per anni nel limbo anche se appartenente ad una di quelle categorie protette per le quali le grandi società hanno l’obbligo di assumerne una quota. Questa è la storia di Roberto, un ragazzo iscritto alle categorie protette, nonché in mobilità per la chiusura di un’azienda a Murano che da tre anni a questa parte pur essendo iscritto alle liste speciali non riesce ad essere assunto all’Actv. «Eppure - racconta il consigliere comunale del Pdl, Renato Boraso - ho scoperto che questo ragazzo era figlio di ex dipendente, ma allora mi chiedo quale sono i titoli abilitativi specifici per superare le selezioni?». Da quasi tutti i sindacati e da varie forze politiche arriva l’invito a chiarire le modalità di selezione del personale. Racconta Giampiero Antonini, segretario di Rdb-Cub: «Anche in questi giorni si sta svolgendo un concorso per tecnici di officina per i bus, il cui svolgimento è affidato ad un’azienda esterna. Dovrebbero chiedere ai candidati anche come funziona l’impianto elettrico di un motore o di un mezzo moderno. Invece si sentono chiedere nozioni di geografia e di cultura generale. In questo modo - denuncia - è facile confezionare l’abitino su misura per il candidato ideale»."
Ecco la Parentopoli alla veneziana: mogli e figli sistemati nei trasporti pubblici. Un resoconto di di Giacomo Susca su “Il Giornale” dell’8 gennaio 2011. “Se sui giornali delle ultime settimane non si è esitato a scrivere che nella società di trasporti del Comune di Roma salgono a bordo i raccomandati «senza biglietto» ovvero senza curriculum adeguato, allora a Venezia qualcuno fa notare che sul vaporetto del lavoro assicurato s’imbarcano volentieri amici e congiunti. Il Gazzettino e Italia Oggi pescano nell’acqua alta della Laguna una vicenda che se trovasse riscontri finirebbe per derubricare la Parentopoli romana a una storiella da tarallucci e vino. Gola profonda, nella città amministrata dal sindaco di centrosinistra Giorgio Orsoni, è il sindacato autonomo Usb. Una denuncia in piena regola, con tanto di nomi e cognomi, a corredare l’allarme per la «meritocrazia ereditaria» e i criteri di «appartenenza politica e sindacale» che sarebbero in vigore quando si tratta di assumere all’Actv, l’azienda pubblica dei trasporti veneziani, ma pure Vela e l’Asm (altre società collegate ai servizi). Per farla breve, l’intero comparto della mobilità partecipata si trasforma nell’Eldorado del posto fisso. Eccoli i casi concreti, quelli che più stuzzicano l’indignazione popolare. Un elenco quasi sterminato. Mettono nero su bianco i portavoce dell’Unione sindacale di base che ha sollevato il polverone: il segretario dei trasporti della Cgil, Mario Vitturi, ha la moglie che lavora in Actv. Marino De Terlizzi, della segreteria dei trasporti Cisl, anche lui ha la consorte sistemata in Asm. E poi il direttore della navigazione di Actv, Marino Fontanella, ha il figlio in Vela; a guardar bene, inoltre, Gianluca Cuzzolin, capo area Actv, ha una moglie di pari grado nella stessa società. Basta così? Nient’affatto. Maurizio Mandrini, capo area di cantiere impegnato nel Pd come coordinatore del circolo Mobilità e trasporti, suo figlio è stato assunto come marinaio. Persino a staccare i biglietti hanno messo un «figlio d’arte», quello del capo area del settore su ruote di Actv Paolo Dalle Carbonare, tuttavia «previa selezione interna allargata anche ai contrattisti a termine»: ma attenzione, perché i candidati erano in tutto una mezza dozzina, e l’unico che ha superato l’esame è stato proprio il cognome già sentito. Coincidenze, evidentemente. Come quella per cui Ulisse Famulari, funzionario della navigazione sempre in Actv, ha un figlio marinaio; il cugino di quest’ultimo se è per questo fa il comandante nella navigazione Actv, del resto suo padre, nonché lo zio - il fratello di Ulisse, Marco Famulari - è funzionario dell’automobilistico. Legami di sangue a labirinto che non trovano sbocco neppure in età pensionabile. Il funzionario Actv Armando Rigobianco, ora in congedo, in compenso è riuscito a trasmettere la passione per l’azienda al figlio, occupato nel ruolo di autista. Decine di casi «sospetti», ancora tutti da accertare, canovaccio già visto a Roma e che ha portato il sindaco Alemanno nell’arena delle accuse sulle prime pagine nazionali. Vien da chiedersi: chissà se al collega Orsoni toccherà la stessa sorte.”
Ma di precedenti c'è ne sono a iosa.
C’era chi era in ferie, chi era in ospedale, chi si è visto perdere la raccomandata perchè con gli uffici pubblici non si sa mai. Ci sarebbe anche chi avrebbe presentato una dichiarazione non veritiera, affermando di essere in vacanza quando invece in realtà era al lavoro. Tutte giustificazioni sufficienti a superare le rigide regole di un bando di concorso comunale e inserire i ritardatari in graduatoria fuori tempo massimo, in barba alla perentorietà del termine. Dopo l’assunzione ad Arti spa di parenti e amici del direttore generale, ora spuntano dubbi su un concorso interno in Comune per la copertura di 50 posti di istruttore amministrativo. Un concorso per la promozione verticale. Il regolamento prevedeva che le domanda andasse presentata entro mezzogiorno del 24 agosto 2009. Chi non avesse rispettato i termini, sarebbe stato escluso. Il bando prevedeva anche una selezione in due tempi: i candidati ammessi dovevano sostenere un corso di formazione al termine del quale dovevano essere sottoposti a un test che dava l’accesso, in caso di superamento, alla prova d’esame del 12 novembre. Gli ammessi al corso di formazione sono stati 217, gli esclusi 20. Di quei 217, poi, 175 hanno superato il test alla fine del corso e 51 sono stati esclusi. Tuttavia, tra i 175 ammessi alla prova teorico-pratica compaiono sei candidati che non solo non avevano partecipato al corso di formazione, ma le cui domande sarebbero state presentate oltre il termine del 24 agosto. Per loro, dunque, le porte del concorso si sono aperte quando erano state chiuse. Ed è sulle motivazioni del loro inserimento postumo che si concentrano i dubbi, perchè tra loro ci sarebbe anche chi non avrebbe avuto motivazioni tanto gravi dall’impedirgli di presentare la domanda in tempo.
Ma non sono i soli casi: Taxisti, casta impenetrabile si entra solo se si è parenti, scrive “La nuova Venezia”. I vincitori del concorso del 2007 sono tutti figli o parenti di altri assegnatari. Dopo il ricorso di un candidato, Tar e Consiglio di Stato impongono al Comune di sospendere i permessi. Ma nessuna decisione è stata presa. Domanda: può un impiegato, un operaio, una persona qualsiasi fare il tassista a Mestre? La risposta, scorrendo la lista dei dodici candidati vincitori dell'ultimo bando comunale, sembra solo una: no, non può. Tutti i titolari della contestata licenza conquistata nel 2006, infatti, sono figli oppure parenti di altri tassisti già operativi in terraferma. Una cosa di per sé non sorprendente, visto che si tratta di un «mestiere» facilmente tramandabile in famiglia. Resta il fatto, però, che sia il Tar sia il Consiglio di Stato, dando seguito al ricorso di un partecipante «trombato», Luciano Montefusco, hanno comunque evidenziato delle serie anomalie nello svolgimento del concorso comunale. Ecco dunque accettate le tesi dei legali del ricorrente: i criteri di assegnazione dei punteggi sono stati decisi solo dopo aver aperto le buste e letto il curriculum dei candidati. Da qui l'accusa velata di un bando «guidato ad hoc» per consegnare le licenze a persone prestabilite. E, in questo contesto, le «parentele» fanno certo pensare. Ma dimostrano, per lo più, l'esistenza di una «casta», come succede, per esempio, nel mondo dei notai. La patata bollente, semmai, adesso è nelle mani dell'assessore alla Mobilità Enrico Mingardi. Da lui si attendono decisioni sulla sospensione delle dodici licenze, come richiesto con una ordinanza dal Consiglio di Stato. Le parentele. Sulla questione delle parentele i tassisti mestrini non hanno dubbi. «Niente da rimproverarci - spiegano i rappresentanti della categoria -. Le licenze sono andate a chi ha ottenuto i migliori punteggi. Non certo a chi, dopo essersi piazzato 86esimo su 89 partecipanti, ha deciso di fare ricorso». Per quanto riguarda invece l'ordinanza del Consiglio di Stato, «quello è un problema dell'amministrazione comunale». Le contestazioni. Le parentele relative ai dodici candidati riaprono comunque la questione dei criteri di assegnazione dei punteggi per la conquista della licenza. Per gli avvocati di Montefusco, infatti, prima si sono aperte le buste dei candidati, poi si sono scelti i criteri. Strano, per esempio, secondo i legali, che si sia deciso di premiare più la professionalità che l'anzianità. Si voleva forse favorire qualcuno? Sì, secondo il ricorrente Montefusco. Ma anche il Tar e il Consiglio di Stato hanno visto alcune anomalie. Ordinando di fatto l'annullamento di quel concorso. La casta. Resta a Mestre il problema di una categoria, quella dei tassisti, che pare a «circolo chiuso». Non è la sola, sia chiaro. Ma qui stiamo sempre parlando di un servizio pubblico. All'ultimo bando, su una novantina di partecipanti, più della metà era già del mestiere: sostituti, autonoleggiatori. Gli altri candidati, invece, provenivano da lavori diversi: impiegati, operai, dipendenti di qualche azienda. Tutti però con le idee chiare, più che mai intenzionati a conquistare una preziosa licenza taxi. C'è qualche chance per loro? Oppure è tutto già deciso? Le interrogazioni. Nessuna risposta, intanto, alle interrogazioni di Sebastiano Bonzio (Rc) e Saverio Centenaro (Fi) sull'ordinanza del Consiglio di Stato. «Per ora la giunta non dice nulla - spiegano in coro -. La situazione è ingessata. E le dodici licenze restano lì». Sulla questione della parentele, pochi commenti. «Non ho mai avuto alcuna notizia certa su questa faccenda - dice Centenaro -. Chiederò lumi all'amministrazione comunale». Per Bonzio, «la cosa non stupisce troppo. Diciamo che la percezione era questa. Anche se si vuole lasciare qualche spiraglio di fiducia».
SPRECHI. L’UFFICIO GIUDIZIARIO PIU’ COSTOSO AL MONDO
Tra stucchi cinquecenteschi illuminati d'oro e d'azzurro, c'è l'ufficio giudiziario più costoso del mondo (se si calcola il rapporto tra numero di occupanti e spese). Ci lavorano tre giudici di pace, si occupano di beghe condominiali e infrazioni stradali contestate. Scrive Luciano Ferraro su “Il Corriere della Sera”. Le loro stanze si affacciano su San Marco, a Venezia, e ogni giorno si riempiono della musica dei Caffè storici. Si trovano nelle Procuratorie vecchie, l'edificio delle 100 finestre, lungo 152 metri, dalla Torre dell'Orologio al Museo Correr, costruito nel dodicesimo secolo e rinato dopo un incendio nel 1538. Queste tre scrivanie costano prima al Comune, poi allo Stato, tra canone d'affitto e spese, 866 mila euro l'una. In totale 2,6 milioni l'anno. Il padrone di casa, le Assicurazioni Generali, incassa il canone da un decennio. Il conto è lievitato, anche se gli uffici sono stati progressivamente liberati. Il pasticciaccio inizia nel 1991, quando il Tribunale di Rialto, con vista sul Canal Grande, viene chiuso per carenza di misure di sicurezza. Il Comune cerca, con urgenza, una sede per evitare la paralisi dei processi e delle indagini. Generali mette a disposizione l'enorme ala marciana. Era stata la base della compagnia dal 1832. Alla fine degli anni Ottanta, sulla scia di un esodo di abitanti e posti di lavoro che sembra non finire mai, anche le Generali si trasferirono in un quartier generale in terraferma, a Mogliano Veneto. Nuovo di zecca, accessibile e molto meno costoso di un edificio storico, tra acqua alta e necessità di continui interventi di restauro. Il 18 novembre 1991 il Comune si accorda con la compagnia del leone: 1,4 milioni di euro l'anno per 6 anni. La giustizia riparte. Pubblici ministeri e giudici traslocano da Rialto alle stanze di San Marco, nei due splendidi piani poco adatti ai processi. Quando sono di scena imputati o testimoni eccellenti si assiste a inseguimenti dei fotografi tra turisti e piccioni, come capita nei giorni caldi di Tangentopoli a Gianni De Michelis, con la folla che fischia e urla. La distanza dall'imbarcadero costringe poi a far sfilare i detenuti portati dal carcere al palazzo tra vacanzieri e cittadini. Dopo mesi dal trasferimento, Procura e Tribunale tornano a Rialto: le Fabbriche Nuove del Sansovino sono di nuovo agibili. Ma il gruppo dell'Antimafia rimane nell'edificio. Resta anche la polizia giudiziaria, assieme ai giudici di pace. E il canone intanto non si abbassa. Alla fine del 2003 il Comune chiede una proroga «in attesa della realizzazione della Cittadella della giustizia». Il sogno è trasferire nella Cittadella, a piazzale Roma, tutte le sedi della magistratura del centro storico. I lavori sembrano interminabili. Se ne parla dagli anni Ottanta. «Il progetto è finanziato e gli appalti assegnati, ma a stralci - spiega con amarezza il sindaco veneziano Giorgio Orsoni, avvocato amministrativista - mancano i fondi statali per l'ultima fase». Nel 2010 il primo «miracolo»: una parte dello scuro e cupo edificio della Cittadella della giustizia è pronta, il team dell'Antimafia ha traslocato con la polizia giudiziaria. Ma il contratto d'affitto per San Marco resta lo stesso del 1991, quello della fuga da Rialto. Se tutto filerà liscio, sarà l'anno in cui Venezia potrà evitare di versare 2,6 milioni l'anno per i tre giudici di pace. «Abbiamo già trovato i nuovi uffici a Riva de Biasio, presto il caso sarà risolto - assicura il sindaco -. Certo, siamo stati vittime di un meccanismo folle: abbiamo dovuto anticipare milioni per far funzionare uffici statali, e l'amministrazione centrale ce li ha restituiti con ritardo di 3-4 anni, solo all'80 per cento. Ma fra qualche settimana tutto questo finirà». Nel frattempo i tre giudici di pace e gli otto impiegati potranno continuare ad ascoltare i valzer dei Caffè che, dal '700 ad oggi, hanno accolto da Goethe ad Hemingway. «Il miglior fondale per l'estasi» come ha scritto Josif Brodskij, il poeta di «Fondamenta degli Incurabili».
COSA SUCCEDE A VERONA.
IN PROCURA FAN QUEL CAZZO GLI PARE.
Cade l'ultimo tabù: spiati anche gli avvocati. Violata la Costituzione, tensione in Procura. I legali sul piede di guerra preparano lo sciopero, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Si intercettano gli sfoghi di rabbia nelle camere ardenti, si registrano le conversazioni tra detenuti e parenti nelle sale colloqui dei carceri. Tutto è lecito. C'è una sola isola che il diritto da sempre considerare inviolabile dalle microspie: gli incontri tra l'indagato e il suo avvocato, i momenti in cui l'assistito e il suo difensore devono poter parlare liberamente per elaborare strategie difensive garantite dalla Costituzione. Quando, per caso, su un telefono intercettato si svolge un colloquio tra un sospettato e il suo legale, il brigadiere di turno deve spegnere l'interruttore. Vincolo assoluto di segretezza, come in confessionale. Questa regola vale ovunque tranne a Verona: dove gli avvocati sono dovuti scendere sul piede di guerra contro la Procura della Repubblica, che - in barba all'articolo 103 del codice di procedura penale - ha intercettato e registrato più di un dialogo tra l'ex vicesindaco Vito Giacino, arrestato per concussione il 17 febbraio scorso, e il suo legale Filippo Vicentini. Stesso trattamento per le conversazioni tra la moglie del vicesindaco, l'avv. Alessandra Lodi, e il suo difensore Apollinare Nicodemo. Nei giorni scorsi, quando la Procura ha chiuso l'indagine e ha depositato tutti gli atti in vista della richiesta di rinvio a giudizio, i difensori di Giacino e della moglie sono rimasti di sasso, trovando riportate tra i brogliacci e le trascrizioni delle intercettazioni una lunga serie di colloqui tra loro stessi e i due assistiti. Si fosse trattato di un singolo episodio, poteva essere una distrazione o una dimenticanza. Ma la quantità di colloqui difensivi intercettati e trascritti ha convinto i difensori che gli inquirenti si fossero semplicemente disinteressati del divieto. E la Camera penale si è schierata al loro fianco, con un documento in cui si ricorda che i dialoghi tra difeso e difensore «godono di tutela rafforzata in funzione di salvaguardia di diritti e valori di rilievo costituzionale nonchè di protezione assoluta», e si annuncia per lunedì prossimo una assemblea della categoria per valutare scioperi e stato di agitazione. Dagli stessi brogliacci in cui compaiono le intercettazioni emerge un altro dettaglio: magari meno dannoso in concreto, ma ancora più sconcertante. Il documento della Camera penale afferma infatti che «oltre alle gravissime e reiterate violazioni sono stati rilevati numerosi commenti a lato delle trascrizioni con affermazioni ingiuriose nei confronti degli allora indagati e dei loro familiari». Le forze dell'ordine incaricate delle indagini, insomma, si prendevano la libertà di sfottere e insultare. Possibile? Pare proprio di sì. Secondo quanto riportato recentemente dal Corriere del Veneto, gli interceptors dicono dell'ex vicesindaco Giacino che «dice le solite minchiate», mentre la moglie sarebbe «la solita cafona», «stronza», «bugiarda», «è troppo fastidiosa». E le conversazioni tra la Lodi e sua madre vengono commentate con frasi del tipo «sono due streghe psicopatiche», «due stronze», «due deficienti». E non si tratta nemmeno di appunti di copie di servizio dei brogliacci, sfuggiti per qualche pasticcio dalla copisteria ma degli originali degli atti depositati nel fascicolo del Pm. E che la dicono lunga sullo spirito sereno e imparziale degli addetti all'inchiesta.
Dai botta e risposta a distanza, al momento della resa dei conti, scrive Laura Tedesco su “Il Corriere del Veneto”. Procura e avvocati, giudici e vertici del Tribunale di Verona si troveranno riuniti a uno stesso tavolo per esaminare - e possibilmente, magari, tentare anche di risolvere - lo spinoso caso delle intercettazioni «indebite» su Vito Giacino, Alessandra Lodi e i rispettivi difensori Filippo Vicentini e Apollinare Nicodemo. Da ieri, però, c’è un ulteriore nodo del contendere: durante un’intervista rilasciata a «Telenuovo », infatti, il procuratore Mario Giulio Schinaia ha in qualche modo tentato di dare una spiegazione ai numerosi epiteti dalla connotazione offensiva («falso», «bugiardo», «bugiardello », «str..», «scema», «cafona», «carogna, «strega psicopatica») rivolti a Giacino e alla moglie dagli agenti di polizia giudiziaria che li stavano intercettando. «Se qualcuno si è permesso di offendere, è perché qualcun altro (e il riferimento è ai due indagati, ndr) aveva già fatto offese a loro (cioè agli investigatori, ndr)», ha dichiarato Schinaia davanti alle telecamere, aggiungendo comunque che «ritengo in ogni caso scorretto lasciarsi andare a simili offese». E se lo scandalo-insulti è già approdato sul tavolo della Procura generale di Venezia (a cui compete l’azione disciplinare nei confronti degli agenti coinvolti), l’altra questione in ballo, ormai, è nota: durante le settimane antecedenti l’arresto del 17 febbraio scorso, le conversazioni intercorse tra la coppia e i propri avvocati sono state intercettate e trascritte. Peccato, però, che tali registrazioni risultino vietate per legge dall’articolo 103 del codice di procedura penale: quanto è bastato per innescare l’immediata reazione della Camera penale di Verona prima (che ha deliberato lo stato d’agitazione dei penalisti scaligeri riservandosi di proclamare alcuni giorni d’astensione) e dell’Unione Camere penali di Romapoi, che ha deciso di sollecitare l’intervento di Presidente della Repubblica, Csm, Ministero della Giustizia, Camera e Senato. E non è finita qui, perché a quella che si sta configurando come una levata di scudi senza precedenti dell’intera categoria forense, va ad aggiungersi anche la ferma presa di posizione del presidente dell’Ordine degli avvocati scaligeri, Bruno Piazzola. È stato proprio quest’ultimo a sottoporre la questione al presidente del Tribunale di Verona Gianfranco Gilardi ottenendo la convocazione di un vertice urgente: all’appuntamento con quella che si annuncia come una resa dei conti, sono stati invitati da Gilardi, presente egli stesso alla «reunion», il procuratore Schinaia, il presidente della sezione dei giudici penali Sandro Sperandio, la coordinatrice dell’Ufficio gip-gup Laura Donati, il presidente della Camera penale di Verona Federico Lugoboni e, naturalmente, l’avvocato Piazzola. «Un regime democratico si regge da un lato sul diritto dello Stato a far emergere i reati e i relativi responsabili; dall’altro, sul diritto di un indagato a difendersi - sottolinea il presidente dell’Ordine degli avvocati -. Non stiamo rivendicando un privilegio:masoltanto di poterci confrontare con la procura ad armi pari, senza che quest’ultima conosca le mosse della controparte ». Direttamente al telefono...
Bene hanno fatto i legali della Camera penale di Verona ad astenersi dal lavoro il 16 giugno. Avvocati, diritto alla segretezza. Nessuna intercettazione dei loro colloqui coi clienti, scrive Giuseppe Staiano, avvocato penalista di Roma. Hanno ragione a mobilitarsi gli avvocati della Camera penale di Verona, proclamando per il 16 giugno una giornata di astensione dalle attività professionali. È grave quanto riferiscono le pagine di quotidiani locali, ovvero che i legali del vicesindaco della città scaligera, accusato di corruzione per aver agevolato un imprenditore in alcuni procedimenti urbanistici, risultano essere stati intercettati in occasione di colloqui telefonici avuti con il proprio assistito. Si è, infatti, contravvenuto ad uno specifico divieto sancito dall'art. 105 del codice di procedura penale, che non consente l'ascolto e la captazione di tali conversazioni. Questione tecnica, si dirà. A chi importa, si aggiungerà, di fronte al montare della marea della corruzione, come non si vedeva dai tempi di Tangentopoli, se sia stata violata la riservatezza che deve necessariamente circondare il rapporto tra un indagato e il proprio difensore. Prioritario – si concluderà – è il contrasto delle malversazioni amministrative, del malaffare, dell'illegalità diffusa ad ogni livello. Esigenze, per carità, più che sacrosante, da tutelare in nome dell'etica pubblica (per chi ancora, doverosamente, ci crede) e della libera iniziativa economica, gravemente minata dalla corruzione. Ma non al punto di sacrificare ogni cosa sull'altare del rispetto della legge: la logica dell'intervento repressivo non può essere quella del «fiat iustitia et pereat mundus». La verità è che nelle democrazie liberali (le sole ad avere resistito alle tragedie del «secolo breve» ma anche terribile) si pone sempre un problema di bilanciamento tra interessi costituzionalmente rilevanti. Solo che, in Italia, non si comprende perché, le esigenze della riservatezza sono guardate con malcelato sospetto. Ancora ieri l'altro, il Presidente del Senato (un autorevole ex magistrato) nel presenziare alla relazione annuale del Garante della privacy, ha affermato la necessità che valga per internet quanto vale per il mondo finanziario, tuonando contro l'esistenza di «paradisi virtuali» che non consentono l'accesso alle informazioni necessarie al contrasto della criminalità. Eppure la libertà e segretezza delle comunicazioni sono proclamate dall'art. 15 della Costituzione come oggetto di un diritto inviolabile, che la Corte costituzionale (non oggi, ma più di venti anni fa) ha qualificato come «parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana»; un diritto che «non può essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto incorpora un valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente». Che poi in ogni diritto di libertà sia sempre insita la possibilità di un abuso, è un pericolo connaturato ad ogni sistema democratico. Ma un grande giurista tedesco ci ha ammonito: «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire», ma questo «è il grande rischio che si è assunto per amore della libertà».
VERONA MAFIOSA.
Un vecchio detto: chi sputa in aria, in faccia gli cade.
Report-Tosi, chiesto al prefetto lo scioglimento per mafia. Presentata una richiesta formale di accertamenti sulle infiltrazioni mafiose nel Comune di Verona, scrive Sigfrido Ranucci (collaborazione di Giorgio Mottola) su “Il Corriere della Sera”. Dopo la puntata di Report del 7 aprile 2014, è stata presentata al prefetto di Verona una richiesta formale di accertamenti sulle infiltrazioni mafiose nel Comune di Verona. A chiederla è stato un parlamentare veronese di centrodestra, Alberto Giorgetti. Qualora l’indagine dovesse accertare le infiltrazioni, il Comune di Verona potrebbe essere sciolto per mafia. “Se le cose dette da Report sono vere – ha dichiarato Giorgetti – ci sarebbe un collegamento diretto tra la ‘ndrangheta e assessori o eletti appartenenti alla maggioranza di Flavio Tosi per cui ,secondo l’attuale normativa antimafia, sussisterebbero automaticamente i presupposti per lo scioglimento”. Nel corso dell’inchiesta di Report è emerso il ruolo di alcune famiglie di costruttori calabresi trapiantanti a Verona e molto vicini a esponenti di primo piano dell’amministrazione Tosi. In particolare il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura ha per la prima volta rivelato di aver partecipato alcuni anni fa a un summit in cui erano presenti boss della ndrangheta calabrese e rappresentanti di una famiglia di costruttori veronesi.
In onda testimonianze su «appalti e favori», sotto
accusa il sistema del sindaco, scrivono Angiola Petronio Alessio Corazza su “Il
Corriere Veneto”. Tosi, il video e gli «amici» calabresi
Bufera Report. La replica: spazzatura. In onda testimonianze su «appalti e
favori», sotto accusa il sistema del sindaco. Roba da notte dei Mondiali. Con
tanto di visione organizzata. Inviti pre e post prandiali. Schermi centa-pollici
lustrati. Gruppi organizzati. Tamtam sui social network. Pizzerie al taglio con
le bande svuotate. Roba da far venire la colina alla bocca degli ascolti,
neanche si parlasse dello sbarco sulla luna. E alle 21,05 una sintonizzazione
all’unisono. Una trasmissione e una città lunedì sera, Verona. E mica solo la
città. E la provincia… E oltre… All’ora dell’imbrunire si sono armonizzati su un
unico programma i televisori scaligeri. Quel «Report» di cui ormai da qualche
mese a Verona si sente parlare come dell’aumento della benzina. Ogni tre per
due. «Doveva essere un pezzo breve, partito come accade da una segnalazione che
segnala appunto appalti anomali e l’ombra di un ricatto - dice la Gabanelli -.
Il nostro Sigfrido Ranucci comincia il suo lavoro d’indagine, ma siccome
l’ambito non è esattamente quello della foca monaca, ma un terreno un po’ più
scivoloso, a metà strada succede questo». E il servizio parte con l’annuncio di
Tosi sulla querela «preventiva» contro Ranucci, «reo» tra l’altro - secondo il
sindaco - di aver offerto denaro in cambio di un fantomatico video hard con lui
come protagonista. Peccato che le immagini mandate in onda da Ranucci dimostrino
come siano stati quelli che poi si sono rivelati i «sodali» di Tosi, nel
trappolone tirato a Report, a chiedere del denaro. In particolare quel Sergio
Borsato che prima gli ventila il video e poi spiega che il depositario «dobbiamo
pagarlo… ». Il depositario del video che poi sarà quello che filmerà Ranucci per
consegnare il tutto a Tosi. Massimo Giacobbo, «un faccendiere - racconta un
imprenditore intervistato da Ranucci - che faceva parte di un’organizzazione
attraverso la quale venivano gestiti tutti gli appalti pubblici. E lui ha sempre
vantato dei grandi appoggi politici… con la Lega Nord e in particolare ha sempre
fatto anche il nome di Tosi». Quel video un anonimo ex dirigente provinciale del
Carroccio dice di averlo visto. «C’è sempre ’sta situazione. Vestito da donna,
truccato in maniera incredibile, sempre da donna…». Come dice la Gabanelli
«delle preferenze sessuali non ce ne frega niente». «Ma - aggiunge - il punto
era capire se questo video compromettente, presunto oggetto di ricatto per un
amministratore pubblico, esiste o no e chi lo utilizza…». Il dubbio Report
non lo ha dissolto. E del video non c’è neanche un fotogramma. Così si passa
ad altro argomento. Gli eventuali rapporti tra Tosi e alcuni calabresi, indagati
e invischiati in indagini sulla ’ndrangheta e la malavita organizzata. A partire
da quelle cene a Crotone, con Tosi a fianco di Stanislao Zurlo, presidente della
locale Provincia per il quale - spiega Ranucci - è stato chiesto il rinvio a
giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. «E’ stato tirato in ballo
per accordi elettorali con una delle più potenti cosche calabresi, quella dei
Vrenna », continua il giornalista di Report su quella cena organizzata da Katia
Forte, consigliera comunale della Lista Tosi. E a capo di quella tavolata chi
c’è? Quel Raffaele Vrenna, presidente del Crotone calcio che era stato
condannato in primo grado per concorso esterni alla mafia e poi assolto. Con il
capo della divisione distrettuale antimafia Antonio Lombardo che lo ha definito
«un imprenditore border-line». Dopo la trasmissione, Katia Forte specifica: «La
cena di Crotone è stata pagata da me e mio padre, non da un imprenditore border-
line». E Ranucci spiega che di quel Raffaele Vrenna hanno parlato tre
collaboratori di giustizia. Uno è Luigi Bonaventura che indica tra i boss
«orbitanti al Nord» e in particolare a Verona un componente della famiglia
Giardino. «Numerosa famiglia di costruttori di origini crotonesi - spiega
Ranucci - alcuni dei quali con reati alle spalle come riciclaggio, rapina,
detenzione di stupefacenti, truffa e ricettazione. A fianco di Antonio Giardino
c’è Francesco Sinopoli. Quel Sinopoli candidato ed eletto nella Lista Tosi. I
Giardino, secondo il racconto di un imprenditore, sono stati presenti nelle cene
organizzate per la campagna elettorale di Tosi e del suo assessore di origine
calabrese, Marco Giorlo». Parte l’intervista a un uomo che racconta che a quelle
cene si parlava di appalti «con il sindaco Tosi» e al quesito se c’erano anche
altri politici dice «c’era Casali, (l’attuale vicensindaco Stefano Casali, ndr)
e Marco Giorlo». Ma Casali precisa che lui in Calabria non c’è mai stato. Nel
servizio parte la sequela su quello che è ormai l’ex assessore allo Sport,
trombato da Tosi proprio per le sue dichiarazioni «sventate» a Report. E anche
per Giorlo c’è la parentesi a luci rosse con intervista a una donna romena che
lo accusa di averle chiesto una prestazione sessuale in cambio di un lavoro e di
aver ricevuto, per non denunciare, 5mila euro che - stando a quanto dice Ranucci
- arriverebbero da uno dei calabresi presenti alle famose cene pre elettorali.
Si parla poi del caso dei quadri di Barbara Pinna, esposti alla Gran Guardia. La
Pinna moglie del comandante della Guardia di Finanza, Bruno Biagi. Su
quell’evento è stato presentato un esposto alla Corte dei Conti. Poi è la volta
degli incarichi alla sorella di Tosi. Quella Barbara assurta da amministratrice
condominiale a consigliere di due Casse di Risparmio. E poi si arriva al nodo
Agec. Intervista a Michele Croce, ex presidente dell’azienda. Di cui non vengono
ricordate, però, le spese esorbitanti per l’ufficio, mentre gli viene
riconosciuto il merito di «aver fatto interessare la procura e si scopre che i
dirigenti dell’Agec avrebbero pilotato l’appalto per le mense scolastiche».
Vicenda ormai nota ai veronesi. «Certamente rifarei le denunce al sistema che
per primo ho fatto - ha commentato Croce dopo aver visto il servizio -ma la
sensazione oggi è che si sia toccato il fondo. L’abisso, se pensiamo a certi
rapporti con appartenenti ad associazioni malavitose». E Bertucco? «Per i
veronesi - dice - il sistema di potere messo in piedi dal sindaco è cosa
risaputa. Il problema sta nel fatto che Tosi non ha mai voluto chiarire certi
aspetti. E mi chiedo come un uomo della sua esperienza abbia potuto fidarsi di
gente come Borsato e Giacobbo». Due tosiani che preferiscono rimanere anonimi
commentano: «Temevamo peggio». E Ranucci torna a testa bassa cui crotonesi e
altri appalti. Come quello da 3 milioni preso da Roberto Forte, fratello di
Katia. E poi sulla graticola ci finisce il tabaccaio ormai più conosciuto di
Verona. Quel Maurizio Filippi la cui somma di cariche impressiona anche Ranucci.
A parlare con il giornalista di Report dei legami tra Tosi e Filippi è anche
Patrizia Badii, in questi giorni al carcere di Montorio con gli altri
indipendentisti veneti accusati di terrorismo. E anche qui viene fuori il
discorso del sesso. «Lui (Filippi, ndr) ha una foto, quella l’ho vista, in un
night dove gh’è Filippi. Tosi, Culè, Paternoster... E gh’è un trans...». E ti
pareva. «Ora - chiude la Gabanelli - se alla base di decisioni non proprio
trasparenti e spiegabili c’è il mistero di video o foto hard, noi non lo
sappiamo. Sappiamo che qualche interrogativo la sua amministrazione lo pone.
Tosi ha preferito la strada delle querele preventive...». «Sono delle merde», il
commento del sindaco in serata. Da ambienti a lui vicini trapelano altre
considerazioni. «Borsato non ha cercato Ranucci, ma è stato Ranucci a cercare
Borsato su indicazione della Badii. Inoltre, è stata trasformata una cena con
delle istituzioni a Crotone in una cena di ’ndrangheta, quando anche i
giornalisti di Report, sotto mentite spoglie, vi hanno potuto partecipare.
Infine, Giacobbo non è conosciuto da queste parti. Il tutto per dire che quello
che abbiamo visto è il classico esempio di giornalismo spazzatura».
Report, fra cene e appalti, la «Calabria
connection». La tavolata con Vrenna a Crotone, i rapporti con le famiglie anche
a Verona, l'anonimo che accusa: «Si parlava di lavori e assunzioni», scrive
“L’Arena”. Il capitolo dell'inchiesta di Report relativa ai rapporti tra
l'amministrazione Tosi e le famiglie calabresi in odore di criminalità si apre
con le immagini di Crotone e dell'ormai famosa cena organizzata per ricevere
sostegno alla fondazione Ricostruiamo il Paese. Sono presenti alla tavolata il
sindaco Tosi e la consigliere comunale Katia Forte, figlia di Giovanni Forte
Pompei, imprenditore del settore delle pulizie già coinvolto nella tangentopoli
degli anni Novanta e originario appunto di Crotone. «Al fianco di Tosi», dice
Ranucci con voce fuori campo, «siede il presidente della Provincia crotonese
Stanislao Zurlo. Per lui è stato chiesto il rinvio a giudizio per concorso
esterno in associazione mafiosa. È stato tirato in ballo per accordi elettorali
con una delle più potenti cosche calabresi, quella dei Vrenna». A capo della
tavolata siede Raffaele Vrenna, imprenditore leader nel campo dello smaltimento
dei rifiuti e presidente del Crotone calcio. Gli onori di casa li fa Katia Forte
che regala libri di Verona. Uno dei commensali racconta dei legami tra Raffele
Vrenna e l'omonima cosca; si dice che tutta la serata è offerta da Vrenna e la
stessa Katia Forte ringrazia «gli sponsor della serata in particolare Raffaele
Vrenna amico carissimo», anche se poi continuerà a dire che il conto è stato
pagato da suo papà Giovanni. Vrenna è stato condannato in primo grado, assolto
in secondo grado nel 2010 ma viene definito dal capo della Dda di Catanzaro
Antonio Lombardo un «imprenditore border line» sempre sul crinale tra «la
criminalità organizzata e i legittimi rapporti di impresa con le istituzioni».
Di Raffaele Vrenna parlano tre collaboratori di giustizia. Uno di questi è
intervistato da Report. Si tratta di Luigi Bonaventura, reggente del clan
Vrenna-Bonaventura. Uno che guidava il braccio armato della cosca e ha
partecipato alle stragi della 'ndrangheta degli anni Novanta come piazza
Pitagora. «Le aziende di Raffaele Vrenna si può dire tranquillamente che sono le
aziende della famiglia Vrenna-Bonaventura. Quindi proventi di quelle aziende
sono serviti a finanziare tante attività illecite della famiglia: soldi per
acquistare armi, pagare medici, pagare avvocati». Armi per omicidi? «Anche e ad
alcuni ho partecipato personalmente». Vrenna nega la ricostruzione di
Bonaventura, ma Bonaventura parla anche di un summit delle cosche con
imprenditori del Nord venuti appositamente da Verona nel 2006 (va detto che Tosi
è stato eletto sindaco però nel 2007).
«Uno di questi boss orbitanti al Nord afferma a un altro affiliato che
finalmente il partito che odia i terroni ce l'avevano in mano». E chi c'era di
Verona in particolare? Risponde Bonaventura: «C'era un componente della famiglia
Giardino». I Giardino, ricostruisce Report, sono una famiglia di costruttori di
origine crotonese e da tempo vivono a Verona. Hanno la passione del soft air
(guerre simulate). «Alcuni di loro hanno sulle spalle reati di riciclaggio,
rapina, detenzione di stupefacenti truffa e ricettazione». Viene mostrata una
foto dove a fianco di Antonio Giardino, c'è Francesco Sinopoli, candidato ed
eletto nella Lista Tosi (è in quinta circoscrizione). I Giardino, prosegue
Report, «secondo il racconto di un imprenditore sono stati presenti nelle cene
elettorali della campagna di Tosi e dell'assessore Marco Giorlo, di origine
calabrese, con il quale il sindaco passa le vacanze in Calabria». Parla
l'imprenditore, oscurato in volto, sul ponte della Musica di Roma, intervistato
da Ranucci. «C'erano i Giardino, i Paglia, i Marziano, il sindaco Tosi...». Si
parlava di appalti in queste cene? «Con il sindaco Tosi». C'erano anche altri
politici? «Casali e Marco Giorlo». Si parlava di assunzioni per i calabresi che
avrebbero votato Tosi? «Sì, assunzioni nella Serit, ditta che collabora con
l'Amia per i rifiuti. Sono andato anch'io a lavorare lì». Si raccoglievano fondi
elettorali? Chi li raccoglieva? «A volte anche il segretario di Giorlo. Io ho
dato 15 mila euro. In nero, ovvio». Parte l'intervista a Giorlo, sul campo del
Bentegodi. Si parte dai voti: «Sì sono una macchina da voti». La comunità
calabrese è numerosa vero? «Sì». Hanno raccolto finanziamenti per lei alcune
famiglie? «No, finanziamenti no. Hanno fatto delle iniziative loro». Hanno
raccolto soldi? «Non me lo ricordo, sinceramente. Io ho dichiarato tutto». In
realtà nelle spese elettorali Giorlo non ha dichiarato proprio nulla. E i
calabresi sono andati a festeggiare addirittura a Palazzo Barbieri dopo la
vittoria elettorale. Ci sono le foto con bottiglie di champagne e alcuni
capifamiglia calabresi. «Ma scusi, per un calabrese... No assolutamente no».
Invece le foto dicono che il costruttore crotonese Antonio Paglia e un
componente della famiglia Giardino sono in municipio e brindano alla vittoria
del loro assessore. Lo sa che alcuni di loro utilizzano il nome di Giorlo per
farsi dare dei lavori? «Non lo sapevo, sinceramente». Si tratta di Armando
Marziano che si sarebbe portato a casa appalti per centinaia di migliaia di euro
per la manutenzione delle case Ater. Ne vuole ancora e si rivolge al dipendente
che si è rifiutato di favorirlo. E qui parla Matteo Castagna: «Mi è stato detto:
se tu fossi in Calabria adesso saresti già in un pilone di cemento perché devi
imparare a farti i c... tuoi». Anche in questo caso, si finisce a parlare della
Lista Tosi. Armando Marziano è fratello di Pasquale Marziano, candidato nella
lista del sindaco alle ultime elezioni. «Si vantava», ricorda Castagna, «di
avere amicizia con il sindaco Tosi e amicizia e frequentazioni con l'assessore
Giorlo». Ritorna in campo Giorlo. «Che siano arrabbiati perché non lavorano...
Presentano il conto? Ma non puoi dare appalti». E poi parte una registrazione di
Armando Marziano che ammette di avere un appalto grazie alle amicizie. Ma le
somme più cospicue sarebbero nei lavori tra privati per far lavorare le ditte
indicate. L'imprenditore oscurato afferma di aver avuto una proposta per
costruire dieci appartamenti, ma che l'assessore Giorlo voleva una percentuale:
«Voleva il 20 per cento, in nero: su un milione, 200 mila euro». Festini hard?
«Sì organizzati per dare lo zuccherino per avere in cambio i lavori. C'era Marco
Giorlo al mille per mille. Io non ho mai partecipato ma prendevo le donne e le
portavo lì». E Giorlo che dice? «Invenzioni. Sono una persona corretta e sono
sposato da 32 anni». E poi c'è il capitolo della ragazza rumena che lo aveva
denunciato per tentata violenza e che poi l'ha ritirata dietro pagamento. La
cifra sarebbe stata messa a disposizione da uno dei calabresi delle cene
elettorali: 35 mila euro. La ragazza rumena dice di averne ricevuti solo 5 mila
in banconote da 500. E il resto?
Le 9 domande del Pd M5S: «Si commissari». Benciolini: «Da anni governa la politica degli amici degli amici». Borghesi: «Aperto il vaso di Pandora», scrive G.Coz. su “L’Arena”. Rispettivamente consigliere regionale e consiglieri comunale del Pd, Franco Bonfante e Michele Bertucco sono apparsi l'altra sera nel servizio di Report intervistati da Sigfrido Ranucci. Il giorno dopo la trasmissione dicono: «L'operazione con cui Tosi ha tentato di screditare i giornalisti di Report si è trasformata in un boomerang con l'effetto di moltiplicare i già tanti dubbi circa l'operato della sua amministrazione». E come Repubblica lanciò le 10 domande a Silvio Berlusconi dopo la scoperta del bunga bunga, ora Bonfante e Bertucco rivolgono a Tosi 9 domande pubbliche.
NOVE DOMANDE.
1) «Perché si è servito di due personaggi come Sergio Borsato e Massimo Giacobbo nell'operazione tesa solo a creare i presupposti della diffamazione e delegittimare l'inchiesta di Report?».
2) «Perché a distanza di giorni dall'anticipazione della trasmissione Report non ha ancora chiarito la natura dei suoi rapporti con Massimo Giacobbo, è singolare che Tosi non l'abbia nominato nel corso della sua conferenza stampa. Lo voleva tutelare? E perché?».
3) «Era a conoscenza che Massimo Giacobbo si è presentato per aiutare imprenditori in difficoltà in nome di rapporti privilegiati con la sua corrente politica e con Lei in particolare?».
4) «È vero che ha avuto contatti nel corso delle cene elettorali con esponenti della famiglia Giardino, i cui rappresentati avrebbero partecipato in qualità di imprenditori a un summit di mafia tenutosi a Crotone nel corso del quale secondo quanto emerso dalla trasmissione di Report i boss avrebbero parlato di un accordo con la Lega Nord?».
5) «Qual è la natura dei rapporti con gli altri imprenditori crotonesi presenti alle cene elettorali? Corrisponde al vero che si è parlato di appoggio elettorale in cambio di appalti e assunzioni presso un'altra società partecipata, la Serit, che veniva indicata come camera di compensazione?».
6) «È vero che nelle cene elettorali sono stati raccolti fondi in nero per la campagna elettorale del suo assessore Marco Giorlo?».
7) «Qual è la natura dei suoi viaggi a Crotone, con persone a nome della sua fondazione politica, e in particolare qual è la natura dei contatti con l'imprenditore Raffaele Vrenna, giudicato dal capo della Dda di Catanzaro un imprenditore border line?».
8) «È vero che niente è stato corrisposto per l'uso della Gran Guardia da parte della signora Barbara Pinna? Se è vero, perché tale beneficio ben sapendo che in questo modo avrebbe messo in una situazione di grave difficoltà e inopportunità il comandante della Guardia di Finanza di Verona? (marito della Pinna, ndr)».
9) «Vuole finalmente pubblicare i nomi dei finanziatori della sua fondazione e della sua ultima campagna elettorale, così da tener fede ai ripetuti propositi di trasparenza?».
BORGHESI. «Alla luce di quanto emerso dalla trasmissione e dopo l' arresto del suo vicesindaco, il sindaco Tosi dovrebbe trovare la dignità di fare un passo indietro». A sostenerlo è Antonio Borghesi, ex parlamentare e già presidente della Provincia che ricorda di aver negato, proprio nel corso del suo mandato, l'utilizzo di una sala della Provincia a Katia Maria Forte per una iniziativa del padre con imprenditori crotonesi all'epoca noti alle cronache giudiziarie. «Invito tutti i veronesi ad avere il coraggio di conoscere quanto da anni vedono: legami tra precise realtà imprenditoriali e l'amministrazioni. Le querele preventive non possono più tappare il vaso di Pandora». M5S. Risentiti per non essere tra gli intervistati da Report, i consiglieri del Movimento 5 stelle, attaccano: «Non siamo stupiti di quanto emerso dal servizio, è da tempo che sospettiamo che l'amministrazione abbia cose da nascondere visto che ci impedisce l'accesso agli atti», dice Gianni Benciolini annunciando che il gruppo chiederà il commissariamento di Palazzo Barbieri. «Sono anni che le varie amministrazioni governano la città con la politica degli amici degli amici, è ora di fare chiarezza».
«Mafia, se c'è collusione sciogliere il Consiglio». «È necessario capire se ci sono rischi dal punto di vista economico e sociale». Anche Albertini e Salemi (Pd) chiedono un intervento urgente. Ed è scontro sull'Ater, scrive Enrico Giardini su “L’Arena”. Si alza il livello dello scontro dopo l'inchiesta di Report messa in onda lunedì sera su Rai Tre e seguita da tre milioni di telespettatori. Il deputato di Forza Italia Alberto Giorgetti ha chiesto al prefetto Perla Stancari di nominare una commissione di accesso agli atti per verificare se nel Comune di Verona ci siano infiltrazioni mafiose. Affinché, qualora venisse dimostrato che qualche esponente dell'Amministrazione fosse coinvolto, si proceda a sciogliere il Consiglio comunale. Giorgetti ha telefonato al prefetto per esporre la sua richiesta. «È evidente che dopo Report si pone un problema rilevante», spiega. «Sulla base delle testimonianze raccolte e della ricostruzioni operate dai giornalisti c'è il dubbio che l'Amministrazione comunale di Verona intrattenga relazioni dirette o indirette con persone della criminalità organizzata». E aggiunge: «La sentenza della Corte Costituzionale 103 del 1993 ha chiarito gli elementi in base ai quali si deve procedere allo scioglimento dei Consigli comunali, compresi quindi i sindaci. E questi elementi sono il collegamento diretto o indiretto degli amministratori con la criminalità organizzata o in alternativa eventuali condizionamenti che la criminalità impone alle amministrazioni». Quindi «appalti pubblici irregolari, concessioni e autorizzazioni amministrative, parentele, affinità o frequentazioni degli amministratori con rappresentanti appartenenti direttamente o indirettamente alla criminalità organizzata. Ebbene, da Report emerge che un consigliere comunale potrebbe essere coinvolto in frequentazioni con persone della criminalità organizzata». Puntualizza il deputato: «Io voglio essere certo e garantito, anche dalla Procura. Va chiarito se esistono o no commistioni fra Amministrazione e criminalità organizzata. Se restasse soltanto il dubbio che esistono, allora si porrebbe il problema di sciogliere il Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose».Ma come dovrebbe operare la commissione? «È il prefetto, rappresentante del Governo, a nominare tre membri, che hanno tre mesi per raccogliere elementi di valutazione, con possibile proroga di altri tre mesi per la relazione conclusiva. Questa va inviata poi al ministero dell'Interno il quale poi decide se sciogliere o meno il Consiglio comunale». L'obiettivo politico, conclude Giorgetti, «è sapere se ci sono o meno rischi, dal punto di vista economico e sociale, per la comunità veronese. Altre riflessioni in questa fase non servono. Va chiarito in modo inequivocabile che la norma venga applicata». Tosi, però, informato della richiesta di Giorgetti, dichiara che «per quanto riguarda gli appalti alla 'Ndrangheta, la trasmissione mi pare che abbia citato un solo ente: Ater, che non dipende dal Comune di Verona, ma anzi il soggetto che esercita la vigilanza è l'assessorato in Regione Veneto che fa capo a Massimo Giorgetti e quindi invito l'onorevole Alberto Giorgetti a chiedere delucidazioni al fratello». Pronta la replica di Massimo Giorgetti: «La Regione non ha competenze dirette sulla gestione delle Ater, le aziende territoriali per l'edilizia residenziale, che sono autonome e governate ognuna da un proprio Consiglio di amministrazione. D'altro canto», aggiunge, «Tosi non può non sapere dell'esistenza e della funzione dei cda delle Ater, in quanto è stato proprio lui, come sindaco, a nominare in rappresentanza del Comune di Verona Umberto Peruffo, già assessore leghista a San Bonifacio, nel cda dell'Ater veronese. Dovesse avere dubbi o bisogno di informazioni, Tosi si rivolga quindi a Peruffo. Dopo di che la Regione rimane a disposizione per qualsiasi iniziativa o azione finalizzata ad accertare la correttezza dell'operato di un'azienda pubblica». Nel Pd, i segretari provinciale Alessio Albertini e comunale Orietta Salemi condividono la richiesta di Alberto Giorgetti. «Il nome di Verona, la tradizione e la storia della città meritano ben altro. Se i fatti descritti da Report fossero confermati, e auspichiamo che gli organi competenti si attivino con la massima urgenza, sarebbe un duro colpo per Verona e i veronesi. La politica non avrebbe più alcuno strumento d'azione, ma sarebbe il prefetto a dover valutare lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose».
Report attacca Tosi: affittopoli, parentopoli, mafia e video hard con i trans. Lui: "Tutto fango, anzi cazzate". Soldi per sputtanare Tosi: Report voleva "comprare" un leghista, scrive “Libero Quotidiano”. E' guerra a volto scoperto quella che da ieri sera si è aperta tra il sindaco di Verona Flavio Tosi e la trasmissione Report in onda su Rai Tre. Nella puntata del 7 aprile si è parlato di un video che immortalerebbe l'aspirante leader del centro destra in compagnia di transessuali, ma nessuna foto è stata mostrata e l’esistenza stessa della clip non è stata affatto provata. Un’inchiesta, quella di Sigfrido Ricucci, finita nell’occhio del ciclone ben prima di andare in onda. Per neutralizzarla, il 21 febbraio Tosi aveva presentato una denuncia alla Procura della Repubblica ("Notizie false, diffamatorie, comprate con denaro pubblico dalla tv di Stato allo scopo di distruggermi"). Secondo la ricostruzione del reporter Ranucci, il video renderebbe il sindaco “ricattabile”, ma il motivo non sarebbe il filmato hard, bensì temi come affittopoli, direttopoli, parentopoli. Dello stesso parere è la Gabanelli che in diretta ribadisce che "ora se alla base di decisioni non proprio trasparenti c’è il mistero di video o foto hard noi non lo sappiamo. Sappiamo che qualche interrogativo la sua amministrazione lo pone”. Ma andiamo con ordine, il punto di partenza è proprio quel presunto video a luci rosse, e proprio da li poi si sarebbero venute a sapere altre cose sul sindaco. Per acquisirlo, Ranucci entra in contatto con Sergio Borsato, un cantautore di simpatie bossiane, che finge di collaborare con il reporter per cedere il video in cambio di soldi alla trasmissione Rai. Ma in realtà, da bravo cantastorie, racconta tutto al sindaco leghista e d’intesa con lui registra gli incontri con il giornalista a Roma. In tutto ciò anche l’inviato di Report filma i colloqui con l’informatore. Ecco allora Borsato annunciare a Ranucci l’arrivo del misterioso l’autore del video hard: "Ce lo siamo portati a casa dall’estero, ma attenzione, ha una fifa boia e dobbiamo vincere un po’ la sua paura, a questo qua gli fanno la pelle perché era presente, è quello che ha registrato il video". E continua: "Adesso dobbiamo ammorbidirlo, ma dopo bisogna pagarlo, i soldi gli servono per stare un altro po’ fuori dai coglioni". Come riporta il sito Il Mattino di Padova, "il cantante poi alza il tiro: afferma di conoscere il sistema di tangenti della Lega e chiama in causa la francese Siram, società specializzata in appalti nella sanità già additata dall’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito come erogatrice di mazzette: la multinazionale smentisce, ora indaga la magistratura milanese". Ma nella storia c'è anche un pò di parentopoli, dal momento che la moglie di Tosi, Stefania Villanova, è balzata da impiegata e dirigente della Sanità a Palazzo Balbi. In attesa di accertare i fatti, spunta il nome dell’emissario segreto che affiancava Borsato negli incontri con i reporter: Massimo Giacobbo, imprenditore che, come afferma Ranucci, ha "agganci a Veneto Sviluppo", il fondo finanziario della Regione. Riguardo al video hard Borsato giura di averlo visto e offerto, senza successo, ai rivali bossiani in un colloquio a Vittorio Veneto. “L’ho visto, ho visto dei fotogrammi. C’è sempre ‘sta situazione. Vestito da donna, truccato in maniera incredibile, sempre da donna. Io l’ho sempre chiamato il bunga-bunga di Tosi, insomma”. I rapporti con la mafia di Tosi passerebbero da Crotone. Il Mattino di Padova ricorda "il tour di Tosi a Crotone, con la presentazione della Fondazione, fianco a fianco con il presidente della Provincia, Stanislao Zurlo, indagato per voto di scambio" e "le cene elettorali organizzate da Giorlo, di origini calabresi, dove 'si raccoglievano fondi e si parlava di affari'". La risposta furiosa di Tosi è arrivata su Radio24 al programma Effetto Giorno di Simone Spetia. "Mah, rispondere al fango e alla cacca...quella di ieri è una trasmissione di cacca, costruita in un certo modo, non dicendo nulla perché poi non è che hanno ipotesi di reato. Fango. Gli interlocutori sono gente buttata fuori dalla Lega, disperati. Ci fosse uno che ha dato una notizia vera". Poi parla anche in merito al presunto scandalo sessuale che lo riguarda attacca: "Io vestito da donna? Sono uno che non usa profumo, non mette braccialetti. Non ho quel tipo di tendenze. Chiunque può andare in televisione e dire: ‘Ho sentito che la Gabanelli fa la prostituta', non lo so, lo nego, magari è vero, magari no. Se cominciamo così è la macchina del fango per tutti". E a proposito dei contatti con la criminalità calabrese e alla cena con esponenti della 'ndrangheta replica così: "La realtà è che, andando sui dati, loro citano una cena alla quale sarebbe stata presente la 'ndrangheta calabrese. E' avvenuta in un luogo aperto al pubblico e c'erano il presidente della Provincia, il sindaco, tre assessori provinciali, tre consiglieri comunali, il presidente degli industriali, professionisti, artigiani, sei giornalisti, forze dell'ordine dentro e fuori per ragioni di sicurezza. La macchina del fango serve a qualcuno, si vede che il sottoscritto dà fastidio a qualcuno. Spiace che la televisione di Stato, perché Gabanelli e Ranucci lavorano per la Tv di Stato, utilizzi strumenti di diffamazione come questi. Ma ci vedremo in tribunale”.
Lega Nord, la confessione di un militante: "Report mi ha offerto soldi per sputtanare Tosi", scrive di Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”. Un giornalista Rai viene registrato mentre offre soldi a un militante: voleva ottenere un presunto video hard col sindaco. Che denuncia tutto in Procura. La Gabanelli: stavamo verificando una notizia. Flavio Tosi querela Report, la trasmissione di Milena Gabanelli che va in onda su RaiTre. Arriviamo subito al nocciolo: pur di ottenere un presunto video col sindaco nel bel mezzo di un festino hard, il giornalista e coautore del programma, Sigfrido Ranucci, s’è detto disponibile a pagare. Con soldi della tv di Stato. Le sue parole sono state registrate di nascosto e consegnate ieri mattina al procuratore capo di Verona Mario Giulio Schinaia. La conduttrice di Report, Milena Gabanelli, ha risposto in serata. Escludendo che ci sarebbe stato il passaggio di denaro: spiega che erano tutte chiacchiere per ottenere il materiale. Ma andiamo con ordine. Da alcune settimane il pluripremiato cronista Ranucci stava lavorando sul cosiddetto «sistema Tosi». Tra gli altri, avvicina un leghista che non stravede per il sindaco. Questo militante lo indirizza a Sergio Borsato, vicentino, che negli anni Novanta era uno dei pupilli di Umberto Bossi perché aveva realizzato alcune canzoni sulla Padania. Il Senatur caldeggiava la presenza di Borsato alle kermesse del Carroccio, presentandolo come «la più grande voce del Nord». A Borsato, Ranucci spiega di voler spiattellare tutte le grane di Tosi. Per confermare d’essere bene informato, gli confida che almeno tre procure lo starebbero braccando. Parla di tangenti e di regali da parte della ’ndrangheta. Rolex, quattrini per la campagna elettorale, festini hard. Il sindaco ricambierebbe con appalti alle famiglie calabresi. Secondo questo scenario, Tosi sarebbe pure ricattato. Si vocifera di un suo incontro sessuale immortalato da una telecamera. Ranucci riporta tutte queste indiscrezioni e chiede lumi. Soprattutto sul video hard. Qualcuno ce l’ha? Borsato prende tempo, poi avverte Tosi dicendosi «schifato» da Report. Il primo cittadino si rivolge a un avvocato e chiede a Borsato di registrare gli incontri. Scatta la trappola. Ai rendez-vous il cantante che piace a Bossi si porta un microfono nascosto (ma la stessa cosa, fanno sapere da Report, hanno fatto loro). Il nastro cattura la voce del giornalista mentre disegna un intreccio di prostituzione, affari, mazzette. Spunta l’immancabile trans. Ranucci conferma: se esce ’sta roba, Tosi è «tutto bruciato». Peccato che manchi il video... A questo punto Borsato finge di poter ottenere il filmino a luci rosse e organizza un pranzo a Roma col giornalista. Il leghista si porta dietro un complice. Che si spaccia per quello che ha materialmente girato il video. Vi risparmiamo i dettagli del banchetto, registrato integralmente. Da una parte c’è un giornalista, Ranucci, che affonda la forchetta in un piatto di pasta e snocciola il suo curriculum per rassicurare gli altri commensali. Garantisce massima copertura per le fonti. Si parla anche di soldi e del metodo di pagamento, tra i 10 e i 15mila euro che saranno versati dalla Rai con una procedura ad hoc per coprire l’identità degli informatori. «Questa sarebbe la ciliegina sulla torta» si dicono i tre, perché il segugio di Report precisa che la faccenda del filmato «riguarderà il 20-30% del nostro servizio». Promette che ne manderà in onda pochi secondi e che cancellerà tutti i volti dei protagonisti, Tosi escluso. «Dopo ’sta roba è finito» e comunque «gli sta franando addosso tutto» insiste il coautore della trasmissione Rai. Viene ricordato l’arresto dell’ex vicesindaco di Verona. Ranucci precisa che lo scopo del suo lavoro «è fare servizio pubblico». In nessun caso - ripete - metterebbe a rischio l’incolumità di chi gli fornisce il materiale. Anche perché l’amico di Borsato (cioè il presunto possessore del filmino) ripete di sentirsi in pericolo di vita. «Ho fatto servizi anche sul Pentagono e nessuno ha mai capito come avessi avuto le notizie!» assicura Ranucci, che aveva denunciato l’uso del fosforo bianco in Iraq. Tra una forchettata e l’altra, racconta anche di un presunto incontro tra Tosi e il fratello di un capocosca di Crotone. Al procuratore capo di Verona, il sindaco ha consegnato più di due ore di registrazioni, tra video e audio. Poi ha organizzato la conferenza stampa spiegando che il materiale «prova il tentativo del giornalista di Report di costruire notizie false e diffamatorie con metodi illeciti e con l’uso di denaro pubblico». E ha aggiunto: «In sintesi un programma di inchiesta della Rai, pagato con i soldi dei cittadini, ha cercato di costruire una trasmissione per distruggere una persona ritenuta evidentemente un avversario politico». Inutile dire che Tosi ha negato tutte le voci riportate da Ranucci, a partire dal video hard e dai festini. Contattata da Libero, Milena Gabanelli risponde per le rime: «È una querela preventiva. Nulla è andato in onda. Stavamo verificando alcune notizie». La colonna di Report precisa che «in 17 anni di storia non abbiamo mai pagato un informatore», e anche nel caso del filmato di Tosi «non sarebbe avvenuto». Insomma, erano chiacchiere con l’obiettivo di vedere il materiale. «La nostra inchiesta riguardava gli appalti, non i gusti sessuali» di Tosi, ribadisce la Gabanelli. Che conferma la totale fiducia in Ranucci e parla di «incontro-trappola» organizzato da Borsato. Concetti che la giornalista ha poi ribadito alle agenzie di stampa. «Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto». Replica Tosi: «La documentazione audio e video allegata alla mia denuncia è integralmente quella che ci è stata fornita. Il video dal contenuto diffamatorio non è stato proposto al giornalista di Report ma che è stato lui a cercare di chiedere insistentemente di acquistarlo con fondi Rai». L’ultima parola toccherà alla magistratura.
Report attacca Tosi. Lui si ribella: "Sono delle merde". Va avanti il botta e risposta tra il sindaco di Verona e la trasmissione della Gabanelli, che lo ha preso di mira con un'inchiesta, scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. Il programma tv Report, di Milena Gabanelli, ha realizzato un'inchiesta che ha suscitato un gran polverone molto prima di andare in onda. E' quella su Flavio Tosi, sindaco di Verona. IL quale, per cercare di evitare che venisse mandata in onda, ha presentato una denuncia parlando di notizie false e diffamatorie nei suoi confronti, "comprate con denaro pubblico dalla tv di Stato allo scopo di distruggermi". Denunce anche dal comandante dei vigili e da un assessore dimissionario. La conduttrice di Report non si è fermata e ha risposto a muso duro, dicendo che "in 17 anni a Report non abbiamo mai pagato una fonte né l’avremmo fatto a Verona". Ma cos'è che ha fatto tanto arrabbiare Tosi. Si parla di un presunto video a luci rosse con immagini imbarazzanti per Tosi. Filmato della cui esistenza si sarebbe già parlato, a scopo ricattatorio, prima che Tosi diventasse sindaco, quando era assessore regionale alla Sanità. Per acquistare questo filmato il giornalista Sigfrido Ranucci si mette in contatto con Sergio Borsato, un cantautore di simpatie leghiste che finge di collaborare ma racconta tutto a Tosi e, d'accordo con lui, registra gli incontri con il giornalista, avvenuto a Roma. Una vera e propria spy story, con il giornalista che filma i colloqui. La storia, come racconta il Mattino di Padova, va avanti per un po', Borsato rivela a Ranucci che il video sta arrivando: "Ce lo siamo portati a casa dall’estero, ma attenzione, ha una fifa boia e dobbiamo vincere un po’ la sua paura, a questo qua gli fanno la pelle perché era presente, è quello che ha registrato il video". E va avanti nel racconto: "Adesso dobbiamo ammorbidirlo, ma dopo bisogna pagarlo, i soldi gli servono per stare un altro po’ fuori dai coglioni". Poi la "gola profonda" comincia a parlare di altre storie: dalle tangenti alla moglie di Tosi. Al momento si tratta solo chiacchiere e sono già state presentate alcune denunce. Vedremo come andranno a finire. Intanto spunta il nome dell'uomo che affiancava Borsato per documentare gli incontri con Ranucci. Si tratta di un imprenditore, Massimo Giacobbo. E il video a luci rosse? Borsato dice di averlo visto e offerto ai "rivali" bossiani. Storie di spie, ricatti e tante altre cose. Tosi le liquida così: "Se uno va a vedere, chi mi getta fango addosso è gente disperata, ex leghisti espulsi, prove zero, reati zero". A Report, che ha citato a sostegno della propria tesi una cena a Crotone promossa dalla fondazione "Ricostruiamo il Paese", Tosi risponde che "la famosa ’ndrangheta rappresenta il presidente della provincia, il sindaco, tre assessori provinciali, tre consiglieri comunali, il presidente degli industriali, professionisti e un ristorante aperto al pubblico pieno di forze dell’ordine per ragioni di sicurezza. Ecco perché sono delle merde, perché uno che fa giornalismo così è una merda".
DA ROMA LADRONA A VERONA LADRONA, PER FINIRE A VENEZIA LADRONA.
Da "Roma Ladrona" a "Verona Ladrona"? Pubblichiamo un articolo dell'avv. Aventino Frau che fa un'impietosa fotografia della città scaligera nell'occhio del ciclone della magistratura . (Andrea Cometti). Il mugnaio di Posdam riscopre Verona di Aventino Frau
Verona è una città affascinante, piena della sua storia e delle sue memorie, al lato estremo di un Veneto che la vede confinare con l’industriosa e forte Lombardia, risentendone, in un rapporto di amore e odio, il confronto e talvolta lo scontro. Nella seconda parte del secolo scorso, con il resto del Veneto ma ancor di più, Verona ha visto lo sviluppo tumultuoso del dopoguerra, ha valorizzato la propria centralità geografica, ha spinto la sua dimensione internazionale, ha avviato un processo industriale, minore di quello bresciano e Lombardo ma assai significativo. All’economia agricola si è sostituito uno sviluppo artigianale e industriale di prima generazione e con una dirigenza ben attenta alla politica, legata al forte potere della Dc e ben coinvolta negli interventi economici dello Stato. Non dimenticando dapprima alla riconoscenza e successivamente i finanziamenti interessati quando non le corruzioni piccole e grandi. Per questo, con Tangentopoli, a Verona le scosse di terremoto sono state notevoli ma non toccarono la vecchia classe dirigente, rimasta pressoché immune, quello dei Delaini, Gozzi, Zanotto, e altri di quella generazione politica. I più giovani successori, come in altre parti d’Italia, sono stati meno virtuosi: un’intera generazione è stata spazzata via dallo scandalo, dalla magistratura e dagli eccessi di un drammatico periodo. Il tutto nella “sorpresa” di molti, della stampa, del mondo imprenditoriale che scoprì improvvisamente la corruzione che in discreta parte praticava, finanziando partiti, correnti, centri studi e uomini politici. Sembra ieri che sono passati vent’anni e la Verona di Rambo Bissoli sembra dimenticata. Il peggio fa dimenticare anche il male e alcuni protagonisti di esso sono pure risorti. Cambiò, così sembrava, la politica: venne l’illusione della palingenesi di Forza Italia, dell’irruenza purificatrice della Lega Nord. Apparvero una classe dirigente, giovane e bella, una nuova politica, nuove istituzioni e grandi riforme per Forza Italia; separazione dall’Italia corrotta, da Roma ladrona, la corsa verso la Svizzera dei banchieri più che delle autonomie, i varesotti al potere, il Veneto all’ubbidiente seguito. Verona con le amministrazioni e la politica non fecero scintille, ma nemmeno errori scandalosi, eccessi di malgoverno. Molte pieghe per l’irruente presenza della Lega, simile ai Grillini di oggi ma con alcune idee degne di rispettosa attenzione. Poi la Lega divenne forte a Verona e altrove, guidata da un Tosi sempre più dotato di consenso e di potere, e in Comune tanto potente da svuotare totalmente la lista e i voti di Forza Italia e del PDL. Il potere male esercitato logora anche chi lo ha, ma sopratutto gli fa correre grossi rischi. I difetti della politica sono molti e tra questi si fanno notare in particolare il partitismo esagerato, il familismo, l’affarismo, i cedimenti al lobbismo. Del resto la politica, come ci insegna Machiavelli, non è fatta per gli ingenui, gli idealisti, gli stolti, ma non può fare a meno, se vuoi produrre qualcosa, degli intelligenti, dei coraggiosi, dei preparati, non può fare a meno d’idee e ideali. Se prevalgono i primi il disastro, prima o poi, è inevitabile e quando viene, produce una valanga. Se si dà alla civis la sensazione di una legalità superabile con il potere, della facilità di accesso alle istituzioni, della prevalenza dei voti sulla legge stessa, del privilegio delle amicizie influenti, della sedicente fedeltà cieca al capo indipendentemente dalla qualità dei fedeli, la società esprimerà sempre di più le sue tendenze peggiori, le sue intime corruzioni e debolezze. Anche la troppo potente burocrazia si sente senza vincoli, salvo una presunta legalità formale, senza controlli e dunque senza possibili sanzioni. Il clima politico della civis, della città, ne esce deteriorato, il cambiamento fa dimenticare le buone abitudini del passato, viene meno il rispetto per la politica e la sua classe dirigente che purtroppo non ne appare più meritevole. Nel nostro caso la civis è l’amata Verona, che già subisce una slavina di negative scoperte e vede, quasi di colpo, il danno fatto dalla cattiva politica, familistica, clientelare, affaristica, faziosa. Si scopre però anche, con Bertold Brecht, che c’è pur sempre un giudice a Berlino e prima o poi il cittadino semplice, al mugnaio di Postdam, saranno riconosciuti i suoi diritti. Gli altri giudici possibili, nell’ipotetica Postdam, per noi Verona, sono tutti disattenti: i sindacati, le associazioni imprenditoriali, il potente giornale della città di proprietà di banche e industriali, gli stessi partiti politici e tutte le autorità che dovrebbero controllare. Prima del giudice di Berlino (i pubblici ministeri di Verona) tutti affetti da cecità e soprattutto da sordità. La Verona che si scopre, dopo la denuncia di un coraggioso amministratore sollevato dall’incarico del sindaco, è un campo dopo la battaglia. E speriamo che il denunciante, il nostro “mugnaio di Postdam, non finisca sulla Croce, in omaggio al detto latino “nomen omen”. La slavina vede la neve su tutta la Verona comunale fa sentire il freddo anche oltre, in Enti e Aziende comunali e pubbliche, sul Comune. Parte da AGEC, mense scolastiche, cimiteri, immobili e giunge in Fiera, raggiunge AGSM, energia con ATV e AMT, trasporti, sconvolge il vertice del Comune (vicesindaco Giacino dimesso, assessore Giorlo fra poco) senza contare la gestione di Acque Veronesi con i numerosi dirigenti nutriti con vini preziosi e costosi (altro che acque!) e il Presidente della Provincia che smentisce se stesso, e i guai del Catullo, con le piste metaforicamente piene di buchi finanziari. Siamo di fronte ad una Verona la cui immagine, un tempo illustrata come esemplare, sulle tv nazionali dove faceva il libero docente il sindaco Tosi, è ora devastata da scandaletti, scandali e scandalosi, arresti e indagini, fatti previsti dai pubblici ministeri come corruttivi, di cattiva gestione, con comportamenti che ipotizzano reati penali. Non manca nemmeno il lato sexy del cherchezlafemme. È questa la vera Verona politica, amministrativa? È questa la sua cultura politica? Dove sono finite la moralità leghista, la critica alla Roma ladrona, la buona gestione vicina alla gente, lo sviluppo delle mitiche partite Iva conquistatrici del mondo? Se è così, e tutto lo fa pensare, bisogna che i migliori veronesi si mettano al lavoro. Come scrive l’avvocato Michele Croce bisogna pulire per ricostruire. A pulire forse ci penserà la magistratura, a ricostruire ci vorranno i veronesi, i più bravi, i più attenti. Sarà un’improbabile fatica e probabilmente nessuno dei potenti dirà loro grazie, nello spirito dei silenzi di oggi.Verona, il 17 febbraio 2014 arrestato ex vicesindaco. E' accusato di corruzione. Nel mirino per appalti sospetti e consulenze alla moglie, che è ai domiciliari. Nato politicamente con Forza Italia, due anni fa era stato eletto con la lista Tosi. L'ex vicesindaco di Verona, Vito Giacino, è stato arrestato stamattina, su ordine della Procura della Repubblica di Verona, assieme alla moglie Alessandra Lodi che è finita ai domiciliari. L'accusa è corruzione. Giacino, era stato iscritto nell'eleco degli indagati lo scorso novembre. Allora si era allora dimesso dall'incarico. gli accertamenti riguardano appalti e consulenze alla moglie. Avvocato, 41 anni, Giacino è stato leader dei giovani di Forza Italia in Veneto, poi assessore nella prima giunta Tosi, e alle ultime elezioni amministrative, due anni fa, passato nella Lista Tosi, era stato il candidato più votato in città con 4.130 preferenze, assumendo così l'incarico di assessore all'Urbanistica e all'Edilizia privata. Intanto il procuratore di Verona, Mario Giulio Schinaia, interviene per smentire il coinvolgimento del sindaco: "Flavio Tosi non è sicuramente indagato".
Le indagini riguardano l’ipotesi di corruzione nell’ambito di accertamenti avviati alcuni mesi fa su appalti e consulenze alla consorte, scrive Alessandro Madron su “Il Fatto Quotidiano”. Un nuovo terremoto sta scuotendo la corte di Flavio Tosi. Questa mattina è stato arrestato l’ex vicesindaco, Vito Giacino, finito in carcere con l’accusa di corruzione nell’ambito di accertamenti avviati alcuni mesi fa su vicende riguardanti appalti e consulenze alla moglie, l’avvocato Alessandra Lodi. Anche per lei la procura scaligera ha emesso un’ordinanza, disponendo gli arresti domiciliari. Vito Giacino, che oltre all’incarico di vicesindaco ha anche ricoperto l’incarico di assessore all’Urbanistica e, nella seconda giunta Tosi, all’Edilizia privata, si era dimesso lo scorso mese di novembre dopo la notizia della sua iscrizione nel registro degli indagati, proprio perché le sue vicende non turbassero l’operato della giunta comunale. L’ex vicesindaco è stato condotto poco prima delle 11 nel carcere veronese di Montorio. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere, richiesta dal pubblico ministero Beatrice Zanotti, è stata firmata dal Gip Guido Taramelli. Nell’indagine, oltre alla moglie finita ai domiciliari, ci sono altri indagati ma, come ha puntualizzato il procuratore capo di Verona, Mario Giulio Schinaia: “Flavio Tosi non è indagato”. Il procuratore ha spiegato ai cronisti che nell’inchiesta non ci sono elementi riconducibili al sindaco. Gli arresti di questa mattina seguono di pochi mesi quelli che avevano decapitato i vertici dell’Agec, l’azienda municipalizzata veronese che gestisce gli alloggi pubblici, i servizi cimiteriali, le mense scolastiche e le farmacie comunali nella città guidata dal leghista Flavio Tosi. Agec è nell’occhio del ciclone da parecchio tempo, almeno da quando Michele Croce, ex alleato di Tosi ed ex presidente di Agec, è stato defenestrato dopo aver tentato di mettere il naso nei conti della società. Era stato proprio Croce, nel novembre 2012, a presentare un esposto in Procura per lamentare una gestione poco trasparente. Il processo Agec prenderà il via proprio il prossimo venerdì 21 febbraio. Oggi Michele Croce, che ha continuato la sua battaglia fuori dalle istituzioni costituendo l’associazione Verona Pulita, è intervenuto ribadendo il ruolo avuto nella denuncia del sistema veronese e puntando il dito contro il sindaco Flavio Tosi: “In tempi non sospetti, a giugno 2013, unici in tutta Verona, avevamo anticipato per primi i fatti sul blog Verona Pulita, nonostante le inutili minacce di querela da parte dei coniugi Giacino. Ora la triste conferma con gli arresti”. Poi continua: “Come sempre ci conformiamo ai principi di garanzia costituzionale ed aspettiamo gli sviluppi, ma non possiamo fare a meno di constatare come questa vicenda costituisca solo l’ultimo anello di una catena impressionante di inchieste giudiziarie che gettano pesanti ombre su tutta l’amministrazione comunale, a partire dal sindaco Flavio Tosi che ha sempre difeso a spada tratta l’operato di indagati, perquisiti, arrestati e patteggiati, nonostante le evidenze”. Occhi puntati, poi, anche su Veronafiere. Venerdì scorso, infatti, il Gip Rita Caccamo ha sentito i vertici della società Ettore Riello (presidente), Gianni Mantovani (Direttore generale) e Diego Valsecchi (direttore del personale) su un presunto giro di assunzioni sospette.
L'ex vicesindaco di Verona Vito Giacino è stato arrestato stamattina, su ordine della Procura, assieme alla moglie Alessandra Lodi. L'accusa è quella di corruzione, scrive “L’Arena”. Nell’autunno scorso scoppiò il caso dopo una lettera anonima: gli accertamenti avviati riguardavano appalti e consulenze alla moglie. Giacino si era dimesso dall’incarico il 15 novembre scorso, dopo l’iscrizione nel registro degli indagati. Giacino, avvocato, 41 anni, fu leader veneto dei giovani di Forza Italia, e alle ultime elezioni, nella Lista Tosi, era stato il candidato più votato. Ricoprì l'incarico di assessore all'Urbanistica e, poi, all'Edilizia privata. L'ex vicesindaco è stato condotto poco prima delle 11 nel carcere di Montorio. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere, richiesta dal pubblico ministero Beatrice Zanotti, è stata firmata dal Gip Guido Taramelli che ha disposto la misura dei domiciliari per la moglie di Giacino. Vito Giacino, al momento delle dimissioni, aveva inviato una lettera al sindaco Flavio Tosi spiegando che non voleva in alcun modo che la sua vicenda potesse danneggiare l’immagine dell’amministrazione comunale. «Flavio Tosi non è indagato», lo ha detto il procuratore capo di Verona, Mario Giulio Schinaia, rispondendo ai cronisti. Il procuratore ha spiegato che nell’inchiesta non ci sono elementi riconducibili al sindaco: «quindi ribadisco che Tosi sicuramente non è indagato» ha concluso Schinaia. Il sindaco di Verona, Flavio Tosi, ha detto di augurarsi che l’ex vicesindaco possa dimostrare la sua innocenza e rilevato che stupisce la tempistica dell’arresto a mesi di distanza dall’avvio delle indagini e dalle dimissioni dell’indagato. «Dell’inchiesta, per il momento, non sappiamo nulla. Come ha detto il procuratore della Repubblica Schinaia - ha rilevato Tosi - ora inizia la fase di accertamento della verità, dato che il processo non è ancora stato avviato, e mi auguro che l’ex vicesindaco Vito Giacino riesca a dimostrare la sua innocenza. Stupisce la tempistica di un arresto che arriva a mesi di distanza dall’avvio dell’indagine e a 3 mesi dalle dimissioni da vicesindaco; per un arresto preventivo dovrebbe sussistere almeno una delle tre condizioni necessarie: reiterazione del reato, pericolo di fuga o inquinamento delle prove. Non si capisce cosa sia attribuibile a Giacino che da tempo non ha ruoli politici e amministrativi. Comunque, non mi esprimerò finchè non sarò a conoscenza dei fatti». «La coincidenza si nota»: il sindaco di Verona ha risposto così alla domanda sulle inchieste che coinvolgono enti partecipati dal comune scaligero. «C’è tutta serie di indagini - ha spiegato Tosi -, che riguardano future collegate, la gran parte sono dirigenti e dipendenti e non politici, aspettiamo l’accertamento della verità». «Sicuramente - ha aggiunto - c’è un grande interesse attorno agli atti amministrativi dell’amministrazione o delle partecipate. Ma l’attività di verifica della magistratura ci sta». «L’errore - ha continuato Tosi -, in questo caso sarebbe, e spesso accade, di processare e condannare prima pubblicamente chi è coinvolto: quando in Italia le cronache giudiziarie molte volte hanno dimostrato che statisticamente le inchieste di questo tipo finiscono in maniera diversa da come sono cominciate». «Questo significa anche rispettare le persone coinvolte invece di aggredirle», ha concluso il sindaco di Verona. «Perchè dovrei dimettermi? Non c’è alcun motivo per farlo e non ne capisco il motivo». Lo ha detto all’Ansa il sindaco Flavio Tosi, riguardo alla richiesta di sue dimissioni del Movimento 5 Stelle e di Forza Nuova, dopo l’arresto dell’ex vice sindaco. Un’indagine che segue quelle che hanno toccato altri enti partecipati dal comune scaligero. «Non sono nè indagato, nè lontanamente sfiorato da una di queste vicende», ha spiegato Tosi. «Quindi - ha aggiunto riguardo alle richieste di dimissioni - sarebbe veramente un non senso».
Verona, terremoto senza precedenti in Comune: è stato arrestato l'ex vicesindaco Vito Giacino. Il dimissionario braccio destro di Flavio Tosi e assessore all'Urbanistica era stato travolto da un'indagine nata dalla lettera anonima con accuse su presunte consulenze professionali tra la moglie e pratiche per concessioni di lavori pubblici, scrive “Verona Sera”. Un terremoto che nonostante le sue dimissioni non può che sconvolgere gli amministratori del Comune di Verona. E' stato arrestato lunedì mattina l'ex vicesindaco Vito Giacino. Già assessore con delega all'Urbanistica e braccio destro del primo cittadino Flavio Tosi, Giacino era stato travolto a fine ottobre da un'inchiesta giudiziaria culminata nell'acquisizione di documenti da parte degli uomini della polizia giudiziaria di Verona. Le Forze dell'ordine erano entrate prima nell'abitazione e poi nell'edificio comunale per acquisire dei documenti relativi a qualche indagine, ma prima d'ora non era mai stato coinvolto un assessore. L'ex vicesindaco è stato trasferito alle 11 nel carcere di Montorio con l'accusa di corruzione e abuso d'ufficio. L'ordinanza di custodia cautelare , richiesta dal pubblico ministero Beatrice Zanotti, è stata firmata dal giudice per le indagini preliminari, Guido Taramell. Dalle indiscrezione trapelate, sembrerebbe che la moglie di Giacino, Alessandra Lodi, sia agli arresti domiciliari. L'indagini vede altri indagati a piede libero. L'operazione era stata preceduta nei mesi scorsi da una lettera anonima recapitata agli organi politici e alle Forze dell'ordine. Nella missiva si sosteneva che fosse presente un "sistema" all’interno degli uffici dell’Urbanistica funzionale al rilascio dei permessi, facente capo al vicesindaco Vito Giacino. Tale prassi, secondo l'autore di questo documento, prevedeva che per ottenere i permessi urbanistici, fosse necessaria una consulenza dello studio legale della moglie del vicesindaco, l’avvocato Alessandra Lodi. Un altro paragrafo di questa oramai famigerata lettera, faceva riferimento ai lavori di ristrutturazione svolti dal vicesindaco e dalla consorte nel proprio appartamento di Borgo Trento, che furono affidati alla So.ve.co., ditta che figura in diversi appalti comunali, tra cui filobus, ponte San Francesco, ex Gasometro. "Dalle carte che mi sono state richieste, presumo che tutto nasca da quella famosa lettera anonima", aveva affermato lo stesso Giacino. Dai banchi della minoranza, soprattutto del Pd, alcuni avevano chiesto la sua "autosospensione" dagli incarichi comunali. Chiedevano inoltre chiarezza, sulle vicende che lo vedevano coinvolto nell'inchiesta giudiziaria su presunte consulenze affidate alla moglie per appalti pubblici. Giacino aveva rassegnato le sue dimissioni il 15 novembre. Un'altro terremoto che sconvolge Palazzo Barbieri, all'indomani delle indagini che avevano riguardato Agec (i cui vertici dirigenziali sono stati azzerati dagli arresti della Finanza) e la presunta Parentopoli nelle municipalizzate. Ad annunciare la decisione di Giacino era stato lo stesso sindaco Flavio Tosi, che si è visto consegnare a mano una lettera dallo suo stesso vice. Le motivazioni sarebbero proprio legate al presunto scandalo che lo coinvolge assieme alla moglie. L'indagine era stata portate alla luce da una missiva anonima nella quale un "Corvo" aveva lanciato accuse su presunte consulenze professionali tra la moglie, l'avvocato Alessandra Lodi, e pratiche per concessioni di lavori pubblici. L'accusa formulata dalla Procura era stata quella di corruzione. Sulla nascita dell'indagine, però, il procuratore capo di Verona, Mario Giulio Schinaia, tiene comunque a precisare che "questa inchiesta non è nata da una lettera anonima. In Procura di anonimi purtroppo ne arrivano a bizzeffe, a tonnellate; però hanno l'esito che devono avere: vengono immediatamente cestinati. E' chiaro che se il fatto riportato dall'anonimo poi negli accertamenti che qualcuno dispone di fare trova qualche riscontro obiettivo, è sulla base di questo riscontro che noi procediamo, non certo sulla base dell'anonimo". Riguardo all'indagine avviata la scorsa estate, culminata con le perquisizioni a novembre nell'ufficio in municipio e nello studio legale di Giacino e della moglie, Schinaia ha precisato che "sono pervenuti sia degli esposti, sia delle denunce e anche delle segnalazioni anonime. Sulla base di tutto e' stato disposto un accertamento e sulla base degli esiti delle indagini evidentemente sono emersi dei fatti in base ai quali la collega ha chiesto la misura cautelare, un giudice l'ha emanata ed è stata eseguita. La misura cautelare evidentemente era necessaria. Tuttavia come sempre è opportuno di volta in volta attendere l'esito del processo. Oggi siamo solo agli inizi". "In questi giorni difficili - aveva scritto Giacino nella lettera di dimissioni al sindaco Flavio Tosi - ho avuto la forza di andare avanti grazie al totale sostegno della mia famiglia, di tantissimi amici e fra tutti il tuo, ma ho continuato ad interrogarmi se le indagini non potessero danneggiare l'ente e l'autorevolezza del tuo ruolo".“ "Ho inoltre percepito - rileva Giacino - che i quotidiani dubbi creati da un'esposizione mediatica oltre ogni misura avrebbero potuto gettare un'ombra sulla bontà delle scelte di questa amministrazione. Non ti nascondo che anche la sofferenza di mia moglie e dei miei familiari in questa vicenda mi hanno molto interrogato su come ridurre la loro esposizione mediatica". Poi Giacino, che aveva le deleghe alla pianificazione urbanistica, all'edilizia privata e all'edilizia economico popolare, comunica a Tosi la rinuncia all'incarico: "Per le ragioni che ti ho brevemente esposto con grande sofferenza ritengo, quindi, dato il nostro rapporto personale e politico, di rassegnarti le mie dimissioni irrevocabili così da impedire che in qualsiasi maniera possano essere adombrate insinuazioni sull'Ente e sull'operato della tua Amministrazione". "Ho atteso la giornata di oggi - concludeva la lettera di Giacino - al fine di concludere l'importante delibera prevista in Consiglio comunale così da non venir meno al mio dovere fino all'ultimo". "E’ un brutto colpo per tutta la città, che meriterebbe un’amministrazione concentrata solo sui problemi di Verona e che invece deve fronteggiare continue notizie di inchieste, di dimissioni date e ritirate". E' questo ciò che è emerso dalla conferenza stampa organizzata dal Pd di Verona nelle sale del municipio in piazza Bra, alla notizia dell'arresto di Giacino. "Posto che nella vicenda giudiziaria dell'ex vicesindaco Giacino le eventuali responsabilità penali, qualora accertate, saranno da ritenersi personali, non si può far finta di ignorare che da questa e dalle altre vicende giudiziarie ancora in corso emergono le ombre di gravissime responsabilità politiche che investono l'intera amministrazione comunale". Continua il Pd di Verona, in una nota: "Se davvero negli uffici dell'urbanistica esisteva un sistema illecito per il rilascio dei permessi, l'amministrazione avrebbe quantomeno la responsabilità di non avere vigilato. E di essersi rifiutata di fornire qualsiasi spiegazione fin dal primo accesso della polizia giudiziaria negli uffici dell'ex vicesindaco. Se davvero esiste anche solo l'ombra del pericolo di infiltrazioni malavitose nel sistema degli appalti veronesi, questa è un'altra precisa responsabilità della politica che avrebbe dovuto dissipare ogni dubbio legittimo fin dal nascere. Negli ultimi mesi sono stati depositati ben tre esposti in cui si chiedeva alla magistratura di accertare l'eventuale sussistenza di reati in merito alla vicenda del sistema di rilascio dei permessi urbanistici e relativi al piano degli interventi; in merito alla vicenda delle aree peep; in merito ai sospetti di contatti con ambienti malavitosi. E' stata inoltre richiesta la costituzione di una commissione d'inchiesta per verificare l'iter dei provvedimenti coinvolti nelle indagini". Da qui l'invito al sindaco Tosi di "venire a riferire in Consiglio comunale su queste vicende". Sulla stessa lunghezza d'onda il Movimento 5 Stelle. "L’ordinanza di custodia cautelare in carcere - spiega il deputato veronese Mattia Fantinati - viene emessa solitamente quando c’è pericolo di reiterazione del reato, e non è questo il caso dal momento che Giacino non ha più cariche, o se sussiste il pericolo di turbamento delle indagini. Il dubbio lecito, quindi, è che alcune delibere firmate dall’ex vicesindaco siano inficiate da procedure illecite. Per questo ne chiediamo la revoca, a partire dall’ultima, quella relativa al centro commerciale davanti alla fiera, guarda caso firmato alla vigilia delle dimissioni". "In tempi non sospetti, a giugno 2013, unici in tutta Verona, avevamo anticipato per primi i fatti sul blog "Verona Pulita", nonostante le inutili minacce di querela da parte dei coniugi Giacino. Ora la triste conferma con gli arresti" ha spiegato a caldo Michele Croce, ex presidente di Agec da tempo in guerra con l'amministrazione comunale. "Come sempre ci conformiamo ai principi di garanzia costituzionale ed aspettiamo gli sviluppi, ma non possiamo fare a meno di constatare come questa vicenda costituisca solo l’ultimo anello di una catena impressionante di inchieste giudiziarie che gettano pesanti ombre su tutta l’amministrazione comunale, a partire dal sindaco Flavio Tosi che ha sempre difeso a spada tratta l’operato di indagati, perquisiti, arrestati e patteggiati, nonostante le evidenze". "Era ampiamente nell’aria ed è successo. Quello che Forza Nuova, insieme a Christus Rex, sta denunciando da mesi è emerso ormai in maniera inquietante e lampante. Dopo gli arresti, possiamo affermare senza alcun dubbio che l’amministrazione Tosi risulta a tutti gli effetti collusa con il potere mafioso". A parlare è Luca Castellini, coordinatore Nord Italia per Forza Nuova e già candidato sindaco alle ultime elezioni, che chiede "le immediate dimissioni di Tosi ed il commissariamento dell’amministrazione motivati da gravi e manifesti indizi di collusione mafiosa. I Forzanovisti, primi protagonisti della battaglia per l’onestà e la trasparenza politica, si sentono liberi oggi di gridare 'ladri' in faccia a chi se lo merita, e lo faranno a partire dalla prossima seduta del Consiglio comunale”. Incalza Francesco Alverà, responsabile provinciale di Forza Nuova: "Sono proprio curioso di vedere se il sindaco Tosi, dal'alto della stella che porta puntata sul petto e di cui fa bella mostra secondo convenienza, si costituirà parte civile al processo Giacino o al prossimo processo che lo vedrà direttamente coinvolto”. E intanto Matteo Castagna di Christus Rex propone “l’istituzione di un Comitato cittadino trasversale che si costituisca parte civile al processo Giacino per il grave danno d’immagine recato alla città di Verona”.
Verona, inchieste, debiti, assunzioni sospette, aeroporto, stipendi d'oro: giorni di fuoco per Tosi. Nuvole minacciose sul Comune di Verona: l'arresto dell'ex vicesindaco Giacino è l'ennesima bufera che si scatena, direttamente o indirettamente, sul municipio. Ecco tutti i grattacapi a cui dovrà far fronte il sindaco, scrive “Verona Sera”. Con tutta probabilità sarà la settimana più dura da affrontare per l’amministrazione guidata da Flavio Tosi. Lunedì mattina la città si è svegliata con la notizia dell’arresto dell’ex vicesindaco, già assessore con delega all’Urbanistica, Vito Giacino. Un terremoto senza precedenti che ha sconvolto il palazzo municipale e che segue le turbolenze provocate dalle altre inchieste in corso.
PROCESSO AGEC - Come quella che ha travolto Agec, ad ottobre. L’azienda comunale che si occupa della gestione delle mense scolastiche, farmacie, servizi nei cimiteri e patrimonio immobiliare, vedrà alcuni suoi dipendenti a processo da venerdì. L’indagine è culminata con l’arresto di otto dirigenti, tra cui il direttore generale Sandro Tartaglia, e un imprenditore altoatesino. Due dirigenti, Stefano Campedelli e Francesca Tagliaferro finiranno sul banco degli imputati pere turbativa d’asta e falso relativamente a presunte irregolarità sugli appalti della refezione scolastica. Martin Klapfer, assieme a Tartaglia, è accusato invece di corruzione per anomalie rilevate sull’appalto di Fondo Frugose. Altri cinque dirigenti già indagati, Giovanni Bianchi, Giorgia Cona, Alessia Confente, Davide Dusi e Luisa Fasoli hanno invece raggiunto un accordo con la Procura, patteggiando pene che vanno da un anno e sei mesi a un anno e dieci mesi.
CATULLO SPA - Ma non è finita qui. Il Comune deve ancora “digerire” la sentenza del Tribunale amministrativo (Tar) di Brescia con la quale è stata annullata di fatto la concessione 40ennale dello scalo merci di Montichiari a favore della società Catullo Spa di Villafranca. Sacbo, società aeroportuale che gestisce Orio al Serio (Bergamo) ha vinto il ricorso contro il decreto ministeriale e ora si attende la contromossa di Comune e società di gestione veronese al Consiglio di Stato.
AGSM - Grattacapi per il sindaco Flavio Tosi anche da lungadige Galtarossa, dove ha sede l’Agsm. L’azienda mulitutility di energia e servizi deve far fronte alle richieste di Palazzo Barbieri: 18 milioni di euro da versare per rimpolpare le casse comunali ed evitare di alzare le tasse. Responsabilità sono state addossate allo Stato, “colpevole” secondo il presidente della società, Paolo Paternoster, di aver tagliato drasticamente i trasferimenti agli enti locali. Così, come in un domino, Agsm si dice costretta a “sforbiciare” a sua volta gli investimenti futuri, principalmente nell’ambito delle energie rinnovabili.
VERONAFIERE - E poi, come spiega L'Arena, c’è Veronafiere nel mirino della Procura. “Assunzioni sospette” o “parentopoli” sono state le parole rimbalzate più di frequente sui media scaligeri e per le quali i vertici della società sono stati chiamati a fornire spiegazioni al giudice per le indagini preliminari, Rita Caccamo. Sentito anche il presidente, Ettore Riello, il direttore generale Giovanni Mantovani e quello addetto al Personale, Diego Valsecchi.
ACQUE VERONESI - Non accenna a sgonfiarsi nemmeno la bufera sugli “stipendi d’oro” ad Acque Veronesi, una delle partecipate del Comune, che gestisce il servizio idrico. A partire dal compenso del direttore generale Francesco Berton (242mila euro lordi all’anno, onnicomprensivo di incentivi ritenuti “anomali”) l’opposizione aveva chiesto le dimissioni del presidente Massimo Mariotti. Su Acque Veronesi si era scagliato il consigliere regionale di Futuro Popolare, Stefano Valdegamberi (“Da che mondo è mondo gli stipendi dei direttori delle aziende, pubbliche o private che siano, li decidono i Consigli di amministrazione, che possono stabilirne l'entità visto che hanno per legge un ampio margine discrezionale”) e il presidente della Provincia, Giovanni Miozzi (“Un'azienda mal gestita, un autentico bidone. Parlo da sindaco di Isola della Scala e mi confronto con tanti miei colleghi: non c'è n'è uno che a proposito di Acque Veronesi non si metta le mani nei capelli. Disorganizzazione, niente progetti”).
La Giustizia pallosa, scrive Massimo Zamarion su “Giornalettismo”. Milano, vicenda Maugeri: la procura: «processate Formigoni». Roma, vicenda polizza vita: la procura: «processate Gasparri». Napoli, vicenda compravendita senatori: nuovo filone di indagini (mentre è già iniziato il processo contro il Berlusca, quello col Senato che si è costituito parte civile). Napoli, vicenda rimborsi facili: arrestato l’ex braccio destro del governatore Caldoro. Verona, l’accusa è corruzione: arrestato Vito Giacino, ex vice-sindaco della giunta Tosi. Palermo, trattativa stato-mafia: il pm Di Matteo querela Sgarbi, Ferrara, Facci e Deaglio. Piemonte, elezioni regionali 2010: il Consiglio di Stato boccia il ricorso di Cota contro la sentenza del Tar che le aveva annullate. Sant’Agata di Militello (Messina), associazione a delinquere: indagato l’ex sindaco e attuale senatore di Ncd Bruno Mancuso. E’ tutta roba degli ultimi giorni. Ma non pensate anche voi che sia venuto il momento di chiedere alla magistratura di bastonare con calda passione, feroce determinazione, per davvero e non per finta, come fa da vent’anni, pure i sinistrorsi? Non per amor di giustizia, che ci è antropologicamente estranea, ma così, per capriccio, per il gusto del nuovo, per puro estetismo, e soprattutto per non farci morire di noia?
Tosi, la ladrona ora è Venezia. La città lagunare, gestione Pd, sarebbe come la Sicilia, scrive Goffredo Pistelli su “Italia Oggi”. «Venezia è come la Sicilia», parola di Flavio Tosi, sindaco leghista di Verona. E non è propriamente un complimento. Mentre tutto il Carroccio s'affanna a parare il colpo di Roberto Calderoli e della sua clamorosa leggerezza verso la ministra Cécile Kyenge, che ora rovescia sulla malconcia causa padana tutti gli stereotipi del razzismo, in Veneto, Tosi è come sempre un passo avanti. Disinteressandosi quasi del tragico bis dell'assessore regionale Daniele Stival, ovviamente rampognato come lo era stato Calderoli, il sindaco di Verona ha rilanciato ieri, sul Corriere Veneto, uno dei suoi antichi cavalli di battaglia: Venezia ladrona. In un'intervista, il segretario leghista del Veneto e primo cittadino scaligero ha infatti tratto una morale dall'inchiesta che sta investendo il consorzio Mose, quello che sta costruendo la paratie che dovrano difendere Venezia dall'acqua alta: i grandi fondi speciali che la città attrae sono forieri di clientele politiche e inevitabilmente di malaffare. Tosi lo ha detto con grande linearità: «Quando vengono messe a disposizione di un'amministrazione pubblica risorse eccessive senza particolari vincoli di gestione, si crea un centro di potere che mantiene il controllo della città. In pratica», ha concluso, «chi è in carica e gestisce quei soldi vince sempre le elezioni». Quindi il parallelo, destinato a creare un dibattito potenzialmente infinito: «Venezia è un po' come la Sicilia», ha spiegato, «ha ricevuto un sacco di soldi a scapito di altri territori e non ha saputo metterli a frutto». E, per non restare sul vago, Tosi ha ricordato che la perla della Laguna ha ricevuto dal 1973, anno della prima legge speciale, al 2002, qualcosa come quattro miliardi di euro. Un tema non nuovo per Tosi: due anni fa, quando era sotto lo schiaffo dei bossiani del Cerchio magico che ne chiedevano a ogni piè sospinto l'espulsione dal movimento, per il suo modernismo e per la sua dichiarata volontà di non disarmare ma anzi di potenziare la lista col suo nome che, nel 2007, l'aveva fatto diventare sindaco, due anni fa, dicevamo, Tosi espresse con grande efficacia questi stessi concetti. E in quell'occasione ebbe pure il plauso di un «nemico» come il sindaco padovano Flavio Zanonato, Pd, attuale ministro dello Sviluppo economico, che gli propose un'alleanza pragmatica. La scelta di Tosi di tornare sul tema dice bene quanto sia proiettato nel progetto che lo vede impegnato dal maggio dell'anno scorso, quando a furor di popolo è stato riconfermato sindaco all'ombra dell'Arena e cioè di andare «oltre la Lega», le parole che va ripetendo da tempo e che pronunciò anche nel febbraio scorso, radunando alla Fiera di Verona la sua lista all'antivigilia del voto politico. Un gesto letto con di sfida da leghisti non nostalgici come Luca Zaia, governatore padano del Veneto, e che usò esattamente quelle parole e quell'evento per attaccarlo duramente all'indomani del voto, disastroso per la Lega nel Veneto, dove ci fu un'ecatombe di voti. Lo stesso fece la minoranza bossiana, tentando di imputare alla mano pesante con cui Tosi aveva compilato le liste elettorali un insuccesso di proporzioni galattiche. Il sindaco veronese non ne fu scalfito, così come ha resistito a un'altra ondata di malcontento quando, poche settimane fa, la Lega è ricollassata, perdendo una città simbolo come Treviso. Non si scuote Tosi perché sa bene come quel tracollo venga da più lontano e che non sia ragionevolmente imputabile alle tensioni interne fra maroniani-tosiani, gli uomini di Zaia e i nostalgici del Senatur, in uno schema variabile, ma come quella crisi venga dal disincanto profondo della gente veneta, dopo vent'anni, di cui molti nel governo nazionale, fatti di parole d'ordine federaliste o peggio secessioniste, senza uno straccio di risultato. Di qui l'idea di andare oltre, aggregando i moderati sui temi dell'autonomia sì, essendo nei cromosomi della gente di quassù, ma anche del buon governo e dell'efficienza. Attaccare Venezia ladrona, da questo punto di vista è perfetto. E se si punta il dito contro una città passata dalla Dc alle sinistre, senza mai essere sfiorata dalla Lega, si pesta anche il piede a l'ultimo scampolo di Carroccio bossiano che proprio nel Veneziano ha uno dei suoi epicentri. Non solo. Venezia, per i Veneti, è anche la Regione Veneto e, in certo qual modo, simbolicamente, Venezia è Zaia. Un aspetto che non scomoda affatto, visto che la conquista di Palazzo Balbi, sede del governo regionale, è il primo obiettivo cui Tosi guarda, nel 2015, ed è la ragione pratica delle polemiche dell'ultimo anno con Zaia, a volte aperte ma più spesso sotterranee. Il «Venezia ladrona» è la pistola dello starter di una nuova corsa politica, l'inizio della fase «renziana» del sindaco, che aveva annunciato, poche settimane fa la nascita di una sua fondazione, e aveva ammesso la voglia di partecipare a eventuali primarie di centrodestra per le prossime politiche. «Venezia come la Sicilia» è il modo tosiano di andare oltre la Lega, partendo da un concetto e una parola d'ordine veteropadane: «Forza Etna» in fondo fu uno dei primissimi slogan della Liga Veneta, nella pirotecnica nascita alla fina degli anni 80. Ben prima di quella Lombarda di un certo Umberto Bossi.
“Venezia ladrona”, l'ultimo grido da una Lega rovesciata. Tosi: “Spreconi come la Capitale”. Come si ribalta un tabù. Da Roma ladrona e Venezia sprecona, si sono ristretti i vestiti, alla Lega, scrive Jacopo Iacovoni su “La Stampa”. Una lavatrice mal riuscita, un ammorbidente mancato, un detersivo da hard discount e puf, svanita la furia contro la capitale e i «porci romani», è il momento di quella contro i vicini di casa. Come cambiano le ambizioni e le polemiche. Diceva Goethe: c’è sempre qualcuno più a sud di noi; e i padani l’hanno preso alla lettera. Prima era la lotta contro «il nemico lontano», ora contro «il nemico vicino». È il sempre eterodosso e intelligente sindaco di Verona, il maroniano Flavio Tosi, a rompere il tabù e scagliarsi contro Venezia. Dice che spende un mucchio di soldi. Che prosciuga le risorse per le altre città venete, comprese quella della provincia veneziana. «È un po’ come Roma capitale rispetto all’Italia: Venezia gode di notevoli benefici aggiuntivi in confronto al resto del Veneto e di uno status speciale francamente insostenibile». «A noi tagliano risorse, e non possiamo neanche aumentare i prezzi del trasporto pubblico; loro no, possono persino stornare sul bilancio del comune l’avanzo dell’azienda di trasporti». E poi: «Hanno fatto anni di assunzioni a pioggia, non ho i numeri, ma credo sia una cosa delle gestioni precedenti a Orsoni». E ancora, parla al telefono di «una lobby trasversale veneziana in regione»; «sprechi autentici»; «finanziamenti ingenti». Una situazione che richiederebbe persino un approfondimento, «non soltanto in sede amministrativa, ma anche in altre sedi deputate a controllare, indagare». Poco ci manca che dica Venezia ladrona. Ecco, a questo siamo. Naturalmente il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni gli ha già risposto piuttosto arrabbiato, pensi «ai suoi sprechi nella sanità, causati da lui e dal suo staff come se fosse il governatore della Sicilia», e minaccia di querelarlo per le accuse di falsità nei bilanci (e Tosi: «Mi quereli, sono contento, così andiamo in tribunale e vediamo i numeri»). Ma quel che colpisce è il totale rovesciamento dei bersagli nel Carroccio. C’era una volta l’epopea bossiana di Roma ladrona, i trecentomila bergamaschi armati di baionette. C’era Bossi che diceva all’Espresso «faremo una marcia su Roma che al confronto quella di Mussolini era una c...». C’era la promessa, «gli ottanta onorevoli leghisti li metteremo in convento», per non farli neanche cenare nelle trattorie romane dove s’incrociavano tipacci come Renato Altissimo. Vennero alterne vicende, e l’accusa di latrocinio si ritorse infine contro i cerchi magici intorno al Capo. Eppure ancora tre anni fa, nel pieno del potere, Bossi andava a Venezia alla festa del Redentore, a luglio, e annunciava «questa città mira a diventare la capitale della Padania»; e giù col viaggio in battello sul canal grande, la bicchierata con Calderoli e Rosi Mauro, il Trota che scorrazzava in Campo San Polo. Per un giorno solo, però. Perché Venezia-Venezia (terraferma e provincia sono un altro discorso) non ha mai amato la Lega, e la Lega non ha mai messo le mani su Venezia, che è sempre rimasta una donna desiderata e non avuta. Bossi è vent’anni che ci prova, negli anni novanta già comiziava che «Venezia è nata per fare la capitale della Repubblica padana: non può far altro che la capitale, la sede del governo, la parte operativa», e voleva organizzarci dei giochi padani; e quanto a parole, ancora nel 2010 spingeva per candidare Venezia, e non Roma, alle Olimpiadi, perché «è la nostra capitale morale». Ma le retoriche, specie quelle sulle capitali morali, prima o poi finiscono, i partiti passano, gli orizzonti si restringono; e i giudizi spesso si ribaltano. Arriva un Tosi, che accusa la città dei Dogi e se ne sta - somma eresia - in vacanza in Calabria.
SPRECHI
Inchiesta del “L’Espresso”: Verona, decollano gli sprechi. L'aeroporto Catullo ha noleggiato diciotto olivi ornamentali per 67 mila euro: più 3.700 a pianta. L'ultimo di una serie di sperperi e assurdità di uno scalo finanziato con i soldi pubblici ma sull'orlo della bancarotta e con i lavoratori in cassa integrazione.
Gli ulivi dalle foglie d'oro sono all'aeroporto Catullo di Verona. Diciotto ulivi valgono, infatti, molto più di cinquanta lavoratori e delle loro famiglie. Molti di loro sono in cassa integrazione, altri in mobilità e perderanno il posto di lavoro, ma alla Avio Handling, società controllata interamente della società aeroportuale Catullo spa di Verona, non mancano 67 mila euro per affittare diciotto olivi.
Già il prezzo pare esorbitante, ma nemmeno si acquistano: si noleggiano per decorare l'ingresso principale dell'aeroporto. Tremilasettecentoventidue euro a pianta. E nonostante questa società, alla fine di novembre, sia stata ricapitalizzata con tre milioni di euro per non chiudere. Quasi settantamila euro mentre tutte le società del Catullo sono in profondo rosso. Anche la holding, la Catullo spa, ha perdite fortissime e non da oggi, ma da fin dal 2008. Già da anni si raschiava il barile, come denunciò 'l'Espresso' già quattro anni fa.
A prosciugare i bilanci ha infatti pensato in questi anni l'aeroporto di Montichiari di Brescia, dove gli addetti ci sono, ma non ci sono aerei né in partenza né in decollo. Una stazione vuota per uno spreco tutto italiano, pagata dai soliti contribuenti. La vicenda è un insulto ai soldi pubblici. Nel 2001 si dovevano rifare le piste del Catullo per lavori che dovevano durare solo alcuni mesi, ma si pensò bene di costruire un aeroporto nuovo di zecca al posto di quello vecchio militare di Montichiari. Ma dopo breve vita, l'aerostazione bresciana cessò di fatto di esistere per i passeggeri.
Un'assurdità, gridarono già allora in molti. Infatti quella costruzione e la successiva gestione sono costate 40 milioni di euro, spesi dal 2002 a oggi, e una perdita annua attorno ai 5 milioni di euro all'anno. E ora il Catullo spa, per non fare bancarotta, deve ricapitalizzarsi. Perché il terminal bresciano è di proprietà al 99,99 per cento dello scalo scaligero, le cui quote azionarie sono soprattutto in mani pubbliche al 90 per cento con la Provincia di Verona e la Provincia di Trento in testa. Mentre Brescia è sempre rimasta alla porta, non volendosi impegnare in uno scalo gestito male dai veronesi, secondo loro. Tuttavia nessuno in queste società e nelle istituzioni ha pensato in questi anni di fermare i vari amministratori nella corsa allo spreco e al dissesto finanziario. Una delle prime conseguenze è stata il blocco del premio di risultato da tre anni per i circa 350 lavoratori delle tre società che gestiscono lo scalo veronese: la Catullo spa, la Avio e la Catullo Park.
Alcune settimane fa i vecchi amministratori sono stati costretti alle dimissioni e il nuovo presidente, Paolo Arena, ha il difficile compito di rassicurare i soci pubblici e privati sulla ricapitalizzazione e rinegoziare il debito con le banche.
Ma il ritardo è comunque inspiegabile, poiché ha portato la società madre dell'aeroporto, la Catullo spa, vicino alla bancarotta, benché i sindacati, Uil in testa, avessero denunciato il dissesto da molti anni. E il peggio è arrivato puntuale con il bilancio 2011. La sola Catullo spa ha 20 milioni di deficit e 17 di tasse non pagate e dovranno essere svalutati molti crediti, come hanno denunciato i consiglieri provinciali del Pd. Fra le quattro società, le tre dello scalo di Verona e quella di Brescia, il buco dovrebbe aggirarsi complessivamente attorno ai 70 milioni di euro, 20 mila euro di perdita ogni giorno. Una cifra impressionante, che è pesata e peserà sulle tasche del contribuente pubblico.
Intanto è arrivata una nuova grana e la procura della Repubblica di Verona ha aperto un fascicolo. Le nuove infrastrutture dell'aeroporto sarebbero prive della Valutazione d'impatto ambientale e delle relative autorizzazioni dell'Enac per attivare le procedure presso il ministero dell'ambiente per la concessione della Via.
Insomma, all'aeroporto volano gli sprechi.
MALA AMMINISTRAZIONE.
Tutta Italia è paese: da “L’Arena” e da “Il Corriere della Sera” lo scandalo degli assenteisti.
Dipendenti pubblici che timbrano il cartellino, ma poi abbandonano il luogo di lavoro. Ha fatto letteralmente saltare tutti sulle poltrone il servizio andato in onda ieri sera nel tg satirico «Striscia la Notizia» su Canale 5 dedicato all'assenteismo e di cui abbiamo già scritto il giorno delle riprese. Nel mirino dell'inviato Valerio Staffelli sono finiti alcuni dipendenti dell'Ulss 20 di Verona: le telecamere nascoste hanno svelato lavoratori che se ne vanno al bar a leggere il giornale, ne approfittano per fare shopping, andare in tintoria («tipico caso di assenteismo su misura», hanno detto dallo studio) o si allontanano in auto. Staffelli, a fine servizio, si è anche rivolto anche a Maria Giuseppina Bonavina, direttore generale dell'Ulss 20, che dopo aver visionato i video, ha affermato indignata: «Questo non è assenteismo, ma delinquenza. Mi sento responsabile, pertanto le chiedo formalmente la registrazione». A soli quattro mesi di distanza, Verona torna sugli schermi di «Striscia» dopo che, a fine novembre, il mago Antonio Casanova aveva fatto dono di una bacchetta magica al presidente del Catullo, Paolo Arena, come unica soluzione possibile per far quadrare i conti dell'aeroporto. Ma andiamo con ordine. La telecamera di «Striscia» ha ripreso i dipendenti entrare nella sede dell'Ulss, timbrare e invece di salire nei loro uffici riprendere la porta d'ingresso.
Cartellini timbrati con elasticità e una sfilza di
tazzine di caffè consumate al bar in orari di lavoro. Appostatosi ai due
ingressi dello stabile (in via Valverde e in via Poloni da cui si accede
all'ambulatorio) con un paio di giovani ragazze a far da palo attrezzate di
auricolare e con cui era in costante comunicazione, il dispensatore di tapiri di
«Striscia la notizia», ha monitorato l'andirivieni dei dipendenti dell'azienda
sanitaria, per completare il blitz all'interno del «Manirò caffè» che si trova
di fronte alla struttura. Le bocche di chi è stato pizzicato ai tavolini del bar
sono rimaste cucite, e gli sguardi attoniti sono stati l'unica risposta alla
nota e tagliente ironia che contraddistingue l'inviato di «Striscia».
L'unico ad avere aperto bocca è stato il titolare del bar, Marco Perazzolo che
ha confessato. «Si sono tanti i dipendenti dell'Ulss che verso metà mattina
vengono a prendersi il caffè».
Il gestore, come abbiamo già scritto su «L'Arena», il giorno delle riprese e
prima della messa in onda del servizio, aveva esclamato: «Non conosco uno a uno
tutti i miei clienti ma, tutto sommato, non posso nemmeno negare l'evidenza.
Perderò qualche cliente ma sono convinto che i servizi di Striscia aiutino a far
cambiare le cose».
Merito all'onestà intellettuale. Cosa che non ha dimostrato un signore fermato
fuori dalla sede, che alle domande di Staffelli sull'assenteismo, ha risposto:
«È la legge che lo permette. Io sono contrario, faccio il medico e oggi sono di
riposo». Peccato che l'inviato di «Striscia» lo aveva filmato poco prima mentre
timbrava il cartellino, e lui accortosi che Staffelli continuava a stazionare
davanti all'ingresso dell'Ulss, ha dapprima nicchiato un pò e alla fine è
entrato nel palazzo dal retro.
Pausa caffè o assenteismo sul posto di lavoro? Più il secondo che la prima. Anzi, forse peggio: «delinquenza ». Così il direttore generale dell’Usl 20, Maria Giuseppina Bonavina, bolla il comportamento dei suoi dipendenti beccati da «Striscia la Notizia» a fermarsi al bar per «qualche minuto di troppo», per usare un eufemismo. Del servizio si chiacchierava da tempo da quando cioè, l’ex «vicegabibbo» Valerio Staffelli si era fatto notare in zona, intervistando a sorpresa i dipendenti dell’azienda sanitaria precedentemente sorpresi a bigiare al lavoro o addirittura inseguendoli in macchina nelle loro peregrinazioni extralavorative. Finalmente ieri è andato in onda - perplessità sul montaggio se proprio si vuole essere «garantisti» a parte - sembra che quelli che l’inviato di Striscia ha ripreso in via Valverde e dintorni siano tutt’altro che «peccati veniali». Sono ben nove i casi documentati, tutti nella sede del primo distretto cittadino. Si va dall’impiegato che, appena timbrato il cartellino passa una buona mezz’ora al bar, leggendo il giornale e bevendo il caffè, alla dipendente che fa la spesa al supermercato o sbriga commissioni in posta.
In un paio di casi, i «fannulloni» non si sono accontentati di fare quattro passi in zona o di passare nel gettonatissimo, a quanto pare, bar al di là della strada (persino il titolare conferma alle telecamere l’alta presenza di dipendenti dell’Usl in orario di lavoro), ma hanno preso la propria auto per recarsi vuoi in sartoria, vuoi in banca, vuoi in un negozio di climatizzatori. In un caso c’è anche la «premeditazione »: una dipendente lascia l’auto in sosta irregolare con le quattro frecce, entra velocemente, timbra altrettanto rapidamente e se ne va. Dopo averli scoperti, Staffelli attende gli assenteisti al varco al loro ritorno. La maggior parte fa finta di niente o nega di lavorare per l’Usl. C’è, però, un medico che accetta di parlare. Con una sottile perfidia, l’intervista inizia su toni generici: «C’è lavoro a Verona? O c’è il problema della disoccupazione?». «Chi ce l’ha se lo tiene stretto» risponde il medico. Staffelli gli chiede se ha impegni lavorativi e l’intervistato risponde di essere libero. Poi però è costretto a fare il giro dell’isolato e ad entrare dalla porta secondaria per non essere preso in castagna mentre rientra al lavoro. In tutti i casi, il cartellino viene timbrato nell’ingresso di via Valverde, davanti alla guardiola del portinaio. Non è dato sapere, però, se quest’ultimo fosse presente o meno durante «i misfatti».
Il servizio si conclude con un’intervista proprio alla direttrice generale Bonavina, che però non ha ancora visto le immagini: «Altro che assenteismo: a quanto mi raccontate si tratta di delinquenza vera e propria» dichiara all’inviato del tg di Antonio Ricci. Quindi chiede la registrazione: «Mi sento responsabile, vedrò di intervenire», promette. Del resto, nei giorni scorsi aveva dichiarato che «per quanti lavorano qui ci sono regole da rispettare». E nemmeno un’uscita «mordi e fuggi», in orario di lavoro è permessa «senza compilare i dovuti registri». Poi uno spiraglio: «Forse i supposti assenteisti si stavano recando in qualche altra sede del territorio». Dalle immagini, tuttavia, non sembra proprio.
Anche Tosi ha la sua parentopoli di Paolo Tessadri del L”’Espresso” del 27 maggio 2011
Evidentemente invidioso di Alemanno, il sindaco di Verona ha messo in piedi un bel sistema di potere a base di mogli, familiari e amici, tutti assunti nelle società pubbliche. Dai trasporti ai rifiuti
Prima la moglie, poi a seguire una lunga marcia di
compagni di partito e parenti assortiti. Tutti in qualche modo legati al sistema
di potere del sindaco, tutti pronti a infilarsi nelle società controllate e
partecipate dal Comune. Altrove si sarebbe subito evocata Parentopoli ma nella
Verona dell'efficienza leghista il termine è proibito. E' difficile descrivere
con parole diverse la catena di promozioni e ingaggi nell'epoca di Flavio Tosi.
In principio è stata proprio la signora Tosi: Stefania Villanova che, poco dopo
l'elezione a sindaco del marito, venne promossa, senza concorso e senza laurea,
da semplice impiegata a dirigente nel settore sanità. Stipendio triplicato da 25
mila euro lordi l'anno a 70 mila. Il marito era stato assessore regionale alla
Sanità fino a pochi giorni prima, la nomina invece porta la firma del suo
sostituto: la leghista veronese Francesca Martini, adesso diventata
sottosegretario.
In città invece va di moda l'azienda dei trasporti pubblici, l'Atv, che si tinge
sempre più di verde. Forse per questo è stato assunto come imbianchino e
giardiniere il vicesindaco leghista di Villa Bartolomea, ridente paese della
provincia, Emanuele Faggion. Che ha lodato lo spoil system: "E' giusto che chi
governa abbia dei referenti nei posti che contano". L'Atv era presieduta da un
altro leghista, il sindaco di Sommacampagna Gianluigi Soardi, finito sotto
inchiesta per rimborsi spese gonfiati e costretto alle dimissioni pochi mesi fa.
Contro di lui c'è un procedimento per peculato, truffa aggravata e abuso di atti
d'ufficio. Avrebbe spostato il telepass a seconda delle necessità private anche
sull'auto della moglie, che figura fra gli indagati, e messo in conto alla
società ricevute per spese definite sospette. Lo scandalo gli ha fatto perdere
la guida dei bus veronesi, ma non la poltrona in Comune. E nonostante
l'inchiesta, la sua signora invece ha appena ottenuto un incarico da un'altra
società comunale, l'Amia che si occupa di igiene urbana: "Assunzioni senza
selezione pubblica, senza trasparenza e imparzialità, come previsti dalla
legge", denuncia Franco Bonfante, Pd, vicepresidente del consiglio regionale.
Che la Lega si sia "trasformata in un centro per l'impiego virtuale, dove si
decidono promozioni e assunzioni di fedelissimi o amici degli amici", lo
sostiene anche il capogruppo Udc in Regione, Stefano Valdegamberi. La lista di
assunzioni contestate infatti è assai lunga. Fra le Bengodi leghiste c'è l'Amt,
la muncipalizzata dei trasporti, dove è stata assunta la sorella dell'assessore
regionale alla Sanità, Luca Coletto, molto legato a Tosi. E sono entrati dalla
porta principale di Amia, anche la moglie del sindaco di Sona nonché assessore
provinciale, Gualtiero Mazzi, mentre la sorella ha trovato lavoro in una
controllata della stessa Amia, la Serit. Pure la figlia del segretario
organizzativo provinciale della Lega Nord, Giannino Castagna, si è sistemata in
Amia. Il fratello del vicesindaco di San Giovanni Lupatoto e consigliere
provinciale, Giuseppe Stoppato è in Transeco, sempre controllata da Amia. Dove è
impiegato Denis Busatta, consigliere dello stesso Comune. Direttamente in Amia è
stato assunto Paolo Sardos Albertini, nipote di un noto avvocato ed esponente
della lista Tosi alle elezioni comunali. Invece in Acque Veronesi, società
pubblica di depurazione e distribuzione idrica, lavora come addetto stampa il
compagno del sottosegretario Francesca Martini. Ci sono anche casi più
singolari. Il vicecomandante dei vigili urbani di Verona, Eliano Pasini, si è
dimesso dopo un'inchiesta della magistratura su presunti abusi, che coinvolge il
vicepresidente leghista della Provincia. Ma l'ex vigile non è rimasto senza una
scrivania: ora è stato accolto dalla Agsm, municipalizzata energetica veronese.
Avanti un altro, sul Carroccio un posto si trova.
INGIUSTIZIA
CASO TOMMASOLI, FATTA GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE?
Parliamo dell’omicidio di Nicola Tommasoli elevato agli onori della cronaca come un caso politico. Intorno al caso Tommasoli si è scatenato un polverone mediatico e politico di proporzioni colossali, come se si trattasse di un episodio straordinario e del tutto inusuale. E sebbene la polizia abbia chiarito fin da subito che le motivazioni di questo brutale e assurdo omicidio non siano in alcun modo di matrice politica, i collegamenti dei presunti assassini con ambienti della destra radicale sono bastati a generare il consueto squallido teatrino di strumentalizzazione politica della vicenda e a paventare da parte dei media una nuova stagione di violenze politiche sulla falsariga di quelle vissute negli anni ’60 e ’70. A tali rilievi gli ambienti di destra, più o meno “estrema”, hanno replicato accusando la sinistra di non voler accettare la sconfitta politica e di inventare pericoli inesistenti per delegittimare e criminalizzare i propri avversari. Nessun movente politico. Così come racconta “La Repubblica”. E' il passaggio cruciale dell'ordinanza con la quale il Gip di Verona, Sandro Sperandio, ha confermato la custodia cautelare per i cinque giovani accusati dell'omicidio preterintenzionale di Nicola Tommasoli. Nell'ordinanza, Sperandio sostiene che l'aggressione è avvenuta per "futili motivi", in particolare per il rifiuto opposto dalla vittima alla richiesta di una sigaretta da parte del gruppo di giovani. Il Gip dichiara che "ci sono gravi indizi di responsabilità degli indagati, confermati dalla presenza sui luoghi dell'aggressione, per loro stessa ammissione". Per questo nel capo d'imputazione ha confermato l'ipotesi di reato di omicidio preterintenzionale, con l'aggravante dei futili motivi. Anche il Pm Francesco Rombaldoni, che coordina le indagini, aveva evidenziato, subito dopo i primi tre arresti, che il pestaggio non aveva avuto moventi politici ma era dovuto a motivi banali, legati al rifiuto di una sigaretta. Al gruppo è inoltre contestato l'inasprimento per aver agito in un gruppo di cinque persone. Intanto un giovane punk ha raccontato di esser stato preso di mira la notte del Primo maggio dal gruppetto che ha aggredito Nicola Tommasoli. Marco, lo pseudonimo datogli dal quotidiano L'Arena di Verona al quale il ragazzo ha confessato la vicenda, ha raccontato che stava tornando a casa da solo quando ha incrociato i cinque giovani che si dirigevano verso Porta Leoni, il luogo dove poi è stato messo in atto il pestaggio mortale. Uno dei cinque, forse Guglielmo Corsi - secondo il racconto fatto - gli ha chiesto 15 euro per andare in un locale ma lui, spaventato, ha risposto: "Mi dispiace, ma avete fermato il punk più squattrinato di Verona". Marco ha capito subito la situazione: "Quello che volevano non erano i soldi. Ho temuto che avrei preso un sacco di botte". I ragazzi gli hanno poi insistito per avere almeno una delle sue spille appuntate alla giacca. "Non mi è rimasto altro che dargli quello che volevano", ha ricordato sconsolato. Poi la proposta di seguirli a bere una birra, una mano sulla spalla, un momento concitato e il giovane riesce a liberarsi e ad allontanarsi. "Mentre scappavo sentivo i loro insulti: codardo, vigliacco, punk senza... ma non mi importava, volevo solo andare a casa".
Successivamente vi è un seguito. Da “Il Corriere della Sera” si viene a sapere che sono state inflitte pene più pesanti a Perini e Veneri, gli unici due che sia in primo che in secondo grado erano stati decretati responsabili dell’omicidio di Nicola Tommasoli. Ma anche per gli altri tre imputati - Corsi, Dalle Donne e Vesentini - il conto con la Legge è tutt’altro che chiuso: con la clamorosa sentenza pronunciata dalla Suprema Corte, infatti, sono stati azzerati i verdetti con cui in Appello erano stati tutti e tre scagionati dal delitto di Corticella Leoni. Per dirla in termini concreti, quindi, Perini e Veneri (che si trovano attualmente ai domiciliari), rischiano di tornare dietro le sbarre in attesa che i magistrati decidano se aggravare o meno le rispettive pene a loro carico; Corsi, Dalle Donne e Vesentini, invece, dovranno ripresentarsi al banco degli imputati davanti ai giudici di secondo grado per difendersi dall’accusa di aver partecipato alla drammatica aggressione nella notte a cavallo tra il 30 aprile e il primo maggio 2008 e costata la vita, dopo cinque giorni di disperata lotta contro la morte, all’appena 29enne designer di Negrar Nicola Tommasoli. Un autentico «terremoto» giudiziario, insomma, quello sancito la sera del 17 maggio 2012, praticamente a quattro anni esatti dalla tragedia che più di ogni altra in tempi recenti ha sconvolto Verona, dai magistrati della Capitale. In aula a Roma tra accusa (spalleggiata dalle parti civili) e difese doveva essere un «tutti contro tutti» e tale, effettivamente, si è rivelato il copione andato in scena prima che i giudici si ritirassero per il verdetto, pronunciato dopo diverse ore in camera di consiglio, di fronte alla quinta sezione della Corte di Cassazione. Del resto, non avrebbe potuto essere altrimenti visto che con la clamorosa sentenza dell’autunno 2010, era stata praticamente riscritta la dinamica del tragico decesso di Nicola: su decisione della Corte d’appello presieduta dal giudice Daniela Perdibon, infatti, erano stati condannati a dieci anni e otto mesi per omicidio preterintenzionale i soli Federico Perini e Nicolò Veneri, scagionati «per non aver commesso il fatto» dall’accusa di omicidio, invece, Guglielmo Corsi, Raffaele Dalle Donne e (già assolto in primo grado) Andrea Vesentini. Con tale verdetto, però, i magistrati avevano di fatto demolito il fulcro della ricostruzione originaria, vale a dire che ad agire fossero stati tutti e cinque i ragazzi «in concorso» tra loro. E proprio la circostanza del «concorso», in aula a Roma, ha rappresentato il fulcro dell’argomentazione, poi accolta dalla Cassazione, delineata dal procuratore generale. Con la conseguenza che per tutti e cinque, adesso, scatterà il processo d’appello- bis.
Il resoconto della vicenda lo dà “L’Arena”. Omicidio Tommasoli, tutto da rifare. La Suprema Corte accoglie il ricorso del procuratore generale di Venezia e delle parti civili, annulla la sentenza e rinvia per nuovo esame davanti a una diversa sezione della Corte d'Assise d'appello i tre giovani che dal reato più grave, ovvero l'omicidio preterintenzionale, erano stati assolti. Andrea Vesentini (assolto in primo grado), Guglielmo Corsi e Raffaele Dalle Donne (assolti dalla Corte distrettuale) affronteranno nuovamente il processo. Perchè per la suprema corte le condanne per la morte di Nicola Tommasoli devono essere almeno altre tre. Un dispositivo che prende in considerazione anche il ricorso della procura generale relativamente all'impugnazione per la condanna per lesioni in concorso «cancellata» per Veneri e Perini in secondo grado. Perchè la sentenza d'appello, «cancellando» il concorso e punendo ciascuno per il comportamento a lui attribuito, aveva ridimensionato ruoli e responsabilità. Una decisione arrivata all'ora di cena e che ridisegna completamente il quadro che, dopo la pronuncia della corte d'assise di Verona, era ulteriormente mutato in appello. Già perchè per Vesentini il primo giudice aveva escluso il concorso nell'omicidio di Nicola Tommasoli, il trentenne di Negrar aggredito la notte del 1° maggio 2008 in corticella Leoni mentre si trovava con due amici, ritenendo che la sua condotta si fosse limitata a «dividere» i contendenti e che quindi non avesse avuto alcun ruolo in quella lite che degenerò e che si concluse tragicamente cinque giorni dopo, quando Nicola, entrato in coma la notte dell'aggressione, venne dichiarato morto. Raffaele Dalle Donne e Guglielmo Corsi, entrambi condannati in primo grado, vennero assolti perchè la corte distrettuale cancellò il concorso di persone per quel che riguardava l'aggressione mortale. Ritenne che ognuno dovesse rispondere delle proprie azioni «cancellando» di fatto quel concetto di «gruppo compatto che si mosse come un sol uomo» che aveva fatto finire sotto processo i cinque ragazzi con la medesima accusa. Nuovo processo per i tre assolti, la Cassazione ha anche accolto il ricorso della procura contro lo sconto di pena a Nicolò Veneri e Federico Perini (dovuto proprio all'assenza dell'aggravante del numero di persone) e relativo al reato di lesioni. E per loro due la condanna inflitta in secondo grado, 10 anni e 8 mesi, diventerebbe al momento definitiva. La quinta sezione presieduta da Giuliana Ferrua ha rigettato il ricorso presentato da Veneri e Perini (e che riguardava quindi la prevedibilità dell'evento e il nesso causale), respinto il ricorso di Vesentini e Dalle Donne per le lesioni (furono condannati solo per quelle in secondo grado, ovvero per essersi interfacciati con gli amici di Nicola) e infine rigettato il ricorso del procuratore generale relativamente alla qualificazione dell'episodio di Red Pauli (da rapina era diventata violenza privata). Andrea Vesentini, Raffaele Dalle Donne, Nicolò Veneri e Federico Perini sono stati condannati anche al pagamento delle spese sostenute dai ricorrenti. Si torna in aula: tre per rispondere di omicidio preterintenzionale e due per vedersi aumentare la condanna. E così, a quattro anni di distanza dai fatti, torna a processo anche chi era stato assolto. L'udienza era iniziata in tarda mattinata e proseguita fino alle 15.30. In aula c'era solo Guglielmo Corsi che immobile ha ascoltato la relazione del consigliere Marassi. «Quella di primo grado è stata un'assoluzione di fatto che ha escluso la responsabilità di Vesentini perchè si ritenne che il suo ruolo non fosse di concorso ma di "rottura" perchè cercò di dividere chi stava litigando. Il giudice di Appello si è inserito in questo varco e ha disintegrato il vincolo tra l'episodio di Red Pauli e quello di Tommasoli. È un aspetto sconvolgente perchè ha esaminato solo i profili soggettivi», aveva detto in uno dei passaggi della sua relazione il procuratore generale della corte di Cassazione, Scardaccione, prima di chiedere di annullare la sentenza di secondo grado con rinvio a diversa sezione della Corte d'Assise d'appello di Venezia. Una richiesta, quella proposta alla quinta sezione penale della Suprema Corte presieduta da Giuliana Ferrua, fondata sul ricorso presentato dalla procura generale di Venezia che si oppose alla decisione della Corte distrettuale che, non ritenendo esistente il concorso di persone, assolse dal reato più grave, cioè l'omicidio preterintenzionale, Andrea Vesentini (già assolto in primo grado), Raffaele Dalle Donne e Guglielmo Corsi (condannati rispettivamente a 14 e a 10 anni dalla corte d'assise di Verona). «Quello che in primo grado fa Vesentini viene esteso in appello ad altri due imputati, risulta una sommatoria di comportamenti individuali e per Corsi e Dalle Donne esclude responsabilità. In pratica non c'è reato di gruppo e concorsuale». Invece il procuratore ha ribadito come giuridicamente non sia sostenibile la scelta operata nel novembre di due anni fa a Venezia e sostenuto come una volta rotto il vincolo siano state operate «sottovalutazioni degli altri comportamenti». Ovvero la rapina derubricata «violenza privata per lo scarso valore dell'oggetto (le spillette che Pauli aveva sul giubbino). Quello che è insostenibile è la rottura del concorso che si è tradotta con l'assoluzione di Corsi e Dalle Donne e così facendo non riconosce che è un concorso legato al comportamento successivo degli altri». Ha chiesto quindi che venisse annullata la sentenza di secondo grado e che fosse rinviata a Venezia per la celebrazione di un nuovo processo, che venisse rigettato il ricorso della parte civile Comune e che, di conseguenza, venissero rigettati i ricorsi delle difese degli imputati.
"E' vero mio figlio non è un santo e io penso di essere una madre come tutte le altre. Ma mi faccio forte di quello che Federico mi ha detto fin da subito, chiamandomi da Londra: 'Mamma, sappi che noi non c'entriamo'. Io l'ho sempre creduto". A sottolinearlo in una intervista a ''Panorama'', Marta Brunelli, madre di Federico Perini, il giovane condannato in appello a 10 anni per l'omicidio preterintenzionale di Nicola Tommasoli, grafico 28enne che perse la vita dopo una lite nel centro di Verona la notte del primo maggio 2008. Intervista ripresa da Padova News. E' ricordato come l'omicidio della sigaretta: quella che al gruppo sarebbe stata rifiutata da Tommasoli. "Vado fiera di mio figlio e - dice la donna - questo al di là del giudizio degli altri". Un giudizio che spesso era stato feroce: s'era parlato di un branco: "invece quella dannata notte il gruppo s'era incontrato casualmente". S'era parlato di ragazzi insensibili: "Ma mio figlio manda gli sms di solidarietà, adora Harry Potter e oggi fa volontariato in una casa di riposo".
«Per chi come me conosce la pratica giudiziaria e la disinformazione mediatica, è doveroso dare voce a chi voce non ha, specie se certe sentenze appaiono a dir poco contrastanti. Giudici contro. Giudici che nemmeno loro sanno cogliere la verità. Per questo si dà spazio ad una posizione quanto meno legittima per dire, almeno in questa sede, come starebbero le cose e come sono state valutate le prove. Sono dichiarazioni di parte ma che in quanto tali meritano almeno una volta di essere ascoltate. Conoscere per giudicare. Questo è il mio motto. Per questo lascio la parola a Marta Brunelli, madre di Federico Perini, ed a Silvana Bovi, madre di Guglielmo Corsi, il ragazzo che ebbe la brutta idea di chiedere la sigaretta.» (Antonio Giangrande)
«Egr. Dott. Giangrande, mi scuso immediatamente per l’errore. Cercherò di riassumere brevemente i motivi per cui, non solo come madre ma soprattutto come cittadina, sento il diritto ed il dovere di denunciare un comportamento quantomeno sospetto tenuto durante un processo che ha deliberato della vita di cinque ragazzi. Non sarà facile essere breve ma in ogni caso Le assicuro che ogni cosa scritta può essere verificabile nelle carte processuali. Parto subito sostenendo che l’unica cosa che quella sera non è successa è stato quel famoso pestaggio tanto amato dai media per mesi. Prova ne sia che lo stesso consulente di parte civile ne fa testimonianza in aula. Tornando al processo affermo che le dichiarazioni dei due testimoni, e parti offese, risultano contraddittorie e al limite di denuncia per falsa testimonianza. Eppure godono, da parte della corte, di piena credibilità nell’affermare di essere stati massacrati, presi alle spalle, pestati a calci e pugni. I referti medici del pronto soccorso riportano traumi per tre giorni di prognosi! Le dichiarazioni degli imputati, pur collimando, non vengono prese in considerazione. A livello medico inizierò dall’autopsia: I medici legali delle difese prima ancora di iniziare rilevano una anomalia nelle arterie cerebrali risultante da un’angiografia fatta precedentemente, elemento mai reso noto fino a quel momento, e in virtù di questo invitano la dottoressa incaricata dell’autopsia a farsi appoggiare da uno specialista per riuscire a prelevare tutto il tratto arterioso interessato. Consiglio rifiutato! La dottoressa esegue l’autopsia andando a compromettere inesorabilmente proprio il tratto dell’arteria che avrebbe potuto chiarire le cause della morte di Nicola Tommasoli. Immediatamente dopo il funerale, il Pubblico Ministero concede l’autorizzazione alla cremazione del corpo! Durante il processo i vari consulenti della difesa evidenziano le mancanze in sede autoptica e soprattutto lamentano la mancanza dell’unico pezzo di arteria utile a chiarire la presenza o meno di malformazioni; la Corte decide di avvalersi di due illustri consulenti “super partes”. Le loro relazioni parleranno di completa incertezza sulla causa della morte, arrivando a sconfessare la consulente di parte civile circa il nesso di causa. Dopo 14 mesi dal fatto e 4 dall’inizio del processo la consulente civile ritrova un pezzo di arteria!!! Non si tratta naturalmente del pezzo mancante ma vengono fatte nuove analisi, appaiono nuove dichiarazioni circa la presenza di una displasia tipica di un aneurisma, vengono trovate lesioni descritte come punto di rottura spontanea. Alla stesura della relazione il consulente della Corte ritratta e parla di artefatto!!! Nessuna certezza sulla causa della morte, la privazione di arteria e corpo impedisce la possibilità di arrivare a qualsivoglia sicurezza! Secondo la Corte le difese per poter indurre un fondato e ragionevole dubbio, devono dimostrare l’ipotesi alternativa. Ma, scusate, secondo il diritto giuridico, non è l’accusa che deve dimostrare la colpevolezza degli imputati? Magari oltre il “ragionevole dubbio”!? Mi rendo conto, purtroppo, che diritto giuridico e sentenze non vanno molto d’accordo nella giustizia italiana. Queste sono spesso decretate da altri fattori siano essi politici od economici. A volte la Giustizia va a braccetto con il Potere e non con il senso di imparzialità, onestà e rettitudine di cui il termine stesso dovrebbe esserne la sintesi. A questo punto vorrei spiegarLe, in due parole, come io abbia tentato varie volte di esprimere il mio malessere con i media e di come in ogni caso mi sia sempre stata sbattuta la classica porta in faccia. I media non possono ritrattare quello che hanno scritto o detto. E’ un potere codardo! Potrei continuare per molto altro tempo parlandoLe di quanto Verona sia una piccola città di provincia dove le chiacchiere girano veloci come la luce, dove tutti sanno tutto di tutti, dove gli incontri con l’amico o la fidanzata di… avvengono giornalmente al bar o dal salumiere e di quante, ma quante persone sanno la verità ma tacciono per paura o per non immischiarsi. Di come, partendo dalla sensazione che le cose non fossero poi così chiare e la colpevolezza non onestamente dimostrata, io sia stata spinta a cercare conferma di ciò che continuamente “si sentiva in giro”. Indagini che mi hanno portato altrove, a parlare con qualcuno che sa ma che per paura (di chi o di cosa!?) rifiuta anche la sottoscrizione di una testimonianza giurata, figurarsi comparire in tribunale!! Non so se sono stata abbastanza esauriente, spero solo che prima o poi la verità venga fuori. La ringrazio per l’attenzione. Grazie! Marta Brunelli»
«Egr. Dott Giangrande, in ogni vicenda giudiziaria, alla fine del dibattimento o nel pieno della controversia,la frase fatidica che echeggia è che, il dubbio è pro reo e si deve condannare solo in caso di certezza della prova. Al di là di ogni ragionevole dubbio....ma se la vicenda stessa va al di là della ragionevolezza ed il dubbio diventa prova di condanna, come devono reagire cinque famiglie che vedono, uno dopo l'altro, i loro figli finire in carcere? Mi riferisco ad un caso accaduto, quattro anni fa, a Verona e del quale si sono riempite le pagine dei giornali e le trasmissioni di tutta Italia. Le foto di cinque ragazzi, per mesi, hanno fatto il giro dei quotidiani e non solo, accusati di aver massacrato a calci e pugni tre loro coetanei, uno dei quali, purtroppo morto in seguito al pestaggio. Ed è da qui, che parte l'irragionevolezza di questa vicenda perchè, quel famoso pestaggio, in realtà, non è mai avvenuto. Si era trattato di una rissa ed anche non molto violenta data la breve durata e l'esiguità dei colpi che i contendenti si erano scambiati vicendevolmente. La vicenda appare chiara si dall'inizio, ma quasi per un gioco perverso viene tramutata in una storia dai contorni e dai contenuti completamente diversi dalla realtà oggettiva dei fatti. Questi cinque ragazzi si ritrovano, di punto in bianco, in un marasma mediatico che li vuole assassini a tutti i costi, tanto da privarli in maniera lampante e scandalosa di uno dei più importanti diritti della nostra Costituzione, il diritto alla difesa! Riassumere brevemente l'iter processuale che abbiamo vissuto con i nostri figli non è semplice, è più semplice dire che abbiamo assistito a tutto e di più. In aula, nonostante le testimonianze non solo contrastanti ma, addirittura inverosimili dei due amici di Nicola Tommasoli essi vengono considerati testimoni attendibili. Nascono contrasti anche sul metodo usato per effettuare l'autopsia da parte della consulente del Pm. Contrasti degni di nota visto che, nonostante la presenza di una angiografia, fatta durante la degenza di Nicola Tommasoli, dove emerge la presenza di un'anomalia vascolare dell'arteria vertebrale destra, la consulente non estrae quel pezzo potenzialmente utile. In mancanza di quel pezzo le risposte possibili sulla morte, del ragazzo,rimangono aleatorie e avvolte nell'incertezza. Si alternano, perciò, consulenti di parte i quali discutono senza arrivare, nonostante tutto, a capire cosa sia avvenuto veramente quella sera, anche perchè, i colpi lievissimi da cui era stato attinto non giustificavano un'emorragia così imponente. Il consulente "super partes" chiede di poter riesumare la salma, ma scopriremo che il Pm aveva dato l'autorizzazione alla cremazione del cadavere nel cui interno era conservata la nostra prova regina. A questo punto il colpo di scena, la consulente del Pm, dopo circa quattro mesi dall'inizio del processo, dichiara di aver trovato il pezzo di arteria che tanto ci aveva fatto penare. Giura davanti alla Corte che quello è il pezzo che tutti cercavano e che era stato estratto sin dall'inizio. Non viene chiesto nessun esame del DNA. Si richiede l'esame dello stesso per determinare se, effettivamente, fosse quello mancante. Dopo, ancora mesi di attese, il responso del consulente "super partes" è definitivo, quel minuscolo pezzo non è che una parte del tratto arterioso in questione. Per di più, presenta caratteristiche tali da far presumere che, proprio nella parte mancante, ci fosse una anomalia tipica di un aneurisma. Viene trovato anche il probabile punto di rottura dell'arteria ma non si saprà mai se, traumatico o spontaneo. Non sto neanche qui a descriverle le ritrattazioni e le polemiche nate attorno a questa nuova scoperta, fatto sta che il consulente "super partes" al momento della stesura della sua relazione dice di aver visionato degli artefatti. Comunque non da certezze sulle cause della morte del ragazzo anche perchè l'esiguità del colpo ricevuto, si parla di uno schiaffo lievissimo, non può giustificare un emorragia così massiva a meno che, a monte, non ci sia stato un problema più importante. Queste sono le parole esatte del consulente "super partes", messe agli atti .E così nel dubbio più assoluto, due ragazzi di vent'anni sono in prigione ed altri tre ci andranno a breve per concorso morale in omicidio. Sentenza politica? Sentenza mediatica? Giustizia che va pari passo col politico di turno? Codardia per non avere il coraggio di tornare sui propri passi ed ammettere di aver commesso errori di valutazione...Non lo sappiamo..siamo solo famiglie distrutte! Grazie per darci voce. Bovi Silvana»
La denuncia: 'Così la polizia mi ha massacrato' di Paolo Biondani su “L’Espesso”. Le cariche dopo una partita. Le manganellate alla testa. Un mese di coma. Poi il risveglio, ma con un'invalidità che durerà tutta la vita. Poi lui trova la forza di parlare e un'agente coraggiosa fa scoppiare il caso.
Un giovane tifoso del Brescia massacrato a manganellate che finisce in coma. I medici lo danno per spacciato: se ce la farà a sopravvivere, dicono ai genitori, "sarà un vegetale". Dopo più di un mese di buio, invece, il ragazzo si risveglia. Parla, anche se con molta fatica. E' ancora intubato quando, alla fine del 2005, comincia a raccontare tutto a una poliziotta, che ha il coraggio di aprire un'inchiesta sui colleghi. La commissaria indaga in solitudine. Scopre verbali truccati. Testimonianze insabbiate. Filmati spariti. Poi altri poliziotti rompono l'omertà e sbugiardano le relazioni ufficiali di un dirigente della questura. Un giudice ordina di procedere. E adesso, a Verona, sta per aprirsi un processo simbolo contro otto celerini del reparto di Bologna. Una squadraccia, secondo l'accusa, capace non solo di usare "violenza immotivata e insensata su persone inermi", ma anche di inquinare le prove fino a rovesciare le colpe sulle vittime.
"L'Espresso" ha ricostruito i retroscena di quella misteriosa giornata di guerriglia tra tifosi e polizia, con testimonianze e filmati inediti, scoprendo un filo nero che collega tanti casi in apparenza separati di degenerazione delle divise. Un viaggio nel male oscuro che contamina e divide le nostre forze di polizia. "La mia storia è simile a quella di Federico Aldovrandi, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Carlo Giuliani... La differenza è che io sono ancora vivo e posso parlare". Paolo Scaroni oggi ha 34 anni e il 100 per cento d'invalidità civile. Cammina per Brescia, la sua città, strascicando un piede rimasto paralizzato. La voce esce spezzata e lui se ne scusa ("Sono i postumi del trauma"): "Sono molto legato ai familiari di Aldovrandi. Suonava il clarinetto come me, nelle nostre vicende ci sono coincidenze incredibili. Io sono stato massacrato alle otto di sera, lui è stato ammazzato la stessa notte, sei ore dopo. Ora vogliamo fondare un'associazione: familiari delle vittime della polizia".
Suo padre, bresciano di Castenedolo, capelli bianchi e mani callose, riassume il problema scuotendo la testa: "Ho sempre avuto rispetto delle forze dell'ordine. Ma adesso, quando vedo un'uniforme, non ho più fiducia".
Quello di Paolo è un dolore speciale: "Oggi la cosa che mi fa più male è che mi hanno cancellato l'infanzia e l'adolescenza. Ho perso tutti i ricordi dei miei primi vent'anni di esistenza". La vita del ragazzo senza memoria è cambiata il 24 settembre 2005. Paolo, allevatore di tori, fisico da atleta, è in trasferta a Verona con 800 tifosi. Il suo gruppo, Brescia 1911, è il più popolare e radicato. Hanno un loro codice: botte sì, ma solo a mani nude. "Niente coltelli, no droga", scrivono sugli striscioni. In quei giorni si sentono scomodi: tifosi di provincia che protestano contro "i padroni del calcio-tv" e "le schedature". Dopo la partita, i bresciani vengono scortati in stazione. E qui si scatena l'inferno: tre cariche della celere, violentissime.
L'inchiesta ha identificato 32 tifosi feriti, quasi tutti colpiti alla schiena. Foto e video recuperati da "l'Espresso" mostrano, tra gli altri, una ragazza con il seno tumefatto e altri due giovani con trauma cranico e mani fratturate. Paolo ha la testa fracassata: salvato dagli amici, si rialza, vomita, sviene. Alle 19,45 entra in coma. L'ambulanza arriva con più di mezz'ora di ritardo. Secondo la relazione ufficiale firmata da F. M., dirigente della questura di Verona, la colpa è tutta dei tifosi. Il funzionario dichiara che gli ultras bresciani "occupavano il primo binario bloccando la testa del treno", con la pretesa di "far rilasciare due arrestati". Appena le divise si avvicinano, giura il pubblico ufficiale, "il fronte dei tifosi assalta i nostri reparti con cinghie, aste di ferro, calci, pugni e scagliando massi presi dai binari". La celere li carica "solo per prevenire violenze sui viaggiatori". Paolo non è neppure nominato: una riga nella penultima pagina del rapporto cita solo "un tifoso colto da malore a bordo del treno". Chi lo ha picchiato? "Scontri con gli ultras veronesi", è la prima versione, che crolla subito: la stazione era vuota, dentro c'erano solo i bresciani scortati dagli agenti. Quindi un celerino ne racconta un'altra: Paolo sarebbe stato ferito da "uno dei massi lanciati dagli ultras" suoi amici. Da quel giorno, per tre mesi, i tifosi di Brescia 1911 smettono di andare allo stadio: la domenica vanno a Verona in ospedale a tifare per Paolo. Che il 30 ottobre, quando ogni speranza sembra spenta, improvvisamente si risveglia durante un prelievo di sangue. In novembre la poliziotta Margherita T. riesce a interrogarlo. Mozziconi di frasi, che ricostruiscono il pestaggio: "Erano almeno quattro celerini, con i caschi. Mi urlavano: bastardo. Picchiavano con i manganelli impugnati al contrario per farmi più male". E non volevano solo immobilizzarlo: i referti medici confermano che Paolo è stato colpito "sempre e solo alla testa". La poliziotta interroga il personale del treno. E scopre che la storia dei binari occupati dagli ultras era una balla. "I tifosi erano assolutamente tranquilli, noi eravamo pronti a partire: non ho visto nessun atto di violenza, provocazione o lancio di oggetti", dichiarano i macchinisti. Ma chi ha scatenato il caos? Quattro agenti della polizia ferroviaria testimoniano che "i disordini sono cominciati solo quando la celere ha lanciato lacrimogeni dentro uno scompartimento dove c'erano tante donne e bambini piangenti". Particolare importante: "Prima non avevamo visto nulla che giustificasse il lancio del gas". Solo allora "un centinaio di tifosi, arrabbiati e lacrimanti, ci hanno minacciato, chiedendoci come fosse possibile lanciare lacrimogeni su un treno con bambini". Ma subito, dicono gli stessi agenti, "i capi ultras si sono messi in mezzo, facendo da pacieri, per calmare gli altri tifosi dicendo che noi della Polfer non c'entravamo". In quel momento la celere carica l'intera tifoseria. Seguono 30 minuti di macelleria da Stato di polizia. La verità dei fatti è confermata anche dai funzionari presenti della Digos di Brescia, che la stessa notte cominciano a raccogliere testimonianze e referti dei tifosi feriti. Quindi la poliziotta di Verona scopre che i filmati dei suoi colleghi, che in teoria dovrebbero aver ripreso tutti gli scontri, si interrompono proprio nei minuti in cui Paolo è stato massacrato. Peggio: nella versione consegnata ai magistrati è stato tagliato il commento finale di due agenti. "Adesso il questore ci incarna...". "Ascolta, tu prova a guardare subito le immagini di quando il...". Fine del filmato della polizia. Mentre Scaroni passa altri 64 giorni in rianimazione, i suoi amici di Brescia 1911 si tassano per pagargli le spese legali e imbandierano la curva con uno striscione mai visto: "Giustizia per Paolo". Il tam tam unisce decine di tifoserie rivali. In febbraio Brescia è invasa da ultras di mezza Italia. Un corteo con migliaia di tifosi, preceduto da uno storico abbraccio tra i capi delle curve "nemiche" del Brescia e dell'Atalanta. "Non ci interessa che i poliziotti finiscano in galera, noi vogliamo la verità", dice ora Diego Piccinelli, il responsabile di Brescia 1911. "Nessuno potrà ridarmi la memoria o il lavoro", aggiunge Paolo, "ma il mio processo deve fermare i poliziotti violenti: a scatenare la parte peggiore è la sicurezza di farla franca".
Come molti altri processi contro uomini della legge, però, anche questo naviga controcorrente. Solo la ricostruzione dei fatti, cioè la demolizione delle bugie ufficiali, è durata quattro anni. Il pm di turno a Verona aveva chiesto per due volte l'archiviazione, sostenendo che i caschi impedivano di riconoscere gli agenti picchiatori. Il rinvio a giudizio è stato imposto da un ex giudice istruttore, Sandro Sperandio. Ora finalmente si va in aula: prima udienza il 25 marzo 2011. Ma l'avvocato di parte civile, Alessandro Mainardi, teme un finale all'italiana: "Rischiamo una prescrizione che sarebbe vergognosa. Se non c'è certezza della pena per le forze di polizia, come si può pretendere che i cittadini abbiano fiducia nella giustizia? Sulle responsabilità individuali siamo tutti garantisti. Ma qui, dopo tante menzogne, una cosa è certa: un ragazzo inerme è stato ridotto in fin di vita da una squadraccia che indossa ancora la divisa. Uno Stato civile avrebbe almeno risarcito i danni. Invece, dopo cinque anni, il ministero dell'Interno non si è ancora degnato di offrire un soldo". Tre mesi fa Paolo ha scritto al ministro Roberto Maroni: "La violenza va condannata e l'omertà va combattuta prima di tutto da chi rappresenta la legge". Da Roma nessuna risposta.
In Italia vige una regola inviolabile: in tv e sui giornali non si contesta il dogma dell’infallibilità di Magistrati e Giornalisti.
L’Associazione Contro Tutte le Mafie è oscurata dai media perché viola questa norma non scritta. Il sodalizio nazionale, però, spopola sul web. Che essa abbia dovuto rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti Umani per l’insabbiamento di 16.000 denunce presentate dai suoi associati, sembra poca cosa per la stampa nazionale. Ciò non ci esime dal pubblicare l’ennesima storia di ingiustizia. Le innumerevoli denunce ritorsive per diffamazione a mezzo stampa contro di noi da parte della magistratura non ci impedisce di riportare gli articoli di giornalisti coraggiosi citati in calce. Loro, come noi, esercitiamo il sacrosanto diritto di critica e di informare.
Per raccontare la verità in questo Paese, servono tanti quattrini. Se ti avventuri sfidando il potere, ti verranno tolte anche le mutande. In questa palude immobile, possiamo serenamente affermare che la disuguaglianza tra ricchi e poveri è una continua tortura. Ci raccontano balle, facendoci credere che la legge è uguale per tutti poi, ti spogliano economicamente per ridurti sino al silenzio. La legge non è uguale per tutti ma è un privilegio di pochi, di quei pochi che, per difendere la propria libertà, mettono in campo il loro conto in banca e possono permettersi di pagare “l’avvocato più in gamba della città” e tutte le spese che la giustizia richiede. Molti altri italiani, semplici cittadini, non potranno mai avere una piena giustizia se non hanno tanti soldi da tirar fuori e la verità andrà sfumando dinanzi alla parlantina e al potere della controparte.
“Se potessi affronterei anche tutte le spese, ma non ne ho neanche per me per il momento. Spero ogni giorno di poter avere le spese legali, ciò significherebbe affrontare un processo che lo Stato italiano si ostina a non fare”. Sono le parole di Francesco Carbone. Sono le evidenti prove che la giustizia discrimina e premia solo chi possiede denaro ed il potere. La protesta di Francesco Carbone non è certamente silenziosa, il 31 marzo 2010 da Palermo si è recato sino al parlamento ed ha protestato per le sue nobili motivazioni. Ma secondo voi qualche divinità politica nostrana poteva mettersi a competere con un comune mortale? Ovviamente No. Nonostante le ripetute sconfitte in partenza Carbone Francesco, non si è dato per vinto e il 7 Giugno, ha inviato la petizione On line al Parlamento Europeo, dato che il potere in Italia ha poco a che fare con la gente semplice e onesta.
Veniamo al dunque. Il signor Carbone, nonostante le evidenti e schiaccianti prove fornite alla procura di Verona che denunciavano i dirigenti di Poste Italiane, dell’Ispettorato del Lavoro, dello Spisal, ditte appaltanti e un dirigente della Cgil, non hanno fatto alcuna indagine. “Dopo 17 mesi e 8 giorni – dice Carbone – hanno archiviato la mia denuncia senza neanche avvisarmi come la legge prevede”. Per 7 anni Carbone è stato il responsabile della Ditta che ha l’appalto in Poste Italiane. Costretto poi, a dare le dimissioni a seguito di minacce e vessazioni ricevute dall’amministratore della ditta appaltante, e dagli alti dirigenti di Poste Italiane. “Per le mie lamentele sulle lacune lavorative: nessun tipo di sicurezza e igiene sul posto di lavoro, obbligati a fare lavori che non ci competevano per contratto, presenza di lavoratori in nero, straordinari sottopagati in nero, mezzi di trasporto mal messi e spesso senza revisione, continui insulti e minacce dal personale e dai dirigenti” racconta Carbone. Roba da niente secondo la giustizia italiana.
Denunciò questi fatti anche ad un dirigente della Cgil, ma “mi consigliò di non disturbare gli alti Dirigenti di Poste Italiane in quanto avrei perso il posto di lavoro”. Si recò anche presso l’ispettorato del lavoro denunciando che all’interno di Poste italiane giravano “lavoratori in nero con tesserino identificativo fornito dai dirigenti di Poste Italiane e non è stato fatto alcun controllo.” Ha esposto denuncia anche presso lo Spisal di Verona “tutte le irregolarità riguardanti la sicurezza e igiene nei posti di lavoro ed è stato fatto solo qualche controllo.”
Guai a toccare il potere, nessuno si permetterebbe di farlo. Dopo i piccoli dispiaceri creati da Carbone in Poste italiane, egli racconta che il Direttore del Triveneto di Poste Italiane, presentò una raccomandata al suo datore di lavoro. “Mi obbligava – racconta Carbone – a non entrare in tutti gli uffici di Poste Italiane e di consegnare il pass di entrata, in quanto elemento indesiderato per aver chiesto il rispetto del contratto e della sicurezza sul lavoro.”
Dopo i rifiuti di aiuto, Carbone si affida alla procura della Repubblica fornendo tutti i materiali in suo possesso: documenti , foto, video e tutti i numeri di telefono dei lavoratori in nero. “Nessuna convocazione e dopo 17 mesi e 8 giorni , dopo che gli appalti erano stati riconsegnati alle stesse ditte, il capo della procura Schinaia mi archivia la denuncia senza neanche avvisarmi come la legge prevede, con nessuna motivazione e senza interpellare il Gip. All’epoca ero incaricato pubblico e quindi avevo il dovere, secondo il diritto penale, di denunciare illeciti”. Carbone si è appellato anche al Presidente della Repubblica, Giorgio Napoletano, e al Ministro Alfano chiedendo che vengano immediatamente inviati degli ispettori a Verona per sequestrare e verificare l’operato del capo della procura.
Perdere il posto di lavoro, perdere la dignità, il diritto di avere giustizia. “Per aver fatto il mio dovere e aver preteso i miei diritti, mi sono dovuto ritrasferire con tutta la mia famiglia nella mia terra di origine, la Sicilia. Mi ritrovo disoccupato da 2 anni, deriso e guardato male da tutti, in quanto mi sono messo contro alti Dirigenti pensando di avere giustizia. Come ciliegina sulla torta mi viene negato anche il diritto di chiedere il risarcimento dei danni subiti da me e dalla mia famiglia.“
Carbone si chiede se sia normale che in una nazione civile succeda una palese violazione dei diritti umani. Possiamo rispondere tranquillamente che l’Italia, o perlomeno le istituzioni e i nostri dirigenti, sono tutt’altro che civili e democratici come ci vogliono far credere. Il piccolo Davide, deriso per aver sfidato Golia, è un esempio di una mentalità “paurosa” entrata nelle nostre menti. Non si toccano i potenti, avresti sempre la peggio. Questo è il messaggio. Ci insegnano sin dalle scuole elementari di non disturbare il cane che dorme. Così, di questo passo, l’organizzazione mafiosa “legalizzata” continua ad andare avanti e prendersi gioco di noi piccoli comuni mortali.
“Francesco Carbone è un giovane di 35 anni che tempo fa ha dovuto lasciare la Sicilia per mancanza di lavoro. Si trasferisce a Verona, dove finalmente trova un impiego come responsabile di una ditta appaltante per Poste Italiane. Ma la sua è una vicenda assurda, e finisce addirittura peggio. Francesco ha avuto il coraggio di denunciare, con tantissimi esposti presentati alla Magistratura, un vasto giro di tangenti nell’appalto per il trasporto dei pacchi postali, che nel Veneto è stato affidato ad una Società di cui è proprietario un personaggio eccellente: il nipote di FERNANDO MASONE, originario di Pesco Sannita, ex capo della Polizia e segretario generale del Cesis - Coordinamento dei Servizi Segreti.
Il nipote di Fernando Masone si chiama D’Agostino e la sua impresa è denominata “Impresa Sannita” s.r.l. con sede legale a Torino. Da circa trenta anni tale società ha l’appalto per il trasporto dei pacchi postali a Venezia e dal 2001 a Verona e Padova; ma non si occupa solo di servizi postali ma anche di compravendita di capannoni industriali ed altro: una marea di appalti pubblici!
Tutte le denunce di Francesco Carbone sono state rigorosamente formalizzate, ma sinora nessuna inchiesta. Tutto insabbiato!
I dati e le circostanze riferite da Francesco Carbone portano poi ad evidenziare un altro dato inquietante: le paventate coperture politiche di un ex Ministro della Giustizia che, alla luce dei fatti, si sono rivelate fondate.
Dunque, lavoratore per l’Impresa Sannita s.r.l. di D’Agostino che aveva l’appalto del servizio postale, cioè tutti i trasporti postali della provincia di Verona, Francesco Carbone si è ritrovato protagonista di una storia di illegalità che ha dell’incredibile. Dopo aver assistito a tante violazioni, con lavoratori pagati in nero con in mano tesserini delle Poste Italiane, costretti a lavori non previsti nel contratto ha voluto denunciare le sue scoperte ai rappresentanti sindacali ed ai dirigenti del Triveneto di Poste Italiane. Al posto di ricevere solidarietà ed attenzione è stato minacciato, offeso, interdetto dall’ingresso in qualsiasi ufficio delle Poste Italiane per cui la sua società lavorava, inascoltato dai pm e dai ministri che ha provato ad ascoltare. Se fosse vera, se fosse dimostrabile tramite un equo processo quanto dichiarato in questa lettera da Francesco Carbone, quanto raccontato sarebbe l’incredibile storia di un uomo che per lavorare nella legalità è stato distrutto da un’azienda privata, dall’indifferenza dello Stato e dalla sordità della Magistratura.
Da lui ricevo e trascrivo integralmente la sua storia.
Mi chiamo Carbone Francesco e scrivo per metterla al corrente della mia vicenda per la quale ho avuto a che fare con elementi dei servizi segreti e massoneria. Premetto che di tutto ciò che denuncio ho ed ho consegnato le prove: foto, video, documenti cartacei ufficiali, registrazioni telefoniche degli incontri avvenuti con i Dirigenti di Poste Italiane, la ditta Appaltante, i dirigenti USL 20 Verona, la Procura di Verona, la Guardia di Finanza di Verona.
Ho denunciato con denuncia querela i capi della Procura di Verona Papalia e Schinaia, i quali, pur avendo in mano tutte la prove da me allegate alla mia denuncia penale contro alti dirigenti Di Poste Italiane, Dirigenti dell’Ispettorato del Lavoro, Dirigenti dello Spisal (USL), ditte appaltanti e un dirigente della Cgil, non hanno fatto alcuna indagine e dopo 17 mesi e 8 giorni hanno archiviato la mia denuncia senza neanche avvisarmi come la legge prevede in base all’art. 408 c.p.p., inserendola volontariamente a mod. 45 “Fatti non costituenti reato” per distogliere dall’azione penale gli alti funzionari che avevo denunciato per gravi reati.
Hanno leso il mio diritto di avere giustizia ed hanno leso l’Erario dello Stato per le somme non recuperate dall’evasione fiscale che ho documentato, e il non recupero delle somme che dovevano essere sanzionate per lo sfruttamento di lavoro nero e le gravi carenze di igiene e sicurezza nei posti di lavoro.
Brevemente spiego la situazione.
Io per 7 anni sono stato responsabile su Verona della ditta che ha l’appalto di Poste Italiane fino a quando sono stato costretto a dare le mie dimissioni a seguito di minacce e vessazioni ricevute dall’amministratore della ditta appaltante, e dagli alti dirigenti di Poste Italiane per le mie lamentele sulle lacune lavorative che praticamente consistevano in: nessun tipo di sicurezza e igiene sul posto di lavoro, lavoratori obbligati a fare lavori che non ci competevano per contratto, presenza di lavoratori in nero, straordinari sottopagati in nero, mezzi di trasporto mal messi e spesso senza revisione, estorsione di denaro agli autisti prelevato dalle buste paga sotto forma di rimborso, continui insulti e minacce dal personale e dai dirigenti di Poste Italiane.
Praticamente ho denunciato i fatti al dirigente della Cgil il quale oltre a non fare niente mi ha consigliato di non disturbare gli alti Dirigenti di Poste Italiane che in quel momento erano occupati a preparare i nuovi appalti, in quanto avrei perso il posto di lavoro e vedendo la mia perseveranza, ha riferito a tutti gli autisti che per colpa mia e delle mie continue lamentele avrebbero perso il posto di lavoro, creando attorno a me il vuoto.
Ho denunciato presso l’Ispettorato del Lavoro la presenza, all’interno di Poste Italiane, di lavoratori in nero con tesserino identificativo fornito dai dirigenti di Poste Italiane e non è stato fatto alcun controllo, inoltre alla richiesta di informazioni da parte della Procura di Verona, il direttore ordinario risponde che non ha proceduto all’ispezione in quanto nutriva forti dubbi sulla veridicità di ciò che io avevo denunciato, ma non verifica la veridicità delle mie dichiarazioni e neppure consequenzialmente mi denuncia per false informazioni a un pubblico ufficiale.
Ho denunciato presso lo Spisal di Verona (USL) tutte le irregolarità riguardanti la sicurezza e l’igiene nei posti di lavoro ed è stato fatto solo qualche controllo a seguito della mia minaccia di denunciarli per omissione di atti d’ufficio. Tra l’altro la mia denuncia presentata il 28/09/2007 è stata protocollata il 13 novembre 2007 solo dopo la mia minaccia di denunciarli alle autorità.
Ho collaborato per mesi con elementi dei Servizi Segreti della Guardia di Finanza di Verona e deliberatamente non è stato fatto alcun controllo sull’evasione fiscale da me documentata, anzi mi hanno fatto solo ritardare la denuncia che dovevo presentare in procura.
Sono stato minacciato dagli uomini di fiducia dell’appaltante dicendomi che era inutile mettermi contro di loro in quanto l’appaltante era il nipote dell’ex capo della Polizia e dei Servizi Segreti Ferdinando Masone ed erano appoggiati molto bene politicamente e tra l’altro, anche se avessi fatto denunce alla magistratura, l’allora ministro della Giustizia era in stretto contatto con tutti gli appaltanti del centro-sud Italia.
Dopo tutto ciò essendo sicuri di essere intoccabili avendomi fatto terra bruciata attorno, il Direttore del Triveneto di Poste Italiane a seguito della mia caparbietà a non fare lavori che non mi competevano per contratto o che andavano contro la sicurezza, manda una raccomandata al mio datore di lavoro obbligandomi a non entrare in tutti gli uffici di Poste Italiane e di consegnare il pass di entrata, in quanto sarei elemento indesiderato per aver chiesto il rispetto del contratto e della sicurezza sul lavoro.
A questo punto prendo tutta la documentazione in mio possesso (documenti, foto e video) e vado a presentare denuncia alla Procura della Repubblica.
Dopo un mese il mio avvocato viene convocato per consegnare alla procura tutti i numeri di telefono di tutti i lavoratori in nero e poi… il nulla.
Nessuna convocazione e dopo 17 mesi e 8 giorni, dopo che gli appalti erano stati riconsegnati alle stesse ditte, il capo della procura Schinaia mi archivia la denuncia senza neanche avvisarmi come la legge prevede, con nessuna motivazione e senza interpellare il Gip !
FACCIO PRESENTE CHE ALL’EPOCA DEI FATTI OLTRE A ESSERE PERSONA OFFESA DAI REATI ERO INCARICATO DI PUBBLICO SERVIZIO OBBLIGATO DAL CODICE PENALE A DENUNCIARE FATTI DI RILEVANZA PENALE.
Secondo Lei è giusto e normale in una Nazione definita Civile, perdere il posto di lavoro, perdere la dignità, perdere il diritto di avere giustizia per aver fatto il mio dovere e aver preteso i miei diritti?
Mi sono dovuto ritrasferire con tutta la mia famiglia nella mia terra di origine, la Sicilia.
Mi ritrovo disoccupato da 2 anni, deriso e guardato male da tutti in quanto mi sono messo contro alti Dirigenti pensando di avere giustizia e come ciliegina sulla torta mi viene negato il diritto di chiedere il risarcimento dei danni subiti da me e dalla mia famiglia.
Agli atti delle indagini mancano documenti importanti che erano stati inseriti dai miei avvocati e che comunque dovevano essere inseriti dalla direzione lavoro nelle loro misere e false perizie. Per questo motivo e per tutti gli altri gravi motivi ho scritto al Presidente della Repubblica e al Ministro Alfano chiedendo che immediatamente vengano inviati gli ispettori a Verona per verificare l’operato del Capo della Procura.
Ancora una volta nessuno si muove e nessuno fa niente.
Ho consegnato la richiesta fatta al ministro Alfano e la presente lettera al Presidente della Repubblica allegando tutta la documentazione in mio possesso assieme alle denunce inoltrate alla Procura di Roma, alla Procura Generale di Roma, al Consiglio Superiore della Magistratura. A tutt’ora nulla………..
Ho fatto tante altre denunce in seguito all’archiviazione e sono tutte ferme nelle procure di Verona, Venezia e Roma e sicuramente insabbiate con il mod. 45 classificando le mie denunce criminalmente come “fatti non costituenti reato” per autoarchiviarle senza fare alcuna indagine in quanto non sono stato convocato da nessuno.
L’Onorevole Fini ha posto la mia denuncia all’attenzione della Commissione competente e non ho ricevuto alcuna risposta.
La mia dettagliata denuncia si trova anche all’attenzione del Ministro Sacconi e la Direzione Generale del Ministero del Lavoro e non ho ricevuto alcuna risposta e nessuna ispezione è stata fatta.
La mia denuncia dettagliata si trova anche all’attenzione del Ministro Brunetta il quale l’ha posta all’attenzione dell’Ispettorato della Funzione Pubblica a dicembre del 2008 ma a tutt’oggi non ho ricevuto alcuna risposta e nessuna ispezione è stata avviata.
Il 28 aprile ho inviato una richiesta di intervento disciplinare al C.S.M. per i procuratori che volontariamente hanno messo la mia denuncia querela a mod. 45 per autoarchiviarla. Ho chiamato il C.S.M. e mi hanno risposto che la mia richiesta è in mano al relatore dal 5 maggio e la pratica è la n. 309/2010.
In data 07 giugno 2010 il C.S.M. mi risponde con una lettera ciclostilata asserendo, in relazione a ciò che avevo chiesto nella prima istanza, che le richieste disciplinari le possono richiedere solo il Ministro e il Procuratore Generale della Corte di Cassazione e per ciò non faranno alcun intervento nei confronti dei procuratori Capo e neppure saranno aperte le indagini sulla denuncia auto archiviata.
Mi invitano a rivolgermi alle autorità competenti per denunciare civilmente o penalmente i Procuratori Capo Papalia e Schinaia, pur avendo io consegnato nella documentazione anche la denuncia - querela già presentata a Verona il 23 Febbraio 2010 nei confronti dei Procuratori Capo, degli appartenenti ai Servizi Segreti e di tutti coloro che hanno impedito, ritardato, omesso le normali procedure di indagini, occultando documenti o presentando documenti totalmente falsi.
Pur essendo coinvolte le Procure di Roma, Verona , Venezia e Termini Imerese in quanto le denunce querele, anche se per diversi reati, sono tutte collegate alla prima denuncia archiviata, non ho mai potuto parlare e non sono mai stato convocato da nessun Magistrato o Ufficiale delle Forze dell’ordine in merito a ciò che ho denunciato.
Violando l’art. 112 della Costituzione (il Magistrato ha l’obbligo dell’azione penale), non viene avviata alcuna indagine o procedimento penale nè nei confronti di chi ho denunciato e neanche nei miei confronti per calunnia, false informazioni a pubblici ufficiali e/o per diffamazione pur avendo pubblicato via web e in particolar modo su facebook non solo la mia vicenda ma anche le denunce scannerizzate, foto e video.
L’unica cosa di cui sono certo è che per avere adempiuto il mio dovere, mi ritrovo disoccupato, senza giustizia e attenzionato dalla Digos come se fossi un criminale.
Spero che qualcuno abbia modo di indirizzarmi a qualche Magistrato onesto, organo di informazione e che mi convochino per poter dire tutto ciò che so con prove alla mano, le denunce (Procura di Roma, Procura Generale di Roma, Consiglio Superiore della Magistratura e da ultimo la DENUNCIA QUERELA CONTRO I MINISTRI ALFANO - BRUNETTA - SACCONI EX ART 328 C.P.) foto, video, documentazione cartacea, registrazioni telefoniche e registrazioni audio delle “offerte” per «comprarmi» e delle minacce per farmi stare zitto.
Con stima. Francesco Carbone - Villafrati (PA) 90030
Questo giovane che ha avuto il merito ed il coraggio di denunciare si dice preoccupato, teme per la propria vita… Ma la sua assurda storia sta facendo il giro d’Italia - malgrado le resistenze e le minacce di chi non vuole che i fatti denunciati diventino di dominio pubblico - ed ha la solidarietà del nostro Comitato Cittadini per la Trasparenza e la Democrazia e di 16.000 Italiani aderenti al gruppo facebook che il 27 settembre 2010 a Roma, in Piazza Montecitorio, organizzeranno un presidio permanente per pretendere pacificamente e civilmente un dialogo ed un confronto ragionevole con le Istituzioni, il Ministro dell’Interno, il Ministro della Giustizia, il Presidente della Camera e la Commissione Giustizia per far sì che si prendano i più immediati provvedimenti per contrastare efficacemente la malagiustizia in Italia e per pretendere il rispetto dei diritti umani sanciti dalla Costituzione italiana”.
Atto Senato. Interrogazione a risposta scritta 4-04154
presentata da ELIO LANNUTTI mercoledì 24 novembre 2010, seduta n.465
LANNUTTI - Ai Ministri dell'economia e delle finanze, del lavoro e delle politiche sociali, per la pubblica amministrazione e l'innovazione e della giustizia - Premesso che:
è arrivata all'interrogante una segnalazione di un cittadino, Francesco Carbone, che, dopo aver ricoperto il ruolo di responsabile nella città di Verona della ditta che ha l'appalto di Poste italiane, racconta di essere stato costretto a dare le dimissioni a seguito di minacce e vessazioni ricevute dall'amministratore della ditta appaltante e dagli alti dirigenti di Poste italiane perché aveva avanzato lamentele sulle lacune lavorative, quali: nessun tipo di sicurezza e igiene sul posto di lavoro, obbligo a fare lavori che non competevano per contratto, presenza di lavoratori irregolari, straordinari sottopagati in nero, mezzi di trasporto mal messi e spesso senza che fossero sottoposti a revisione, forme di prelievo (assimilabili ad una vera e propria estorsione) di denaro dalle buste paga degli autisti sotto forma di rimborso, continui insulti e minacce dal personale e dai dirigenti di Poste italiane;
il cittadino riferisce di aver denunciato i fatti al dirigente sindacale, il quale, oltre a non aver fatto nulla, gli avrebbe consigliato di non disturbare gli alti dirigenti di Poste italiane che in quel momento erano occupati a preparare i nuovi appalti, in quanto avrebbe perso il posto di lavoro e che, vedendo la sua perseveranza, ha riferito a tutti gli autisti che per colpa sua e delle sue continue lamentele anche loro avrebbero perso il posto di lavoro;
Carbone denunciava presso l'Ispettorato del lavoro la presenza, all'interno di Poste italiane, di lavoratori in nero con tesserino identificativo fornito dai dirigenti di Poste italiane senza che venisse predisposto alcun controllo; inoltre, alla richiesta di informazioni da parte della Procura di Verona, il direttore ordinario Palumbo rispondeva di non aver proceduto all'ispezione in quanto nutriva forti dubbi sulla veridicità di ciò che veniva denunciato ma, nonostante ciò, non provvedeva a verificarla e/o a denunciare il cittadino per false informazioni;
il cittadino inoltre denunciava presso lo Spisal di Verona (ASL) tutte le irregolarità riguardanti la sicurezza e l'igiene nei posti di lavoro, ma veniva fatto qualche controllo solo a seguito della minaccia di Carbone cittadino di denunciare il personale della ASL per omissione di atti d'ufficio;
il cittadino dopo aver denunciato l'evasione fiscale della ditta in questione ha collaborato per mesi con la Guardia di finanza di Verona, ma anche in questo caso non sarebbe stato fatto alcun controllo;
Francesco Carbone dichiara di essere stato minacciato dagli uomini di fiducia dell'appaltante che gli avrebbero detto che era inutile mettersi contro di loro in quanto l'appaltante era il nipote di una persona che aveva avuto importanti incarichi nelle Forze dell'ordine e le persone a lui vicine erano appoggiate molto bene da un politico, in stretto contatto con i principali appaltanti del Centro-Sud Italia;
il Direttore del Triveneto di Poste italiane, Roberto Arcuri, a seguito della caparbietà del cittadino a non fare lavori che non gli competono per contratto o che vanno contro la sicurezza, mandava una raccomandata al suo datore di lavoro obbligandolo a non entrare in tutti gli uffici di Poste italiane e di consegnare il pass di entrata, in quanto elemento indesiderato;
a questo punto il cittadino avvalendosi di tutta la documentazione presenta denuncia alla Procura della Repubblica;
il cittadino Carbone lamenta che dopo 17 mesi, dopo che gli appalti erano stati riconsegnati alle stesse ditte, il capo della Procura Schinaia avrebbe archiviato la denuncia senza neanche avvisarlo, con nessuna motivazione e senza interpellare il giudice per le indagini preliminari;
il cittadino fa presente che all'epoca dei fatti, oltre a essere persona offesa dai reati, era incaricato di pubblico servizio obbligato dal codice penale a denunciare fatti di rilevanza penale;
Francesco Carbone, disoccupato da due anni, riferisce che viene deriso da tutti in quanto si è messo contro alti dirigenti pensando di avere giustizia e che gli viene negato il diritto di chiedere il risarcimento dei danni subiti;
Carbone ha presentato anche altre denunce e ha scritto ai rappresentanti delle istituzioni;
il 23 febbraio 2010 Francesco Carbone ha presentato a Verona la denuncia-querela nei confronti dei Procuratori Capo e di appartenenti ai servizi segreti e tutti coloro che avrebbero impedito, ritardato o omesso le normali procedure di indagini, occultando documenti o presentando documenti totalmente falsi;
tutte le denunce presentate, collegate alla prima denuncia archiviata, coinvolgono le Procure di Roma, Verona, Venezia, ma il cittadino continua a lamentare di non essere mai stato convocato da nessun magistrato o dalle Forze dell'ordine in merito a ciò che ha denunciato;
Carbone ritiene che sia stato leso il suo diritto di avere giustizia ed inoltre che sia stato leso l'erario dello Stato per le somme non recuperate dall'evasione fiscale denunciata, nonché quelle che sarebbero derivate dalle mancate sanzioni per lo sfruttamento di lavoro nero e le gravi carenze di igiene e sicurezza nei posti di lavoro da lui documentate, si chiede di sapere:
se il Governo sia a conoscenza dei fatti esposti in premessa;
se i Ministri in indirizzo, nell'ambito delle proprie competenze, non ritengano opportuno, alla luce di quanto esposto, attivare le procedure ispettive e conoscitive previste dall'ordinamento, anche al fine di prendere in considerazione ogni eventuale sottovalutazione di significativi profili di accertamento. (4-04154)
SCUOLOPOLI
la truffa
Verona, scoperta Università "tarocca". Prometteva diplomi e docenze di prestigio.
Si chiama «Carolus Magnus», fondata nel 2005 da un'associazione con sede a Roma. Dieci studenti truffati. Quattro denunciati e oltre 38 mila euro di sanzioni amministrative. L’inchiesta de “Il Corriere della Sera”.
Prometteva lauree e lezioni con docenti di prestigio, ma «sotto la cattedra» non c'era niente nell'Università Carolus Magnus di Verona, mai riconosciuta dal ministero, e sulla quale ha alzato il velo la Guardia di Finanza. Corsi di «Arti e management dello spettacolo», «Economia e gestione aziendale» e convenzioni con altri atenei, pubblici e privati, erano i punti di forza che venivano presentati agli studenti desiderosi di ottenere l'agognato diploma di laurea. Peccato fosse tutto falso perché il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca non aveva mai rilasciato alcuna autorizzazione, e gli unici documenti usciti da quelle segreteria sono state quattro denunce per truffa aggravata.
A scoprire l'inganno la Guardia di Finanza di Verona dopo che a rimetterci 7.000 euro a testa per le tasse d'iscrizione erano stati una decina di studenti che avevano assaporato il gusto di un dottorato particolare. Ma la Carolus Magnus secondo le Fiamme Gialle, era in realtà un bluff: fondata nel 2005 da alcuni membri di un'associazione culturale ed avente sede prima a Roma, con la denominazione di «Unimeur.it», e poi a Verona, con l'intitolazione all'imperatore Carlo Magno, si è rivelata un falso. Tra i docenti, avrebbero dovuto figurare anche noti personaggi dell'ambiente dello spettacolo; nessuno di questi ha mai tenuto tuttavia lezioni. Oltre alle denunce per i quattro responsabili del finto ateneo, l'autorità Garante della Concorrenza e del mercato ha emanato diversi provvedimenti nei confronti di «Unimeur.it» per messaggi pubblicitari dichiarati ingannevoli, applicando sanzioni amministrative per complessivi 38.600 euro. (Ansa)
Di seguito vi proponiamo un'inchiesta ripresa dagli archivi del Corriere della sera in cui si parla del fenomeno chiamato "diplomificio".
Nello scandalo dei diplomi fasulli ci sono anche due poliziotti. Figurano nelle intercettazioni, che riguardano i candidati da piazzare presso un Istituto.
Abbiamo preferito omettere i riferimenti ai nomi dei protagonisti, in quanto i soggetti, tramite i loro avvocati, ci hanno intimato la cancellazione di questa pagina, quant'anche l'articolo, già reso pubblico, sia di altri e tutelato dal diritto di cronaca e di critica e scriminato dall'adempimento di un dovere. Noi omettiamo i nomi degli interessati, perchè non è nostra intenzione dare inutile notorietà ai soggetti coinvolti, nè ai loro difensori, ma ci preme sollevare un problema che tocca anche Verona. Comunque, i nomi possono essere ripresi dall'articolo citato.
"Il prezzo, in questo caso, è secondario, mentre la promozione dev'essere garantita: «Con questi non posso sbagliare perché sono due poliziotti, capito, eh?... - si dice al telefono - L' importante è il risultato più che altro, senza che mi esageri, non lo so, vedi tu...». Segue il prezzo concordato, 2500 euro. «Sono alunni miei, hai capito? - insiste due giorni dopo - L' importante è che me li curi perché...eh?...Loro la tesina la sanno tutta...sono seguiti, o interni o esterni, vedi tu insomma, tanto è la stessa cosa, ok?»
Telefonate numero 1858 e 1918, intercettate tra il 26 e il 28 novembre del 2003: fotografano il senso di impunità di cui sembrano aver goduto a lungo i trafficanti del «diplomificio» scoperto dall' inchiesta coordinata dalla Procura di Verona e riverberatasi poi anche su Roma.
A questo punto per gli investigatori, effettuata la prima retata di «brasseur» di diplomi e soldi, si pone il problema di far luce sulle smagliature nel sistema di controllo effettuato dal ministero della Pubblica istruzione. Anche su questo punto il materiale raccolto dall' inchiesta assume toni allarmanti.
Il «giro» falsificava praticamente tutto, frequenze, voti, compiti, tesine, residenze, esami. Senza intoppi. «Li mettete tutti sempre presenti, perché non si sa mai...un controllo». «Perché questa gente a me che venga o non venga non me ne frega un c..., ma almeno ci dicesse che turno fa di lavoro, perché se li metto presenti e stanno lavorando a Francavilla e vanno a fare un controllo...andiamo in galera».
Ma evidentemente questo rischio era considerato remoto, se sono ricorsi perfino a spedire una ragazza al posto di un'altra. «E manda quella lì il 24, è la stessa cosa - dice un insegnante arrestato - Tanto ci sono io giù il 24». E così tale Francesca appena sbarcata a Foggia avverte: «Sono arrivata! Ho risolto, dovevo soltanto compilare dei dati e...mi serviva solo sapere se dovevo copiare anche i compiti». Risposta: «Eh sì, devi copiare sì i compiti...devi fare tutto...».
Massima disinvoltura dunque, con alunni che vanno e vengono: «Ascoltami, hai un paio di ragazzi iscritti in I e II? Piccoli...che fanno il biennio...qualunque indirizzo...me li devi segnare all'Itas perché quando avrò l'ispettore mi servono due ragazzetti in classe...per fargli vedere che sono iscritti in I».
Gli esami infine: «È possibile fare l' esame come candidato esterno. Solo che mentre prima la legge obbligava a farlo nella scuola statale e quindi diventava un problema insormontabile adesso è possibile farlo anche nella scuola paritaria...» Una pacchia dunque, su cui l' inchiesta dovrà fare ulteriore luce.
Le tappe dello scandalo. L'indagine è nata a Verona nell' agosto del 2003. I carabinieri raccolgono le prime indiscrezioni sui diplomi facili. Un teste riferisce che un amico gli ha confidato di aver ottenuto il titolo del diploma tecnico di geometra nel 2003 senza possedere nessun tipo di preparazione. Per mesi i carabinieri di Verona prima e poi di altre città d' Italia indagano sul fenomeno. A Roma entrano nel mirino degli inquirenti molti istituti privati e vari centri studi. Indagini anche a Colleferro, Nettuno e Cassino. Il pm Celenza ha emesso 23 ordini di custodia cautelare, con la concessione degli arresti domiciliari, a carico di gestori e direttori di istituti parificati, insegnanti e procacciatori di clienti. Quindici ordinanze riguardano Roma e provincia."
SANITOPOLI IN VENETO
Bufera sui medici per i regali. 70 indagati, 3000 nel mirino.
Da Verona una operazione della Guardia di finanza che si è estesa in tutta Italia. Viaggi, impianti stereo e pc, ma anche vini pregiati. Glaxo sotto accusa, accertamenti in ospedali istituti e aziende sanitarie locali.
Anche quando non era Natale c'erano dei bei regali, viaggi, libri, computer, impianti stereo, per quei medici che prescrivevano ai loro pazienti i farmaci di quella nota casa farmaceutica invece di quelli delle aziende concorrenti. Troppi regali, troppe ricette con quel marchio, quello della Glaxo, una delle più importanti multinazionali di prodotti farmaceutici, hanno insospettito gli inquirenti che hanno incominciato ad indagare. E' nata così l'"Operazione Giove" condotta dal Nucleo di polizia tributaria del Veneto della Guardia di Finanza, su disposizione del procuratore capo di Verona Guido Papalia e del suo sostituto Antonio Condorelli, che ha portato a indagare in tutta Italia per "corruzione e comparaggio" una settantina di persone, tra cui trenta medici e quaranta informatori farmaceutici della Glaxo.
Ma le persone coinvolte a vario titolo nell'inchiesta, sono quasi tremila in molte regioni: oltre a medici e informatori, farmacisti, operatori sanitari, dirigenti di aziende, istituti ed enti ospedalieri. Sono stati perquisiti centinaia di studi medici e di uffici in varie città e sequestrati migliaia di documenti, di computer e floppy disk.
La Glaxo, dove venerdì scorso gli uomini della Finanza hanno sequestrato pacchi di documenti negli uffici del reparto commerciale, è sospettata di aver fatto dei costosi regali ai medici che preferivano i suoi farmaci: viaggi-premio in svariate località esotiche, con prevalenza ai Caraibi, spacciati come "congressi scientifici" e "aggiornamenti culturali", settimane bianche in note località sciistiche presentate come "corsi di formazione professionale", e vari regali tra cui libri e vini di pregio, impianti stereo e persino personal computer da cinquemila euro. "Sono circa tremila le posizioni sotto accertamento - spiega il procuratore Papalia - si tratta di persone che possono aver avuto dei vantaggi da parte dell'azienda farmaceutica".
"Per il reato di corruzione - aggiunge il magistrato - stiamo procedendo nei confronti di alcune decine di informatori farmaceutici della Glaxo, mentre per altre decine di medici l'ipotesi di reato è quella di comparaggio". Un reato, quest'ultimo, che prevede l'arresto fino ad un anno, e che, secondo il codice penale, punisce "quella pratica per cui medici, farmacisti e altri operatori sanitari accettano denaro, premi e donazioni varie in cambio della prescrizione di farmaci". Una pratica molto in uso, nonostante che sia proibita dallo stesso Ordine dei medici.
Parallela a questa indagine penale ne è scattata anche un'altra, amministrativa, da parte della sezione di Venezia della Corte dei Conti. Perché se i medici hanno prescritto alcuni prodotti farmaceutici a dei cittadini assistiti dal sistema sanitario nazionale, preferendoli ad altri di costo inferiore anche se con le stesse caratteristiche, è possibile che ci sia stato un danno per le casse dello Stato. La Finanza parla infatti di un'indagine "tributaria e giudiziaria in materia di spesa sanitaria". Al centro dell'inchiesta c'è il colosso farmaceutico "Glaxo Smith Kline Spa" nato dalla fusione di due aziende inglesi, due sedi in Italia, a Verona e a Parma, 2100 dipendenti nel nostro paese e un fatturato di 450 milioni di euro. Non è la prima volta che l'azienda, presieduta da Gian Pietro Leoni, che è anche il presidente di Farmindustria, l'associazione che raccoglie le maggiori aziende farmaceutiche italiane, incappa in una inchiesta del genere. Era già successo l'anno scorso, in Germania. Ma alla Glaxo si dicono "sconcertati e sorpresi". "Siamo un'azienda leader, e facciamo da sempre informazione scientifica e aggiornamento dei medici - spiega il direttore medico della casa farmaceutica Giuseppe Recchia - non abbiamo proprio nulla da rimproverarci".
SANZIONI AMMINISTRATIVE TRUCCATE IN VENETO
L'inchiesta I pm di Verona spengono 4 impianti. Da Trento a Perugia proteste per il T-Red
«Giallo corto», rivolta anti semafori
In un minuto, duecento multe. A leggerlo così, nero su bianco, fa già il suo bell'effetto. Se poi si viene a cercare il semaforo «incriminato », e invece che a un incrocio metropolitano ci si trova sperduti tra le colline veronesi, vigne e ville del Settecento, vita che scorre a ritmo rallentato, il dubbio sorge (quasi) spontaneo.
Benvenuti a Illasi, 5mila abitanti a 20 chilometri dall'Arena. Dopo mesi di ricorsi e automobilisti in rivolta, da Perugia a Settimo Torinese, la frontiera della lotta anti T-Red — i semafori con telecamera che «inchioda » chi passa col rosso — si è spostata in questo piccolo comune dell'hinterland veronese. Giovedì la procura scaligera ha sequestrato 4 semafori (due qui, due nel comune limitrofo di Colognola) ed emesso altrettanti avvisi di garanzia a carico di sindaco, capo dei vigili e rappresentanti delle due ditte responsabili di impianti e notifiche. Le ipotesi di reato: falso e truffa.
Quasi diecimila multe da ottobre 2006 a settembre 2007, e il sospetto che dietro a quei verbali emessi a velocità record non ci fosse la mano di un ufficiale in carne ed ossa, bensì il software di un computer. Non solo: «Pare che il lasso di tempo intercorrente tra accensione e spegnimento del giallo non fosse a norma», commenta cauto il procuratore capo di Verona, Guido Papalia. Mario Zampedri, vicepresidente forzista del consiglio provinciale, adotta toni lievemente più drastici: «Non si può tollerare che le amministrazioni mettano su strada delle trappole per fare cassetta ».
C'è lui, del resto, dietro una lotta iniziata il 17 maggio con una lettera al prefetto e proseguita con uno scontro col comandante dei vigili «che si era rifiutato di darmi la documentazione completa; allora ho presentato un esposto ai carabinieri ».
Era il 30 novembre. L'inchiesta, coordinata dal pm Valeria Ardito, è nata da lì.
A Illasi, nei saloni deserti del Comune, si respira aria di complotto, del resto l'avviso di garanzia è arrivato al sindaco Giuseppe Trabucchi, centrosinistra («Solo speculazioni politiche — dichiara al Corriere del Veneto —, da noi gli incidenti sono notevolmente diminuiti»), e non al suo omologo di Colognola, schieramento opposto. «Ma lì i due semafori sequestrati rispettavano i limiti del "giallo" definiti dal Cnr, 4 secondi per chi va a 50 km/h», taglia corto Salvatore Gueli, comandante dei carabinieri di San Bonifacio. Insomma, per Illasi c'è il rischio dell'«aggravante»: tempi ritoccati per moltiplicare multe e introiti. A vantaggio anche delle ditte, che intascavano circa 20 euro a contravvenzione.
Il «giallo corto», incubo degli automobilisti e gallina dalle uova d'oro per molte amministrazioni comunali (a Como, nel 2006, un unico semaforo emise 896 multe in 8 giorni, per un totale di 130mila euro), ha dunque colpito ancora. Risale a pochi mesi fa il caso di Segrate, periferia di Milano: anche lì, 4 incroci e 40mila multe in 7 mesi, per 4 sequestri e altrettanti avvisi di garanzia. Nel Lodigiano il comitato «Semafolle » è riuscito a far sparire i solerti «occhi» del T-Red dagli incroci incriminati. E ancora, Settimo Torinese con 25mila multe in 5 mesi (su 50mila abitanti), Perugia visitata dalle Iene dopo diecimila ricorsi al giudice di pace, i Comuni del Trentino che mettono a riposo i semafori «intelligenti» (il rosso scatta con una velocità superiore ai limiti)... Nella guerra delle multe, i trattati di pace sembrano ancora lontani. Gabriela Jacomella
Mario Zampedri, vice presidente consiglio provinciale di Verona: sono truffe ai cittadini e sono tarati a 4 secondi, invece di 6.
Ci sono Avvisi di garanzia: alcuni amministratori dell’unione dei comuni di Verona est, dirigenti dela polizia locale e della società che gestisce i semafori.
A seguito della presentazione al Prefetto di Verona di circa 7000 firme di protesta raccolte da Mario Zampedri, che riveste anche il ruolo di vice-Presidente del Consiglio Provinciale di Verona, firme presentate unitamente ad una lettera con la quale si contesta la legalità dei semafori installati nella val d’Illasi, alcuni dei quali dotati anche di sensore per la rilevazione della velocità oltre che delle attrezzature T-Red, lo stesso Prefetto di Verona ha chiesto chiarimenti in merito al Ministero dei Trasporti. Chiarimenti che sono arrivati in data 29 ottobre 2007 con parere n° 0098945.
COSA SUCCEDE A VICENZA.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Maresciallo dei carabinieri arrestato per estorsione ad una invalida, scrive “Il Corriere della Sera”. Il maresciallo capo dei carabinieri Massimiliano De Giorgio, 42 anni, in servizio presso il comando provinciale di Vicenza è stato arrestato da suoi stessi colleghi per estorsione aggravata ai danni di un'invalida civile. Il sottufficiale, ammanettato dai carabinieri di Caprino Veronese (Verona), è già stato sospeso in attesa di radiazione dal corpo militare. Secondo quanto si è appreso il maresciallo avrebbe carpito informazioni di natura privata a una donna di 43 anni, invalida civile al 100% a causa di una distrofia muscolare. Minacciando di rendere pubbliche false notizie intime che l'avrebbero riguardata, l'uomo si sarebbe fatto consegnare mille euro e sarebbe stato bloccato dai suoi colleghi al momento di ritirare i soldi. In precedenza a De Giorgio era già stato notificato un divieto di dimora a Vicenza dal vertice dell'Arma berico. In questo caso il sottufficiale avrebbe chiesto a una donna del denaro assicurandole il proprio interessamento per una rapida soluzione di un problema di carattere penale.
VICENZA MASSONE
Massoneria vicentina: due logge aperte, e una misteriosa, scrive Alessio Mannino su “La Nuova Vicenza”. Nel Veneto bianco, spesso bianco di vergogna per illeciti penali e sconquassi ambientali, e nella nostra Vicenza in una certa misura ancora democristiana e vescovile, la semi-sconosciuta massoneria c’è ma non costituisce un centro di potere. Questa è l’impressione di fondo che si ottiene facendo una ricerca sui “liberi muratori” di questo angolo d’Italia dove il peso della Chiesa, sia come influenza temporale che nel senso comune, è ancora forte. Numericamente, l’obbedienza massonica più rilevante nella provincia berica è la Gran Loggia d’Italia di Piazza del Gesù (la sede centrale a Roma): 70 affiliati. Il delegato magistrale per il Veneto e il Trentino è il padovano Franco Ravazzolo, che anzitutto ci spiega le specificità storiche e strutturali di base della “sua” massoneria: «Noi seguiamo il rito scozzese (in pratica una piramide gerarchica con 33 gradi, ndr), siamo meno laici, meno rigidi, accogliamo le donne e abbiamo anche atei, se animati da spirito non dogmatico». A Vicenza lo sviluppo della fratellanza «è molto difficile, pesa ancora, e parecchio, la Chiesa. Da parte nostra non c’è nessun conflitto, mentre in loro c’è sospetto». Vent’anni fa circolò la voce che l’allora vescovo, Pietro Nonis, avesse a che fare con la Gran Loggia, ma Ravazzolo smentisce. Nei loro elenchi, girati alle prefetture, figurano in gran maggioranza professionisti, e questo è una costante di tutte le massonerie. Ci sono anche giovani universitari, qualche operaio, pochi imprenditori. «Sono persone con un buon livello culturale» e una certa disponibilità economica: «il costo principale è la sede, che costa circa 50 euro al mese a testa. La tassa d’entrata, collegata ai vari passaggi, è di circa 500 euro, che comprende la spesa per l’abito rituale». Le riunioni si svolgono ogni 15 giorni, e in sostanza si tratta di discussioni, con un ordine del giorno e in cui si parla uno alla volta e rivolgendosi al Maestro Venerabile, su temi filosofici, esoterici (simbologie ecc) e spirituali da cui sono bandite politica e religione. Il segreto in cui sono avvolte «è un fatto rituale», una sorta di aura sacra che va mantenuta. «La nostra missione di ieri e di oggi è combattere la superstizione. E’ un momento difficile per tutte le società iniziatiche, la Chiesa come noi. La vera superstizione, oggi, può essere piuttosto l’edonismo». Il vero potere semi-occulto in terra veneta secondo il 33° Grado Ravazzolo? «Sicuramente Comunione e Liberazione è più potente di noi», risponde con un sorriso. Meno diffuso nel Vicentino ma primo nella penisola – 22 mila associati e con un trend in crescita - è il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani. Il Goi soffre del mancato riconoscimento della massoneria-madre, quella d’Inghilterra nata nel Settecento nel clima razionalista e deista del secolo dei Lumi (andato ad una terza obbedienza, la Gran Loggia Regolare, elitaria, di piccole dimensioni e dialogante con la Chiesa: Ferruccio Pinotti, “Fratelli d’Italia”, Rizzoli, 2007). E’ però collegata a quella americana, la più estesa e potente del mondo. Suo responsabile in Veneto è Paolo Valvo, siciliano della provincia di Siracusa, massone da quando aveva 23 anni. Gli preme molto far capire che la parola d’ordine è “trasparenza”: «Ogni anno si riunisce a Rimini la Gran Loggia, che è l’assemblea dei Venerabili, che tranne che per i riti è aperta anche ai non massoni, facciamo molti convegni (lo scorso dicembre ce n’è stato uno, affollato, al Bar Pedrocchi a Padova sul pensiero laico, ndr), abbiamo una rivista ufficiale, “Hiram”, e per avere informazioni su di noi basta andare sui nostri siti internet e contattare i nostri uffici stampa». Non si possono sapere i nomi dei “fratelli”, però. «Non siamo un’associazione segreta, ma rispettiamo la riservatezza di ciascuno di noi, come fanno i partiti per i loro iscritti». Il Goi è decisamente laico, per non dire anticlericale, e infatti la rottura con Piazza del Gesù avvenne nell’ormai lontano 1907 sulla contrarietà all’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche. «Abbiamo combattuto il potere temporale della Chiesa e continuiamo a farlo nella misura in cui c’è ancora», chiarisce Valvo. E’ «la voglia di esoterismo, di mistero» quello che, incalzato dalla nostra curiosità, il presidente del Collegio dei Venerabili veneti ravvede come spinta per cui oggi un uomo medio, post-moderno e secolarizzato, si avvicina alla massoneria. Paletti d’ingresso: «Chiunque sia un uomo libero e di buoni costumi, creda che esista un Grande Architetto dell’Universo e voglia costruire la Città dell’Uomo, senza dogmi nè pregiudizi. Da noi ci sono cattolici, ma l’ateo non entra. In genere i nuovi arrivano tramite internet, ma scatta un filtro: bisogna essere presentati da un fratello e nella domanda va allegato il certificato penale coi carichi pendenti. Il venerabile delega tre “tegolatori” per esaminare l’aspirante, il “bussatore”, che deve passare per due votazioni fino all’unanimità nella loggia e al via libera finale». In caso di avviso di garanzie si viene automaticamente sospesi, e se ci si macchia di “colpa massonica” (per esempio, deviare i lavori per scopi d’interesse economico o politico) si è cacciati. Lo scandalo della loggia coperta P2, una creatura eversiva del fascista Licio Gelli su impulso della Cia in seno al Goi, ha segnato un trauma di cui i massoni sentono ancora addosso lo stigma sociale. «In Veneto, dove noi del Grande Oriente siamo circa 500, non c’è il politico famoso, piuttosto il direttore dell’ente pubblico». Si vocifera di leghisti in qualche loggia in regione. «Sì, uno ce n’è, ma non è militante». La resistenza attuale verso la massoneria da queste parti non è costituita tanto dalle radici cattoliche, motivazione che vale per il passato, quanto semplicemente dal fatto che «manca una tradizione massonica». Valvo quasi si mette a ridere al pensiero di rappresentare chissà quale network di affari: «guardi, a maneggiare denaro e potere sono piuttosto la politica, che mette i suoi uomini nelle banche, e la finanza cattolica, Cl e Opus Dei». A Vicenza legate al Goi sono due logge: “I Veri Amici” e la “George Washington Lodge”. Quest’ultima, composta da una ventina di elementi, è la loggia degli Americani distaccati alla base Ederle e segue il rito californiano. La prima, che fa parte del circuito del Grande Oriente, annovera 15 persone ed è guidata da L.B., toscano, in pensione ma con un passato pluridecennale di lavoro a Vicenza. In città, infatti, non ci sono solo massoni vicentini di residenza o nascita, ma anche per lavoro. Il nome deriva da una loggia risalente alla metà del ’700, fondata da nobili berici che si riconoscevano nelle riforme illuminate dell’allora imperatore Giuseppe II (pare che negli affreschi di Palazzo Valle-Marchesini, luogo di riunioni, i fratelli Tiepolo inserirono simboli massonici). Si parla di antiche logge anche a Schio, Valdagno e Thiene, ma dopo soppressioni, scioglimenti e persecuzioni, la rifondazione («innalzare le colonne del Tempio») è arrivata solo con l’anno 2007. «Il nostro lavoro è esoterico, ma nel prossimo futuro organizzeremo incontri culturali aperti all’esterno», annuncia il Maestro locale. Con la Chiesa vicentina nessun tipo di problema: «c’è indifferenza reciproca». Interrogato sui fatti pubblici della città che potrebbero interessare un “mangiapreti” massone, come lo slancio laico del sindaco cattolico Variati verso le coppie di fatto, il nostro interlocutore dice la sua opinione personale («è un contentino»), ma si appassiona soltanto nel parlare della «ricerca interiore, della volontà di migliorare noi stessi, nell’apertura a diversi punti di vista. Un ruolo pubblico della Loggia qui non esiste». L’unico mistero riguardo compassi e grembiulini a Vicenza riguarda la Loggia Khepra. Nel 2006 ebbe un momento di notorietà quando l’allora suo Maestro Venerabile, Marianne Clement, andò sulla stampa dichiarando che il suo Tempio accoglieva anche alcuni politici (e sacerdoti), e perfino il figlio dell’allora sindaco Enrico Hullweck, Giorgio, venne presentato come giovane con un futuro massonico. In città venne in visita Renzo Canova, Sovrano Gran Commendatore dell’obbedienza di cui fa parte la Khepra, e cioè il Supremo Consiglio d’Italia e San Marino. All’inizio pareva facesse riferimento alla Gran Loggia. Al tempo, a smentire categoricamente qualsiasi collegamento fu il Gran Maestro di Piazza del Gesù in persona, Luigi Danesin. Abbiamo chiesto a Ravazzolo se ne sa nulla della Khepra, ma a lui non risulta niente. Contattata più volte la Clement, dopo averci dato iniziamente disponibilità, dopo un tira e molla non ha voluto concederci nessuna intervista: «non è opportuno in questo momento». Cercando su internet il Supremo Consiglio si è indirizzati a questo sito, dove effettivamente si trova Vicenza come unica loggia veneta. Perchè non parlare come hanno fatto gli altri, signora Clement? La Khepra esiste ancora, e se sì, ha qualcosa da nascondere?
VICENZA MAFIOSA
Mala del Brenta o Mafia del Piovese sono i nomi attribuiti dal giornalismo italiano ad un'organizzazione criminale di ispirazione mafiosa nata in Veneto intorno agli anni sessanta ed in seguito estesasi nel resto dell'Italia nord-orientale, fino alla sua dissoluzione negli anni novanta. Distintasi dalle altre mafie italiane per il carattere rurale mantenuto nel corso degli anni, la mafia piovese si rese protagonista di rapine, sequestri di persona, omicidi e traffici di droga e armi a livello europeo nel giro di pochi anni dalla nascita. Considerata da taluni una vera e propria mafia, e per questo anche soprannominata la quinta Mafia, viene così descritta dalla Prima sezione della Corte d'Assise d'Appello di Venezia da una sentenza emessa il 14 dicembre 1996: «Conclusivamente, può dunque riconoscersi l'esistenza di un'associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti contro il patrimonio, contro l'incolumità e la libertà individuale, contro le leggi sugli stupefacenti ed all'acquisizione diretta ed indiretta del controllo di attività economiche, sia lecite che illecite. La stessa risulta aver agito avvalendosi della forza intimidatrice promanante dal vicolo associativo e dello stato di assoggettamento e di omertà che ne è derivato per la popolazione del territorio ove essa ha esercitato il proprio controllo. Appartenenti a tale organizzazione, operante dunque con modalità e protocolli operativi di tipo mafioso, sono risultati soggetti del gruppo cosiddetto della Mafia del Piovese o Mala del Brenta, molti dei quali deceduti per morte violenta conseguente a vicende, interne o esterne, comunque riconducibili alle attività svolte dai medesimi in tale contesto delinquenziale.»
«Le mafie non riguardano solo gli altri territori. Anche il Veneto e Vicenza ne sono interessati. Dai 15 casi del 2011 si è passati ai 34 del 2012. Si tratta di un campanello d’allarme perché, si sa, le mafie agiscono in silenzio e con la crisi trovano un humus fertile per agire». Marina Bergamin, segretaria Cgil di Vicenza, preoccupata dell’aumento della criminalità organizzata legata al riciclaggio di denaro ha deciso, con Cisl e Uil, di avanzare proposte a sostegno della legalità. «Per quanto riguarda il settore dell’edilizia, chiediamo la costituzione della cosiddetta ‘stazione unica appaltante’ per assicurare trasparenza, regolarità e legalità nella gestione dei contratti pubblici e negli appalti – spiega la Bergamin. Ai Comuni domandiamo di sottoscrivere un protocollo contro i tentativi di infiltrazioni mafiose. Alla Regione Veneto, infine, chiediamo che approvi delle leggi sulla legalità e che istituisca un osservatorio regionale che preveda azioni di contrasto alle mafie, una particolare attenzione all’uso dei beni confiscati e la diffusione della cultura della legalità». «A proposito di beni confiscati alle mafie, a Vicenza ce ne sono due, ma non sono precisati – aggiunge Moreno Biolcati, referente del progetto “Storia, memoria ed educazione alla legalità” per lo Spi (Sindacato Pensionati Italiani) della provincia berica. In tutto il Veneto raggiungono quota 84 e vanno da immobili a terreni a fondi». Cgil e Spi stanno lavorando sul tema della tutela dei lavoratori nelle aziende sequestrate e confiscate alla mafia e hanno organizzato una raccolta firme per una legge di iniziativa popolare dal titolo “Io riattivo il lavoro”.
Mafia in Veneto, politica e industriali "distratti", scrive su “Vicenza Più” Alessio Mannino. Dopo la scoperta del racket dei Casalesi, amministratori e rappresentanti delle imprese si dicono preoccupati. Ma i segnali erano stati tanti. Ecco quali. Sono anni che giornalisti, associazioni ed esperti denunciano, cassandre inascoltate, l'espansione del virus mafioso in Veneto. Soltanto oggi che una maxi-operazione antimafia sull'asse Venezia-Padova-Vicenza ha scoperchiato l'infiltrazione dei Casalesi nelle piccole imprese locali, la politica e Confindustria mostrano preoccupazione. Eppure i segnali sono stati tanti. Nel 1992 venne arrestato a Longare il boss di Gela Giuseppe Madonia, secondo solo all'allora capo dei capi Totò Riina. Da mesi viveva indisturbato a casa di parenti a poca distanza da una caserma di carabinieri. Nel 1999, dopo sette anni di latitanza, scattarono le manette in quel di Bassano del Grappa per Pasquale Messina, anche lui di Gela: un pluriomicida della cosca di Madonia che da tre anni gestiva una lavanderia nel centro di Bassano. A Trissino lavorava in un noto panificio Domenico Varamo, che nella sua casa di Cornedo ospitava un uomo di fiducia della ‘ndrangheta, Diego Lamanna, e due pregiudicati calabresi. Tutti arrestati nell'ambito di una retata anti-droga internazionale avvenuta nel settembre 2008, legata a un'indagine della Dia palermitana su affari immobiliari a Chioggia col coinvolgimento, fra gli altri, di un'impresa edile attiva anche nel Vicentino. Nel 2003, agli albori di "Gomorra", l'inchiesta Cassiopea della procura di Santa Maria Capua Vetere ottiene risonanza nazionale per aver fatto luce su quello che gli inquirenti considerano il più grande traffico illecito di rifiuti pericolosi fra Nord Italia, dove vengono prodotti, e Mezzogiorno, dove vengono scaricati. Secondo i pm campani a essere della partita era anche il geometra Carlo Valle, immobiliarista noto a Vicenza, fra abusi e illeciti vari, per l'indagine sulla piattaforma di smaltimento rifiuti di Marghera, che la sua fallita Servizi Costieri ha ceduto a Ecoveneta (gruppo Maltauro), e da questa ad Aim. Ottobre 2009: una parte del tesoretto dei Lo Piccolo, una delle famiglie più potenti del Palermitano, viene sequestrata a Vicenza dalla Guardia di Finanza che sigilla le quote azionarie di quattro società venete, tre delle quali con sede nel capoluogo berico. A gestire le quote era Danilo Preto, già nel cda dei supermercati Sisa, amministratore delegato del Vicenza Calcio e nel board della fondazione del teatro civico della città del Palladio. Nel luglio 2010 la Nuova Venezia dà notizia di un clamoroso sequestro di rifiuti ferrosi nel porto veneziano. Nel mirino finiscono una ditta di Catania, che aveva fatto partire il carico, e "un'acciaieria di Vicenza", entrambe segnalate all'autorità giudiziaria per gestione di rifiuti non autorizzata. Tutti episodi ricordati in una conferenza tenuta il 14 dicembre 2010 a Isola Vicentina da Enzo Guidotto, presidente dell'Osservatorio veneto sui fenomeni mafiosi. Che su VicenzaPiù del 4 ottobre 2008 ammoniva: «A Cosa Nostra conviene che ci sia disattenzione, che si sottovaluti la sua presenza. Qui l'attenzione dei media è minore. E il risultato è che ci si accorge troppo tardi del problema».
Fulvio Rebesani su “Vicenza Più” scrive: a Vicenza mafia e zone franche! La Lega ha scritto che il Veneto è "pulito", non ha presenze mafiose. Un paio di giorni dopo c'è stato l'arresto a Mogliano Veneto in provincia di Treviso di Vito Zappalà, uno dei latitanti mafiosi più ricercati, condannato a 29 anni di galera. Questo tipo di persone non si muovono mai da sole e sarà interessante accertare quali suoi compari alloggino nel Veneto. Però a Vicenza abbiamo un problema formalmente di natura diversa ma parimenti grave: le zone franche - una sorta di libertà di violazione delle leggi e delle regole - che i dirigenti pubblici, i politici e la magistratura accordano ai colletti bianchi, ai poteri forti. Abbiamo avuto la c.d. circolare Rossetto negli anni '90 e fin al 2002 per cui un dirigente -arrogandosi poteri che sono solo del consiglio comunale - ha ritenuto di dare agli uffici tecnici disposizioni che consentivano di rovesciare le disposizioni di p.r.g. in fatto di distanze fra edifici vecchi e in edificazione. Costruire più vicino significa allargare la base degli immobili e quindi aumentare la cubatura. Migliaia di metri cubi abusivi sono stati fabbricati in questo modo; impunemente. E quando la magistratura ha inquisito quel dirigente non ha istruito un giudizio a tempi brevi ma ha atteso, atteso ed i reati considerati si sono prescritti. Entrando in via Vecchia Ferriera dopo Ponte Alto, alla sinistra è in via di completamento un grande edificio sui 60.000 mc circa di volume. Il P.M. ha tenuto nel cassetto per cinque anni la perizia, da lui disposta, che rilevava varie illegittimità. Avrebbe potuto intervenire quando si era alle fondamenta ma ha atteso ingiustificatamente. I potenti proprietari del fabbricato ed i loro progettisti possono dormire tranquilli; tutto finirà nel fumo della prescrizione, se non interverrà prima qualche PM archiviatone. A fronte di questo immobile ce n'è un altro (70.000 mc. circa), attivo da 4/5 anni. Su di esso si è celebrato un processo sei anni dopo che il consulente del PM aveva consegnato la relazione: sei anni di attesa ingiustificata e di cammino verso la prescrizione. Erano imputati i proprietari, i progettisti, i dirigenti comunali Bressanello, moglie dell'ex sindaco Hüllweck, e Pasini: tutti assolti. I giudici hanno negato l'esistenza del vincolo paesaggistico riconosciuto dalla Regione, autorità competente in materia, sulla base di un documento preparatorio del p.r.g. del 1979 ma poi superato dal testo del piano che ad esso non fa alcun riferimento. Dunque con questa trovata all'italiana è caduta l'accusa. Inoltre i giudici hanno negato l'intenzionalità del dirigente. Costoro non sapevano, non volevano, non intendevamo ... "Ah,intendo, il suo cervel, Dio lo riposi,/in tutt'altre faccende affaccendato/a questa roba è morto e sotterrato...". Il resto ce l'ha messo la Corte d'Appello di Venezia che, a fronte del ricorso del Procuratore della Repubblica di Vicenza contro la inaccettabile sentenza assolutoria, non ha ancora fissato, a distanza di ben due anni, la data del processo. Anche a Vicenza ci sono le vendette trasversali. Tu fai un esposto contro gli abusi di certi tecnici comunali? Ebbene loro ti puniscono con il potere che hanno. C'é stato il caso di una associata del Comitato Anti abusi alla quale é stato contestato un abuso (inesistente) del 1930! Ad un altro, sempre di questo Comitato, hanno cercato di rilevare un difformità edilizia (sempre inventata) di cinquant'anni fa. E se non possono colpirti direttamente lo fanno contro tuoi famigliari come è successo ad altro partecipe a questa organizzazione. Questo Comitato ha il merito di aver scovato numerose illegittimità penali, amministrative e contabili degli uffici comunali. Anche se con la sua azione ha fato incassare al comune una cifra corrispondente a circa 500.000 €, tuttavia i suoi membri vanno puniti, così imparano a farsi i fatti loro! Già, perché il comune di Vicenza è affare dei soli dirigenti comunali? Non voglio ovviamente generalizzare: le mie riflessioni riguardano l'edilizia privata e dintorni. Il comune di Vicenza non ha soldi; a me sembra che non vada a prenderseli dove ci sono ed ha diritto di averli. Non mi riferisco all'evasione fiscale, argomento certo interessante, bensì - sempre - all'edilizia. Per edificare una casa bisogna pagare gli oneri di urbanizzazione ed un contributo del costo di costruzione: per l'industria c'é solo quest'ultimo gravame. L'importo di queste voci é fermo da circa vent'anni nonostante in questo periodo l'inflazione sia cresciuta di circa il 30%. Un enorme regalo agli speculatori a spese dei cittadini di Vicenza. Ma c'è un altra perdita consistente. Nell'area di via Vecchia Ferriera vi sono numerosi edifici che, approfittando del fatto che l'area è industriale, sono stati edificati pagando al comune - cioè a tutti noi - solo il costo di costruzione (10%). Però le attività installate sono quasi tutte commerciali ma non hanno corrisposto all'ente locale gli oneri di urbanizzazione, in questo caso dovuti (mediamente 30 % circa). Così il nostro comune - cioè noi - non ha incassato centinaia di migliaia di € e non intende incassarli. Chiudo con il riferimento al palazzo Girardi che sorge a qualche centinaia di metri prima del casello autostradale di Vicenza ovest. La Provincia lo ha dichiarato interamente abusivo con un provvedimento confermato presso i tribunali amministrativi, però il comune non lo demolisce prendendo a pretesto due perizie (una addirittura da esso disposta) di comodo: gli interessi dei colletti bianchi e dei potenti non di possono toccare e vanno difesi anche con le furbate! Ma il comune di Vicenza non provvede nemmeno ad incassare quanto gli spetta! L'assessore Cangini ha affermato con grande clamore che, essendoci degli abusi (bontà sua!), incasserà ben 900.000 €. Ma, secondo le leggi urbanistiche, spetterebbero al comune ben di più: circa 6/7 milioni, cioè il valore venale dell'edificio. Anche qui l'amministrazione rinuncia ai diritti di coloro che rappresenta, cioè sempre noi. Due ultime avvertenze. Quanto affermato, in modo un po' generico per rendere leggibili argomenti piuttosto complessi, ha alla base documenti, numeri di protocollo, date e provvedimenti in mio possesso e sui quali mi sono basato per scrivere questo pezzo. Da questo quadro sommario e parziale (ce ne sarebbe ancora da raccontare ma cerco di non esser lungo) risulta l'impotenza, scelta liberamente, della magistratura vicentina e del comune di fronte ai poteri forti ed ai colletti bianchi. Ciò costituisce una grave ingiustizia ed iniquità, una negazione del principio di legalità e di uguaglianza di trattamento ma è anche fonte di minor erogazione di servizi ai cittadini di Vicenza dovuta alle minori entrate a causa di queste acquiescenze ai desiderata dei vari potentati entro e fuori i palazzi. Quanto i cittadini hanno perso e stanno perdendo in fatto di nidi, centri estivi, assistenza domiciliare, aiuto agli sfrattati ed alle famiglie in difficoltà sulla casa, interventi per i giovani, per lo sport a causa dell'omessa acquisizione di quei fondi?
CORRUZIONE ED EVASIONE FISCALE
Operazione anti-corruzione nel Vicentino, giro di 2,3 milioni di euro. Nel mirino imprenditori, dirigenti e funzionari dell'Agenzia delle Entrate. Un’operazione anti-corruzione è stata compiuta dalla Guardia di Finanza di Vicenza che, a conclusione di un anno di indagini, ha portato ad indagare 107 persone di cui 14 destinatarie di misure cautelari, scrive "Il Corriere della Sera". Le Fiamme Gialle del nucleo della polizia tributaria vicentina hanno scoperto circa un centinaio di «mazzette», per complessivi 2,3 milioni di euro, che sarebbero state pagate da una settantina di contribuenti, soprattutto imprenditori, per cercare di ammorbidire i controlli del fisco o farsi ridurre imposte o sanzioni da versare allo Stato. Soldi che sarebbero stati versati, in sostanza, per ottenere favori attraverso la mediazione di una dozzina di professionisti, tra fiscalisti e dipendenti dell’Agenzia delle Entrate. L’ipotesi di reato nei confronti di questi ultimi è di associazione per delinquere. Presunte tangenti per 2,3 milioni di euro, dieci arresti e un centinaio di denunce: sono i dati finali dell’operazione della Guardia di Finanza di Vicenza che ha portato alla luce un sistema diffuso di illeciti fiscali in cui sono rimasti coinvolti, secondo quanto accertato, dirigenti e funzionari dell'Agenzia delle Entrate, militari delle Fiamme Gialle, professionisti e contribuenti, specie imprenditori dell’area vicentina. Le indagini - avviate nel marzo del 2009 come appendice di un’inchiesta relativa a un sistema di frode dell’Iva nel distretto conciario della valle di Chiampo che aveva coinvolto 200 società per operazioni inesistenti pari a 1,4 mld di euro - hanno permesso di scoprire una «rete» di episodi di corruzione, circa un centinaio, al fine di rendere meno pesanti gli esiti di controlli del fisco o abbattere imposte o sanzioni da pagare allo Stato. Le ipotesi d’accusa sono associazione per delinquere, concussione, corruzione, istigazione alla corruzione, rilevazione di segreti d’ufficio, tentata estorsione, riciclaggio, truffa aggravata e ingiurie. Tra le persone segnalate all’autorità giudiziaria, cinque marescialli della Guardia di Finanza, nove dipendenti dell’Agenzia delle Entrate, 21 professionisti con studi a Vicenza e in altre località della provincia e 72 contribuenti, di cui 68 titolari di imprese. È stata segnalata anche la responsabilità amministrativa di 28 società di capitali. Nelle indagini delle fiamme gialle sono coinvolte 73 imprese, in gran parte operanti nel settore della concia di pelli; circa il 70% del denaro che sarebbe stato consegnato illecitamente a funzionari dell’amministrazione finanziaria proviene da questo settore. Gran parte delle presunte «mazzette» sarebbero state pagate con banconote anche da 500 euro. Su istanze della procura vicentina i Gip hanno disposto il sequestro di 22 immobili, sette auto, denaro o investimenti per un valore complessivo di 1,7 milioni di euro. Per i funzionari pubblici che avrebbero intascato denaro o altri beni sono state avviate le procedure relative alla contestazione della mancata dichiarazione delle presunte tangenti considerate al pari degli altri redditi. Sono state seguite anche 109 perquisizioni. Sul fronte del danno erariale, la Guardia di Finanza ha calcolato mancate entrate per circa 8,5 milioni di euro.
SANZIONI AMMINISTRATIVE TRUCCATE
Semafori truffa scoperti anche in un altro comune del Veneto: Altavilla. Altavilla, provincia di Vicenza: 11mila abitanti e più di 20mila multe in sei mesi, una media di due contravvenzioni per residente, minorenni e non patentati compresi. La causa? Sempre lo stessa: il semaforo con telecamera incorporata dal giallo troppo corto. Dopo Illasi, Lavagno, Colognola, Caldiero (tutti paesi del Veneto) anche ad Altavilla è esploso il caso del semaforo cosiddetto intelligente: il passaggio dal giallo al rosso durava appena tre secondi. Finora sono stati 6000 i ricorsi presentati al tar, 600 quelli già discussi, tutti a favore degli automobilisti di Altavilla. Gli altri verranno affrontati nel 2009. Ogni multa equivale a 158 euro in meno nel portafoglio e a 6 punti in meno sulla patente. Soldi che finiscono non solo nelle casse del comune, ma in alcuni casi anche in quelle della ditta che produce i semafori. Un fenomeno che sta dilagando ovunque in Italia. I primi ad accorgersene sono stati gli abitanti di Como: nel 2006, un unico semaforo fece elevare 896 multe in 8 giorni per un totale di 130mila euro. Stessa situazione a Segrate, periferia di Milano: 4 incroci e 40mila contravvenzioni in sette mesi. A settimo torinese le multe sono state 25mila in 5 mesi, su 50mila abitanti. L'epidemia di multe ha colpito anche Perugia, dove in poche settimane sono fioccate migliaia di sanzioni e altrettanti ricorsi.
MAGISTROPOLI. MAGISTRATI: ONESTI O FURBACCHIONI?
«In una occasione il mio comportamento non è stato dignitoso, ma non ho mai violato la legge». Racconta “Il Corriere della Sera”. Era il 24 giugno del 2007, e questa frase riecheggiò tra le pareti dell’aula del tribunale di Trento. A pronunciarla, il giudice Eugenio Polcari, ex pretore e poi giudice di Thiene e Schio, in servizio dal 1986 fino al 2003, quando si trasferì a Napoli dove poi venne sospeso proprio in seguito a un brutto guaio legato a presunte pressioni esercitate per ottenere regali e forti sconti nei negozi. Accuse (da lui sempre respinte) che il 4 ottobre del 2011 hanno convinto il Consiglio superiore della magistratura a emettere nei suoi confronti la sanzione della «rimozione », la più severa tra quelle che avrebbero potuto infliggergli. Decisione inevitabile, secondo l’organo di autogoverno dei magistrati, visto che è «impossibile per il giudice recuperare nella collettività la fiducia e la considerazione necessarie per riprendere l’esercizio delle funzioni giurisdizionali». Ma ora la Cassazione ha ribaltato tutto: secondo gli ermellini, il Csm è stato troppo severo. Nel giudizio è mancata «una valutazione di proporzionalità tra la gravità dei fatti addebitati e la sanzione» che, proprio per questo motivo, si rivela «inadeguata e incoerente». Insomma, quand’era in servizio nell’Alto Vicentino il giudice qualche favore magari l’avrà pure ottenuto, ma il suo comportamento non è stato grave al punto da meritare d’essere cacciato dalla magistratura. La vicenda prende le mosse alla fine degli anni Novanta. Polcari venne accusato di essersi intascato preziosi regali e di aver fatto pressioni per ottenere forti sconti sull’acquisto di automobili. Il processo si trascinò fino al 2007, quando il tribunale di Trento dichiarò che per alcuni dei reati contestati (tra i quali la ricettazione) non si poteva procedere perché era già scattata la prescrizione. Per gli altri capi d’accusa, invece, venne assolto. Insomma, Polcari, con le sue dubbie frequentazioni e la sua passione per i Rolex, non violò la legge. E gli sconti dal 15 al 25 per cento sulle auto che acquistava? Stando alle motivazioni della sentenza, messe nero su bianco dal tribunale di Trento, i rivenditori non lo favorirono perché avevano soggezione del suo ruolo ma solo perché nella «strategia commerciale delle aziende del settore nella provincia veneta (provincia ricca, ma segnata da forte concorrenza tra operatori commerciali) rientra la scelta di favorire l’acquisto di prodotti da parte di "opinion leaders", o se si preferisce di persone in vista nel ristretto ambiente delle cittadine di residenza ». Insomma - per utilizzare la definizione del presidente del collegio giudicante - il giudice divenne un «testimonial». Nulla di illegale, ma la magistratura non fece certo una bella figura. E così, il Csm aprì un procedimento disciplinare che nel 2008 si chiuse con la decisione di rimuoverlo. Polcari la prese malissimo e fece ricorso in cassazione. Nel 2009 le sezioni unite gli diedero ragione, annullando la sentenza e rinviando il tutto per una nuova valutazione. Da quel momento iniziò un bizzarro ping-pong tra Csm e cassazione: un caso unico nella storia della Giustizia interna alla magistratura. Nel 2010 la disciplinare confermò la responsabilità di Polcari per alcuni dei capi d’accusa, ribadendo quindi la sanzione della rimozione a causa della «lesione irreparabile della credibilità e del prestigio di cui deve godere un magistrato». Seguì un nuovo ricorso alle sezioni unite e una nuova censura degli ermellini: il provvedimento era sproporzionato anche perché la sanzione non teneva conto «dell’elemento psicologico nei comportamenti contestati». L’anno successivo il Csm dovette quindi riesaminare il caso, ma la nuova ordinanza confermò sia la responsabilità di Polcari che la rimozione. Ultimo passaggio, almeno per ora, il nuovo ricorso alla cassazione, che si è concluso tre settimane fa. Di nuovo, per la terza volta, gli ermellini annullano la sentenza del Csm per «illogicità della motivazione della sezione disciplinare» in quanto, rimuovendolo dal suo incarico, non avrebbe applicato «un giudizio di proporzionalità tra il fatto addebitato e la sanzione che deve essere irrogata ». Quindi la questione torna, di nuovo, al Csm che dovrà essere meno severo nei confronti del magistrato. Nel frattempo Polcari attende. Dal 2004, a causa di questo pasticcio, non può lavorare ma percepisce ugualmente due terzi dello stipendio. «Questa sentenza è la dimostrazione che mi perseguitano», è stata la prima reazione alla notizia. Eppure finora il Csm ha dipinto il giudice-testimonial come un furbacchione che non merita di fare il magistrato. «È vittima di una situazione inquietante - ribatte il suo avvocato, Saverio Senese - costretto a non poter lavorare a causa della singolare severità dimostrata da Csm, che in passato non è stato altrettanto duro con altri magistrati che, al contrario di Polcari, erano stati giudicati colpevoli. Ora speriamo gli sia finalmente consentito di tornare al lavoro».
Giudice da anni è pagato ma non lavora. Da anni Eugenio Polcari, per sedici magistrato a Vicenza e provincia, è pagato per non lavorare perché per due volte il Csm gli ha sbattuto la toga in faccia. «Indegno - a suo dire - di continuare a fare il giudice». Ma per due volte la Cassazione gliel'ha restituita, sebbene non sia ancora sufficiente al magistrato per tornare a scrivere sentenze, il suo mestiere, anziché ricorsi ai supremi giudici com'è impegnato da tempo. Anche se stavolta, dopo sette anni, pare essere la volta buona per rientrare nei ranghi. Nel frattempo, dal 2004 percepisce due terzi dello stipendio (alcune migliaia di euro al mese) perché così prevede la legge. Ma il magistrato deve essere reintegrato in magistratura perché, come scrive la Cassazione, «il quadro disciplinare a carico del dott. Polcari è oggettivamente inferiore e meno rilevante rispetto alla decisione assunta dal Csm». Nonostante questo attestato di sproporzionalità tra la sanzione irrogata e gli eventuali comportamenti illegittimi commessi Polcari da sette anni è sospeso dalla funzione di giudice. Avvenne quando l'allora toga del tribunale di Vicenza - sede distaccata di Schio - venne rinviato a giudizio davanti al tribunale di Trento per risponde di reati obiettivamente pesanti: concussione e abuso d'ufficio per l'acquisto di alcune macchine e l'affidamento di numerose consulenze a consulenti ritenuti suoi amici. In poche parole, Polcari dovrebbe tutt'al più essere sanzionato con un provvedimento disciplinare di minore entità «per renderlo proporzionato» al quadro che è emerso dal suo comportamento. Ma il punto della questione, dal quale non riesce a sbrogliarsi nemmeno il Csm, è che Polcari non ha violato la legge per i comportamenti che gli sono contestati, al massimo è stato imprudente. In pratica ha assunto comportamenti che sono leciti per un normale cittadino, tant'è che non è stato censurato dai magistrati penali, ma che per un giudice rappresentano una scorrettezza. Che di per sè, però, non prevede l'espulsione dall'ordine giudiziario. Come per due volte ha ribadito la Cassazione.
Cecilia Carreri, magistrato a Vicenza, in permesso per sei mesi a causa di un forte mal di schiena, partecipava a gare estreme in barca a vela. Malata per il tribunale, era in regata. giudice punita col trasferimento. Il Csm le ha tolto un anno di anzianità e l'ha spostata d'ufficio. Questo scrive "La Repubblica". In ufficio non poteva andare per un mal di schiena talmente forte da impedirle di stare addirittura seduta. In barca vela, però, riusciva a muoversi con disinvoltura tanto da partecipare a una difficile regata in preparazione di una transoceanica. Cecilia Carreri, giudice per indagini preliminari in servizio a Vicenza, è stata "condannata" dalla sezione disciplinare del Csm a una sanzione tutto sommato lieve: la perdita di un anno di anzianità e il trasferimento ad altro ufficio. La vicenda risale al 2005 ed è arrivata al Consiglio superiore della magistratura grazie a un rapporto del presidente della Corte d'appello competente che raccontava come la collega si fosse "assentata dall'ufficio a più riprese e per periodi molto lunghi per motivi di salute" ma che tutto ciò non le aveva impedito di "svolgere 'attività fisica altamente impegnativa". Quindi il Pg della Cassazione Mario Delli Priscoli aveva promosso il procedimento contestando alla donna di aver "gravemente mancato ai propri doveri". Nel 2005, la skipper con la toga aveva goduto prima di 45 giorni, poi di sei mesi di aspettativa per ragioni di salute, dal 26 febbraio al 26 agosto. Ma tra luglio e agosto di quell'anno aveva partecipato, a bordo di "Mare verticale" alla Rolex Fastnet race, una gara tra le imbarcazioni di altura che si disputa al largo delle coste della Gran Bretagna e che è preparatoria della transoceanica Transat Jacques Vabre. Una circostanza impossibile da negare, visto che della presenza del giudice-skipper dava conto il diario di bordo scaricato da un sito Internet, con tanto di foto e di un suo pensiero. Ma non era bastato. Dal 30 agosto al 28 ottobre il magistrato con la passione della vela aveva preso un ulteriore periodo di aspettativa per malattia, al termine del quale aveva partecipato in congedo ordinario alla transoceanica. La sua presenza a quest'ultima regata aveva avuto una "vasta eco" sulla stampa nazionale e locale e persino sul quotidiano francese "Liberation". Delle sue avventure estreme, in mare, in montagna, anche in solitaria, esiste in rete abbondante documentazione. Tutto ciò, però, aveva provocato "disagio" e "commenti critici" tra i colleghi e gli avvocati del suo distretto, quantomeno sorpresi dal fatto che il giudice-skipper avesse potuto partecipare a una "prova così fisicamente impegnativa" dopo 9 mesi di congedo per malattia. Invano davanti al Csm, la Carreri si è difesa spiegando che attività sportive di una certa difficoltà e di livello elevato le erano state "caldamente prescritte" per la sua patologia e che in ogni caso le sue assenze non avevano determinato alcun disservizio. "Le fatiche sportive, sicuramente, non sono state oggetto di prescrizioni mediche" l'ha contraddetta il Csm, citando i suoi stessi certificati medici. Nessun dubbio, dunque, sulla sua colpevolezza: "Nel partecipare alle regate veliche nei periodi di aspettativa concessi per motivi di salute ha violato i doveri di correttezza". Ma non solo: la grande eco data alla sua partecipazione alla regata "ha determinato indubbiamente un grave danno alla immagine del magistrato e alla credibilità dell'istituzione giudiziaria", conclude Daniela Daniele su "La Stampa".